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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 47607 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 25, 2009, 07:12:59 am »

24/10/2009

Riforma contro la giustizia
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Dopo alcuni mesi di stallo sembra che le riforme progettate dal governo in materia di giustizia subiranno, di qui a poco, una grande accelerazione.
Stando alle recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio parrebbe, anzi, che presto vi saranno ulteriori novità. Si vorrebbe affrontare rapidamente anche il tema della riforma costituzionale della giustizia.

Che la giustizia italiana debba essere riformata costituisce quasi un luogo comune. Chiunque frequenta i tribunali è costretto a fare ogni giorno i conti con le disfunzioni: processi rinviati a causa delle omesse notifiche, tempi eccessivi fra una udienza e l’altra, processi che non si celebrano perché un giudice trasferito non è stato tempestivamente sostituito, processi che saltano a causa del riscontro tardivo di situazioni di incompatibilità. Per tacere dei casi, non frequenti ma comunque riscontrabili, di sciatteria, di prepotenza, di inaccettabile gestione burocratica del servizio.

Costituisce pertanto esigenza prioritaria predisporre una riforma in grado di restituire efficienza alla macchina arrugginita: una riforma che tocchi alcuni profili della legislazione penale, che incida sui meccanismi dell’organizzazione giudiziaria, che sia caratterizzata da interventi coordinati diretti a rimuovere le cause principali del cattivo funzionamento. Di fronte a quest’esigenza, le riforme pendenti in Parlamento e quelle che sono state ulteriormente prospettate in questi ultimi giorni lasciano peraltro insoddisfatti.

Preoccupano, innanzitutto, le modalità del dibattito politico. Nei mesi che hanno preceduto la sentenza della Corte Costituzionale sul «Lodo Alfano», nessun politico di maggioranza ha più parlato di riforma della giustizia: non si voleva, probabilmente, alimentare discussioni nell’imminenza di una decisione giudiziaria molto importante per il premier. Quando si è avuta la notizia della clamorosa bocciatura, la polemica è invece riesplosa con violenza. Con un palese atteggiamento punitivo, si è gridato che entro dicembre le riforme pendenti in Parlamento devono essere approvate e che entro l’anno devono essere anche impostate le riforme costituzionali. Fra le priorità: separazione delle carriere, trasformazione dell’ufficio del pubblico ministero, spaccatura in due del Csm, riforma dei criteri di selezione dei giudici costituzionali.

Ma preoccupano, soprattutto, molti contenuti delle riforme progettate. Faccio alcuni esempi. Approvare la riforma delle intercettazioni nel testo votato dalla Camera, che subordina il loro impiego all’acquisizione di gravi indizi di colpevolezza e circoscrive la loro durata, significherebbe ridurre la possibilità di utilizzare con efficacia tale importante strumento di investigazione. Approvare la parte della riforma del processo penale in forza della quale si sottrae la polizia giudiziaria al controllo diretto del pubblico ministero, rischierebbe di indebolire ulteriormente l’incisività delle indagini. Consentire di citare i testimoni senza possibilità di controllo da parte del giudice, significherebbe concedere agli avvocati di allungare a dismisura i tempi dei processi attraverso la presentazione di liste di testi strumentalmente gonfiate.

Si pensi, d’altronde, a cosa accadrebbe se dovessero essere introdotte misure volte a consentire a ministri e parlamentari di opporre senza ritegno impegni politici alla celebrazione dei processi. O se, per preservare comunque il premier, si ritenesse di accorciare oltre misura i tempi della prescrizione anche nei confronti di reati gravi come la corruzione. Ben altre dovrebbero essere, come è evidente, le riforme della giustizia penale nell’interesse dei cittadini.

Quanto alle riforme costituzionali, per ora soltanto minacciate, per esprimere giudizi occorre ovviamente attendere la loro specifica formulazione. Già ora è, comunque, possibile procedere ad alcune considerazioni di metodo. Le proposte di cui si è sentito parlare nei giorni scorsi hanno una chiave di lettura comune: si vuole indebolire il potere giudiziario sul presupposto che la magistratura sarebbe progressivamente diventata una forza senza controlli nel panorama dei poteri dello Stato. Essa, si sostiene, ha acquistato nel tempo un peso esorbitante, ha prevaricato le sue funzioni, è diventata, nei fatti, una scheggia che è necessario riequilibrare.

Il problema non è di poco conto. Talune preoccupazioni possono anche avere un certo fondamento. Poiché una società democratica non può comunque rinunciare ai capisaldi dello Stato di diritto, preoccupa che una questione di tanta delicatezza sia affrontata nella concitazione di un momento di difficoltà del premier, con il rischio di soluzioni punitive elaborate al solo scopo di assicurare coperture ed immunità a politici che hanno commesso reati.

In astratto l’antidoto potrebbe essere un progetto di riforma costituzionale sul quale convergano maggioranza e opposizione. Il presidente del Consiglio, nei giorni scorsi, ha tuttavia già dichiarato che le riforme che verranno progettate dalla sua parte politica si faranno comunque, anche contro l’eventuale parere delle minoranze.
 
In questa prospettiva la notizia, battuta ieri dalle agenzie, secondo cui la «Consulta Giustizia del Pdl» avrebbe chiesto, invece, di cercare soluzioni concordate, muovendo dal progetto elaborato a suo tempo dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, fa soltanto sorridere. A parte il fatto che, come si ricorderà, tale progetto non era condiviso da una parte consistente di coloro che fanno oggi parte della minoranza politica che dovrebbe concordare.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:55:25 am »

31/10/2009

Inchiesta rigorosa senza giudizi sommari
   
CARLO FEDERICO GROSSO


La vicenda di Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri per il possesso di una piccola quantità di sostanza stupefacente, e dopo una settimana morto, ufficialmente, «per presunta causa naturale», è esplosa sulle cronache.

Tutto è avvenuto dopo la pubblicazione delle fotografie, sconvolgenti, del suo corpo coperto di ematomi, ecchimosi e tumefazioni.

Giustamente la famiglia chiede verità. Si è rivolta al governo, ai ministri competenti, alla magistratura, perché facciano chiarezza su ciò che è accaduto. E fare chiarezza costituisce dovere primario e imprescindibile delle pubbliche istituzioni, poiché non è ammissibile che un ragazzo di poco più di trent’anni muoia senza ragione, coperto di ferite, quando si trova, ristretto, tra le braccia dello Stato.

Ciò che è stato denunciato dai famigliari è stato pubblicato ieri su tutti i giornali. Fermato dai carabinieri la sera del 15 ottobre, Stefano Cucchi è apparso a casa sua poco dopo per una perquisizione, assolutamente integro. Il giorno dopo è arrivato nell’aula del processo, per la convalida del fermo, con la faccia gonfia e sfigurata. La visita all’ingresso del carcere di Regina Coeli, dove è stato condotto dopo l’udienza, ha riscontrato «ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione». Successivamente il ragazzo è stato trasportato all’Ospedale Pertini. I genitori, nonostante i loro sforzi, non sono riusciti a vedere il figlio: la burocrazia li ha bloccati per tre giorni, il 19, il 20 e il 21 ottobre. Il 22 ottobre Stefano è morto.

I carabinieri, chiamati indirettamente in causa dai genitori, respingono ogni accusa. Quando Stefano si trovava in camera di sicurezza dopo il fermo, sostengono, ha accusato un malore. E’ stata chiamata subito un’autoambulanza, un medico lo ha visitato stilando un referto che parla di epilessia e di tremori, il ragazzo ha rifiutato ricovero e cure chiedendo, semplicemente, di essere lasciato dormire.

Le cose, ovviamente, non quadrano. Se il ragazzo la sera del 15 ottobre era integro e in salute, ed il 16 ottobre è apparso in tribunale tumefatto, qualcosa nel frattempo è evidentemente accaduto. Deve essere chiarito che cosa è effettivamente capitato: se c’è stato un pestaggio, da parte di chi, con quali modalità, per quali ragioni le lesioni hanno determinato a loro volta la morte del ragazzo. Non è d’altronde un caso che la Procura di Roma, che aveva inizialmente aperto un fascicolo per «atti relativi» alla morte di Stefano Cucchi, abbia deciso, ieri pomeriggio, di indagare, più specificamente, per omicidio preterintenzionale. Si ipotizza, appunto, che il giovane sia stato picchiato e che sia morto a causa delle lesioni subite.

L’inchiesta dovrà d’altronde chiarire molte cose. Oltre che la causa delle ferite riscontrate, la ragione per cui nessuno, né il giudice, né il pubblico ministero né l’avvocato difensore, nell’udienza del 16 ottobre abbia rilevato la gravità delle condizioni del ragazzo. Quali terapie sono state predisposte dopo il ricovero al Pertini. Per quale ragione i genitori sono stati così duramente respinti e tenuti lontani dal loro ragazzo.

Si tratta di un’indagine complessa, ma sicuramente non «impossibile». E’ prevedibile, anzi, che con l’ausilio degli strumenti della medicina legale si sia in grado di stabilire con certezza con quali modalità le lesioni sono state cagionate e per quali ragioni esse hanno portato, ad una settimana di distanza, alla morte di chi le aveva subite. Se emergerà che qualcuno ha pestato, sarà compito della Procura stabilire chi lo ha fatto, come e perché. Gli strumenti della medicina legale, e la predisposizione di una rigorosa tecnica di indagine, dovrebbero, d’altronde, consentire di stabilire per quali ragioni il ricovero in ospedale e le cure predisposte non sono stati in grado di salvare il giovane.

