LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 07, 2007, 11:55:03 am



Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO.
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2007, 11:55:03 am
7/10/2007
 
Se giudici e politici ormai pari sono
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
C’è analogia fra il clima politico del 1992 e quello del 2007, fra i tempi di Mani Pulite e l’antipolitica di oggi. Vi sono, tuttavia, alcune rilevanti differenze. Allora non tutto il mondo politico era travolto dall’ira popolare e c’era comunque una speranza di uscita democratica dalla degenerazione. Oggi tutti i partiti sembrano invece coinvolti nel discredito; una via d’uscita dalla crisi sembra pertanto molto più difficile. Si salvano, per il loro prestigio personale o istituzionale, talune grandi personalità, come il Capo dello Stato. Si assiste, d’altro canto, al successo popolare dell’antipolitico per eccellenza. Di quel Grillo, comico di professione, che sta cavalcando gli umori ancestrali della gente contro il potere ufficiale. Per altro verso, mentre all’epoca di Mani Pulite c’era una fiducia senza tentennamenti nel potere giudiziario e una procura della Repubblica che dettava l’agenda del Paese, oggi quella fiducia nella magistratura si è in larga misura sfrangiata. La gente è più avveduta, distingue, talvolta critica apertamente. Sicuramente non è più propensa a credere ciecamente alle iniziative giudiziarie. Al contrario, diffida della giustizia.

C’è inoltre una crisi in molti elettori di sinistra. Una parte di essi riteneva che con l’avvento del governo Prodi le tensioni fra politica e giustizia sarebbero scomparse. Alcune cose sono sicuramente cambiate: ad esempio, non ha più costituito intento dichiarato della politica porre limiti alla libertà di indagine, è cessato l’attacco sistematico al mondo giudiziario. Tuttavia, non si è giunti all’idillio. Le leggi vergogna non sono state abrogate, le risorse per il funzionamento della macchina giudiziaria non sono state reperite, il rapporto fra mondo politico e mondo giudiziario continua ad essere complicato. Lo dimostrano le iniziative e le accese discussioni di questi giorni.

Quali reazioni si sono, a loro volta, sviluppate contro l’antipolitica dilagante? C’è stato un grande agitarsi sui temi della riduzione del numero dei parlamentari, del contenimento dei consigli di amministrazione e dei consiglieri comunali e regionali, della riduzione delle prebende e dei privilegi, delle auto blu. È davvero sufficiente per riacquistare consensi? O ci vuole, a questo punto, ben altro?

Veniamo alle vicende che hanno infiammato i palazzi in quest’ultima settimana. Com’è noto, giorni fa Mastella, sulla base dei risultati di un’ispezione ministeriale, aveva chiesto al Csm di trasferire in via cautelare dal suo ufficio il pubblico ministero calabrese De Magistris, che sta conducendo importanti indagini penali che coinvolgono personalità politiche di rilievo fra cui il presidente del Consiglio. La ragione di tale iniziativa sarebbe individuabile in un’asserita sua incompatibilità ambientale e nella commissione di atti abnormi nell’esercizio della funzione giudiziaria.

Non conoscendo gli atti, non sono in grado di esprimere giudizi sulla vicenda. Posso soltanto manifestare un generico stupore di fronte alla peculiarità dell’iniziativa del ministro e alle conseguenze che essa rischia di produrre sul terreno delle inchieste calabresi in corso. Attendo comunque le valutazioni del Csm, confidando che le procedure siano state regolari e che non si sia inteso colpire un magistrato scomodo chiedendo un trasferimento non giustificato. L’iniziativa disciplinare assunta nei confronti di De Magistris era, comunque, destinata a suscitare reazioni. Esse si sono puntualmente manifestate, addirittura al di là di quanto era prevedibile. La televisione ha contribuito a enfatizzarle oltre misura. Si è, fra l’altro, assistito a inaccettabili giustizie sommarie televisive celebrate sull’onda della pressione popolare e alla sorprendente apparizione sul video di magistrati pronti a partecipare, sorridenti, allo spettacolo. È giusto che i magistrati, se indebitamente attaccati, si difendano. Vi sono tuttavia luoghi e modi a ciò deputati. Non ritengo che sia opportuno che qualcuno di essi si precipiti in televisione, coccolato dal conduttore e applaudito dagli spettatori, parli di se stesso e del coraggio con il quale difende legalità e diritti dei cittadini, di come contrasta le illegalità dello Stato e degli altri poteri, di come sia di conseguenza attaccato, ostacolato, delegittimato.

Per altro verso, un magistrato che, presentandosi a una trasmissione televisiva, accarezza i sentimenti già accesi della gente, solletica gli istinti e le rabbie degli ascoltatori, cerca il consenso popolare, è un magistrato che rischia di non giovare neppure alla categoria cui appartiene. Diventa un Masaniello, una caricatura, finisce per identificarsi pericolosamente con Grillo, si trasforma in una parodia. Se si trattasse, d’altronde, di una mera operazione di promozione della propria immagine sulla pelle dei cittadini amministrati, per cercare, magari, visibilità utile per altre avventure, la circostanza sarebbe altrettanto grave.

Ecco perché, come dicevo all’inizio, oggi il contesto nel quale ci ritroviamo è peggiore di quello del ’92. Allora c’era una Repubblica al tramonto, ma c’era speranza nel riscatto della politica, c’era fiducia nell’attività taumaturgica, moralmente ineccepibile, del potere giudiziario, c’era la certezza di uscirne in qualche modo. Oggi c’è una classe politica allo sbando, delegittimata nel suo insieme dai cittadini ma, anche, una magistratura che non sempre sembra all’altezza dei suoi compiti, che pare aver perso talvolta contezza del suo ruolo, che troppo spesso pasticcia. C’è, dunque, una Repubblica doppiamente infranta.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ministro, evitiamo quella prova
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2007, 03:53:59 pm
17/12/2007 - INTERCETTAZIONI
 
La casta al telefono
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Poiché non conosco gli atti del processo di Napoli, non sono in grado di valutare se Berlusconi abbia o no commesso corruzione o istigazione alla corruzione di uno o più senatori. Posso peraltro affermare che, in astratto, la corruzione consiste nel dare o promettere denaro o altra utilità a un pubblico ufficiale perché compia un atto di ufficio o un atto contrario ai doveri di ufficio.

Posso soggiungere che un senatore il quale esprime un voto a favore o contro un governo in carica compie, verosimilmente, un atto del suo ufficio. Posso pertanto concludere che dare o promettere vantaggi privati ad un parlamentare perché voti in un modo piuttosto che in un altro costituisce corruzione o, se l’invito non è accolto, istigazione alla corruzione. L’espressione di voto da parte di un parlamentare è, d’altronde, atto discrezionale. Ciò significa che all’eventuale compravendita di voti si applica la disciplina elaborata in materia di atti discrezionali: se il parlamentare, per effetto della dazione o della promessa di denaro o di altri vantaggi, ha votato diversamente da come avrebbe fatto se non fosse stato corrotto, la sua condotta integra addirittura la forma più grave di corruzione, quella per atti contrari ai doveri di ufficio. Né si può in qualche modo sostenere che l’accettare denaro o altra utilità per esercitare in un modo piuttosto che in un altro la funzione è coperta dall’immunità parlamentare, trattandosi d’ipotesi estranea all’ambito di operatività di tale istituto.

A questo punto, al di là delle polemiche strumentali e degli attacchi alla Procura della Repubblica di Napoli innescati dopo l’esplosione pubblica della questione Berlusconi, non resta che attendere che la magistratura accerti definitivamente con serietà ciò che è realmente accaduto. È oltretutto grande interesse dei cittadini venire a sapere se c’è stata o non c’è stata corruzione o tentata corruzione di senatori, poiché si tratta di una vicenda che coinvolge addirittura il capo del maggior partito d’opposizione. Il tema dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di questo tipo costituisce d’altronde un ulteriore nodo di grande rilievo politico e giuridico.

Nei giorni scorsi, appena la notizia dell’indagine napoletana è stata improvvisamente pubblicizzata da la Repubblica, si è ancora una volta - com’era accaduto per Unipol - assistito a un balletto corale del mondo politico in materia di intercettazioni telefoniche, libertà di stampa, diritto dei cittadini a essere informati. Quasi tutti d’accordo, senza distinzione di colore o di casacca: le intercettazioni telefoniche costituiscono un rischio d’indebita interferenza nella vita privata e occorre pertanto circoscriverle, la loro pubblicazione costituisce indebita violazione della privacy, è giunto il momento di porre finalmente un freno alla licenza dilagante dei giornalisti approvando una legge restrittiva in materia di intercettazioni e di loro pubblicazione. Essa in realtà è già stata scritta, pende in Parlamento. Basta avere il coraggio di approvarla. Avanti tutta, allora.

Una tristezza. La legislazione vigente pone vincoli di segretezza su determinati atti d’indagine penale; tali vincoli non sono stabiliti nell’interesse dei singoli, ma dell’ordinato esercizio dell’attività giudiziaria, che non può rischiare di essere turbata da fughe di notizie. La legge prevede, ulteriormente, vincoli di segretezza nell’interesse della riservatezza e della libertà dei soggetti. Anch’essi sono vincoli sacrosanti, che rispondono all’esigenza di non vedere processati in piazza fatti di natura esclusivamente personale. Tali vincoli devono essere tuttavia bilanciati con l’esigenza, altrettanto forte, d’informare la gente su circostanze, anche private, che hanno comunque un interesse pubblico. In questa prospettiva, maggiore è l’esposizione pubblica di una persona, più elevata diventa la possibilità che le notizie che lo riguardano assumano una dimensione di interesse pubblico, come, appunto, quelle che concernono i parlamentari, i ministri, i sindaci, in genere i politici.

Nel complesso si tratta di una buona legislazione, che cerca di contemperare con equilibrio esigenze contrapposte. Perché allora cambiarla, con il rischio di limitare la libertà di stampa? Nel caso della ventilata compravendita di senatori da parte di Berlusconi, divulgare la notizia dell’inchiesta prima della caduta del segreto investigativo non era sicuramente consentito; se qualcuno l’ha fatto, ne risponderà, giustamente, davanti al giudice. Una volta caduto il segreto, pubblicare tale notizia, in tutti i suoi particolari, comprese le intercettazioni, costituiva invece esercizio del sacrosanto diritto/dovere d’informare la gente su vicende di rilievo concernenti un importante personaggio politico. Guai se, domani, non fosse più possibile farlo, o anche soltanto se farlo dovesse risultare in qualche modo più difficile o rischioso. A tutti noi interessa infatti sapere se Berlusconi, o un altro qualsiasi eletto dal popolo, ha davvero commesso fatti ostituenti illecito penale o comunque accadimento moralmente riprovevole.

Al di là delle possibili iniziative del mondo politico in materia di segreti o quant’altro, c’è un profilo che induce a ottimismo: che un bravo giornalista, quando acquisisce una notizia riscontrata d’interesse pubblico, inevitabilmente la diffonde.

Diciamolo forte: è un garanzia per la democrazia.

 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Di male minore in male minore
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 11:28:06 pm
25/7/2008
 
Di male minore in male minore
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La maggioranza targata Berlusconi ha fatto nuovamente tombola. D’un colpo solo ha approvato definitivamente il lodo Alfano sull’immunità del presidente del Consiglio e il decreto sicurezza. Una dimostrazione indiscutibile di forza e, nel contempo, di capacità di operare. Terminato il primo round, dichiarazioni bellicose annunciano che a settembre s’inizierà la sistemazione definitiva del capitolo giustizia. Alla luce di quanto è accaduto nei primi mesi di governo, è verosimile pensare che anche in questo caso Berlusconi potrebbe fare centro. Se dovesse proseguire con le stesse modalità con le quali ha agito fino ad ora, per giustizia e Stato di diritto potrebbe essere, tuttavia, il disastro.

Nella fase riformatrice che si è appena conclusa la maggioranza parlamentare ha sparato altissimo. Per salvare Berlusconi dall’incalzare dei suoi procedimenti penali, essa ha dapprima deciso d’inserire nel decreto sicurezza l’emendamento blocca processi: per fermare i suoi processi, prevedeva di bloccare, nella sostanza, una porzione cospicua di giustizia italiana. Contemporaneamente, il Guardasigilli ha predisposto un rinnovato lodo Schifani diretto a coprire d’immunità le quattro più alte cariche dello Stato senza incorrere, per quanto possibile, nelle censure espresse a suo tempo dalla Corte Costituzionale. Il nuovo lodo è stato immediatamente approvato dal Consiglio dei ministri e trasmesso al Parlamento per l’approvazione.

A questo punto, con la mediazione preziosa del Capo dello Stato, si è raggiunto un compromesso. L’emendamento blocca processi è stato sostituito con un nuovo emendamento meno sconvolgente. Il lodo Alfano, pur giudicato anch’esso illegittimo da numerosi autorevoli costituzionalisti, ha avuto disco verde in Parlamento ed è stato velocemente approvato dalla maggioranza parlamentare e quindi promulgato dal Presidente della Repubblica. Male minore, hanno osservato molti commentatori. Di fronte all’esigenza, giudicata imprescindibile dalla maggioranza di governo, di bloccare per la durata della carica i processi penali del presidente del Consiglio, si è quantomeno evitato di rinviare assurdamente migliaia di altri processi penali.

Stabilito di cancellare l’emendamento blocca processi, non più necessario per salvaguardare Berlusconi, la maggioranza non ha, per altro verso, preso la decisione più ragionevole: eliminarlo e basta. Ha sostituito l’emendamento originario con un nuovo, più circoscritto, provvedimento di sospensione discrezionale di alcuni processi. Gli osservatori più attenti hanno subito rilevato che, nella sua specifica configurazione, anche il nuovo emendamento avrebbe rischiato di creare non pochi inconvenienti all’ordinato esercizio della giurisdizione. Comunque, anche in questo caso, male minore, hanno osservato numerosi commentatori. L’importante era che fosse spazzato l’obbrobrio del salva processi originario.

In questi giorni si è cominciato a discutere in commissione Giustizia della Camera il disegno di legge sulle intercettazioni. Si tratta di un provvedimento che contiene una novità importante: l’obbligo di espungere dagli atti processuali le intercettazioni che riguardano terzi estranei ai processi e il divieto della loro pubblicazione. Un’esigenza sacrosanta, diretta a evitare abusi nei confronti della privatezza delle persone. Nel contempo, tale provvedimento prevede peraltro novità preoccupanti, come il totale divieto di pubblicare notizie concernenti indagini penali in corso e la previsione di pesanti pene detentive nei confronti dei giornalisti, con buona pace del diritto-dovere di informare e del controllo popolare sull’esercizio dell’attività investigativa. Ieri sono apparsi sui giornali cauti segnali d’apertura, in materia, da parte di taluni esponenti politici: non più divieto totale d’informare, non più galera per i giornalisti; semmai, semplici restrizioni e, soltanto, forti sanzioni pecuniarie per gli editori in caso d’infrazione. Poiché pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori sono, in ogni caso, inevitabilmente destinate a provocare rilevanti turbative sulla libertà di stampa, dovremo, ancora una volta, acconciarci a commentare che, fortunatamente, è stato garantito il minor male possibile data la temperie del momento?

Di mediazione in mediazione, il quadro delle riforme compiute o in gestazione in questo primo spicchio di legislazione è comunque desolante. Si è trasformato il presidente del Consiglio in una sorta di Principe liberato, sia pure a termine, dalle normali, doverose, responsabilità giudiziarie per i fatti dei quali è accusato. Si è introdotto un meccanismo inutile, se non addirittura nocivo, di sospensione facoltativa dei processi di primo grado concernenti i reati minori. Con la nuova disciplina delle intercettazioni si rischia di turbare, in un modo o nell’altro, l’esercizio della libertà di stampa.