Ciò che è assolutamente indispensabile, di fronte alla gravità di ciò che sembra essere accaduto, è che le istituzioni preposte all’accertamento siano in grado di fare chiarezza seriamente, con efficacia e, soprattutto, in fretta. E’ inoltre indispensabile che nel fare chiarezza esse operino senza interferenze. Troppe volte, in passato, la lentezza, i depistaggi, le deviazioni, le reticenze, le timidezze, i timori, hanno ostacolato, impedito, intorbidito, con conseguenze molto pesanti per la convivenza civile e per la credibilità delle istituzioni.

Ciò che dobbiamo dunque chiedere con forza allo Stato, oggi, è un’inchiesta trasparente, seria, efficace, rapida, che sappia chiarire in fretta i fatti e che consenta, se risulterà dimostrato che alcuni pubblici ufficiali hanno compiuto efferatezze, una punizione esemplare. Dobbiamo, peraltro, evitare giudizi sommari, condanne a priori, inutili generalizzazioni. Se verranno individuate responsabilità di singoli carabinieri, essi siano duramente puniti; se dovessero emergere responsabilità, anche, di alcuni loro superiori diretti, o tentativi di copertura, anch’essi siano sanzionati con severità. Con la consapevolezza, tuttavia, che l’eventuale responsabilità di singoli soggetti non coinvolge comunque, automaticamente, la responsabilità dell’intero corpo al quale essi appartengono o, peggio, quella dell’intero apparato delle pubbliche istituzioni del Paese.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:13:25 am »

5/11/2009

I confini del segreto
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Gli agenti Cia sono stati condannati a pene pesanti per il sequestro di Abu Omar. Pollari, Mancini e tre altri funzionari del Sismi sono stati, invece, dichiarati non giudicabili a causa del segreto di Stato che copre la documentazione relativa all’eventuale ruolo esercitato nella vicenda.

La ragione giuridica di questa decisione è individuabile nell’art. 202 codice di procedura penale, che stabilisce che «qualora per la definizione del processo risulti essenziale quanto è coperto dal segreto di Stato, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto». Più in generale si può rilevare che, nel nostro sistema giuridico, l’opposizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal presidente del Consiglio, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto; non è in ogni caso precluso all’autorità giudiziaria di procedere in base ad elementi autonomi e indipendenti dagli atti coperti dal segreto.

Ciò che è avvenuto nel processo a carico degli agenti Cia e dei responsabili dei servizi segreti italiani è, a questo punto, chiaro. Su determinati atti è stato opposto, e confermato dalla Presidenza del Consiglio, il segreto di Stato (come si ricorderà, il segreto era stato confermato da ben due Presidenti, ed era stato ulteriormente avallato dalla Corte Costituzionale, chiamata a decidere su di un conflitto di attribuzioni con il governo sollevato dalla Procura di Milano). Cionondimeno, la Procura ha ritenuto di potere comunque insistere nella prospettiva accusatoria, confidando nelle prove desumibili da elementi diversi dai documenti secretati. Il giudice ha ritenuto che per la definizione del processo tali documenti fossero invece essenziali.

Non conoscendo gli atti del processo, non sono in grado di dire se ha ragione il giudice o la Procura. Al di là delle valutazioni di merito, è comunque utile cogliere il significato della decisione assunta ieri a Milano ragionando sulle sue implicazioni. Al riguardo sono significative le reazioni alla sentenza manifestate dal principale imputato italiano e quelle dei suoi accusatori milanesi.

Pollari ha dichiarato di essere rammaricato dalla circostanza che, se il segreto fosse stato svelato, la sua innocenza sarebbe emersa con evidenza. La Procura ha commentato a sua volta che la sentenza dimostra che l’azione penale è stata esercitata legittimamente: non soltanto perché gli americani e gli agenti italiani processati per favoreggiamento sono stati condannati, ma anche perché Pollari e Mancini sono stati considerati non giudicabili a causa dell’essenzialità delle notizie coperte dal segreto, e non, invece, in ragione della loro estraneità ai fatti.

Ciò significa che, in ogni caso, conoscere e utilizzare gli atti coperti dal segreto di Stato sarebbe stato importante per risolvere in modo convincente il caso giudiziario in questione: nell’interesse degli imputati «non giudicati», nei cui confronti rimane comunque aperto il sospetto di avere partecipato all’azione illegale; nell’interesse della Procura, che avrebbe avuto diritto a una risposta giudiziale alle accuse formulate; soprattutto, nell’interesse della giustizia, perché l’oscurità mantenuta su di una vicenda di tanto rilievo umano e politico non può comunque soddisfare.

La questione relativa al caso Abu Omar ripropone d’altronde il tema generale dei confini del segreto di Stato in una società democratica, nella quale chiarezza e trasparenza dovrebbero essere considerati beni di importanza primaria. E’ vero che la ragion di Stato può imporre limiti e paletti a tutela della sicurezza nazionale. In quale misura, tuttavia, è consentito nascondere ai cittadini comportamenti e azioni di governo? Quanti e quali misteri d’Italia potrebbero essere finalmente svelati, da Ustica a Bologna, da Brescia alle altre stragi impunite, se il segreto sugli atti secretati fosse finalmente rimosso?

I Procuratori di Milano, nella loro requisitoria, non hanno esitato a proporre con forza il problema, affermando che la democrazia si fonda sulla salvaguardia dei principi irrinunciabili di civiltà anche nei momenti di emergenza e sostenendo che non possono essere consentiti accordi internazionali che concernano la commissione di reati. La sentenza che ha chiuso, in primo grado, il caso giudiziario, applicando il diritto vigente, su questo tema non ha potuto dare una risposta che, al di là del profilo strettamente giuridico, possa soddisfare.

In ogni caso ha risolto, questa volta in modo soddisfacente, una ulteriore questione: fino a che punto l’Italia sia disposta a tollerare azioni illegali condotte da agenti stranieri sul suo territorio. La condanna degli agenti americani costituisce, almeno su questo piano, una risposta che, finalmente, convince.

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:15:45 am »

11/11/2009

Tutto inutile se i tribunali non funzionano
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Gianfranco Fini avrebbe confermato, ieri, il suo no alla prescrizione breve dei reati. Avrebbe tuttavia avallato la «prescrizione processuale», in forza della quale i processi penali, anche quelli in corso fino alla fase del primo grado, dovranno concludersi entro sei anni (due anni per il primo grado, due per il secondo, due per la Cassazione). Se tali termini non saranno rispettati, scatterà la loro estinzione per decorso del tempo, con la, conseguente, assoluzione degli imputati.

Se questa dovesse essere la nuova disciplina, ho l’impressione che l’obiettivo da tempo perseguito da Berlusconi sarebbe in ogni caso assicurato: nei suoi processi pendenti egli riuscirebbe, ancora una volta, a sfuggire al giudizio dei suoi giudici. Insieme a Berlusconi, sarebbero d’altronde graziati centinaia di altri imputati. Caduto il lodo Alfano per violazione manifesta del principio di eguaglianza, per salvaguardare il premier, e nel contempo l’eguaglianza, si rischierebbe un’impunità generalizzata, con buona pace delle vittime dei reati.

Precisando che una valutazione definitiva su ciò che ci attende potrà essere formulata soltanto quando saranno chiari gli accordi di maggioranza ed esplicitati i testi dei disegni di legge, cerchiamo comunque di capire che cosa significhi, allo stato, prevedere, nel modo indicato, la prescrizione dei processi, compresi quelli in corso fino al giudizio di primo grado.

In astratto stabilire che i processi devono concludersi entro sei anni, con scadenze prefissate per ciascuna fase, sarebbe soluzione splendida. Se si riuscisse nell’intento, il male più rilevante della giustizia si dissolverebbe e, quantomeno con riferimento al tema della durata dei processi, essa diventerebbe giustizia accettabile. Perché una riforma dei tempi possa essere credibile, occorrerebbero tuttavia, quantomeno, due condizioni: che essa riguardi soltanto processi futuri, iniziati cioè da magistrati consapevoli fin dall’inizio della durata consentita; che l’imposizione di tempi stretti sia accompagnata da una riforma adeguata nell’organizzazione e nei mezzi, in grado di rendere possibile, nei fatti, il rispetto delle nuove durate. Altrimenti, se ci si limitasse a stabilire nuove regole, ed a disporre l’estinzione dei processi (compresi quelli in corso) in caso di loro inosservanza, sarebbe lo sfracello: centinaia e centinaia di processi estinti.

E’ vero che Fini, consapevole dei problemi, ha dichiarato di avere chiesto al presidente del Consiglio che alla giustizia siano destinate risorse adeguate alle nuove esigenze. Chiedere non è tuttavia, ovviamente, sufficiente; Tremonti permettendo, sarà necessario quantomeno stanziare. Ma anche stanziare potrà non bastare: occorrerà infatti che gli stanziamenti si concretino in strumenti concreti di efficienza, e che alle nuove risorse si accompagnino comunque altre riforme - di organizzazione e di legislazione - idonee a rendere di fatto praticabili i nuovi tempi stabiliti per la durata dei processi penali.

C’è, inoltre, un altro profilo sul quale è necessario riflettere. Verosimilmente, imboccata la strada della prescrizione dei processi troppo lunghi, la maggioranza avrà molta fretta di approvare la legge. L’urgenza di fare riforme in grado di velocizzare i processi è fuori discussione; è tuttavia altrettanto fuori discussione che realizzare una riforma seria dell’organizzazione giudiziaria richiede tempi tecnici non brevi. Che cosa accadrebbe se vi fosse una sfasatura fra i tempi di approvazione della legge che impone rapidità ai processi penali e di quelle che consentono un’organizzazione della gestione giudiziaria idonea a fronteggiare le nuove prescrizioni in materia di durata consentita?

Ancora. Secondo quanto è emerso, dovrebbero essere coinvolti nei processi a rischio di prescrizione quelli che riguardano reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a dieci anni (compresa, guarda caso, la corruzione), fatti salvi quelli che concernono mafia, terrorismo o, comunque, fatti di particolare allarme sociale. Tutti indifferenziatamente, senza badare alla maggiore o alla minore gravità dei reati, od alla maggiore o minore complessità dell’attività processuale necessaria?

I tempi stretti riguarderebbero d’altronde soltanto gli imputati incensurati. E perché mai? Se la prescrizione processuale non costituisce un premio per gli imputati, ma la risposta ad un’esigenza generale di rapidità processuale, censurati o incensurati la regola dovrebbe essere la stessa.

Si potrebbe continuare. Agli effetti di una prima reazione alle novità che si profilano all’orizzonte della giustizia italiana, quanto ho rilevato mi sembra sufficiente. Con un auspicio. Che gli addetti ai lavori, consapevoli dei problemi, sappiano comunque, se possibile, opporsi agli errori. Che siano in grado di farlo uomini della maggioranza. Che lo facciano, con decisione, tutti gli uomini dell’opposizione, senza indulgenze o compiacenze di sorta.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:38:28 pm »

25/11/2009

Un progetto irragionevole
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Ieri in materia di giustizia vi è stato ingorgo. Guardasigilli e magistrati hanno continuato a litigare sulle cifre del disastro della giustizia conseguente al «processo breve». Maggioranza e governo, ad onta di ogni critica, hanno iniziato a discutere in Senato il disegno di legge con l’intenzione di approvarlo entro Natale. Il Csm ha convocato, ed ascoltato, i capi dei maggiori uffici giudiziari d'Italia per fare chiarezza sull’impatto delle nuove norme ipotizzate. Ed, in effetti, un po’ di chiarezza è stata fatta, poiché dall’audizione è emerso che una percentuale elevata di processi in corso, con la riforma, sarebbe destinata ad estinguersi. E, fra di essi, molti processi importanti.

Una cosa è, pertanto, certa. Piaccia o non piaccia al ministro Alfano, il nuovo «processo breve» rischierà comunque di determinare uno sconquasso. Per il passato, insieme ai processi di Silvio Berlusconi, come hanno confermato al Csm i dirigenti consultati, rischieranno di essere travolti centinaia di processi in corso.

Per il futuro, non ha comunque senso imporre per legge una uguale durata massima di anni due (o se si vuole tre) per il giudizio di primo grado a tutti i processi, qualunque sia il tipo di reato trattato o la tipologia del procedimento.

Come ben sa chiunque abbia maturato un minimo d'esperienza nelle aule di giustizia, vi sono processi che possono esaurirsi in un battito d’ala, ma vi sono processi che a causa della difficoltà dell’accertamento dei fatti, per il numero dei testimoni che occorre esaminare, a cagione della necessità di esperire perizie tecniche complesse, non hanno tempi definibili a priori, dureranno in ogni caso più a lungo. Imporre una barriera fissa a pena di prescrizione processuale, significa pertanto rischiare di mandare a monte, comunque, anche nel futuro, i processi più importanti e delicati. Significa, per altro verso, trattare in modo uguale situazioni processuali che possono essere fortemente diseguali: il che comporta, sicuramente, violazione del principio costituzionale di ragionevolezza.

In questa prospettiva, qualche anno fa avevo già espresso riserve nei confronti del progetto elaborato, in casa Ds, dai senatori Finocchiaro, Calvi e Fassone, un progetto che, quantomeno, non aveva l’obbiettivo di salvare dai loro processi singole persone. A fortiori ritengo che occorra rifiutare, oggi, l’analogo progetto Pdl Gasparri, Quagliariello, Bricolo, peggiore perché costituisce, altresì, legge palesemente «ad personam». Né ci racconti il Guardasigilli che si tratta di un progetto elaborato pensando alle esigenze dei cittadini ad avere processi penali rapidi e giusti. Ben altri sarebbero, infatti, gli interventi necessari per realizzare l’obbiettivo di una giustizia a misura del cittadino: riorganizzazione degli uffici e dei servizi, potenziamento e redistribuzione delle risorse, modifiche del sistema dei reati e delle pene, interventi su taluni nodi problematici del processo, maggiore impegno coatto di tutti gli addetti ai lavori.

D'altro canto, come è emerso ieri nell’audizione organizzata dal Csm, la prospettiva del «processo breve», e dei suoi effetti «salvifici», potrebbe indurre molti imputati a rinunciare a richieste di patteggiamento, determinando così un ingolfamento ulteriore dei processi, un conseguente allungamento dei tempi complessivi della giustizia penale e pertanto, assurdamente, il moltiplicarsi delle estinzioni.

Al di là della tristezza dei nuovi contenuti legislativi, colpisce, per altro verso, il degrado del dibattito politico del momento. Non si era mai sentito un Guardasigilli che, rivolto ai magistrati, parlasse di un loro «clamoroso abbaglio» sulle cifre e li invitasse a non «giocare con i numeri». Nessun parlamentare si era permesso di affermare, come ha fatto invece l’onorevole Gasparri, che l’Associazione Nazionale Magistrati «spara fesserie». Nessuno aveva osato sostenere, come ha fatto il presidente della commissione Giustizia del Senato Berselli, che ascoltare in commissione il parere di autorevoli costituzionalisti sulla legittimità costituzionale del disegno di legge è una «inutile perdita di tempo» e che i costituzionalisti italiani vanno, comunque, «presi con le molle».

La realtà è che, al di là dell’irragionevolezza di trattare in modo eguale tutti i processi penali a prescindere dalla specifica tipologia dei reati considerati e dalle peculiarità del singolo processo, il disegno di legge sul «processo breve» presenta diversi, evidenti, profili d’illegittimità costituzionale: in primo luogo, il trattamento diseguale dei censurati e degli incensurati e l’esclusione del reato di clandestinità e degli altri reati connessi al testo unico sull’immigrazione. Forse si cercherà, adesso, di porre qualche rimedio al disastro normativo. Ma come ha rilevato la presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, ora ogni cambiamento rischia l'effetto paradosso: «Più si cerca di rendere il provvedimento conforme alla Costituzione, più si allarga l’impatto (negativo) del ddl sulla collettività».

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:33:50 pm »

18/12/2009


L'inchiesta dai piedi d'argilla
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Di fronte alle risultanze del supplemento d’istruttoria disposto dal giudice nel corso del processo, l’assoluzione di Albero Stasi era nell’aria. Le contraddizioni emerse nei confronti dell’impalcatura accusatoria erano risultate, infatti, talmente vistose, da rendere, ragionevolmente, improponibile l’idea di una loro tenuta.

Il punto, tuttavia, è domandarsi perché si è arrivati a una tale sconcertante situazione processuale. Vediamo, innanzitutto, di elencare i profili sui quali si reggeva l’accusa e i motivi in forza dei quali essi si sono rilevati inidonei a sostenerla fino in fondo: il tema delle scarpe, quello del Dna della vittima sui pedali della bicicletta dell’imputato, l’impronta sul portasapone, l’alibi del computer, il movente, l’arma del delitto. A non convincere gli investigatori erano state, all’inizio, le scarpe immacolate di Alberto Stasi, che, secondo la versione raccontata dal ragazzo, avrebbero dovuto, ragionevolmente, essersi macchiate al momento della scoperta del corpo privo di vita di Chiara Poggi. Poco dopo, la prospettiva accusatoria si era rafforzata a causa dell’asserito ritrovamento del Dna della vittima sui pedali della bici. Entrambi questi profili d’accusa non hanno tuttavia retto alle perizie successive: gli esperti super partes hanno scritto che non era possibile precisare la natura del materiale organico di Chiara presente sui pedali e, quanto alla mancanza di macchie di sangue sulle scarpe di Alberto, essi hanno osservato che le suole erano idrorepellenti e ben potrebbero essersi ripulite con il camminare successivo.

L’impronta di Alberto mista al Dna della vittima trovata sull’erogatore del sapone liquido, considerata prova dall’accusa, è stata agevolmente smontata dai periti nominati dal giudice: la spiegazione più ragionevole, essi hanno rilevato, è che «i due abbiano toccato l’oggetto in tempi e per un numero di volte sconosciute», una spiegazione che «rende il dato del tutto irrilevante al fine della costituzione di una prova scientifica».

Clamoroso è stato, d’altronde, il profilo relativo al computer. Alberto Stasi ha sempre sostenuto di avere lavorato, al computer, nella stesura della sua tesi di laurea l’intera mattina in cui Chiara è stata assassinata: un vero e proprio alibi, se fosse stato vero. Questa affermazione non è stata tuttavia mai creduta dagli investigatori. Ad agosto scorso la perizia informatica disposta dal giudice ha peraltro dimostrato che l’imputato ha acceso il suo computer alle 9,35, che dalle 9,36 alle 12,20 ha salvato in continuazione il file e che le tracce di questi passaggi erano state cancellate da accessi impropri fatti dai carabinieri nel corso delle indagini. Quanto all’arma del delitto, variamente ipotizzata nel corso del processo, essa non è stata, in realtà, mai individuata. Quanto al movente, identificato dall’accusa nella circostanza che Chiara potrebbe avere scoperto qualcosa di disdicevole sul computer di Alberto, esso si è rivelato, nel corso del processo, nulla più che una supposizione.