Ecco perché, di fronte alle baldanzose dichiarazioni sulla ventilata riforma d’ottobre della giustizia italiana, vi sono motivi di grande preoccupazione.

Non vorrei che Berlusconi, nella sua radicata volontà di ribaltare i rapporti di forza fra i poteri dello Stato, sparasse nuovamente più in alto possibile, per addivenire poi, nel quadro di una mediazione resa artatamente necessaria, a risultati che costituiscono comunque un male, sia pure minore di quello paventato. Sarebbe, come dicevo, il disastro per la giustizia e per lo Stato di diritto.

A questo punto non credo che le pur utili mediazioni realizzate fino ad oggi potrebbero più essere d’aiuto.

Nessuna copertura, nessun salvacondotto potrebbe più essere accettato o condiviso.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Dopotutto, auguri ad Alfano
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 10:54:26 am
5/9/2008
 
Dopotutto, auguri ad Alfano
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
A un importante seminario sulla giustizia organizzato a Roma dall’Udc, il ministro Alfano, intervenendo nella discussione, ha assunto una posizione di grande equilibrio. Era la prima volta che egli esponeva pubblicamente le sue intenzioni in tema di riforma complessiva della giustizia.

Fra gli oppositori dell’attuale maggioranza politica c’era una certa apprensione per ciò che egli avrebbe annunciato. Creavano infatti timori e preoccupazioni le infauste precedenti iniziative del governo, volte ad assicurare l’immunità penale al presidente del Consiglio.

Ele frequenti dichiarazioni dello stesso presidente su possibili interventi di natura costituzionale in materia di processo e di ordinamento giudiziario. La proposta del ministro, nel metodo, è stata invece ineccepibile.

Egli ha osservato che la giustizia è una delle grandi emergenze del Paese: otto milioni di processi pendenti e ritardi di anni nella soluzione delle controversie costituiscono un’urgenza ineludibile. Di qui la grande sfida che ci attende: una riforma che sappia restituire tempi ragionevoli e certezza ai processi civili e penali, ponendo il cittadino al centro dell’azione riformatrice. «Metterò pertanto innanzitutto in cantiere - ha affermato - la riforma della giustizia civile, ormai al limite della denegata giustizia; affronterò subito dopo i problemi del processo penale, imponendo ritmi più serrati, semplificando il sistema dei reati, restituendo certezza alla pena; mi occuperò infine del tema della detenzione, cercando di privilegiare in ogni modo la strada delle sanzioni alternative e dell’esecuzione penale fuori dal carcere».

Quanto ai temi di rilevanza costituzionale, quali l’obbligatorietà dell’azione penale, la struttura ed i poteri del Csm, la separazione delle carriere, sui quali v’è stata, ancora di recente, polemica tra le forze politiche, egli ha garantito che non avrebbe forzato i tempi di un’eventuale riforma. Essa, se necessario, sarebbe stata affrontata a tempo debito e con le dovute cautele, cercando comunque il confronto e la maggiore condivisione possibile.

Poiché, in quel convegno, mi è toccato di prendere la parola subito dopo il ministro, non ho esitato ad esprimere il mio apprezzamento per quanto avevo appena ascoltato. E l’ho fatto con convinzione. Forse le parole pronunciate dal Guardasigilli erano troppo generiche e lasciavano pertanto aperti molti interrogativi, forse nascondevano le reali intenzioni del governo sulla ridefinizione, nel lungo periodo, dei rapporti di forza tra i poteri dello Stato. Era comunque importante, mi pareva, che il ministro, anziché minacciare sfracelli immediati come si poteva paventare, mostrasse moderazione e, soprattutto, metodo condivisibile nell’indicare modalità, obbiettivi e priorità di intervento.

Davvero tutto bene, dunque? Sicuramente meglio di quanto si poteva temere. Le preoccupazioni, comunque, permangono. Ne accennerò alcune. Mi domando, prima di tutto, che cosa accadrebbe se il presidente del Consiglio tornasse a dettare l’agenda in materia di giustizia, chiedendo interventi immediati e radicali diretti a stravolgere gli equilibri di potere fra politica e magistratura come aveva fatto a fine luglio. Che farebbe il ministro, saprebbe proseguire sulla linea di saggezza che ha tracciato ieri l’altro o sarebbe costretto ad allinearsi? E se decidesse di non allinearsi, che cosa accadrebbe?

Ancora, quale opposizione di fronte alle proposte della maggioranza? Un’opposizione dura alla Di Pietro? Un’opposizione ragionata caso per caso? La ricerca di un’intesa, nella speranza di riuscire a condizionare comunque in qualche modo la maggioranza? E fino a che punto cercare accordi o condivisioni? La prima opzione mi sembrerebbe una scelta comunque sciagurata. Negli altri casi, nella condizione dell’attuale opposizione, trovare il giusto equilibrio potrebbe essere peraltro non sempre facile.

Ma torniamo al tema dal quale sono partito. Il ministro, come ho riferito, ha fornito le sue, apprezzabili, indicazioni di metodo in materia di riforma della giustizia. Se il metodo indicato verrà rispettato, al momento della pubblicazione dei relativi disegni di legge si potrà giudicare il merito delle proposte concretamente formulate. Ottenere i risultati prefissi, data la condizione attuale della giustizia, sarà comunque molto difficile. Sarà tanto più difficile se le riforme delle leggi e dell’organizzazione degli uffici giudiziari, in controtendenza rispetto alle scelte operate dalla legge finanziaria, non saranno sostenute da adeguati investimenti.

Ministro Alfano, comunque auguri. Spero davvero che lei, con i suoi collaboratori, riesca a confezionare con abilità gli ingredienti necessari ad una riforma efficace dell’ordinario sistema della giustizia civile e penale, senza stravolgere gli equilibri costituzionali e senza introdurre normative inutilmente punitive per l’ordine giudiziario. Sarebbe un grande servizio per il Paese e sarei il primo a rallegrarmi per il suo successo.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il diritto di dire basta
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 05:12:43 pm
14/11/2008
 
Il diritto di dire basta
 

CARLO FEDERICO GROSSO
 

Per il Vaticano interrompere l’alimentazione artificiale di Eluana Englaro costituisce omicidio doloso, addirittura un assassinio: lo ha dichiarato ieri l’altro il cardinale Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute. E ieri sera mons. Fisichella commentava: «È eutanasia di fatto e di diritto». La Cassazione, un anno fa, aveva valutato diversamente. Con un’importante interpretazione della legislazione vigente, aveva affermato che, a determinate condizioni, sospendere la somministrazione artificiale di sostanze vitali a una persona che si trova in stato vegetativo irreversibile costituisce esercizio legittimo di un diritto. È pacifico che ogni persona capace d’intendere e di volere ha il diritto di rifiutare le cure mediche e di lasciarsi morire.

Lo si ricava dalle norme costituzionali (artt. 2, 13, 32 Cost.), dalle fonti giuridiche soprannazionali (Convenzione di Oviedo e Carta dei diritti fondamentali dell’Ue), dalla giurisprudenza ben salda della Corte di Cassazione in materia di consenso informato quale condizione di liceità dell’intervento medico. Ciò significa che ognuno di noi ha la facoltà di rifiutare una terapia in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale: si tratta dell’esercizio di un diritto fondamentale di libertà. Né si può sostenere che il rifiuto consapevole delle cure, quando conduca alla morte, costituisca un’ipotesi di eutanasia: tale rifiuto esprime, semplicemente, la libera scelta del malato che la malattia segua il suo decorso naturale.

Il problema, a questo punto, è stabilire quale sia la regola applicabile ove il malato non sia in grado di manifestare la sua volontà. La Cassazione, un anno fa, ha stabilito che può decidere il tutore. Se una persona è portata in stato di incoscienza a un pronto soccorso, il medico deve subito effettuare gli interventi urgenti imposti dal migliore interesse terapeutico. Superata l’urgenza, si ripropone peraltro la problematica del consenso informato: il medico che spiega, il paziente che decide, questa volta attraverso la volontà espressa dal suo tutore, soggetto al quale il codice civile riconosce rappresentanza anche con riferimento alla sfera degli interessi non patrimoniali.

Il carattere personalissimo del diritto alla salute impedisce tuttavia che al rappresentante legale possano essere trasferiti poteri incondizionati. Il tutore dovrà decidere, ha stabilito la Cassazione, non «al posto» del malato, ma «insieme a lui», ricostruendo la presunta volontà del paziente inconsapevole tenendo conto dei desideri da lui espressi quando era cosciente ovvero desumendo la sua volontà, dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori, dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali. Di qui l’importante principio di diritto enunciato. In caso di malato incapace tenuto artificialmente in vita, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio sanitario, ma unicamente quando sia provato con certezza che lo stato vegetativo è irreversibile e che la richiesta d’interruzione da parte del rappresentante legale corrisponde alla presumibile volontà del paziente. In applicazione di questo principio di diritto la Corte d’Appello di Milano, alla quale la Cassazione aveva rinviato la causa per la decisione di merito, verificata l’esistenza dei menzionati presupposti, a metà 2008 ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione artificiale di Eluana Englaro.

Questa decisione potrà essere condivisa, potrà essere criticata. Si tratta, in ogni caso, di un’importante operazione interpretativa «per principi» della legislazione italiana con la quale la Cassazione, in assenza di una regolamentazione specifica del testamento biologico, ha desunto la regola di giudizio applicabile attraverso un’attenta ricostruzione dei principi costituzionali, della giurisprudenza pregressa in tema di consenso informato, delle norme di diritto soprannazionale in materia.

In questo contesto, parlare d’illegittima autorizzazione all’omicidio mi sembra, quantomeno, indice di scarso rispetto per le istituzioni giudiziarie che hanno valutato e deciso. Non ho, d’altronde, mai dubitato che la suprema magistratura italiana non si sarebbe lasciata condizionare da pressioni esterne. La decisione di ieri, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Milano, conferma la libertà di giudizio dei nostri alti magistrati; ma, soprattutto, ha il grande merito di porre fine a una questione dalla grandissima rilevanza umana e sociale, sancendo il primato della libertà di decidere sulla volontà di proteggere a tutti i costi una vita in condizione vegetativa irreversibile, che non è più, propriamente, vita umana meritevole di ogni protezione giuridica.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ministro, evitiamo quella prova
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2008, 11:26:49 am
20/11/2008
 
Ministro, evitiamo quella prova
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Sul disegno di legge Alfano in materia di sospensione condizionale della pena e di «messa in prova» il governo sembra in affanno. Il provvedimento avrebbe dovuto essere approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Esponenti della Lega e di An l’hanno bloccato. Il progetto intendeva introdurre nel nostro ordinamento giuridico due rilevanti novità: una significativa innovazione della disciplina della sospensione condizionale della pena (e di altri benefici), l’introduzione dell’istituto della «messa in prova». A quanto si è appreso, con la prima novità si sarebbe inteso subordinare l’applicazione della sospensione della pena a una prestazione onerosa da parte del condannato che, grazie alla concessione del beneficio, evitava il carcere.

Oggi è previsto che, nel pronunciare una sentenza di condanna a una pena detentiva per un tempo non superiore a due anni, il giudice possa ordinare che l’esecuzione penale rimanga sospesa per cinque anni; se in tale periodo il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa specie, il reato è estinto. Nonostante che il codice penale disponga che il beneficio possa essere concesso soltanto quando il giudice «presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati», e che possa essere subordinato a determinati adempimenti (ad esempio, al risarcimento del danno cagionato alla vittima del reato), nella prassi la sospensione condizionale è venuta, pian piano, ad assumere quasi la veste di un diritto (gratuito) che non si nega a nessuno che sia condannato, per la prima volta, a una pena non superiore a due anni. In questi termini, è diventato quasi uno scandalo.

Ebbene, il ministro, giustamente, avrebbe inteso incidere su questa prassi non accettabile. Eliminando la gratuità del beneficio, e prevedendo che esso potesse venire concesso soltanto previo l’impegno a lavorare gratis a favore della collettività, si sarebbe reso sicuramente più rigoroso il sistema penale. Un segnale di maggiore severità che avrebbe inevitabilmente giovato alla serietà complessiva del nostro ordinamento giuridico. Per altro verso il ministro Alfano, riesumando un vecchio progetto di Mastella, ha previsto che ogni delinquente potesse giovarsi di un istituto per ora ipotizzato soltanto nei confronti dei minori. Secondo la nuova disciplina prevista, chi, incensurato, è sottoposto a un processo penale con l’accusa d’aver commesso un reato punito con una pena non superiore, nel massimo, a quattro anni di reclusione, può chiedere d’«essere messo alla prova» con obbligo di prestazione di lavoro utile non retribuito per un periodo determinato. Nel caso di tale richiesta, il processo può essere sospeso e la «messa in prova» concessa. Se nel periodo stabilito il soggetto messo alla prova non commette altri reati, e non infrange gli adempimenti previsti, il reato si estingue.

Capisco la ratio di tale provvedimento. Come si ricava dalla lettura della relazione che lo accompagna, in una prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative alla detenzione s’intende accentuare il principio secondo cui l’accesso al circuito carcerario deve costituire l’extrema ratio di esecuzione penale. Nello stesso tempo, poiché, nonostante l’indulto di due anni fa, esiste nuovamente, com’era prevedibile, un problema di sovraffollamento carcerario, si può sperare che, attraverso quest’ampliamento della sanzione alternativa, meno soggetti varchino le porte degli istituti di reclusione.

Come si concilia, tuttavia, questa prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative, con il rigore penale ripetutamente dichiarato, e talvolta praticato, dall’attuale compagine governativa? Com’è possibile che una maggioranza politica che ha fatto della sicurezza dei cittadini e della repressione inflessibile dei delinquenti una bandiera, improvvisamente si acconci a rinunciare al carcere nei confronti di centinaia di autori di reati, ancorché incensurati? Per altro verso, il ministro è davvero sicuro che il nuovo istituto della «messa in prova» contribuirebbe in modo decisivo a evitare il collasso «per affollamento» delle nostre carceri?

Nei commenti a caldo apparsi ieri sulla stampa è stata, soprattutto, criticata la grandissima estensione della messa in prova. Data l’elevazione della pena massima considerata rispetto a quella ipotizzata dal precedente progetto Mastella (addirittura quattro anni rispetto agli originari due), il nuovo istituto consentirebbe di evitare la condanna alla reclusione, e di estinguere agevolmente il reato, a quanti commettono una massa enorme di illeciti penali: furto semplice, corruzione per un atto d’ufficio, abuso d’ufficio, falso in bilancio, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, corruzione di minorenni, frode in commercio, reati urbanistici, reati ambientali, reati fiscali. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Si capisce, a questo punto, perché Lega ed An hanno bloccato il disegno di legge. Ho tuttavia l’impressione che chiunque abbia a cuore il ripristino d’un minimo di certezza nella pena e di effettivo rigore sanzionatorio non potrebbe apprezzare. Prima di tentare improvvide, settoriali, fughe in avanti, si pensi a un’articolata, organica, razionale, rivisitazione complessiva del sistema dei reati e delle pene.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Assassino chi guida drogato
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2008, 03:49:36 pm
27/11/2008
 
Assassino chi guida drogato
 

CARLO FEDERICO GROSSO

 
Il Tribunale di Roma ha condannato ieri a dieci anni di reclusione per il reato di omicidio doloso Stefano Lucidi, che il 22 maggio scorso, conducendo drogato l’auto di suo padre, aveva investito e ucciso due ragazzi che viaggiavano su di un motorino. Si tratta di una sentenza di grande rilievo giuridico: è la prima volta, infatti, che un giudice riconosce una responsabilità penale dolosa a carico di chi cagiona la morte guidando in stato di ebbrezza o sotto l’azione di sostanze stupefacenti.