Di fronte a questo elenco di indizi sfilacciati, la soluzione ampiamente prevedibile del processo era l’assoluzione dell’imputato. E così è stato. Una soluzione per molti aspetti sconcertante. Come è possibile, si domanderà infatti la gente, che dopo due anni e mezzo di indagine e di processo si arrivi a non fare nessuna giustizia? Come è possibile che una uccisione orrenda di una giovane ragazza rimanga senza causa e senza spiegazione? Come è possibile che sulla base di indizi ritenuti sufficienti da un ufficio del pubblico ministero un ragazzo venga rinviato a giudizio e che poi si scopra che, addirittura, il suo alibi era stato inopinatamente cancellato per imperizia dagli investigatori?

È possibile, rispondo, nel nostro modo sovente disastrato di fare giustizia. Ed infatti è accaduto. Ma forse, a questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull’efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell’imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l’imputato possa essersi trattenuto al computer l’intera mattinata in cui si è consumato l’omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9,36 alle 12,20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati dell’accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati.

Che dire, d’altronde, del «balletto» sull’ora della morte della povera ragazza? In un primo tempo il pm aveva sostenuto che essa era stata uccisa «fra le 11 e le 11,30». Nella «requisitoria bis», di fronte ai risultati clamorosi della perizia informatica disposta dal giudice, egli ha cambiato opinione: la ragazza sarebbe morta «fra le 12,46 e le 13,26», una soluzione che non ha trovato d’accordo neppure la parte civile, che ha individuato l’ora della morte fra le 9 e le 10 del mattino.

C’è comunque un aspetto, il solo, che, nel disastro complessivo di questa drammatica vicenda giudiziaria, può essere considerato positivo: che, di fronte all’equivocità degli indizi, un giudice ha assolto, ricordandosi che «senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio» nessuno, secondo i principi, nel nostro Paese può essere condannato. Altre volte, purtroppo, non è avvenuto.

da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:19:26 pm »

21/1/2010

La sfida della politica
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Il Senato ha approvato ieri il processo breve, l'ultima legge ad personam studiata per sottrarre Berlusconi ai suoi processi. Una vergogna che non merita neppure più discutere. Se il testo diventerà davvero legge, provocherà disastri nell'esercizio quotidiano della giustizia, e si potrà soltanto sperare che la Corte Costituzionale sia veloce nel rilevare la sua palese illegittimità.

In questo giorno poco fausto per le prospettive di giustizia, vale peraltro la pena di affrontare un tema, che, risolto malamente, rischierebbe di compromettere ancora di più il rispetto della legalità nel nostro Paese. È stato ancora una volta Berlusconi a porlo sul tappeto, quando all’attività giudiziaria svolta dai magistrati ha contrapposto, in termini di sfida, la forza che deriva ai politici dall’investitura ottenuta con il voto popolare.

Questo tema è stato affrontato qualche tempo fa da questo giornale in un bellissimo articolo di Barbara Spinelli. La conclusione dell'autrice è stata netta: anche l'eletto dal popolo è tenuto a rispettare la legge. Anzi, senza rispetto della legalità da parte di tutti, inclusi coloro che hanno ricevuto l'investitura a governare, non esiste democrazia. Con altre parole, si può affermare che il primato della politica sulla giurisdizione, in uno Stato di diritto, può essere accettato a condizione che non si traduca in un'ingiustificata impunità, dato che il voto dei cittadini non è un mandato in bianco all'esercizio del potere, ma impegna a governare nel rispetto delle regole.

In questa prospettiva, fra controllo di legalità e legittimazione popolare non dovrebbe esservi contrapposizione: chi è eletto governa, essendo stato legittimato dal popolo a farlo; se infrange la legge, deve essere tuttavia sanzionato come ogni altro cittadino. Eppure, rispetto a tale ragionevole soluzione c'è, oggi, chi si ribella: sostenendo che non è tollerabile che la magistratura, tramite le sue indagini e i suoi processi nei confronti dei politici, possa interferire senza limiti sulle gestioni pubbliche, rischiando d’inceppare l'attività di governo e di danneggiare, pertanto, gli interessi del Paese.

Il dibattito è stato enfatizzato a causa della peculiare posizione del Presidente del Consiglio che, incalzato dalle indagini penali, sta cercando da tempo di assicurarsi spazi personali d'impunità. Ora, tuttavia, non pare sia più, soltanto, problema personale del capo del governo: una parte consistente della classe politica, di maggioranza e d'opposizione, sembra propensa a ripristinare addirittura l’immunità parlamentare, travolta dalle temperie giudiziarie di Mani pulite. Una condizione, si dice, per restituire alla politica la forza perduta e per recuperarne l'indispensabile capacità di decidere.

Storicamente, l’immunità parlamentare aveva una sua giustificazione: s'intendeva proteggere il rappresentante del popolo dalle potenziali, temute, «persecuzioni» degli altri poteri e salvaguardare così la sua libertà di agire e di votare. Per questa ragione, e forse anche perché si voleva proteggere il potere legislativo da una magistratura cui si stava concedendo forte autonomia, l’immunità è stata mantenuta nella Costituzione. Peraltro, le Giunte per le autorizzazioni a procedere raramente hanno applicato l'istituto con il dovuto rigore, preoccupandosi cioè di tutelare soltanto i parlamentari vittime di persecuzione giudiziaria; hanno, piuttosto, cercato di salvare chiunque, eletto in parlamento, avesse commesso reati, dando in questo modo corpo, nei fatti, ad una situazione intollerabile di privilegio non giustificato.

Ecco perché, oggi, reintrodurre l’immunità suona alle orecchie di molta gente come ripristino di un odioso privilegio. Né le forme nuove d'immunità con le quali una parte della classe politica cerca di ammorbidire l'impatto del ventilato ripristino (si pensi al recente disegno di legge Chiaromonte/Compagna) sembrano in grado di dissipare perplessità e resistenze. Si tratta, comunque, della previsione di «coperture» che intaccano il principio fondamentale secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, si tratti di gente comune ovvero di potenti.

Ha ragione, per altro verso, chi rileva che, negli anni, la politica ha perso, ad una ad una, le sue tutele tradizionali e si presenta, oggi, in larga misura priva di adeguate salvaguardie di fronte alle azioni giudiziarie sbagliate o prevaricanti; e soggiunge che, parallelamente, la corporazione dei magistrati ha assunto poteri strabordanti. Il che costituisce un pericolo per la credibilità di entrambi i versanti istituzionali. Si tratta, tuttavia, di stabilire se il riequilibrio debba essere necessariamente realizzato reintroducendo odiose protezioni della classe politica o possa essere conseguito con altri mezzi, e a tutela di tutti i cittadini. Ad esempio, con un criterio diverso di selezione del personale giudiziario, con più adeguati meccanismi di controllo, con maggiore rigore disciplinare nei confronti dei magistrati che sbagliano o prevaricano.

Mi ha colpito che nei giorni scorsi un autorevole magistrato, il Procuratore della Repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti, abbia sostenuto che, «vista la situazione», la reintroduzione dell'immunità parlamentare potrebbe essere strumento confacente, per consentire che vengano abbandonati i progetti più devastanti che, per salvare a tutti i costi il premier, rischiano di neutralizzare la stessa funzione giudiziaria. Si tratta, evidentemente, della disperazione di chi, di fronte all'apparente ineluttabilità delle cose, cerca di salvare in qualche modo il salvabile. Confido ancora, nonostante tutto, che si riesca ad uscire altrimenti dal difficile groviglio di temi e problemi.

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:31:30 am »

30/1/2010

Emergenza nazionale
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.

Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.

Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.

Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.

Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.

Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.

Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.

È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 04, 2010, 10:16:46 am »

4/2/2010

Equilibri in pericolo
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Tutto come da copione. La maggioranza ha votato ieri alla Camera il legittimo impedimento, l’ennesimo provvedimento salva-premier. Vi sono stati alcuni aggiustamenti rispetto al testo originario, il beneficio è stato esteso a tutti i ministri.

Una scelta fatta per attenuare l'effetto ad singulam personam della versione iniziale (ed ottenendo così il risultato di coprire l'intero governo rispetto alla celebrazione dei processi).

La sostanza è rimasta in ogni caso inalterata. Sarà sufficiente una certificazione di Palazzo Chigi, e per sei mesi il Presidente del Consiglio potrà sfuggire al disturbo di un processo in un'aula di giustizia. La sospensione sarà reiterabile per due volte, per un totale di diciotto mesi, quanto basta per riapprovare il lodo Alfano con legge costituzionale.

Sul piano giuridico c'è poco da rilevare. Il nuovo provvedimento legislativo è, come altri che lo hanno preceduto, illegittimo da un punto di vista costituzionale, e nel caso in cui venisse definitivamente approvato subirà verosimilmente la medesima sorte: approderà al Palazzo della Consulta e verrà annullato dalla Corte. Il legittimo impedimento esiste già oggi, ma è regolato in modo ragionevole: può ottenere il rinvio del processo il politico che dimostra di avere un impegno istituzionale pressante. L'impedimento che autorizza il rinvio del processo è individuato in un episodio specifico di esercizio della funzione, ed il rinvio, valutato dal giudice, avviene soltanto con riferimento a quell'impedimento e per il tempo strettamente necessario.