La morte dei due ragazzi non è stata evidentemente, in questo caso, voluta da chi ha ucciso. Il giudice, riconoscendo la sussistenza del dolo eventuale, ha ritenuto tuttavia che Lucidi, essendosi messo volontariamente alla guida di un’automobile in condizioni psichiche alterate, ha, nel caso specifico, accettato il rischio di uccidere qualcuno: valutando che chi si ubriaca o si droga, e poi inizia a guidare, può mettere in conto il pericolo derivante dalle sue menomate capacità di controllo. E se lo mette in conto, non può che rispondere di omicidio doloso.

Tale decisione, in questo senso, è impeccabile, poiché, secondo le regole del nostro codice penale, chi agisce accettando il rischio che dalla sua azione scaturiscano eventi dannosi deve comunque rispondere a titolo di dolo, e non di colpa.

La sentenza è tanto più significativa se si considera che l’imputazione per omicidio doloso nel caso di specie era stata configurata dal pubblico ministero fin dall’inizio dell’indagine, ma era stata trasformata in imputazione per omicidio colposo dal giudice delle indagini preliminari al quale era stata chiesta la convalida dell'arresto. Evidentemente il pubblico ministero ha insistito nella sua impostazione giuridica e, finalmente, un giudice, quello del giudizio, gli ha dato ragione.

Fino ad ora le resistenze da parte della magistratura ad applicare la regola del dolo eventuale in casi di incidenti stradali erano state molto forti. Numerosi Procuratori della Repubblica, in ipotesi di morti cagionate da ubriachi o drogati, avevano evitato di contestare il dolo eventuale, accontentandosi dell'imputazione per omicidio colposo, temendo di non essere in grado di riuscire a dimostrare nel dibattimento che c’era stata, da parte di chi ha guidato in condizione di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, l’effettiva percezione del rischio. O che, in ogni caso, il giudice avrebbe rifiutato la configurazione delittuosa più grave.

La decisione di ieri del Tribunale di Roma ha fatto giustizia di questa, più comoda, e magari psicologicamente più tranquillante, consuetudine giudiziaria. Una valutazione esauriente delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la decisione presa ieri a Roma potrà essere fatta soltanto dopo la lettura delle motivazioni. Fin da ora si può tuttavia rilevare che il giudice ha, evidentemente, ritenuto che nel caso di specie, date le specifiche modalità con le quali il fatto è stato realizzato e la personalità dell’autore, costui ha concretamente percepito la situazione di pericolo che cagionava, ed ha pertanto accettato il relativo rischio. Si tenga presente che, secondo quanto emerge dalle notizie di cronaca, non sarebbe stata la prima volta che il giovane in questione aveva avuto incidenti, che al momento del fatto non possedeva la patente, che gli era stato contestato il passaggio ad un semaforo rosso ad alta velocità.

La sentenza appare d’altronde tanto più significativa se si considera che il Parlamento, con il decreto sicurezza approvato quest’anno, proprio per garantire una repressione più forte di chi uccide guidando in condizione di ubriachezza o sotto l'azione della droga, ha specificamente previsto l'omicidio colposo commesso «con violazione delle norme sulla circolazione stradale, da un soggetto in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti»; e lo ha punito, anziché con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni come avviene normalmente nelle ipotesi di omicidio colposo, con quella assai più grave della reclusione da tre a dieci anni.

Evidentemente il giudice di Roma, nel caso di Stefano Lucidi, non si è accontentato di questa tipologia di reato e di questa dimensione sanzionatoria (si badi che, avendo chiesto il giudizio abbreviato, il condannato godeva automaticamente della riduzione di un terzo della pena irrogata). Di fronte alle particolarità del fatto ed alle caratteristiche dell’autore, ha ritenuto di dovere comunque riscontrare la fattispecie delittuosa più grave dell'omicidio doloso. Come ha sottolineato l’avvocato delle parti civili, questa sentenza costituisce un giusto monito per coloro che hanno perso il senso della loro vita ed il rispetto della vita altrui.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Perché crollano le scuole
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 10:48:07 pm
30/11/2008
 
Perché crollano le scuole
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Un terzo delle scuole non è in regola con le prescrizioni sulla sicurezza stabilite dalla legge n. 626. Per metterle a norma sono necessari 10 miliardi di euro, forse 13. Lo ha dichiarato il sottosegretario Bertolaso in Parlamento.

È emerso altresì che dall’anno in cui è entrata in vigore la 626, le istituzioni competenti in materia di sicurezza nelle scuole ogni anno hanno prorogato la vecchia disciplina. La ragione: non ci sono i denari necessari per metterle in regola. Ciò significa che dal 1994 le norme che sono state giudicate indispensabili per la prevenzione possono essere «legalmente» infrante nei luoghi dove operano quotidianamente bambini e ragazzi. Un Paese da Terzo Mondo.

Ora, dopo che è accaduto un grave disastro, dopo che presidi allarmati denunciano pubblicamente le carenze e minacciano di chiudere le loro scuole, le risorse necessarie saranno reperite? Bertolaso ha detto: 10 miliardi costituiscono un miraggio, si può, forse, pensare di reperirne 4 indispensabili per intervenire quantomeno nelle zone a rischio sismico. Non è il massimo, ma quantomeno si cominci subito con i primi interventi e si programmino quelli successivi.

Quanto tempo sarà tuttavia necessario anche soltanto per individuare i casi urgenti, approvare i progetti, reperire i denari, realizzare le priorità? E quanto per rendere sicuro l’intero universo edilizio? Conoscendo la durata degli appalti pubblici, non oso pensarlo. Intanto, le situazioni d’insicurezza riscontrate continueranno a pesare sul capo di alunni ed insegnanti. E le corrispondenti situazioni di responsabilità, su chi peseranno?

Anche quest’ultimo non è problema di poco conto. Quando si palesa una condizione di pericolo, e non è possibile eliminarla con tempestività perché mancano le risorse o sono necessari tempi tecnici per l’esecuzione dei lavori, si pone, sempre, un problema di possibile responsabilità giuridica. O si chiude la scuola, si blocca la sala operatoria insicura, si chiude la fabbrica o, se si ritiene che il costo umano o sociale del blocco sia troppo elevato, si prosegue nelle normali attività cercando, attraverso opportune cautele, di ridurre al minimo i rischi. Qual è, peraltro, il «rischio minimo consentito», al di là del quale s’impone comunque la chiusura, e se non si chiude si risponde degli incidenti che dovessero verificarsi?

Stabilirlo è sempre difficile. In ogni caso, se si verifica un disastro, sarà il giudice a valutare dopo i fatti, a bocce ferme, secondo i suoi criteri. Chi si è trovato nella necessità di decidere, in un senso o nell’altro, rischierà comunque un processo, qualunque sia stata la sua scelta. In caso di prosecuzione dell’attività, per il disastro colposo che si sia verificato; in caso di blocco, per interruzione di un pubblico servizio, ove le ragioni della chiusura non dovessero risultare giustificate. Una situazione sommamente ingiusta.

Il presidente dell’associazione presidi, intervistato da La Stampa, ha descritto in questo modo la situazione. Ogni anno ognuno di noi è tenuto a presentare una mappa dei rischi ed a formulare le richieste di manutenzione. Ogni anno, sindaci e presidenti di Provincia, disponendo di budget insufficienti, sono peraltro costretti a scegliere gli interventi più urgenti. Noi - ha concluso - abbiamo di conseguenza imparato a convivere «con situazioni di rischio relativo», in quanto «una rigidità eccessiva nell’applicazione delle norme sulla sicurezza comporterebbe la chiusura di molte scuole». Ma se hanno fatto tutto il possibile per fronteggiare la situazione, se si sono dannati l’anima per trovare fondi e risorse, perché dovrebbero rischiare quantomeno onore e denaro affrontando un processo penale per omissione di intervento?

E poi, quali sono, davvero, gli interventi doverosi se, come si è visto, attraverso il sistema delle proroghe si è addirittura legalizzata, nel mondo scolastico, l’infrazione di ciò che si ritiene comunemente indispensabile per assicurare la sicurezza?

Le responsabilità sono ben altre. Sono le responsabilità degli autori di eventuali negligenze clamorose (presidi, assessori, funzionari, quant’altri avrebbero dovuto intervenire o sono intervenuti male), di errori nell’esecuzione dei lavori, d’inerzie senza giustificazione; o di chi, dovendo usare i denari pubblici con scienza e coscienza, ha compiuto frodi, truffe, malversazioni, ruberie.

Che dire, d’altronde, di coloro che, investiti a livello nazionale di responsabilità di governo, non hanno predisposto strumenti, risorse, mezzi, programmi, consentendo che il patrimonio edilizio degradasse e diventasse, sovente, un pericolo per chi vi lavora? In questi giorni si mormora che in Friuli il 51% degli edifici sarebbe privo di agibilità, in Lombardia addirittura il 70%. C’è un’evidente responsabilità politica. Ma non si potrebbe intravedere, pure, qualche profilo di responsabilità giuridica?

Il rischio è, tuttavia, ancora un altro. Quando scoppia uno scandalo la gente discute, dileggia, recrimina, denuncia. Passata la buriana cala, di solito, il silenzio. Quando la questione sicurezza nelle scuole scomparirà dalle pagine dei giornali, temo che scomparirà anche il problema, e presidi, assessori, responsabili tecnici torneranno a dover fare i loro difficili conti quotidiani con le risorse insufficienti e la mancanza di programmazione nazionale. Fino al prossimo disastro, al prossimo funerale.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il colle e l'oscuro groviglio
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 09:45:13 am
5/12/2008
 
Il colle e l'oscuro groviglio
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
La situazione è senza precedenti: per il groviglio delle competenze interessate, per l’importanza della posta in gioco, per i possibili risvolti politici, soprattutto per il rischio di perdita di credibilità delle istituzioni giudiziarie.

L’altro ieri avevamo letto, con stupore misto ad interesse, dell’iniziativa della Procura della Repubblica di Salerno nei confronti dei colleghi di Catanzaro, indiziati per un asserito complotto organizzato contro De Magistris. Il sospetto di tale Procura era che taluni magistrati e taluni politici lo avessero ordito contro il giovane sostituto procuratore allo scopo di bloccare, o deviare, alcune inchieste che coinvolgevano personaggi eccellenti. Soltanto la convinzione della Procura salernitana poteva d’altronde giustificare la gravità dell’accusa e la spettacolarità, anche mediatica, dell’iniziativa.

Ieri le contromosse di Catanzaro. La Procura Generale di tale sede giudiziaria ha reagito, indagando a sua volta i colleghi di Salerno per abuso di ufficio ed interruzione di un pubblico servizio, e disponendo il sequestro dello stesso materiale sequestrato il giorno precedente da Salerno. Una iniziativa a sua volta sconcertante.

Tanto più sconcertante, se si considera che Procura competente a valutare i reati commessi da magistrati di Salerno non è quella di Catanzaro, bensì quella di Napoli.

Non è possibile stabilire, al momento, chi ha ragione e chi ha torto. Non si conoscono infatti gli atti d’indagine compiuti dai magistrati che hanno ereditato i processi di De Magistris, gli atti delle indagini compiute dalla Procura di Salerno, le motivazioni delle accuse di abuso e interruzione di servizio pubblico elevate dalla Procura generale di Catanzaro. D’altronde quand’anche si fosse in grado di conoscere tali atti, orientarsi non sarebbe agevole.

Bene hanno fatto, pertanto, il Consiglio superiore della magistratura e il Guardasigilli, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni, ad intervenire immediatamente. Bene ha fatto, soprattutto, il Presidente della Repubblica, interpellato dal Procuratore generale di Catanzaro, a non sottrarsi alla richiesta di fare chiarezza.

L’intervento del Capo dello Stato merita un’attenzione assolutamente particolare. Giorgio Napolitano ha chiesto, in un primo tempo, al Procuratore della Repubblica di Salerno «l’urgente trasmissione di ogni notizia e atto utile a meglio conoscere una vicenda che, a prescindere dal merito, presenta aspetti di eccezionalità con rilevanti implicazioni di carattere istituzionale, prima fra tutte quella di determinare la paralisi della funzione processuale». In un secondo tempo, appresa la menzionata reazione della Procura generale di Catanzaro, ha chiesto a sua volta a tale Procura notizie utili a valutare ciò che stava accadendo.

Tale iniziativa del Presidente della Repubblica non appartiene all’ambito delle sue competenze codificate. Assunta in qualità di supremo garante della legalità e dei diritti di tutti i cittadini, appare comunque, in un momento di così grave tensione e difficoltà, assolutamente apprezzabile per la forza e la tempestività del segnale offerto.

Una ultima riflessione. I prossimi giorni consentiranno, forse, di comprendere meglio il significato di ciò che è accaduto e di formulare le prime valutazioni di merito. Al momento è in ogni caso necessario auspicare con forza che nessuno mediti di utilizzare quest’ultimo, assai poco encomiabile, episodio di guerra fra Procure, per cercare di imporre, in qualche modo, un bavaglio all’esercizio dell’attività giudiziaria.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. La voglia di regolare i conti
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2008, 10:05:34 am
8/12/2008 - GIUSTIZIA E POLITICA
 
La voglia di regolare i conti
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Le Procure di Salerno e di Catanzaro, dovunque stiano ragione e torto, dalle vicende di questi ultimi giorni escono a pezzi. In realtà, è la stessa magistratura italiana, nel suo insieme, a uscirne con un’immagine fortemente incrinata.

In passato era accaduto più d’una volta di assistere a polemiche roventi fra magistrati o di essere chiamati a dirimere conflitti più o meno aspri. Non era peraltro mai accaduto di assistere a un contrasto tanto duro, anche nella forma. Non è sicuramente consueto che decine di sostituti procuratori e carabinieri eseguano perquisizioni e sequestri penetrando in massa negli uffici e nelle abitazioni private di altri magistrati. Non è usuale che magistrati inquisiti reagiscano a loro volta indagando gli avversari e procedendo al sequestro degli stessi atti processuali loro sequestrati. A tacer d’altro, i procuratori di Catanzaro, essendo parte lesa degli asseriti reati compiuti a loro danno, avrebbero dovuto astenersi da ogni attività giudiziaria e investire della questione la Procura competente (Napoli o Roma).

Come abbiamo letto nelle cronache di ieri, Consiglio superiore della magistratura e Guardasigilli, dopo l’inusuale, ma necessario, intervento del Presidente della Repubblica di giovedì scorso, si sono mossi con tempestività: il primo convocando a Palazzo dei Marescialli i due capi degli uffici interessati e aprendo nei confronti di entrambi una procedura di trasferimento, il secondo sguinzagliando i suoi ispettori a Salerno e Catanzaro per acquisire notizie e cercare di avere chiarezza. Ieri vi sono state lodi sperticate per tanta speditezza. A me sembra che si sia compiuto, soltanto, ciò che era necessario fare, poiché, nella situazione, qualunque ritardo sarebbe stato inimmaginabile. D’altronde, vi ricordate con quanta rapidità, e quanta intransigenza, all’inizio di questa vicenda l’allora ministro della giustizia Mastella e il Consiglio Superiore si erano mossi nei confronti di De Magistris?

Le indagini su quanto è accaduto si dipaneranno secondo le competenze di ciascun ufficio interessato e secondo le regole stabilite dall’ordinamento giudiziario. Al di là della soluzione delle questioni di merito, le vicende di questi ultimi giorni hanno rivelato che vi sono pezzi della magistratura fortemente malati. Queste malattie, queste deviazioni, devono essere estirpate con la massima urgenza. Mi auguro che l’ordine giudiziario sia in grado di trovare al suo interno gli strumenti per realizzare le correzioni necessarie e restituire serenità e trasparenza a ogni settore di giustizia.

La preoccupazione maggiore, oggi, è comunque un’altra. Da tempo settori importanti della politica stanno scaldando i muscoli contro la magistratura. Non è in gioco, si afferma, la libertà dei magistrati di esercitare la giurisdizione; è in gioco l’abnorme interferenza che l’ordine giudiziario si arrogherebbe sul terreno dell’esercizio del potere. È qui che bisogna intervenire, si sostiene, modificando la struttura del Consiglio Superiore (più rappresentanti dei partiti, meno magistrati); spezzando in due tronconi il Consiglio in modo da indebolire entrambi; rendendo autonoma la polizia dai pubblici ministeri e stemperando pertanto il loro potere; magari attenuando l’obbligatorietà dell’azione penale e facendola dipendere, in qualche modo, anche dal governo.

Non vorrei che, a questo punto, il contesto di guerra fra Procure fornisca alla politica la grande occasione per giungere finalmente là dove, fino ad ora, non sono riusciti affondi decisivi. Leggiamo le più recenti dichiarazioni rilasciate da esponenti politici di primo piano dell’una e dell’altra sponda. Il ministro Alfano ha affermato giovedì scorso che, di fronte allo sfacelo, occorre porre urgentemente mano alle riforme costituzionali e ha chiesto all’uopo il contributo dell’opposizione. Massimo D’Alema in persona, il giorno dopo, ha dichiarato che, in effetti, è giunto il momento di occuparsi con serietà del problema dell’organizzazione costituzionale della giustizia italiana. Ha chiuso il cerchio ieri, in un’intervista alla Stampa, Niccolò Ghedini, appena sbarcato a New York per il grande ponte: gli americani non riescono a capire per quale ragione i giudici, da noi, hanno tanto potere al di fuori di ogni verifica democratica; ora tocca pertanto, necessariamente, alla giustizia essere raggiunta da riforme forti; ben venga, se ci sarà, il contributo dell’opposizione.

Ce n’è abbastanza per essere preoccupati. Quando erano soltanto Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori a elaborare una riforma punitiva del mondo giudiziario, si poteva temere, ma anche sperare nelle resistenze degli altri. Quando hanno cominciato qua e là ad abbozzare anche esponenti dell’attuale opposizione, si è cominciato a essere sorpresi. Oggi non si è più soltanto sorpresi. C’è il timore che, di fronte a inchieste giudiziarie che coinvolgono esponenti di ogni partito, si decida di regolare i conti una volta per tutte, risolvendo in questo modo i problemi giudiziari presenti e futuri.

È ciò che, francamente, non dovrebbe accadere. Se lo Stato ha stabilito che non si deve rubare, o non si deve prevaricare, nessuno deve essere legittimato a rubare o prevaricare, si tratti di un cittadino comune o di un esponente politico. In entrambi i casi la magistratura deve essere libera di intervenire, senza lacci, impedimenti, autorizzazioni. Questo, si badi, è, semplicemente, rispetto per la legalità, non è questione di potere.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Tolleranza zero
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 06:49:28 pm
19/12/2008
 
Tolleranza zero
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
I botti giudiziari di questi ultimi giorni, che hanno coinvolto esponenti di rilievo del Partito democratico, hanno aperto una rilevante questione politica. L’esistenza di tale questione non cancella tuttavia la contemporanea esistenza di una questione morale e di una questione giudiziaria.

La grande novità è che al centro della questione morale si trova, oggi, il principale partito di opposizione. Questione morale nella politica significa, innanzitutto, predisposizione di meccanismi adeguati di selezione del personale dei partiti e di controllo del loro operato, idonei a prevenire prevaricazioni, favoritismi, interessi privati, ruberie. In altre parole, trasparenza nella scelta dei dirigenti e dei candidati, nella gestione degli appalti, nel finanziamento dei partiti, nell’approccio con il mondo dell’imprenditoria e della finanza. Nella consapevolezza che, sebbene la maggioranza degli amministratori pubblici sia costituita da persone che svolgono con onestà il loro lavoro, è sufficiente anche un solo scandalo per gettare nel discredito l’intera categoria. Figurarsi se gli scandali si ripetono a ritmo quasi quotidiano.

Questione morale nell’emergenza significa, in secondo luogo, segnale forte di pulizia. Le inchieste penali avranno il loro corso, oggi non è consentito considerare nessuno degli inquisiti un colpevole, prima di formulare giudizi definitivi occorre sicuramente attendere l’esito delle indagini e dei processi. Sul piano politico, peraltro, non c’è tempo per aspettare. Un partito non può rimanere inerte settimane o mesi. Con la dovuta ponderazione, deve comunque intervenire con iniziative in grado di rimuovere ogni ragione di sospetto. Senza condanne anticipate irrevocabili, ma anche senza indulgente tolleranza, deve sapere rimuovere, estirpare, potare.

A che cosa serve, per altro verso, avere le mani candide, se la testa era comunque girata dall’altra parte, e pertanto non ha visto, non si è accorta, non ha impedito? Non è una circostanza comunque censurabile? L’efficienza, la capacità, la soluzione dei problemi della gente, la selezione dei collaboratori, sono parte integrante della buona politica, e pertanto, in certo senso, della stessa questione morale.

A fianco della questione morale si pone d’altronde con altrettanta forza, oggi, la questione giudiziaria, con una differenza, peraltro, rispetto a quanto accadeva, alcuni anni or sono, ai tempi di Mani pulite. Allora, nei più, c’era la convinzione di sapere dove stavano i buoni e dove stavano i cattivi. I buoni, nell’immaginario collettivo, erano sicuramente i magistrati che controllavano la legalità dei comportamenti pubblici, i cattivi erano invece annidati nei partiti che gestivano la politica in spregio della legge penale e civile. Era una certezza, forse illusoria, ma sicuramente tranquillante. Oggi questa fiducia è in certa misura svanita. Troppe inchieste, troppe lotte, troppi contrasti, troppi coinvolgimenti hanno rivelato che pezzi minoritari, ma importanti, dell’ordine giudiziario sono stati collusi, coinvolti, partecipi, sono diventati parte integrante di un sistema di potere trasversale.

Cionondimeno, oggi più che mai il potere giudiziario dev’essere difeso, quantomeno sul terreno dei principi. Qualche giorno fa ho denunciato su questo giornale il pericolo che la guerra, sicuramente non esaltante, che si è scatenata fra le procure di Salerno e di Catanzaro fornisse al potere politico, contraddistinto da inusitate convergenze, la grande occasione per sferrare l’affondo decisivo contro l’indipendenza del potere giudiziario e l’iniziativa del pubblico ministero. Oggi, dopo i blitz degli ultimi giorni, le preoccupazioni inevitabilmente si allargano. C’è il rischio che porzioni consistenti del maggior partito d’opposizione, colpito duramente dalle indagini penali dei giorni scorsi, si ribellino, cercando la rivincita decisiva sul terreno di una riforma della giustizia punitiva nei confronti dei magistrati concordata con la maggioranza.

Che una riforma incisiva della giustizia civile e penale sia indispensabile nell’interesse dei cittadini è fuori discussione. Che sia altresì necessario assicurare regole certe per evitare arbitrii nell’esercizio dell’attività giudiziaria è altrettanto fuori discussione. La riforma non deve tuttavia incidere, direttamente o indirettamente, sul potere della magistratura di iniziare liberamente indagini penali, di condurre processi, di pronunciare sentenze. I temi caldi sono, d’altronde, sempre gli stessi: obbligatorietà dell’azione penale, rapporti fra pubblico ministero e polizia, autonomia e poteri del Consiglio superiore della magistratura, ripartizione dei poteri all’interno del Consiglio, intercettazioni telefoniche e ambientali. L’altro ieri il Presidente della Repubblica, nell’incontro con le alte cariche dello Stato, ha auspicato ancora una volta riforme condivise, accennando, in materia di giustizia, a problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti fra politica e magistratura, a misure volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, a rischi di arbitrio e conflitti nell’esercizio della giurisdizione. Ben vengano i moniti, anche severi, del Capo dello Stato, supremo garante della legalità del Paese. Siamo infatti certi che il Presidente saprà salvaguardare fino in fondo i principi fondamentali dello Stato di diritto e della divisione dei poteri dello Stato.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Riequilibrio dei poteri
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2008, 10:01:30 am
27/12/2008
 
Riequilibrio dei poteri
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Catanzaro, Salerno, Pescara: tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario, tre Procure che, con modalità diverse, hanno reso un servizio pessimo all’immagine dell’ordine giudiziario. Poiché non si tratta di casi isolati di scarsa avvedutezza, un problema «magistratura» nel nostro Paese indubbiamente esiste. Si tratta di stabilire come affrontarlo.

Da tempo una parte della politica sta affilando le armi contro i magistrati poiché, sostiene, occorre riequilibrare i rapporti di potere fra giustizia e politica, sbilanciati a favore della prima. È ora di farla finita, si precisa, con una magistratura senza controlli, in grado d’interferire pesantemente sulla politica e capace di fare e disfare amministrazioni e governi con il gioco delle inchieste giudiziarie. È accaduto ai tempi di Mani pulite, ora basta. Quest’idea affiora oggi, talvolta, anche tra le file della sinistra. Non si tratta, ancora, di linee politiche ufficiali. Tutt’altro: ufficialmente a sinistra si nega e si rifiuta. Il rischio, peraltro, è che in un quadro politico contraddistinto da una maggioranza apparentemente granitica e da una minoranza divisa e disorientata, la prospettiva di un’ampia impunità degli atti politici attraverso il parziale controllo di indagini e indagatori possa fare improvvisamente breccia e trovare il suo sbocco in una sorta di autoassoluzione collettiva.

La posta in gioco è rilevante. Sono in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, la divisione dei poteri, l’eguaglianza dei cittadini. Essa appare, d’altronde, tanto più rilevante ove si consideri che, contemporaneamente, si vocifera di modificazioni dei regolamenti parlamentari o di riforme costituzionali destinate a rafforzare l’esecutivo rispetto a un Parlamento giudicato un intralcio per un’efficiente azione di governo. Già oggi, d’altronde, attraverso l’impiego ripetuto del voto di fiducia, l’esecutivo cerca di troncare il dibattito parlamentare eludendo la normale dialettica con l’opposizione, mentre soltanto la resistenza del Presidente della Repubblica evita che la decretazione d’urgenza diventi strumento sistematico di produzione legislativa. Qualcuno, giorni fa, ha parlato di tenace ricerca di un potere sostanzialmente unico, del governo e del suo capo.

Ma torniamo al tema giustizia. C’è un nodo fondamentale attorno al quale occorre riflettere: che il politico, come ogni altro cittadino, deve essere soggetto alla legge e non può godere di odiosi privilegi. Un ministro che ruba, un presidente di Regione che prevarica, un sindaco che accetta indebitamente denaro deve essere punito, come deve essere punito chi scippa, rapina, violenta. Anzi, se una ruberia è commessa da un eletto, la giustizia dovrebbe essere inflessibile, in quanto l’autore ha tradito la fiducia che gli è stata riconosciuta con il voto.

In questa prospettiva, parlare di riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura, di conseguente limitazione delle indagini nei confronti degli eletti, di selezione politica dei reati annualmente perseguibili, di sottrazione ai pubblici ministeri del controllo della polizia, di limitazione nell’uso di strumenti fondamentali come le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione è del tutto privo di senso. In realtà, occorrerebbe rivedere la stessa disciplina dell’autorizzazione alle misure cautelari nei confronti dei parlamentari, che una prassi lassista tende a dilatare rispetto ai limiti stabiliti del fumus persecutionis.

Per altro verso, occorre invece reprimere gli arbitrii, gli eccessi, gli errori, le arroganze dei magistrati. Non è tollerabile che l’incapacità, l’inadeguatezza, la scarsa avvedutezza di qualcuno, la sua sicumera, la ricerca di visibilità, magari la stupidità, consentano eventuali aperture improprie di indagini penali, una loro prosecuzione non giustificata, iniziative improvvide sul terreno cautelare. Questo problema non concerne tuttavia, specificamente, il rapporto fra giustizia e politica; interessa tutti i cittadini, che, appunto tutti, hanno il diritto di non essere trascinati in procedimenti penali avventati, in giudizi non sufficientemente ponderati, in iniziative esorbitanti.

Ecco, allora, l’indubbia necessità di un intervento riequilibratore. Esso non deve essere, tuttavia, riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra esercizio del potere giudiziario e diritto di tutti i cittadini a una valutazione giudiziaria seria e serena. Esso non può, per altro verso, incidere sul contenuto del controllo di legalità, che in uno Stato bene ordinato deve essere libero e indipendente, ma riguardare la verifica di correttezza dell’attività di pubblici ministeri e giudici e la conseguente attività disciplinare. Su questo piano il Parlamento dovrebbe essere finalmente drastico. Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, serie valutazioni attitudinali, controlli periodici, magari a campione ma penetranti, riorganizzazione manageriale degli uffici e della loro dirigenza, monitoraggio sull’attività compiuta da ciascun magistrato dell’ufficio, inflessibilità nella repressione disciplinare degli abusi, delle inerzie, degli errori. Tutto ciò che oggi non avviene, o che avviene poco o malamente, ma che, a garanzia di tutti i cittadini, dovrebbe invece inflessibilmente accadere.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Riforme e giustizia
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 10:09:46 am
2/1/2009
 
Riforme e giustizia
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Nel suo messaggio di fine anno il Capo dello Stato ha toccato, con semplicità e chiarezza, tutti i problemi caldi del momento, a partire dalla crisi economica, che rischia di togliere serenità e sicurezza. Mi hanno colpito, soprattutto, le sue parole di fiducia e di speranza. Giorgio Napolitano ha parlato, ripetutamente, di crisi come grande occasione: per riequilibrare le ricchezze, cambiare lo stile dei comportamenti, ritornare a un mondo denso di valori, rilanciare l’economia e uscire dalle difficoltà con un Paese diverso, più equo e giusto. Un’occasione che costituisce una grande scommessa. Uno sforzo che dev’essere compiuto da tutti, con unità d’intenti, abbandonando le reciproche diffidenze.

Al di là di quest’importante presa di posizione, c’è stato, da parte del Presidente, un agire perfetto come Capo di Stato imparziale e garante della posizione di tutti. Un richiamo all’importanza delle riforme condivise, ma nessuna discesa in campo personale, nessuna indicazione di merito. Risolvere i problemi e trovare soluzioni, ha precisato il Presidente, sono compiti delle forze politiche, in particolare del Parlamento, del quale deve essere difesa la posizione di centralità nel sistema costituzionale del Paese. Quello delle riforme condivise costituisce, da mesi, il tema ricorrente degli interventi del Capo dello Stato.

Ed è assolutamente giusto che un Presidente, garante dell’ordinato funzionamento delle istituzioni, si preoccupi che l’accordo, o quantomeno il rispetto reciproco, favorisca il superamento di difficoltà o la risoluzione di problemi che, altrimenti, rischierebbero di aprire ferite difficili da rimarginare.

Cionondimeno, occorre ribadire che vi sono decisioni sulle quali avere condivisione è difficile. Nell’impossibilità di fornire un quadro esauriente delle questioni che dividono, mi limiterò a indicare due temi caldi in materia di giustizia sui quali, immagino, ma soprattutto auspico, non vi sarà mai condivisione dell’opposizione con le idee della maggioranza. La separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, della quale ha parlato ancora una volta il presidente del Consiglio in un’intervista di due giorni fa, e il rapporto fra pubblici ministeri e polizia nella ricerca delle notizie di reato.