Con la nuova disciplina l'istituto risulta stravolto. Non si deve più stabilire se il ministro è impedito perché è concretamente impegnato nell'esercizio della funzione, né il giudice ha potere di valutazione; si presume invece automaticamente che non gli sia possibile essere presente in un processo (per un totale massimo di diciotto mesi) perché esercita una funzione di governo. L'impedimento si trasforma, cioè, in un'immunità temporanea riconosciuta in ragione della funzione esercitata. Ma, allora, nulla distingue, nella sostanza, tale istituto dalla sospensione dei processi delle alte cariche dello Stato stabilita con il lodo Alfano, bocciato dalla Corte Costituzionale per violazione del principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge penale.

Sul terreno del diritto, dunque, pochi sono i commenti possibili: il testo votato ieri dalla Camera è costituzionalmente illegittimo, punto e basta. Sul terreno politico il discorso si presenta invece, inevitabilmente, più articolato, ed esprime posizioni diversificate anche fra coloro che non apprezzano la deriva giuridica imboccata dal governo e dalla maggioranza che lo sostiene.

Autorevoli esponenti della società civile, e di istituzioni diverse da quelle politiche, cominciano a sostenere che, piuttosto che assistere alla distruzione della giustizia allo scopo di salvare Berlusconi dai suoi processi, tanto vale consentire di salvarlo e basta con modifiche costituzionali ad personam, anche se ciò avviene in spregio dei principi. La giustizia, nel suo complesso, potrebbe così continuare, bene o male, a funzionare e si potrebbe cominciare a pensare seriamente ad un suo miglioramento con riforme appropriate.

Il «male minore», dunque. Se ne era parlato quando il governo aveva presentato, oltre un anno e mezzo fa, un disegno di legge sulla sospensione di tutti i processi (progetto che era stato ritirato dopo l'approvazione del lodo Alfano); se ne ritorna a parlare oggi di fronte alla minaccia di approvazione definitiva del processo breve e delle altre misure progettate per proteggere in ogni caso il presidente del Consiglio. Sostanzialmente è un ricatto; ma, in certe situazioni, si dice, ragion di Stato e realismo possono consigliare anche di abbozzare alle minacce. Magari è una vergogna, ma in certi casi anche le vergogne possono essere praticate se servono ad evitare vergogne più grandi.

Su di un punto sarei in ogni caso intransigente. Oggi si avverte, forte, il rischio di uno stravolgimento degli equilibri fra i poteri dello Stato. C'è, anzi, un rincorrersi di voci su possibili intese trasversali attraverso le quali la politica intenderebbe rinserrare i ranghi, rafforzando il suo potere e, nel contempo, indebolendo gli organi di garanzia ed i controlli. In questo contesto l'opposizione dovrebbe giocare fino in fondo il suo ruolo: opponendosi appunto, difendendo la separazione e l'indipendenza dei poteri, isolando coloro che abbozzano, rifiutando accordi e compromessi poco onorevoli. E i cittadini, a questo punto, dovrebbero essere a loro volta in grado di selezionare attentamente fra chi difende e chi, invece, rischia di stravolgere gli assetti dello Stato di diritto.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:05:38 pm »

26/2/2010

Ora addio a riforme di emergenza
   

CARLO FEDERICO GROSSO

La soluzione del processo per corruzione a carico dell’avvocato Mills sembrava dipendere, in larga misura, dalla risposta che, in diritto, si riteneva di dare a due questioni interpretative delle norme che prevedono i delitti di corruzione.

Prima questione.
Costituisce opinione pacifica che il reato di corruzione si realizzi già con la promessa di denaro od altra utilità da parte del privato e l’accettazione della stessa da parte del pubblico ufficiale, cioè con la stipulazione del patto criminoso, essendo irrilevante che alla promessa segua la dazione.

Problema: che cosa accade, tuttavia, quando all’accordo segue invece, nei fatti, la dazione?

A questo problema sono state date due risposte: secondo un’interpretazione minoritaria il reato rimarrebbe «consumato» al momento della promessa fatta ed accettata; secondo l’interpretazione prevalente, la consumazione si sposterebbe invece al momento della dazione, e soltanto da allora comincerebbe a decorrere la prescrizione.

Seconda questione.
Sotto il profilo della corruzione in atti giudiziari (reato molto più grave della corruzione base prevista dall’articolo 319 codice penale: pena della reclusione da tre ad otto anni in luogo di quella da due a cinque anni), rileva soltanto la corruzione «antecedente», cioè la promessa o la dazione di denaro od altra utilità fatta perché il pubblico ufficiale compia in futuro un atto che favorisca o danneggi una parte in un processo, ovvero, anche, la corruzione «susseguente», cioè la promessa o la dazione riferita a un atto già commesso dal pubblico ufficiale? Si tratta di un problema sulla cui soluzione vi è divergenza, poiché a causa di una formulazione infelice della norma che prevede il delitto di corruzione in atti giudiziari entrambe le interpretazioni possono essere ragionevolmente prospettate. Eppure, dalla risposta dipendono conseguenze pratiche rilevantissime: nel caso si accettasse la seconda interpretazione, infatti, la corruzione susseguente, anche se commessa con riferimento ad un atto giudiziario, dovrebbe essere considerata corruzione base, punita con una pena molto più bassa, e prescrivibile in tempi molto più rapidi.

Entrambe le questioni erano rilevanti nel processo Mills, poiché la corruzione contestata all’avvocato inglese era sicuramente susseguente, e perché la dazione si era «perfezionata» nel 2000, mentre la promessa era sicuramente anteriore, risalente quantomeno al 1999. Pertanto, se le Sezioni Unite della Cassazione avessero individuato il momento consumativo del reato in quello della promessa e, soprattutto, se avessero sostenuto che la corruzione susseguente doveva comunque essere classificata come corruzione base, il reato avrebbe dovuto essere considerato prescritto.

In effetti, le Sezioni Unite hanno dichiarato il reato contestato a Mills prescritto. La ragione della prescrizione, a quanto si è appreso, è stata, tuttavia, individuata nella circostanza che si è ritenuto che il reato si sia consumato nel momento (fine 1999) in cui i denari (secondo quanto sostenuto da Mills in una lettera e nella sua prima confessione) sarebbero stati messi a disposizione dell’imputato sul conto di una società che faceva capo, fra gli altri, a lui, e non, come avevano sostenuto i giudici di merito, il 29 febbraio 2000, momento in cui egli acquisì la diretta disponibilità dei 600 mila dollari intestandosi quote di pari valore del Torrey Global Fund.

Par di capire, dunque, due cose. Che la Cassazione abbia (giustamente) ritenuto che la corruzione, quando c’è dazione del denaro, si consumi al momento della stessa; che abbia, tuttavia, considerato come «dazione» la messa a disposizione su di un conto e non la (successiva) effettiva acquisizione del denaro tramite l’intestazione delle quote del menzionato fondo monetario. Che essa abbia, comunque, ritenuto che il fatto, ancorché di corruzione «susseguente», fosse qualificabile come corruzione in atti giudiziari: prescrizione decennale comunque superata dal decorso del tempo.

La lettura della motivazione della sentenza consentirà, quando essa sarà depositata, di verificare quale sia stato, effettivamente,
l’insieme dei ragionamenti seguiti dalla Corte. E, soprattutto, di valutare il peso e la ragionevolezza dell’argomentazione giuridica compiuta. Al momento è, soltanto, possibile prendere atto della risposta di fondo data alle questioni giuridiche che erano sul tappeto.
Ed è possibile indicare, comunque, le conseguenze giuridiche e politiche che la decisione presa avrà nei confronti di Berlusconi, imputato come corruttore nello stesso processo in cui l’avvocato Mills figurava come corrotto, e la cui posizione era stata stralciata in ottemperanza del lodo Alfano, approvato dal Parlamento, ma annullato, perché illegittimo, dalla Corte Costituzionale.

Il reato, giudicato prescritto con riferimento a Mills, non potrà che essere considerato tale anche con riferimento a Berlusconi.
La giustizia, bene o male, ha seguito il suo corso, ed è giunta, nel caso di specie, al suo epilogo con un giudizio di acquisita prescrizione. La prescrizione esprime, sempre, un fallimento per la giustizia. Speriamo che, quantomeno, nel caso di specie la decisione presa serva a stemperare le tensioni ed a consentire che vengano abbandonati provvedimenti infausti quali il processo breve, il legittimo impedimento, le guarentigie per ministri ed alte cariche dello Stato, e via dicendo.

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 16, 2010, 08:11:10 am »

16/3/2010

Un'inchiesta e molti interrogativi
   

CARLO FEDERICO GROSSO

La vicenda giudiziaria che ha coinvolto Berlusconi, Innocenzi e Minzolini a Trani solleva quantomeno tre rilevanti interrogativi giuridici. Secondo quanto è stato pubblicato sui giornali, la Procura della Repubblica di Trani stava indagando su di una vicenda di truffa ed usura relativa a finanziamenti per il credito al consumo di una carta di credito della American Express. Nel corso di intercettazioni disposte con riferimento a tale indagine, sarebbero emerse 18 telefonate riguardanti presunte pressioni per fare chiudere «Annozero» di Santoro ed interferire in qualche modo su «Ballarò» di Giovanni Floris e «Parla con me» di Serena Dandini.

Niente a che fare con l’indagine in relazione alla quale le intercettazioni erano state disposte. Secondo la Procura, si tratterebbe comunque di concussione e di violenza o minaccia a corpo amministrativo, reati dei quali dovrebbero essere chiamati a rispondere i tre menzionati personaggi della politica e dell’informazione. Essa li ha, di conseguenza, iscritti nel registro degli indagati. Primo interrogativo. E’ legittimo che intercettazioni disposte per acquisire indizi o prove con riferimento ad una determinata ipotesi accusatoria consentano di procedere per reati diversi che dovessero casualmente emergere nel corso delle intercettazioni?

A mio avviso la risposta non può che essere affermativa.

Si consideri, ad esempio, che nel corso di intercettazioni disposte per individuare i responsabili di una corruzione emerga la traccia di un omicidio: è evidente che l’indizio acquisito costituisce nuova notizia di reato sulla quale l’autorità giudiziaria ha il dovere di indagare. Essa procederà pertanto, sulla base della notizia acquisita, ad aprire un ulteriore fascicolo processuale, e se il reato è di sua competenza procederà nelle indagini secondo le regole generali. Nessun abuso di intercettazione, dunque, ma esercizio doveroso dell’azione penale.

Il problema tuttavia si complica se dovesse emergere che la nuova notizia di reato appartiene alla competenza di un ufficio giudiziario diverso da quello che sta procedendo. Nel nostro ordinamento giuridico, stranamente, nel corso delle indagini preliminari l'obbligo di dichiarare la propria incompetenza è stabilita soltanto per il giudice, non per il pubblico ministero; il pubblico ministero è obbligato a rilevarla solo nel caso in cui essa sia stata espressamente eccepita dall’indagato. Cionondimeno, io ritengo che un pubblico ministero scrupoloso dovrebbe essere comunque attento a non sconfinare, mai, nelle competenze altrui, non fosse altro che per evitare sospetti di forzature od abusi.

Ecco allora, nel caso di Trani, la prima ragione di perplessità. La Procura della Repubblica di Trani, competente per i reati di truffa ed usura per i quali stava procedendo, è, palesemente, incompetente rispetto alle presunte condotte delittuose emerse dalle 18 conversazioni casualmente intercettate fra Berlusconi, Innocenzi e Minzolini, poiché è pacifico che esse non sono state commesse a Trani, ma nei luoghi dove gli interlocutori si trovavano al momento delle telefonate. Come ho chiarito, tale Procura non aveva l’obbligo di trasmettere senza indugio ad altro ufficio la nuova notizia di reato acquisita. Davvero, tuttavia, non sarebbe stato opportuno che lo facesse, tanto più trattandosi di un caso particolarmente delicato in ragione della personalità degli indagati?

Terzo interrogativo. La vicenda emersa è sicuramente molto grave sia sul terreno politico, sia su quello della valutazione sociologica delle presunte pressioni esercitate: mai e poi mai un Premier dovrebbe permettersi di usare i suoi poteri per interferire sulla libera espressione dei programmi televisivi pubblici. Quale è tuttavia, davvero, la valenza penale di ciò che è accaduto? Fino all’altro ieri si prospettava la contestazione del (gravissimo) delitto di concussione. Ieri, a fianco della concussione, è apparsa la prospettazione del delitto di violenza o minaccia ad un corpo amministrativo (nella specie il Garante per le comunicazione).

Costituisce delitto di concussione il fatto del pubblico ufficiale che «abusando della sua qualità o dei suoi poteri», costringe o induce taluno «a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro od altra utilità». Costituisce a sua volta violenza o minaccia ad un corpo amministrativo il fatto del pubblico ufficiale che «usa violenza o minaccia» a tale corpo «per impedirne in tutto o in parte, o per turbarne comunque l'attività». Si arguisce che la concussione è stata ipotizzata con riferimento ad una «utilità» consistente nel vantaggio politico derivante a Berlusconi dal blocco delle trasmissione più critiche nei suoi confronti. La violenza o minaccia nei confronti del Garante per la comunicazione è stata a sua volta, verosimilmente, configurata sul presupposto che la libera attività di tale Authority sia stata «impedita» o «turbata» dalle pressioni esercitate.

La lettura degli atti processuali consentirà, a suo tempo, di capire su quali elementi di prova si basino tali gravissime ipotesi di reato e fino a che punto esse siano davvero fondate. Per ora dobbiamo limitarci a rilevare due ulteriori inquietanti accadimenti: l’evidente, clamorosa, violazione del segreto investigativo realizzata con la rivelazione e la pubblicazione della notizia delle intercettazioni da parte di un noto quotidiano; l’immediata spedizione a Trani degli ispettori del ministero della Giustizia da parte del Guardasigilli, con grave rischio d’interferenza sulle indagini.

Non vorrei, d’altronde, che sull’onda di quest’ulteriore pagina delicata della storia giudiziaria del nostro Paese governo e maggioranza forzino la mano per realizzare riforme sciagurate in materia di giustizia, circoscrivendo arbitrariamente il potere delle Procure e l’ambito delle intercettazioni consentite.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Giugno 15, 2010, 09:37:53 am »

15/6/2010
 
Il vero obiettivo è il controllo dei pm
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Ancor prima che la nuova disciplina delle intercettazioni abbia raggiunto l'esito auspicato da governo e maggioranza con la sua approvazione definitiva, il Guardasigilli Alfano ha lanciato una nuova minaccia. A settembre, ha dichiarato l'altro ieri, sarà presentato un progetto di riforma costituzionale della giustizia che coinvolgerà il suo assetto istituzionale: separazione delle carriere, doppio Csm, nuovo meccanismo disciplinare, nuova disciplina dell'ufficio del pubblico ministero.

Si tratta di idee che erano già ripetutamente circolate nei mesi scorsi, per cui non stupisce che siano state ancora una volta ribadite, anche se è la prima volta che il ministro s'impegna apertamente nell'indicare contenuti e tempi del progetto.

Il progetto, nel suo complesso, mi piace poco. Un profilo, comunque, mi preoccupa particolarmente. C'è il rischio che la riforma che si prospetta determini un indebolimento molto forte, e per questa ragione inaccettabile, dell'ordine giudiziario, incidendo, in particolare, sull'indipendenza degli uffici del pubblico ministero. Di questo profilo il Guardasigilli non ha parlato espressamente. Ne ha parlato tuttavia il giorno prima il presidente del Consiglio, evocando non a caso il sistema francese, che distingue il giudice dai pubblici ministeri e sottopone questi ultimi ad un rilevante condizionamento del ministero della Giustizia.

Per rendersi conto della consistenza del pericolo, è d'altronde sufficiente considerare taluni dei profili che caratterizzano la riforma che s'ipotizza. Si pensa, ad esempio, di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, creando due distinti Csm, quello dei giudici presieduto dal Presidente della Repubblica e quello dei pubblici ministeri presieduto dal procuratore generale della Cassazione; s'ipotizza d'incrementare la percentuale della componente non togata dei due Csm a scapito di quella togata, aumentando in questo modo il livello del potenziale condizionamento politico di tale istituzione; si prefigura di modificare i rapporti fra pubblici ministeri e polizia giudiziaria nella fase della conduzione iniziale delle indagini, sottraendo alle procure della Repubblica ogni potere d'iniziativa o pungolo. Che altro significa, tutto questo, se non, appunto, condizionare, ridurre, spezzettare, indebolire, soprattutto l'ufficio del pubblico ministero?

Emblematica mi sembra d'altronde, in particolare, l'idea di creare due Csm, uno soltanto dei quali ancora presieduto dal Presidente della Repubblica. Come è noto, la presidenza del Capo dello Stato è simbolo di autorevolezza e di caratura costituzionale dell'organo di autogoverno della magistratura. Mutare la presidenza, ed assegnarla ad una, sia pure elevata, autorità dell'ordine giudiziario, significherebbe degradare comunque il Consiglio. Da organo di rilevanza costituzionale esso sarebbe inevitabilmente trasformato in normale istituzione dello Stato, in quanto tale normalmente aggredibile. Si pensi, allora, a che cosa significhi, specificamente, stabilire che il Csm dei giudici mantiene intatta l'aureola di organo di rilevanza costituzionale, quello dei pubblici ministeri viene invece privato della medesima autorevolezza. Sarebbe la premessa perché i pubblici ministeri, trasformati in normale istituzione, siano «normalmente» assimilati a tutte le altre amministrazioni pubbliche: non siano più «potere dello Stato», ma si trasformino in ordinaria pubblica burocrazia, in questa prospettiva «ordinariamente» soggetti al controllo del ministero di riferimento.

Che cos'altro può significare, d'altronde, la circostanza che si prefiguri, fra l'altro, una nuova normativa costituzionale in forza della quale i giudici (non più tutti i magistrati) resteranno un «ordine autonomo ed indipendente da ogni potere», mentre i pubblici ministeri, semplicemente, «eserciteranno l'azione penale secondo le modalità stabilite dalla legge»? Se la legge, successivamente all'eventuale entrata in vigore del nuovo testo costituzionale, dovesse stabilire che l'esercizio dell'azione penale, quantomeno in certi casi, è subordinato all'assenso del ministro, nessuno, sul terreno della legalità formale, potrebbe più obbiettare alcunché. Per il momento ci troviamo, fortunatamente, ancora sul piano delle parole, degli intenti, delle ipotesi. Nessun progetto articolato è stato reso noto, nessun organo dello Stato ha, fino ad ora, approvato alcunché. Nei giorni scorsi abbiamo, tuttavia, assistito con sgomento a che cosa è accaduto in materia d'intercettazioni.