La prima è una questione annosa. Sostiene il presidente del Consiglio che sarebbe necessario procedere alla separazione delle carriere trasformando il pubblico ministero in un «avvocato dell’accusa», dotato di diritti e doveri uguali a quelli dell’avvocato difensore. Lo imporrebbe l’esigenza di assicurare al cittadino un giudice imparziale e di riequilibrare la posizione delle parti nel processo. La nuova configurazione del pubblico ministero dovrebbe dare luogo a un ordine separato, con propri accessi e carriere, e con un proprio Consiglio Superiore.

Le obiezioni a questa soluzione sono forti. Creare un ordine di pubblici ministeri indipendenti, si sostiene, sarebbe un rischio in sé per la democrazia, poiché realizzerebbe un corpo separato potente, impermeabile a qualunque confronto, una scheggia che potrebbe trasformarsi in uno strumento di potere con propri, autonomi, obiettivi politici. Se, per altro verso, la separazione delle carriere dovesse costituire la premessa per un asservimento dei pubblici ministeri al governo, l’attentato sarebbe ancora più evidente: mai, in uno Stato democratico, dovrebbe essere consentito all’esecutivo d’interferire sull’esercizio dell’azione penale. Esiste, infine, un problema di funzionalità. Poiché il pubblico ministero ha compiti d’indagine, come si potrebbe conciliare la sua trasformazione in «avvocato dell’accusa» con il mantenimento di tale funzione? O, per altro verso, come si potrebbero attribuire alle difese dell’imputato poteri d’indagine identici a quelli del pubblico ministero senza sconvolgere l’ordinato funzionamento dell’attività giudiziaria? Si tratta di un complesso di ragioni che rendono, pertanto, oltremodo difficile per l’opposizione trovare un’intesa con la maggioranza.

La seconda questione è più recente. Ai primi di settembre ha cominciato a circolare l’ipotesi, ribadita dal presidente del Consiglio nell’intervista, di un ritorno alla disciplina anteriore alla riforma del 1989 del codice di procedura penale in tema di rapporti fra Procure e polizia. Nella fase della ricerca delle notizie di reato, si sostiene, la polizia dovrebbe essere rigorosamente autonoma, mentre il pubblico ministero dovrebbe essere autorizzato a iniziare le sue indagini soltanto a seguito di un rapporto delle forze dell’ordine. In questo modo si impedirebbe quella ricerca a 360 gradi di notizie di reato da parte delle Procure, quella sorta di pesca a strascico, che tanta paura arrecherebbe alla tranquillità dei cittadini onesti.

Il problema non è di poco conto. Non è, in effetti, ragionevole che alle Procure siano consentite indiscriminate iniziative volte a cercare, in assenza di qualsiasi notizia di reato, eventuali indizi a carico dei cittadini. Per altro verso, stabilire rigidamente che il pubblico ministero non possa impartire, mai, direttive alle forze dell’ordine, o imprimere, mai, ritmi o direzioni alle ricerche fino al momento in cui la polizia non gli abbia depositato un rapporto, sarebbe, a sua volta, molto pericoloso. Poiché la polizia dipende gerarchicamente dal governo, il rischio che l’esecutivo possa interferire, frenare, impedire, è elevato. E a poco varrebbe ribadire, data la menzionata situazione di dipendenza, che le forze dell’ordine hanno il dovere di riferire non appena emerga un indizio di reità a carico di qualcuno.

Ecco perché, anche in questo caso, una condivisione delle idee della maggioranza da parte dell’opposizione non sarebbe auspicabile. Davvero, tuttavia, l’intera opposizione saprà sfuggire alla prospettiva, seducente per il mondo dei partiti, di riuscire, finalmente, a tagliare in qualche modo le unghie alle Procure, indebolire il loro potere, restituire alla politica la possibilità di aprire qualche ombrello, di salvare qualche suo esponente autore di reati?
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Eluana, qui si rompe il principio di legalità
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2009, 03:08:44 pm
19/1/2009
 
Eluana, qui si rompe il principio di legalità
 
 CARLO FEDERICO GROSSO
 

Una nuova rottura della legalità, un’ulteriore ferita inferta allo Stato di diritto. L’ultimo atto della vicenda Englaro indigna chi ritiene che l’osservanza delle regole costituisca il fondamento della convivenza civile. Vittima, ancora una volta, Eluana Englaro, alla quale una sorta di «prepotenza governativa» rifiuta il diritto di morire che le era stato riconosciuto da una sentenza definitiva della Cassazione.

All’origine della nuova questione si pone un nebuloso provvedimento amministrativo «di indirizzo» assunto, in tutta fretta, dal ministro Sacconi quando pareva che, dopo l’ultima sentenza, la vicenda si stesse avviando al suo epilogo logico e naturale. Abbiamo letto tutti il comunicato con il quale la clinica «Città di Udine» ha reso pubbliche le ragioni della sua decisione: ciò che era stato ormai organizzato, e cioè il ricovero di Eluana e il suo accompagnamento a una morte dignitosa, è stato bloccato per il timore che, infrangendo l’atto di indirizzo ministeriale, alla struttura ospedaliera fosse revocata la convenzione regionale e venissero pertanto a mancare i denari che le consentivano di lavorare.

La vicenda solleva, immagino, complessi problemi giuridici di natura amministrativa, coinvolge delicati rapporti di competenza fra Stato e Regioni in materia di sanità, decine di giuristi si interrogheranno sui poteri ministeriali nell’imporre direttive in materia e sui doveri delle Regioni di ottemperarle. Si discuterà, soprattutto, fino a che punto gli elementi di diritto richiamati a sostegno del menzionato atto di indirizzo (un parere del Comitato nazionale di bioetica privo, in realtà, di qualsiasi rilevanza giuridica e una convenzione Onu sui diritti dei disabili non ancora del tutto operativa in Italia e che, comunque, non riguarda specificamente il caso Englaro) siano davvero in grado di giustificare, in qualche modo, il provvedimento ministeriale.

Al di là dei possibili cavilli, delle possibili interpretazioni più o meno interessate, c’è peraltro un profilo giuridico, chiarissimo, sul quale non è consentito neppure discutere: che di fronte a una sentenza irrevocabile della Cassazione che, tenendo conto delle leggi operanti in Italia, ha stabilito determinati principi (ad esempio, che Eluana si trova in una condizione giuridica di coma persistente, che un intervento di idratazione e di nutrizione artificiale mediante sondino ipogastrico non costituisce semplice alimentazione, bensì intervento medico) e ha conseguentemente riconosciuto a Eluana, o a chi per lei, il diritto di staccare quel sondino, nulla, sul terreno giuridico, è più consentito obiettare. La sentenza deve essere eseguita, punto e basta. Nessuno è più legittimato a vietare, bloccare, frapporre ostacoli, ritardare.

Al di là delle convinzioni personali di ciascuno di noi sul merito complessivo della dolorosissima vicenda e, conseguentemente, sulla bontà, o meno, della decisione giudiziale assunta dalla Corte Suprema, oggi ci troviamo pertanto, a valle del problema principale, di fronte a una importante questione di principio sulla quale occorre essere chiari, determinati, inflessibili: che le sentenze irrevocabili della Cassazione, piacciano o non piacciano, siano condivise o non siano condivise, devono essere, in ogni caso, applicate, adempiute, eseguite. Infrangere tale regola significherebbe innescare una rottura gravissima del principio di legalità attorno al quale ruota l’intero nostro sistema giuridico. In certo senso, addirittura, fare saltare lo stesso sistema, basato, come sappiamo, sui principi fondamentali secondo i quali il Parlamento legifera, la magistratura interpreta e applica le leggi, l’esecutivo governa rispettando leggi e sentenze.

La rottura della legalità appare d’altronde, nel caso di specie, tanto più grave ove si consideri che a impedire l’esecuzione di una sentenza della Cassazione è, addirittura, e ufficialmente, il governo, che frappone un suo atto di indirizzo alla normale, logica e ormai doverosa sequenza di atti e fatti che dovrebbero, ragionevolmente, seguire alle decisioni assunte dai giudici che si sono pronunciati sulla vicenda. E appare ancora più grave ove si rammenti che, in precedenza, vi era già stato il tentativo dell’attuale maggioranza parlamentare di bloccare l’esecuzione della sentenza, sollevando un peregrino conflitto di attribuzione tra il Parlamento e la Magistratura che, per la sua palese inconsistenza, era stato respinto in tempi brevissimi, e con durezza, dalla Corte Costituzionale. Ieri i giornali hanno pubblicato la notizia che, a seguito di una denuncia presentata dai radicali, la Procura di Roma ha iscritto il ministro Sacconi nel registro degli indagati per violenza privata e che gli atti sono stati trasmessi al competente Tribunale dei Ministri. Non so francamente dire se il ministro abbia, o non abbia, commesso il reato contestato, e se impedendo l’esecuzione della sentenza Englaro abbia addirittura commesso ulteriori reati. Confesso che tali circostanze non mi interessano neppure più di tanto.

Mi preoccupa invece, moltissimo, la questione di carattere generale, a un tempo giuridica e politica: la rottura del principio di legalità, l’alterazione degli equilibri fra i poteri dello Stato, l’impressione, soprattutto, che la semplice legittimazione politica ottenuta dal voto popolare si stia trasformando ormai, nei fatti, in strumento di prevaricazione, di sopraffazione, di cancellazione di diritti e garanzie riconosciute dalla legge e dichiarate dai giudici. Se ciò stesse davvero accadendo, se, in particolare, dovesse diventare prassi di governo, sarebbe la fine dello Stato di diritto.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Coraggiosa scelta
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2009, 12:49:25 pm
21/1/2009
 
Coraggiosa scelta
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

L’altro ieri ho scritto su questo giornale che una sentenza passata in giudicato della Cassazione è costitutiva di diritti e non può essere disattesa da nessuno. Nessuno è legittimato a vietare, bloccare, frapporre ostacoli, ritardare. Che, pertanto, l’ultimo atto della vicenda Englaro, il provvedimento «di indirizzo» con il quale il ministro Sacconi ha cercato di interferire, finora con successo, sull’esecuzione di una decisione legittimamente assunta dalla suprema magistratura di legittimità del Paese, non poteva che indignare. Certo, ho soggiunto, la vicenda solleverà complessi problemi giuridici di natura amministrativa, coinvolgerà difficili rapporti di competenza fra Stato e Regioni in materia di sanità.
Si discuterà sulla bontà, o sull’evanescenza, dei principi giuridici ai quali il ministro ha creduto di potere affidare la sua decisione.

Al di là dei possibili cavilli, delle interpretazioni più o meno interessate di questa o di quella norma amministrativa, ho soggiunto, c’è comunque un principio giuridico fondamentale, chiarissimo, sul quale non è possibile nemmeno abbozzare una discussione: che di fronte a una sentenza passata in giudicato della Cassazione che ha riconosciuto determinati diritti, nulla è più possibile eccepire. Occorre ottemperare, e basta. Non farlo significa infrangere un principio fondamentale dello Stato di diritto, spezzare il principio di legalità, disarticolare la regola elementare secondo la quale in un Paese democratico, correttamente organizzato, il Parlamento legifera, la magistratura interpreta ed applica le leggi, l’esecutivo governa rispettando le leggi e le sentenze dei giudici. Ho soggiunto, ulteriormente, che nel caso di Eluana Englaro la rottura della legalità mi pareva tanto più grave considerando che a frapporre ostacoli all’esecuzione di una sentenza della Cassazione era, addirittura, un atto ufficiale del governo.

Ieri Mercedes Bresso ha dichiarato che la Regione Piemonte è pronta ad aprire le sue strutture pubbliche perché la vicenda, dolorosissima, di Eluana possa avviarsi verso il suo epilogo ormai logico e naturale. Non so quali sono state le valutazioni giuridiche del Presidente della Regione: se ha considerato con attenzione le competenze dello Stato e della Regione in materia di sanità, se ha valutato nei dettagli i rapporti fra direttive ministeriali e determinazioni regionali, se ha tenuto conto dell’eventuale specificità della legislazione regionale piemontese in materia, se si è limitata a prendere atto del principio generale secondo il quale le sentenze definitive della Cassazione devono essere eseguite. Non so neppure se, per avventura, non si è posta neppure il problema giuridico, ma ha agito d’impulso, giudicando, semplicemente, giusto, come è sicuramente, ciò che stava facendo, perché è comunque giusto fornire finalmente al padre di Eluana la possibilità di assolvere all’ultimo atto del dramma che ha sconvolto la sua esistenza e che ha costituito, negli anni, la ragione della sua vita.

Brava Mercedes. Non possiamo che ammirare e condividere il tuo coraggio. Perché si tratta sicuramente di coraggio. La legge è dalla tua parte.
Consentire che una sentenza passata in giudicato della Cassazione abbia esecuzione costituisce riaffermazione di legalità. Mettere a disposizione le strutture sanitarie pubbliche regionali per consentire che quanto hanno deciso i giudici possa avere attuazione significa garantire l’osservanza delle regole. Di fronte a un ministro che, con un preteso atto generale d’indirizzo, ritiene di potere sovvertire gli equilibri fra i poteri dello Stato, opporsi, ancorché legalmente, non è, sicuramente, atto di ordinaria gestione dei poteri regionali.
 
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO NUCARA* Come Eluana, nel nome della legge
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:54:46 pm
24/1/2009
 
Come Eluana, nel nome della legge
 
 
FRANCESCO NUCARA* 
 

Caro direttore,
La Stampa sta facendo, anche grazie agli interventi del professor Carlo Federico Grosso, una battaglia di civiltà in difesa dei diritti della famiglia Englaro, degna della tradizione del Suo giornale. È significativo che il presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, abbia raccolto argomenti ineccepibili sotto il profilo del diritto, sollevati dal professor Grosso per dire che le strutture regionali sono pronte ad operare.

Il presidente Bresso ha più ragioni dalla sua parte. Da parte della legge, vista la sentenza della Cassazione a favore di un cittadino, ma anche da parte della Costituzione, considerando il Titolo V, per cui la tutela della salute è materia di legislazione concorrente e, «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservati allo Stato» (articolo 117). La tutela della salute non lo è. Qualche collega della maggioranza si è appellato all’articolo 32 della Costituzione aggravando, a mio avviso, la posizione della circolare del ministro Sacconi, perché detto articolo recita che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e qui la legge chiede di interrompere detto trattamento.

Per questo sono convinto che il presidente della Regione Piemonte abbia ragione e meriti ogni sostegno. Al ministro Sacconi, che pure è persona competente, avevo suggerito, all’indomani della sentenza della Corte europea a favore del padre di Eluana, di ritirare la sua circolare. Un consiglio che mi sento di riproporre, ancora oggi, per chiudere un conflitto istituzionale divenuto indirimibile, che non fa onore al Paese, imbarazza il governo e calpesta il diritto.

*Segretario nazionale Pri
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ma la colpa non è soltanto degli altri
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2009, 03:46:34 pm
1/2/2009
 
Ma la colpa non è soltanto degli altri
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La lentezza dei processi e le intercettazioni sono state, com’era prevedibile, i piatti forti degli interventi alle inaugurazioni dell’anno giudiziario. Fra le affermazioni che si sono rincorse nei diversi palazzi mi hanno colpito, per il loro significato emblematico, alcune annotazioni statistiche: l’Italia in materia di tempi della giustizia sta peggio dell’Angola e del Gabon (su 181 Paesi si colloca soltanto al 156° posto, mentre tutti gli altri Paesi europei si piazzano fra i primi cinquanta); l’Italia, quanto a numero di reati per abitante, è seconda soltanto alla Bosnia Erzegovina.

L’Italia detiene, con largo margine, il primo posto in Europa per il numero di affari penali trattati, anche relativi a questioni bagatellari.