A bloccare un disegno di legge eversivo perché brutalizza nel contempo giustizia e informazione, e perché infrange due cardini del sistema costituzionale, non sono servite critiche, proteste, appelli e mobilitazioni. Governo e maggioranza hanno proseguito imperterriti per la loro strada. Ecco perché in materia di riforma costituzionale della giustizia, nonostante ci si trovi per ora soltanto di fronte alle parole di un ministro, il nuovo pericolo dev'essere comunque immediatamente avvertito e messo a fuoco, e la mobilitazione cominciare.

Non si vorrebbe infatti che, dopo un'eventuale definitiva approvazione, a luglio, della legge sulle intercettazioni, una nuova forzatura dello Stato di diritto voluta dalla maggioranza scardini definitivamente i capisaldi della divisione dei poteri e del sistema dei controlli. Magari, questa volta, con la complicità compiacente di qualche settore dell’opposizione.
 
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« Risposta #42 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:16:52 pm »

16/7/2010

Il giudice va a cena da solo
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Ricordo che mio padre mi diceva che ai suoi tempi era regola indiscussa che il magistrato non dovesse essere «commensale abituale» di coloro nei confronti dei quali amministrava la giustizia.

Non doveva, cioè, coltivare relazioni sociali, avere rapporti di interesse, anche soltanto ostentare amicizie nella città dove aveva
l’ufficio. Lo imponeva una regola elementare di prudenza. Poiché egli doveva non soltanto essere, ma ancor prima apparire imparziale, la sua immagine sarebbe stata inevitabilmente intaccata se egli fosse stato visto sedere abitualmente al tavolo degli stessi commensali, frequentare circoli, salotti, cene o cenacoli.

Altra regola sentita era che il magistrato doveva esprimersi esclusivamente con gli atti processuali e le sentenze: non doveva esibirsi, rilasciare interviste, parlare dei suoi processi fuori dalle sedi processuali, cercare a tutti i costi la vetrina. La sua attività doveva essere improntata a grandissima riservatezza. Ogni eccesso avrebbe infatti potuto intorbidire un’immagine che doveva apparire, invece, manifestazione di equilibrato esercizio delle funzioni.

Ulteriore regola di prudenza era che mai il magistrato avrebbe dovuto utilizzare la notorietà comunque acquisita con i suoi processi per tentare la strada di carriere parallele: nella politica, nei ministeri, negli uffici studi dei partiti od in qualunque altro luogo che gli consentisse di avere rapporti ravvicinati con il potere politico. La stessa possibilità d’intraprendere una carriera parallela avrebbe potuto costituire, infatti, motivo di esercizio turbato della sua attività giudiziaria, improntata al perseguimento d’inconfessabili ragioni d’interesse personale piuttosto che al perseguimento dell’interesse di giustizia.

Può darsi che quest’idea di magistrato avulso da ogni profilo di promozione sociale, estraneo ad ogni gioco di potere o d’interessi, lontano dalle ribalte, di magistrato stretto in una carriera necessariamente separata da tutte le altre carriere, fosse un’idea impraticabile, antica, fuori dal tempo. Osservare, e fare rigorosamente osservare, sempre, quantomeno alcune regole di rigore e di prudenza nelle frequentazioni degli appartenenti all’ordine giudiziario, nelle loro esternazioni, nei loro coinvolgimenti politici, nelle loro manifestazioni pubbliche e private, sarebbe tuttavia stato, probabilmente, utile e sacrosanto.

Lo dimostrano le sconcertanti vicende che la cronaca giudiziaria di questi giorni ha portato sulle prime pagine dei giornali e che stanno coinvolgendo taluni magistrati di rilievo. Esse, si badi, non costituiscono d’altronde un caso isolato. Si inseriscono in una sequenza di episodi che, sia pure interessando settori circoscritti della magistratura, hanno ripetutamente connotato le dinamiche del mondo giudiziario. È significativo, ad esempio, che alcuni dei magistrati che sono oggi al centro dell’attenzione mediatica perché coinvolti nell’ultimo scandalo, siano già stati, anni fa, oggetto d’inchiesta da parte del Csm e scagionati, non so se a ragione o a causa del gioco perverso delle trasversalità correntizie. Segno, comunque, che il sistema di controllo interno della magistratura non ha funzionato.

Che dire, d’altronde, della circostanza che fra i soggetti dei quali oggi si mormora vi siano addirittura Primi Presidenti, componenti del Csm, ex Presidenti della Corte Costituzionale? A poco conta che, come sembra, essi non abbiano accolto le richieste d’interferenza che sono state loro rivolte; è già sufficiente, a preoccupare, che tali soggetti abbiano potuto essere anche soltanto avvicinati.

Ciò che è stato, comunque, è stato. Sarebbe importante, ora, che le vicende emerse, e che rivelano l’esistenza di una questione morale interna alla magistratura oltre che al Paese nel suo insieme, forniscano l’occasione per il rinnovamento quantomeno di alcune regole. Mi limito ad accennare ad alcuni temi sui quali occorrerebbe cominciare a ragionare.

Primo. Attenzione al problema dei rapporti fra appartenenti all’ordine giudiziario e società. Non basta, si badi, vietare ai magistrati la frequentazione di ambienti quali quello degli affari, dei partiti, dei cenacoli e delle società segrete. Bisognerebbe, forse, decidere finalmente che il magistrato faccia, e soltanto, il magistrato, e non possa più essere distaccato in un ministero, in un ufficio politico, in un ufficio studi.

Secondo. Massimo rigore nel vietare le esternazioni improprie, le apparizioni televisive e le interviste sui processi in corso, comunque l’autopromozione mediatica.

Terzo. Divieto che un magistrato possa transitare senza scosse dalla magistratura all’attività politica. Se vuole farlo, si dimetta dalla magistratura ed affronti la nuova carriera libero da ogni condizionamento pregresso e futuro.

Quarto. Una riforma dei criteri di selezione dei componenti togati del Csm, per evitare finalmente che le trasversalità correntizie incidano sulla selezione dei dirigenti degli uffici, sulle decisioni disciplinari, su quant’altro potrebbe essere deviato dall’esistenza di rapporti impropri.

È difficile dire chi potrà, oggi, impostare riforme di questo tipo (le riforme di cui sta discutendo il mondo politico sono, al momento, di tutt’altro segno). Potrebbe, forse, essere la stessa magistratura organizzata a farsi carico, in un sussulto d’orgoglio, dei suoi problemi, nel tentativo di un’autoriforma salvifica dei principi di rigore, d’indipendenza e di onestà ai quali dovrebbe ispirarsi, sempre, l’attività dei magistrati.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7601&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #43 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:29:39 am »

20/7/2010

Fuori dal Csm i legulei di parte
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Fino a che non emerga un’eventuale prova contraria, nessuno è legittimato a pensare che Mancino, contattato da Lombardi, si sia comportato diversamente da quanto ha dichiarato alla Stampa.

Abbia, cioè, ignorato le richieste che gli venivano rivolte dal conterraneo geometra campano affinché si adoperasse per la nomina di Marra a presidente della Corte di appello di Milano.

Rimane, comunque, il fatto che egli ricevette Lombardi, ascoltò le sue richieste e, soprattutto, votò a favore di Marra insieme al primo presidente della Cassazione, risultando in questo modo determinante per la vittoria del candidato a favore del quale vi erano state tante pressioni.

Dalle cronache di questi giorni è d’altronde emerso che più d’uno furono i componenti del Csm che, destinatari di tentativi d’interferenza, votarono per Marra. Anche qui, forse, una coincidenza. Bene ha comunque fatto il presidente Napolitano a rifiutare che il Consiglio in carica, ormai prossimo alla scadenza, mettesse all’ordine del giorno il tema delle regole deontologiche interne al Csm e ad affermare che occorre essere in ogni caso attenti a non gettare ombre su coloro che si pronunciarono, al di fuori da ogni condizionamento, su quella proposta concorrendo alla sua approvazione.

È evidente, infatti, che il tema della correttezza deontologica in seno al Csm difficilmente avrebbe potuto essere affrontato con sufficiente distacco ed equilibrio da coloro che sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti nelle polemiche. È d’altronde altrettanto evidente che, nell’interesse dell’istituzione prima ancora che dei singoli suoi componenti, occorra evitare che si faccia di ogni erba un fascio: poiché è un fatto che anche in questo Consiglio Superiore, nonostante le decisioni che hanno suscitato perplessità, vi sono consiglieri al di sopra di ogni sospetto.

Piuttosto, di fronte allo sconcerto suscitato dalle troppe vicende consiliari discutibili, varrebbe la pena di cominciare a ragionare con serietà sul modo con il quale il Csm suole affrontare i suoi problemi. Per cercare, in qualche modo, di rimediare agli scompensi più rilevanti.

Due sono i nodi che devono essere affrontati in modo prioritario: il peso strabordante delle correnti, i rapporti con la politica. Due nodi che, sia pure in modo diverso, condizionano le decisioni del Consiglio.