Lo hanno dichiarato il primo presidente della Cassazione, il presidente della corte di appello di Milano, quello della corte di appello di Roma. Quest’ultimo, su tutt’altro piano, ha soggiunto che di fronte al dilagare della criminalità dei colletti bianchi occorre «la riaffermazione di un’etica pubblica fondata su di una ritrovata legalità anziché sull’idea fuorviante che l’illegalità degli altri sia sufficiente a giustificare la propria».

Denunce sacrosante, alle quali la politica e la magistratura dovrebbero cercare di dare una risposta. Essendo stagione di riforme, teoricamente non dovrebbe essere difficile mettere in fila i problemi, stabilire le priorità, affrontarle, risolverle. Vediamo di accennare, sia pure brevemente, alle questioni che i numeri menzionati, relativi alla condizione della giustizia italiana rispetto a quella di altri Paesi, sollevano prioritariamente.

C’è, innanzitutto, un problema di efficienza che occorre affrontare sul terreno dell’organizzazione degli uffici giudiziari: riassetto delle circoscrizioni e dei distretti, per eliminare i rami secchi; introduzione di criteri manageriali nella gestione degli uffici; informatizzazione dei processi; semplificazione del sistema delle notifiche in modo da eliminare una parte delle cause di nullità e di conseguente rinvio delle udienze; monitoraggio dell’attività di ciascun magistrato in modo da realizzare un effettivo controllo di produttività. Per altro verso, potenziamento del personale ausiliario, maggiore durata delle udienze, migliore organizzazione del lavoro, magari ferie meno perduranti.

C’è, in secondo luogo, un problema di riforma necessaria della legislazione penale sostanziale e processuale. Al riguardo occorrerebbe iniziare da taluni dei temi da tempo sul tappeto: depenalizzazione delle incriminazioni minori allo scopo di ridurre il numero dei reati, e pertanto dei processi penali; revisione della disciplina della prescrizione, magari introducendo meccanismi differenziati, allo scopo di non scoraggiare l’accesso ai riti alternativi; spazio a dichiarazioni giudiziali di «irrilevanza penale del fatto», quando la realizzazione del reato non dà luogo ad offese di rilievo; previsione di sanzioni pecuniarie in caso di impugnazioni temerarie e riduzione dei casi nei quali è possibile ricorrere in Cassazione.

Se queste prime misure fossero adottate, probabilmente l’Italia guadagnerebbe già qualche posizione nelle classifiche internazionali sulla funzionalità del sistema giudiziario: i tempi dei processi si accorcerebbero, non sarebbero celebrati molti processi inutili, la minore pressione delle notizie di reato consentirebbe una gestione più agevole dell'azione penale da parte delle Procure della Repubblica. E si potrebbe, allora, pensare ai decisivi passi ulteriori: l’elaborazione di un codice penale nuovo di zecca, la costruzione di un processo penale nello stesso tempo garantista ed efficiente.

Questo, e non altro, si attendono gli italiani. Sicuramente non si aspettano che il potere politico, con la scusa di asseriti abusi della magistratura, metta mano ad una riforma/mordacchia: preveda forme di selezione preventiva (da parte dei politici) dei reati concretamente perseguibili, indebolisca il potere dei pubblici ministeri rafforzando quelli della polizia, consenta così al governo d’interferire in qualche modo sulla gestione dell’azione penale, introduca limitazioni abnormi all’impiego delle intercettazioni danneggiando le indagini, introduca, direttamente o indirettamente, forme d'immunità e guarentigia ulteriori rispetto a quelle di cui sono già ampiamente beneficiari parlamentari e ministri.

Se ci sono stati abusi di singoli magistrati, i colpevoli siano perseguiti sul piano disciplinare ed eventualmente penale. Con la scusa di combattere gli abusi della magistratura, non si privi tuttavia il Paese del doveroso controllo di legalità nei confronti di chiunque commetta reati meritevoli di essere perseguiti, non si indebolisca la pressione complessiva dello Stato nei confronti della criminalità. Come bene ha osservato il presidente della corte di appello di Roma, si rafforzi, piuttosto, l'etica pubblica fondata su di un ritrovato, profondo, senso di legalità.

I discorsi d’inaugurazione dell’anno giudiziario letti ieri dai capi di corte inducono ad un’ultima considerazione. In tutte le relazioni si riscontra una lunga, dettagliata, elencazione dei mali perduranti della giustizia. Le colpe sono, peraltro, quasi sempre, soltanto degli altri: dei politici che non garantiscono sufficienti risorse e non emanano le riforme necessarie, degli avvocati che sono d'intralcio nei processi. In realtà, molte volte il cattivo funzionamento dei singoli uffici è, soltanto, colpa dei magistrati che li gestiscono. Quando, finalmente, anche nelle relazioni inaugurali ascolteremo la doverosa denuncia delle proprie manchevolezze e dei propri errori?

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Dalla parte delle regole
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 05:16:58 pm
9/2/2009
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Ciò che sta accadendo attorno alla vicenda Englaro suscita perplessità e tormenti. Non intendo affrontare il problema etico. Non sarei titolato a farlo. Soprattutto, sono convinto che sui temi dell’inizio e della fine della vita ciascuno deve fare, in silenzio, soltanto i conti con la propria coscienza e non imporre agli altri le proprie eventuali certezze. Intendo invece porre alcuni interrogativi concernenti le questioni di diritto.

La prima questione suscitata dalle più recenti iniziative del governo riguarda la legittimità del decreto legge approvato venerdì mattina. Su questo punto non sono possibili discussioni. Come ha valutato il Presidente della Repubblica, il decreto era costituzionalmente illegittimo per mancanza del requisito della necessità e urgenza. Allo scopo di non violare il principio secondo cui la legge è, necessariamente, generale e astratta, il governo aveva proposto un testo destinato a regolare «tutti i casi» in cui si fosse posto un problema di alimentazione e idratazione artificiale. Ma, con riferimento alla regola generale enunciata, non vi era nessuna ragione di urgenza.

Tanto è vero che il Parlamento, nonostante giacessero da tempo davanti alle sue commissioni disegni di legge che ipotizzavano lo stesso principio, aveva discusso per mesi senza giungere ad alcuna decisione. Nessun dubbio, per altro verso, che al Capo dello Stato competa una valutazione di merito in ordine alla sussistenza dei requisiti che legittimano l’adozione della decretazione d’urgenza e non una semplice funzione di avallo notarile delle valutazioni del governo. Napolitano aveva d’altronde, in passato, più volte richiamato l’attenzione sulla necessità di utilizzare con attenzione lo strumento del decreto legge. Il caso di cui si discute si è inserito, pertanto, in questa prospettiva di rigoroso rispetto presidenziale della legalità costituzionale, ampiamente rilevato da questo giornale.

Di tutt’altro segno sono le questioni giuridiche che solleva il disegno di legge, di uguale contenuto, approvato dal governo venerdì sera, e che si vorrebbe votato dal Parlamento nel giro di pochi giorni. Nei suoi confronti cadono, ovviamente, le menzionate ragioni d’illegittimità. Cionondimeno, non credo che ogni motivo di perplessità venga meno.

Per ragioni di brevità, mi limiterò ad accennare a tre profili che mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Il primo riguarda i tempi preventivati per l’approvazione del disegno di legge: oggi o domani al Senato, fra domani e dopodomani alla Camera. Non si è mai assistito a una simile sequenza temporale su di un tema di tanto rilievo. Se davvero il programma sarà rispettato, significherà che il dibattito in Parlamento sarà stato soffocato utilizzando, con una certa violenza, gli strumenti previsti dai regolamenti parlamentari. Gli eventuali oppositori non avranno, di fatto, avuto diritto di parola. Mi domando: è consentita, in uno Stato di diritto, una prevaricazione tanto profonda della dialettica parlamentare?

Il secondo concerne il contenuto del disegno di legge. Esso stabilisce che, in attesa dell’approvazione di una disciplina legislativa organica, «l’alimentazione e l’idratazione non possono, in alcun caso, essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi». E se la persona interessata, quando era ancora consapevole, avesse manifestato la sua contrarietà a trattamenti medici diretti a mantenerla artificialmente in vita? Costituisce principio di diritto pacifico, riconosciuto da numerose sentenze della Cassazione, che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà: lo stabilisce, ancora una volta, la Costituzione. Ma, allora, lo stesso contenuto del disegno di legge è fortemente sospetto d’illegittimità, poiché imporrebbe un trattamento di mantenimento artificiale in vita anche a chi ha dichiarato di rifiutarlo.

C’è d’altronde un terzo profilo sul quale, ritengo, occorre ragionare. La Cassazione, come è noto, ha «definitivamente» riconosciuto a Eluana Englaro, o a chi per lei, il diritto di staccare il sondino nasogastrico attraverso il quale si realizza il suo mantenimento artificiale in vita. Ebbene, di fronte a un diritto ormai definitivamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria, davvero si può ritenere che una legge successiva sia, di per sé, in grado di cancellare il giudicato?

Si badi che, curiosamente, lo stesso governo, sul punto, deve avere avuto i suoi dubbi. Infatti nella relazione di accompagnamento al decreto ha scritto che è vero che, nel caso di specie, c’è stata una sentenza della Cassazione, ma essa, data la particolare natura del provvedimento assunto (di mera «volontaria giurisdizione»), non avrebbe dato vita ad alcun «accertamento di un diritto». Così facendo, lo stesso governo ha ammesso che se, invece, fosse stato riconosciuto un diritto, esso sarebbe ormai intangibile anche di fronte alla legge. Ebbene, poiché, a differenza di quanto sostenuto dal governo, la Cassazione ha, in realtà, riconosciuto un vero e proprio diritto individuale a non essere più medicalmente assistiti contro la propria volontà comunque manifestata, è lecito dubitare che il legislatore possa davvero, ormai, interferire, con una legge, su tale situazione giuridica costituita.

A maggior ragione, non potrebbero, d’altronde, essere considerati legittimi ulteriori interventi a livello amministrativo diretti a ostacolare, o eventualmente impedire, l’esercizio del diritto ormai definitivamente riconosciuto. Lo impone, ancora una volta, la salvaguardia del principio costituzionale della divisione dei poteri. Un’ultima riflessione. Il presidente del Consiglio, nella concitazione degli ultimi giorni, ha dichiarato che la Costituzione verrà presto cambiata.

Trascurando le sue considerazioni, storicamente errate, sull’asserita matrice di parte dei principi costituzionali fondamentali, è comunque utile ricordare che, fino al momento di una eventuale loro modifica, le regole attualmente scritte non dovranno essere, in ogni caso, infrante.  
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. L'urgenza fa male alla legge
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2009, 11:33:42 am
2/3/2009
 
L'urgenza fa male alla legge
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
L’hanno dichiarato cardinali e vescovi, l’hanno ripetuto politici e persone comuni: si tratta di omicidio. Qualcuno, zelante, ha anche presentato una denuncia.

La procura della Repubblica ha, di conseguenza, iscritto i responsabili della procedura nel registro degli indagati con l’imputazione di omicidio volontario.

È ragionevole pensare che tale vicenda giudiziaria, se i protocolli sono stati rispettati, si afflosci subito, poiché c’è stata una sentenza che ha riconosciuto a Eluana Englaro il diritto di morire, e pertanto al suo tutore e ai medici il diritto di procedere.

E se si esercita un diritto non si può, nello stesso tempo, commettere un reato.

L’ultima coda della vicenda ripropone, comunque, il tema della presenza minacciosa del codice penale in ogni caso di «morte accompagnata», si tratti di omesso accanimento terapeutico, di cura palliativa, di stacco della spina o del sondino. Si ricorderà che anche nel caso Welby, dove una persona cosciente aveva manifestato la volontà d’interrompere il trattamento che le consentiva di respirare, dopo la morte è dovuto comunque intervenire un giudice per riconoscere la liceità di quanto era accaduto.

Sul terreno della tutela della vita il codice è rigoroso. Commette omicidio chi cagiona la morte di un uomo.

Costituisce condotta omicidiaria sia l’azione che determina la morte (sparare, avvelenare), sia l’omissione di atti che avrebbero impedito di morire (omessa erogazione di cibo, di cure). Ma non solo: cagionare l’accorciamento della vita equivale, per la legge, a causare la morte.

La volontà di proteggere in maniera forte la vita emerge, altresì, dalle norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o l’aiuto al suicidio. La vita è bene assolutamente indisponibile, si ragiona, e pertanto il consenso a essere uccisi non giustifica, mentre chi determina altri al suicidio, o lo agevola, è considerato, nella sostanza, un concorrente in omicidio.

Queste norme sono state, ovviamente, pensate con riferimento alla normalità della vita che viene offesa: la vita di chi sta bene o di chi, seppure malato, non si trova in una condizione estrema (malattia terminale, incoscienza persistente). Di per sé, esse parrebbero tuttavia applicabili a ogni ipotesi di privazione o accorciamento della vita. E in effetti, fino a una quarantina di anni fa, nessuno azzardava che fosse lecito interrompere le cure principali a un malato terminale o praticare interventi palliativi al costo di abbreviare i tempi naturali della vita.

Poi le cose sono cambiate. Si è giudicato, pian piano, che l’accanimento terapeutico nei confronti del malato terminale costituisse una inutile protrazione di sofferenza e che fosse preferibile interrompere le cure principali e affidare alla natura il decorso di fine vita. È emersa, nel contempo, una grande attenzione per il problema dell’eliminazione del dolore. In questa prospettiva si è cominciato a pensare, pesando vantaggi e svantaggi, che l’erogazione di sostanze idonee fosse comunque consentita.

Oggi, con la benedizione della Chiesa, entrambe tali pratiche sono diventate prassi e norme deontologiche mediche, anche se esse non sono state, fino ad ora, espressamente legittimate da una legge. La scienza giuridica, di fronte alla nuova realtà, ha spiegato che nel caso dei malati terminali non c’è ragione di sostenere con le medicine una vita ormai consunta. Non c’è, nella realtà, più vita dignitosa e viene quindi meno il dovere giuridico di impedire (o procrastinare) una morte comunque prossima, salvo che il malato abbia dichiarato di voler essere curato fino in fondo.

Rimane aperto, invece, il problema della liceità o meno dello stacco della spina o dell’interruzione dell’alimentazione artificiale di chi si trova in stato di coma persistente. Si tratta di un ulteriore caso estremo, che si differenzia dal precedente per non essere, il malato, in una condizione di vita terminale. La sua vita incosciente può durare anni. È certo, soltanto, che non dovrebbe più risvegliarsi.

Di fronte alla condizione d’incoscienza persistente, nessuno si è sentito di affermare che è lecito staccare la spina o interrompere l’alimentazione artificiale. La situazione cambia, soltanto, nel caso in cui il malato, quando era cosciente, abbia manifestato la volontà di non essere sottoposto a trattamento. In quest’ipotesi, si sostiene, le norme sulla protezione della vita dovrebbero cedere il passo al principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 35 della Costituzione). In caso di mancanza di volontà manifestata, nessun terzo potrebbe, comunque, legittimamente intervenire.

La legge sulla fine della vita dovrebbe, ora, fare chiarezza su tutti questi punti, e in astratto sarebbe bene che ciò accadesse. In materia di accanimento terapeutico e cure palliative vi è ampio consenso. In tema di alimentazione artificiale, invece, grande divisione: c’è chi sostiene che l’alimentazione dovrebbe essere imposta anche a chi ha dichiarato di non volerla, chi ritiene che la volontà del paziente debba essere rispettata, chi propone di affidare, pure in questo caso, la decisione all’apprezzamento di medici e fiduciari.