Il peso delle correnti è assolutamente asfissiante. Lo era già anni fa, quando ho fatto io stesso parte del Consiglio come componente laico eletto dal Parlamento. E mi dicono che oggi sia molto peggio. Già allora la questione avrebbe comunque dovuto essere messa all’ordine del giorno dalla stessa magistratura come questione prioritaria. Ma è difficile pensare che, senza una spinta forte, senza, magari, uno scandalo, l’ordine giudiziario sia in grado di autoriformare se stesso, rinunciando a qualche abitudine consolidata o a qualche privilegio o potere di qualche suo dirigente. Ed infatti non è accaduto nulla. Né la politica ha avuto la forza d’imporre alcunché dall’esterno.

Le interferenze della politica sul Consiglio sono meno appariscenti, ma, forse, più subdole. Nella magistratura c’è sempre stata l’orgogliosa difesa della propria indipendenza dalla politica. E, quando la politica ha cercato di spostare gli equilibri all’interno del Consiglio Superiore (oltreché nei rapporti fra potere politico ed esercizio della funzione giudiziaria), essa ha, giustamente, reagito con veemenza.

Eppure, nei fatti, sovente il Consiglio Superiore non è stato insensibile alle sirene dei partiti, alle interferenze, agli scambi. Magistrati che cercavano la simpatia e l’appoggio dei politici; politici che cercavano a loro volta di appoggiare per acquisire meriti e potere; rapporti con il mondo dei partiti specificamente coltivati attraverso il cordone ombelicale offerto dalla presenza dei consiglieri laici di nomina parlamentare, sovente intesi come mera cinghia di trasmissione della volontà del segretario politico che li aveva designati.

Quale rimedio? Al momento non ne vedo molti. Forse, soltanto, l’appello a regole di buon governo e di ritrovata dignità. È un fatto, per esempio, che se i partiti anziché eleggere quali componenti del Csm persone autorevoli dell’Università o dell’avvocatura, in quanto tali (ragionevolmente) autonomi dai partiti che li hanno designati, preferiscono mandare in Consiglio politici di lungo corso o, peggio, come è talvolta accaduto, piccoli avvocati senza prestigio, è più facile che il cordone ombelicale si rafforzi.

Ecco, allora, l’auspicio. La magistratura ha già eletto i componenti del nuovo Consiglio. Fra di essi spiccano alcune persone di grande carisma. La politica faccia, ora, al meglio le sue scelte. Dico apertamente che un vicepresidente professore, lontano dal mondo e dalle temperie della politica, non aduso a compromessi ed a giochi di potere, eticamente attrezzato e indipendente, dopo gli scandali che stanno emergendo in questi giorni dovrebbe essere scelta assolutamente prioritaria. Come assolutamente prioritaria dovrebbe essere la preoccupazione di mandare al Consiglio consiglieri laici seri che non siano meri esecutori d’ordini e direttive di questo o di quel segretario di partito.

Ma le speranze sono poche. Ho letto che i partiti, data la difficoltà di trovare un accordo, non sono, per il momento, neppure in grado di eleggere i nuovi consiglieri. C’è addirittura il rischio che, nel gioco dei veti contrapposti, i tempi previsti per l’insediamento del nuovo Consiglio si consumino senza risultato e che quello in carica sia addirittura prorogato. Sarebbe una beffa, uno sberleffo a quanti (pochi) credono ancora nella serietà delle istituzioni. Altro che speranza di rinnovamento e serietà.

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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 02, 2010, 05:16:39 pm »

2/10/2010

Cosa serve davvero alla giustizia

CARLO FEDERICO GROSSO

La giustizia costituisce sicuramente, oggi, una priorità. Nove milioni di processi pendenti sono davvero, come ha detto Berlusconi in Parlamento, «un macigno» che «dovremmo, tutti, voler rimuovere». In questa prospettiva era inevitabile che il tema dell’efficienza della giustizia comparisse fra i cinque punti del programma di governo.

Berlusconi, sempre in Parlamento, ha tracciato la sua linea: riforma costituzionale che consenta di ristabilire fra i poteri dello Stato un giusto equilibrio (equilibrio a suo dire turbato da un uso politico della giustizia da parte di alcuni magistrati); riforma costituzionale che assicuri parità fra difesa ed accusa nel processo penale attraverso la separazione delle carriere e la spaccatura in due del Csm; legge ordinaria che garantisca l’accelerazione dei processi; piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili pendenti; piano carceri che consenta di ridurre il sovraffollamento. Ed ancora: attuazione della delega per la semplificazione dei riti del processo civile, aumento delle risorse per la giustizia. Davvero, tuttavia, si tratta di un progetto funzionale, destinato a garantire l’obiettivo di una giustizia penale e civile finalmente efficiente? Dimentichiamoci, per un istante, che obiettivo primario di questo governo in materia di giustizia sembra essere stato, fino ad ora, assicurare l’impunità al presidente del Consiglio attraverso un’elaborata rete di leggi personali. Dimentichiamoci, anche se è difficile, gli attacchi pronunciati ripetutamente dallo stesso presidente contro la magistratura «politicizzata» che, a suo dire, tramerebbe nell’ombra per rovesciarlo (attacchi ripetuti pesantemente ieri sera, al rientro dalle sue fatiche parlamentari, davanti ad un gruppo di seguaci plaudenti). E domandiamoci se gli interventi prospettati ufficialmente in Parlamento siano davvero idonei a tranquillizzare sul conseguimento del dichiarato obiettivo di efficienza.

La mia risposta è assolutamente negativa. Come tecnico del diritto, lette le parole pronunciate dal presidente del Consiglio, mi sono domandato quante, e quali, delle iniziative menzionate prevedano rimedi in grado di superare concretamente questa, o quella, specifica causa di ritardo senza danneggiare l’ordinata gestione dei processi. Pressoché nessuna.

Consideriamo due dei principali interventi prospettati: l’approvazione di una legge che consenta l’accelerazione dei processi, un piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili pendenti. Sul primo versante, una legge con quale contenuto? Se si trattasse di una rivisitazione del c.d. «processo breve», che è sempre in cima all’agenda berlusconiana nonostante il veto dei finiani, l’obiezione sarebbe infatti radicale: imponendo, pena la loro estinzione, tempi rapidi precostituiti ai processi penali senza che siano state previamente assicurate le condizioni per una loro altrettanto rapida celebrazione, il risultato sarebbe l’ecatombe dei processi e pertanto la denegata giustizia generalizzata. Dalle parole del presidente non si ricava, d’altronde, l’indicazione di nessun altro progetto.

Che cosa significa, d’altro canto, «piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili»? Significa trasferire per intero l’ammontare dei processi dalla competenza del giudice togato alla rete di una giustizia «privatizzata» allo scopo di consentire soluzioni rapide perché sbrigative? E con quali garanzie per le parti? Ancora una volta i finiani, giustamente preoccupati, hanno ammonito: «Siamo d’accordo a smaltire le cause civili pendenti, ma non saremo mai d’accordo con una legge che tolga la possibilità, anche ad un solo cittadino, di avere la giustizia che attende dal suo giudice civile». E senza l’appoggio dei finiani, come si è capito, la maggioranza non andrà lontano.

E’ giusto, d’altra parte, prevedere l’aumento delle risorse destinate alla giustizia ed ipotizzare la realizzazione di un piano carceri volto a ridurre il sovraffollamento. Peccato che il presidente del Consiglio non abbia indicato a quanto potrebbero ammontare i nuovi investimenti ed abbia dovuto ammettere che il piano carceri già in via di realizzazione non abbia, fino ad ora, assicurato grandi risultati.

Rimangono, per altro verso, le annotazioni a mio avviso più inquietanti: da un lato, la dichiarata necessità di riaffermare la supremazia della politica sulla magistratura; dall’altro, la separazione delle carriere dei magistrati e lo sdoppiamento del Consiglio Superiore. Questi temi non hanno ovviamente nulla a che vedere con la dichiarata necessità di recuperare efficienza alla macchina giudiziaria.

Con il primo si tende a ripristinare il sistema delle immunità dei politici, reso necessario, si sostiene, da un asserito uso politico della giustizia da parte dell’ordine giudiziario. La posta in gioco è, comunque, sempre la stessa: come garantire al presidente del Consiglio, pur con i paletti imposti dai finiani, di sfuggire all’epilogo naturale dei processi nei quali è coinvolto.

Con il secondo, a parole, si tende a realizzare il principio costituzionale della parità fra accusa e difesa nel processo. Sullo sfondo si profila, peraltro, ancora una volta, l’obiettivo d’indebolire le procure della Repubblica, degradando i pubblici ministeri ad avvocati dell’accusa e privandoli della gestione delle indagini, affidata, come si prevede, ad una polizia giudiziaria che raccoglie prove, decide quali indagini coltivare, con quanta rapidità, con quali mezzi.

Perché, allora, agganciarli al tema dell’efficienza, considerato assolutamente prioritario? E, più in generale, quanto davvero sta a cuore, a Berlusconi ed alla sua maggioranza, l’asserita priorità di una giustizia efficiente, e quanto, piuttosto, prioritario è l’obiettivo di coprire, proteggere, tutelare, garantire, difendere dall’esercizio dell’attività giudiziaria? E fino a che punto Fini, ed i finiani, sapranno avventurarsi lungo la strada del distacco per assicurare al Paese, come dicono, legalità e Stato di diritto?

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