Il rischio è che, nella concitazione del momento, la politica si lasci sopraffare da sentimenti ed emozioni e licenzi una legge pessima, prevaricatrice di diritti e libertà. E allora, perché non soprassedere, aspettando che, decantate le reciproche acrimonie, tempi più provvidi consentano l’adozione di soluzioni ragionate e condivise? Sarebbe, tutto sommato, oggi, la soluzione più prudente.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Intercettazioni, con la scusa degli abusi
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 10:34:21 am
9/3/2009
 
Intercettazioni, con la scusa degli abusi
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Domani la Camera dovrebbe iniziare la discussione in aula del disegno di legge sulle intercettazioni. Dopo una travagliata incubazione, nel corso della quale la stessa maggioranza si è divisa, sembra che sia stato raggiunto un accordo. Dovrebbe essere eliminato il previsto divieto di pubblicare ogni notizia sul contenuto delle indagini, anche di quelle nei confronti delle quali sia caduto il segreto. Le intercettazioni dovrebbero diventare possibili quando siano emersi «rilevanti» o «evidenti» indizi di colpevolezza a carico di qualcuno, senza che sia più necessario che essi siano addirittura «gravi».

Tali modificazioni migliorative sono, in realtà, briciole di fronte a ciò che il Parlamento si appresta a votare nel suo complesso. Perché, se davvero la riforma dovesse diventare legge, si determinerebbe un’involuzione grave nella qualità del nostro ordinamento. Risulterebbero intaccati quantomeno due capisaldi di civiltà: l’incisività delle indagini penali e la libertà di stampa.

Vediamo di riassumere i termini della questione, concentrando l’attenzione sui profili di maggiore impatto. Da un lato, la possibilità d’intercettare soltanto quando siano già emersi indizi di colpevolezza a carico di qualcuno (sono esenti da tale limitazione soltanto i reati di mafia e terrorismo).

Dall’altro, la previsione del carcere per i giornalisti rei di pubblicazioni vietate e la configurazione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori dei giornali.

Il primo profilo interessa l’efficienza delle indagini penali. È noto che le intercettazioni costituiscono uno strumento importante di acquisizione probatoria. Esse sono, d’altronde, soprattutto utili all’inizio delle inchieste, quando gli autori non sono ancora stati individuati, si è aperto un processo contro ignoti e ci si deve orientare fra le diverse ipotesi investigative. La riforma prescrive, invece, di rinunciare al loro utilizzo fino a quando qualcuno risulti attinto da indizi di colpevolezza. Ma se sono già stati acquisiti tali indizi, che bisogno c’è più, molte volte, d’intercettare? D’altronde, quando le intercettazioni potranno essere finalmente disposte perché sono emersi presupposti di colpevolezza, che senso ha obbligare a interromperle, salvo casi assolutamente eccezionali, dopo soli due mesi? Il rischio di vanificare gli accertamenti in corso è, anche qui, evidente.

Il paradosso è che le forze politiche che hanno progettato questa caduta nell’incisività delle indagini sono le stesse che hanno posto a livello alto, nel loro programma, ordine e sicurezza. Nessuna di esse ha pensato che, così facendo, la sicurezza dei cittadini, invece, s’indebolisce fortemente anche con riferimento a delitti che li interessano direttamente, come lo stupro, il furto, la rapina?

Ma veniamo al secondo dei menzionati profili. L’accordo di maggioranza ha eliminato, quantomeno, l’ipotesi più clamorosa di attentato alla libertà di stampa originariamente previsto. Il ripristino della possibilità d’informare i cittadini quantomeno sull’essenzialità delle inchieste in corso non garantirà, certo, una informazione sempre dettagliata, o una spiegazione sempre esauriente di ciò che sta accadendo nei Palazzi di Giustizia. Quantomeno, l’informazione non sarà, peraltro, del tutto oscurata e un minimo di controllo sociale sull’attività della magistratura in fase di indagine sarà ancora possibile.

Sono rimasti, tuttavia, sostanzialmente intatti due diversi aspetti di potenziale impatto sul libero esercizio della stampa. Da un lato l’incremento del carcere previsto per i giornalisti che pubblicano notizie non pubblicabili, dall’altro la previsione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori. L’incremento della previsione del carcere per i giornalisti possiede un’evidente finalità intimidatoria: attento, giornalista, a ciò che scrivi, è il messaggio, perché, prima o poi, finirai in galera. Le sanzioni pecuniarie che si vogliono introdurre a carico degli editori costituiscono una novità della quale, fino ad ora, pochi hanno denunciato i rischi.

Il disegno di legge introduce la responsabilità diretta dell’impresa editrice con riferimento al reato di pubblicazione arbitraria. Questa previsione determinerà costi rilevanti di organizzazione, imponendo la predisposizione di «modelli organizzativi» idonei a prevenire le infrazioni. Ma, soprattutto, renderà gli editori molto attenti a ciò che avviene nelle redazioni. Allo scopo di evitare che il direttore si lasci prendere la mano dall’ansia di pubblicare comunque la notizia, e li costringa a pagare esose sanzioni, useranno modi forti. Ma chi ci garantisce, a questo punto, che tali modi non serviranno, nella prassi, anche a coartare direttori e giornalisti sul terreno dell’indirizzo del giornale, della selezione dei servizi, della scelta dei temi da trattare? Risulterebbe intaccato, a questo punto, un altro dei principi sui quali si fonda la libertà di stampa, cioè l’autonomia del giornalista.

Si dirà, a questo punto, che le restrizioni delle intercettazioni e della stampa sono comunque necessarie di fronte agli abusi, gravi e ricorrenti, di magistratura e giornalismo. Troppi sono stati, nel passato, i privati intercettati, le violazioni della privatezza, le intercettazioni pubblicate, i mostri sbattuti sui giornali.

La mia idea è che gli abusi commessi, non discutibili, vengano comunque oggi enfatizzati a tutt’altro scopo. Che, con la scusa degli abusi (che è possibile rimuovere, si badi, con una ragionevole disciplina di accantonamento e distruzione delle intercettazioni che non interessano le indagini e di divieto di ogni loro divulgazione), qualcuno intenda, in realtà, perseguire l’obiettivo di indebolire, con un colpo solo, potere giudiziario e libera stampa. Due fastidi talvolta insopportabili per molti politici, dell’uno e dell’altro schieramento.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. L'arbitro non va mai fischiato
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 02:51:08 pm
21/5/2009

L'arbitro non va mai fischiato
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Andreotti è stato, in passato, ingiustamente accusato di attività mafiosa (Palermo) e d’omicidio volontario (Perugia). Nel corso dei due giudizi, che durarono anni, mai pronunziò una parola contro i magistrati; anzi, dichiarò sempre rispetto e fiducia nei confronti della giustizia. Lo statista democristiano conosceva bene le regole del gioco. Guai se avesse messo in dubbio l’onestà del giudice chiamato a giudicarlo: sarebbe stato un attacco intollerabile allo Stato di diritto ed all’organizzazione democratica del Paese, una delegittimazione inaccettabile di uno dei poteri dello Stato.

Molto diverse sono state ieri l’altro, e nuovamente ieri, le reazioni di Berlusconi alle motivazioni della sentenza che ha condannato per corruzione l’avvocato Mills. «È una sentenza semplicemente scandalosa», ha scandito il premier, «per di più uscita prima delle elezioni in modo puntualmente programmato». Durissimo è stato, in particolare, l’attacco personale, reiterato, al presidente del collegio che ha emesso la sentenza: «L’ho ricusato perché dichiaratamente di parte e prevenuto», ha affermato il primo ministro.

«Una vergogna. Andrò in Parlamento a chiarire la verità dei fatti ed a dire ciò che penso di certa magistratura politicizzata».

Le parole del presidente del Consiglio sollevano un problema di merito e un problema di forma. Nel merito, non v’è dubbio che ciascuno di noi sia legittimato a non condividere il contenuto delle sentenze e pertanto a criticarle. Nessuno, ritenendo che una sentenza sia ingiusta, è tuttavia autorizzato a cadere automaticamente nell’aggressione e nella contumelia personale, ad accusare di comportamenti disonesti il magistrato che l’ha giudicato, a delegittimarlo ed a delegittimare insieme con lui l’intero ordine giudiziario. A maggior ragione non è autorizzato a farlo il presidente del Consiglio, che, unitamente alle altre massime cariche istituzionali, dovrebbe essere ancora più attento al rispetto delle regole e dello Stato di diritto.

Non so dire, perché non conosco gli atti processuali, se la condanna dell’avvocato Mills si fondi su solidi elementi d’accusa, come sembrerebbe arguibile dalla lettura della sentenza, o se abbia ragione chi, come Berlusconi, sostiene che la verità sia tutt’altra: che i denari percepiti da tale avvocato costituiscono la giusta retribuzione di prestazioni professionali e che non c’è stata, in due processi che interessavano Fininvest e la sua proprietà, nessuna falsa testimonianza da parte di costui. Comunque stiano le cose, c’è in ogni caso, oggi, una sentenza emessa, a conclusione di un processo regolare, da tre giudici legittimamente nominati; una sentenza che, fino a prova contraria, deve essere pertanto rispettata come ogni altra sentenza. Nei suoi confronti vi può essere critica ragionata, contumelia mai.

Un giudice d’appello potrà d’altronde rileggere le carte e giudicare i fatti in modo diverso, assolvendo Mills. Così prevede il nostro sistema di giustizia, modello di garantismo e di tutela dei diritti dell’imputato. Lo stesso Berlusconi, ieri l’altro, ha d’altronde dichiarato che quando il processo riprenderà «ci sarà comunque una assoluzione totale». Perché, dunque, tanta acrimonia contro la sentenza di primo grado? Perché tanta aggressione nei confronti del giudice che l’ha pronunciata? Perché, soprattutto, le risposte sprezzanti a chi, nella conferenza stampa, gli ha domandato per quale ragione, allora, non rinunciava all’immunità del lodo Alfano, consentendo a un eventuale magistrato non prevenuto di giudicarlo in scienza e coscienza?

So che un buon numero di lettori di questo giornale è convinto che Berlusconi sia stato vittima di persecuzioni giudiziarie e ritiene che sia ora di finirla con le accuse e i processi penali a suo carico: lo si lasci lavorare in tranquillità per il bene del Paese. È un’opinione che merita attenzione, come quella, contrapposta, di chi ritiene invece che egli, protagonista d’illiceità e prevaricazioni d’ogni genere, sia stato, e sia soprattutto oggi a causa del lodo Alfano, oggetto di odiosi privilegi giudiziari.

Al di là di tali divergenze, su di un profilo si dovrebbe, peraltro, tutti convenire. Se un Paese si dota di un sistema di regole di convivenza, e prevede che determinati arbitri garantiscano la loro osservanza, non è consentito a nessuno reagire con il vituperio e l’aggressione se un arbitro decide in modo contrario ai suoi auspici o ai suoi interessi. Se così accadesse, e diventasse norma nella reazione popolare, si dissolverebbero regole, arbitri e lo stesso Paese.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Decalogo dell'uomo pubblico
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 12:22:19 am
3/6/2009
 
Decalogo dell'uomo pubblico
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
D i questi tempi sono di moda le «dieci domande». Ieri, Festa della Repubblica, e quindi delle pubbliche istituzioni, riflettendo sulla classe politica, un po’ sul serio, un po’ per gioco, mi sono domandato: quali potrebbero essere le dieci qualità morali che un uomo politico deve ancora oggi possedere, nonostante i grandi mutamenti del costume e del modo di pensare, affinché nei suoi confronti si possa dire: bravo, hai senso dello Stato. Sei pertanto, almeno sotto questo profilo, adatto a governare.

Nel procedere a questo piccolo decalogo delle pubbliche virtù, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Al primo posto metterei il rigore nella gestione del pubblico denaro. Che di un uomo politico mai si possa dire, o anche soltanto pensare: sei un corrotto, hai peculato, concusso, abusato dei pubblici poteri. Lo afferma tuttora il codice penale, ipotizzando, quantomeno in linea di principio, pene rigorose in caso di violazione delle norme.

In seconda posizione collocherei il rispetto delle regole. Un uomo di Stato non può infrangere le leggi o cercare di aggirarle. Può proporre modifiche legislative, mutare la Costituzione nelle parti in cui essa è modificabile, cambiare, entro confini ragionevoli, i rapporti fra i poteri dello Stato. Nel perseguire i suoi obiettivi politici, egli deve tuttavia osservare rigorosamente, sempre, i principi costituzionali dello Stato di diritto.

Egli deve pertanto, innanzitutto, salvaguardare la divisione dei poteri: le prerogative sovrane del Parlamento, l’autonomia dell’ordine giudiziario, l’incisività e il prestigio degli organi di garanzia (Corte Costituzionale, Consiglio superiore della magistratura) ai quali è, rispettivamente, affidato il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi e la tutela dell’indipendenza della magistratura. Preservare, in altre parole, il sistema di pesi e contrappesi.

In ulteriore posizione collocherei lo stile di vita. Penso che, se non viola la legge, ciascuno di noi, nella sfera privata, sia libero di praticare vizi o virtù come gli pare. Un uomo pubblico deve tuttavia, quantomeno, apparire rigoroso: non deve dare scandalo, ostentare potere, esibire privilegi. Come uomo di Stato, egli deve essere, piuttosto, modello di equilibrio, saggezza, sobrietà, moderazione. L’uomo politico che ha senso delle istituzioni non dovrebbe, d’altro canto, mai temere il controllo popolare: dato che ciò che lo concerne ha, pressoché sempre, un interesse pubblico, mai dovrebbe, dunque, cercare di nascondere le sue condotte, bloccare la pubblicazione di notizie, limitare la libertà dei giornalisti di dire e raccontare. Gli dovrebbe essere sufficiente il rispetto del diritto, sacrosanto, a non essere diffamato attraverso la pubblicazione di notizie false.

L’uomo di governo dovrebbe, soprattutto, operare, sempre e soltanto, nell’interesse della gente. Si parla, in questa prospettiva, di bene pubblico, di interesse collettivo, l’unico che nella gestione della «res pubblica» si dovrebbe perseguire. Si tratta, ovviamente, del profilo più importante, della sintesi di tutte le altre possibili virtù. In questa prospettiva, lo ha ribadito ieri l’altro il Presidente della Repubblica, la classe politica dovrebbe farsi carico, tutta insieme, dell’indispensabile ammodernamento dello Stato, per rendere le istituzioni pubbliche più snelle, efficienti, pronte nel rispondere, con i servizi, alle esigenze della gente.

Vi sono, poi, innumerevoli altri requisiti: ad esempio, l’uomo pubblico dovrebbe mostrare rispetto per le idee degli avversari, essere sempre educato e controllato nei dibattiti, non dovrebbe mentire a chi lo interroga su fatti pubblici o su fatti privati di pubblico interesse, dovrebbe rimuovere le situazioni di conflitto, per evitare che anche un solo cittadino sospetti che egli possa perseguire interessi privati nella gestione del potere.

Il decalogo potrebbe d’altronde continuare. Quanti di questi elementari pubblici doveri si riflettono peraltro sempre nel modo di fare quotidiano di ministri, sottosegretari, onorevoli di maggioranza e opposizione, presidenti regionali, sindaci e quant’altro? Lasciamo da parte il profilo dei comportamenti personali, e badiamo, piuttosto, ai programmi di legislatura: l’auspicio è che nessuna legge futura cancelli i principi cardine delle garanzie individuali e collettive, ribalti i poteri dello Stato, indebolisca il controllo sulla legalità dei comportamenti; nessuna legge crei sacche di mancata trasparenza, favorisca odiose impunità, circoscriva la libertà di stampa. Nessuno, infine, tagli le radici sulle quali si è fondata, fino ad ora, la Repubblica italiana.
 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Giusto guardare in casa propria
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 04:25:40 pm
10/6/2009
 
Giusto guardare in casa propria
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Non è usuale che il Capo dello Stato, intervenendo ai lavori del Consiglio superiore della magistratura, formuli con tanta chiarezza e decisione critiche a un certo modo di pensare e di operare di una parte della magistratura. La giustizia funziona poco e male, ha rilevato il Presidente, il prestigio dell’ordine giudiziario è fortemente in crisi nell’opinione della gente.

Le cause di questa situazione sono numerose. Ma la magistratura «non può non interrogarsi sulle sue corresponsabilità dinanzi al prodursi ed all’aggravarsi dell’insufficienza del sistema di giustizia».

Parole di grandissima importanza, parole di pietra. Troppo sovente infatti i magistrati, nel denunciare i mali della giustizia, affermano che le colpe sono, tutte, dei politici che non fanno le riforme necessarie o fanno leggi inadeguate, degli avvocati che intralciano con le loro eccezioni ed i loro garbugli l’ordinato lavoro degli addetti, degli ausiliari, sovente impreparati o neghittosi.

Certo, politici, avvocati e personale ausiliario possono avere le loro colpe. Ma se i processi durano troppo a lungo, se troppe inchieste vengono portate avanti nonostante la loro palese irragionevolezza, se troppe udienze sono rinviate per difetto di notifica, se troppe sentenze appaiono discutibili, se eccessive sono le prescrizioni dei reati, se troppe volte la gente si sente presa in giro, la responsabilità è anche di coloro che le inchieste ed i processi li gestiscono, li organizzano, li conducono, li decidono. Insomma, dei magistrati.
Il Presidente della Repubblica ha ricordato, d’altro canto, aspetti specifici che nuocciono gravemente al prestigio dell’ordine giudiziario: i profili di disordine e di tensione che hanno caratterizzato di recente l’attività di alcune Procure della Repubblica, l’esasperazione delle logiche di appartenenza correntizia, le tensioni provocate inutilmente sul terreno dei complessivi equilibri istituzionali.

Quest’ultimo tema è particolarmente delicato, poiché coinvolge i rapporti fra politica e giustizia. Occorre tuttavia affrontarlo con spirito laico. Sicuramente una parte della politica vorrebbe, oggi, tagliare illegittimamente le unghie alla magistratura, circoscrivere l’indipendenza dell’ordine giudiziario, occupare arbitrariamente gli spazi riservati alla giurisdizione. E questo è inaccettabile. E’ altrettanto vero, tuttavia, che contrapposizioni frontali, prese di posizioni politiche, difese e chiusure corporative, dovrebbero essere estranee a chi ha scelto di esercitare la difficile e delicata funzione di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano.

Che dire, infine, del gratuito, molte volte dannoso, protagonismo di certi magistrati, di regola pubblici ministeri, che non esitano a cercare notorietà e prestigio personale sfruttando le inchieste penali e le disgrazie degli inquisiti? Anche a questo riguardo le parole del Capo dello Stato sono state durissime: «Non può che risultare altamente dannoso per la figura del pubblico ministero qualunque comportamento impropriamente protagonistico o chiaramente strumentale ad altri fini». Agli eccessi si può porre rimedio «non soltanto con l’intervento disciplinare», ma anche «con tempestive iniziative di sorveglianza e coordinamento». Un chiaro monito allo stesso Consiglio superiore ad attivarsi, scrollandosi di dosso ogni incrostazione di residua tolleranza o copertura «domestica» di coloro che hanno sbagliato.

Gli ammonimenti del Capo dello Stato ai componenti dell’ordine giudiziario hanno d’altronde opportunamente trovato, nell’ultima parte dell’intervento presidenziale, il loro logico completamento nell’appello, altrettanto importante, a che le riforme che il Parlamento si appresta a discutere ed approvare fra poco non determinino strappi negli attuali equilibri costituzionali, non cancellino le conquiste di libertà e pluralismo realizzate con la Carta del 1948, non alterino i rapporti fra i poteri dello Stato. Non intacchino, in particolare, l’indipendenza della magistratura nel gestire l’azione penale e nel condurre i processi.

Ancora una volta parole assolutamente condivisibili, direi sacrosante. Se i magistrati che sbagliano devono essere puniti con il dovuto rigore, i principi che disegnano una magistratura indipendente ed una giustizia uguale per tutti devono essere difesi fino in fondo. Sono parte integrante della nostra democrazia

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ma da noi sono tutti impuniti
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:18:48 am
30/6/2009
 
Ma da noi sono tutti impuniti
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Bernard Madoff, il finanziere americano accusato di avere frodato i suoi clienti per un totale di oltre sessantacinque miliardi di dollari con una sorta di colossale catena di sant'Antonio, è stato condannato da un tribunale di New York a 150 anni di galera. Una condanna indubbiamente esemplare, che segue ad altre condanne altrettanto esemplari pronunciate negli anni scorsi dalla giustizia americana nei confronti di altri finanzieri malfattori (si pensi, per tutti, al caso Enron). Al di là della entità della pena irrogata, colpisce d’altronde la rapidità del giudizio: Madoff era stato arrestato nel dicembre scorso, non appena erano emerse le sue malefatte. In poco più di sei mesi si è arrivati alla sua condanna penale. Anche sotto questo profilo la sentenza americana costituisce un esempio di incisività ed efficienza.

Si potrà discutere se la decisione, a fronte del comportamento processuale dell’imputato, che aveva confessato di avere commesso tutti i delitti dei quali era stato accusato (ben undici imputazioni), ed almeno apparentemente aveva mostrato contrizione ed aveva cercato di collaborare con il giudice chiamato a giudicarlo, sia stata giusta od eccessivamente pesante. Un dato è comunque indiscutibile: che una volta di più la giustizia americana ha dimostrato di non avere difficoltà a colpire con rapidità e durezza chi, chiamato ad operare in una economia di mercato nel rispetto delle regole, tali regole ha violato e calpestato con l’obbiettivo dell'arricchimento selvaggio a danno dei cittadini truffati. Anche in Italia si sono verificati, in questi ultimi anni, scandali finanziari di grandissima entità: Parmalat, Cirio, bond argentini, per citare soltanto i casi più eclatanti. Anche in Italia, come negli Stati Uniti, si sono aperti processi penali. Quanta differenza, tuttavia, nelle giustizie dei due Paesi.

Mentre i giudici americani hanno, bene o male, fatto giustizia, e sono riusciti a farla in tempi rapidissimi, i giudici italiani, per fatti ormai risalenti a cinque o sei anni fa, stanno ancora rincorrendo gli imputati in processi lenti, complessi e faticosi, destinati, in larga misura, ad estinguersi per stanchezza e prescrizione. Si consideri, per tutte, la vicenda Parmalat. Gli autori della colossale truffa e ruberia a danno di azionisti e risparmiatori sono stati incriminati da ben due procure della Repubblica, da quella di Milano, che ha proceduto per i delitti di aggiotaggio, e da quella di Parma, che ha proceduto a sua volta per le bancarotte. Data la difficoltà di gestire, per la loro complessità, le vicende processuali, la tratta milanese si è sfrangiata a sua volta in due processi distinti, quella parmense in una decina di filoni separati. Di tutti questi processi, uno soltanto è giunto, fino ad ora, alla sentenza di primo grado: il primo processo per aggiotaggio contro Tanzi (e altri) celebrato davanti alla prima sezione del Tribunale di Milano, nel quale la maggior parte dei responsabili è riuscita a patteggiare con la Procura pene irrisorie, mentre il solo Tanzi, alla fine del dibattimento, è stato condannato ad una pena di dieci anni di reclusione.

Un risultato deludente. Tanto più deludente se si considera che, dati i tempi dei giudizi di appello e di cassazione, è ragionevole pensare che i delitti contestati risulteranno in ogni caso prescritti prima della sentenza definitiva. Se si valuta che negli Stati Uniti Madoff, raggiunto, come era naturale, da custodia cautelare, ha affrontato il processo agli arresti domiciliari, e si appresta a passare in carcere quanto gli rimane da vivere, mentre in Italia, dopo una breve custodia, lo stesso Tanzi è stato subito scarcerato ed eviterà sicuramente il carcere quand’anche taluna delle pene alle quali fosse definitivamente condannato non dovesse risultare prescritta, la differenza fra la giustizia americana e quella italiana appare, anche sotto questo profilo, enorme. Le vicende parallele della giustizia americana e di quella italiana in materia di criminalità economica dovrebbero pertanto indurre a riflettere chi ha responsabilità di governo: non è tollerabile che in Italia criminali economici e colletti bianchi, sotto la copertura di una giustizia penale complessivamente malfunzionante, siano, comunque sostanzialmente certi della loro impunità, qualunque delitto abbiano commesso. Non a caso il giudice americano che ha condannato Madoff, a commento della sua decisione, ha dichiarato che le sentenze, al di là delle conseguenze che cagionano al condannato, hanno un importante «valore simbolico», in quanto costituiscono un «monito importante» per quanti vorrebbero allo stesso modo delinquere. È ciò che noi chiamiamo «efficacia preventiva» della pena, un principio mai così negletto come di questi tempi.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Una svolta che non aiuta la giustizia
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:13:08 am
3/7/2009
 
Una svolta che non aiuta la giustizia
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Con tre voti di fiducia, in meno di ventiquattr’ore, l’esecutivo ha conquistato il sì definitivo al disegno di legge sicurezza. Un nuovo successo per la maggioranza, una nuova sconfitta per l’opposizione. Ancora una volta, ponendo la fiducia, il governo ha soffocato ogni dialettica parlamentare.

Nonostante le critiche avanzate da ambienti qualificati del mondo del diritto e dalla Chiesa, è stato mantenuto il reato di clandestinità.

Lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni vigenti è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Rispetto alla versione originaria è scomparsa la pena detentiva (che avrebbe prodotto un ulteriore, insopportabile, intasamento delle carceri). E’ stata mantenuta tuttavia la reità del fatto. Anzi, se c’è flagranza, od evidenza del reato, è previsto il rito direttissimo davanti al giudice di pace.

Immagino che numerosi lettori applaudiranno la nuova norma, ritenendo che essa costituisca un esempio di reazione forte dello Stato all’ingresso clandestino in Italia di stranieri delinquenti. In realtà il nuovo reato appare, ai tecnici del diritto, più che altro un «manifesto» privo di logica ed utilità, se non, addirittura, una novità foriera di danni per l’esercizio della giustizia.

Iniziamo da quest’ultimo profilo. La giustizia italiana è, già oggi, travolta da mille incombenze. L’effetto immediato della nuova disciplina rischierà di essere uno tsunami giudiziario di migliaia di nuove iscrizioni e di nuovi processi. Chi sarà, concretamente, in grado di gestire la tempesta? Si dirà: il giudice di pace, senza che la normale giustizia penale trattata dai magistrati togati sia sfiorata.

Nessuno pensa tuttavia che, prima di arrivare davanti al giudice di pace, a gestire la situazione si troveranno le Procure, che dovranno, bene o male, iscrivere i reati, generalizzare gli indagati, e, se del caso, esercitare l’azione penale? Delle due, pertanto, l’una: o esse saranno travolte, e pertanto impedite nello svolgere la loro stessa, usuale, attività d’indagine nei confronti dei reati dei quali già oggi si occupano, ovvero faranno finta. Iscriveranno formalmente i nuovi reati di clandestinità (e già questa sarà un’incombenza pesante), e poi terranno le pratiche nel cassetto. In entrambi i casi, com’è ovvio, qualcosa non funzionerebbe.

Ma passiamo alla logica. Quale può essere la giustificazione della previsione di un «reato» di clandestinità? Il clandestino, se scoperto, deve essere ovviamente espulso dallo Stato, questo è l’obbiettivo primario. Ed infatti anche la nuova legge prevede che lo straniero nei cui confronti si è aperto processo penale per clandestinità, o nei cui confronti c’è stata condanna penale, dovrà essere cacciato dal territorio nazionale. Anzi, se sarà espulso prima della condanna, il giudice dovrà dichiarare il non luogo a procedere.

Ma allora, per raggiungere tale obbiettivo, non sarebbe stato più ragionevole prevedere, semplicemente, lo snellimento delle pratiche amministrative di espulsione, senza scomodare la giustizia penale con la sua chiamata alle armi contro un reato comunque bagatellare? La nuova incriminazione costituisce pertanto, con evidenza, appunto un semplice «manifesto», non è una norma rispettosa dei principi che dovrebbero, ragionevolmente, sorreggere l’attività di un legislatore scrupoloso.

Né si potrà sostenere, per giustificare la novità, che il migrante irregolare è, per definizione, pericoloso: la Corte Costituzionale ha, infatti, già escluso che lo stato d’irregolarità possa essere considerato, di per sé, sintomo presuntivo di pericolosità sociale (sentenza n. 78/2007). E si badi che la Corte, trattando d’immigrazione, in un’altra occasione aveva affermato, con altrettanta chiarezza, che il legislatore deve «orientare la sua azione a canoni di razionalità» (sentenza n. 5/2004), bollando pertanto come incostituzionale ogni disciplina irragionevole della materia.

Che dire, a questo punto, delle ulteriori disposizioni approvate ieri col decreto sicurezza? In questa sede non è possibile una loro analisi dettagliata. Mi limiterò pertanto ad accennare che alcune di esse sono sicuramente apprezzabili, come quelle che prevedono giri di vite in materia di criminalità organizzata od escludono dalle gare di appalto le vittime di estorsione che non denuncino la violenza subita. Che altre suscitano invece grandi perplessità, come quella, soprattutto, che istituisce le ronde cittadine, attribuendo a privati ciò che dovrebbe essere attività riservata ai pubblici poteri.

Il «segno distintivo» della nuova legge è comunque, senza dubbio, il reato di immigrazione clandestina. Ed è su tale profilo che deve essere, pertanto, misurato il livello di civiltà, o di inciviltà, del «legislatore nuovo» che si accinge, in un modo o nell’altro, a trasformare lo Stato italiano e la sua immagine.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. In aula come sul set
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:49:32 pm
10/7/2009
 
In aula come sul set
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Fa un certo effetto la fotografia di un pubblico ministero che nel corso della sua requisitoria, avvolto nella toga, impugna una pistola, tende il braccio e mima il gesto dell’agente.
Quell’agente che, in autostrada, un paio di anni fa, ha sparato ad un tifoso uccidendolo. Non è infatti usuale riscontrare oggi nelle aule di giustizia, soprattutto da parte dell’accusa, questa teatralità un po’ vistosa, questa ricostruzione scenica del fatto, questo tentativo di affidare anche al gesto il messaggio che dev’essere recepito da giudici e giurati.

Fino a sessanta, settant’anni fa, la scena, in Corte di Assise, era invece frequente, soprattutto da parte degli avvocati difensori. Molti di essi affidavano alle loro qualità oratorie ed alla loro abilità di mimi e di teatranti una parte consistente dell’efficacia dell’arringa. Il costume è successivamente cambiato, ed ai grandi protagonisti dell’arringa recitata sono succedute schiere di legali che hanno affidato soltanto alla logica, al raziocinio, al rigore nella ricostruzione del fatto e del diritto le sorti dei loro clienti. Freddi, razionali, distaccati, magari ironici, mai recitanti.

Semmai, in questi ultimi tempi, alla parola si sono affiancate la tecnologia e la scienza, che hanno consentito ad accusa, difesa, polizia e consulenti tecnici ricostruzioni del fatto affidate a simulazioni realizzate con il computer, a fotografie e filmati precisi nel dettaglio, a proiezioni in grado di colpire i sentimenti dei giurati, ad accostamenti di immagini idonei a dimostrare anche visivamente ciò che era accaduto. L’impiego di questi aiuti tecnologici non è tuttavia teatro. E’, ancora una volta, manifestazione di tecnica e rigore nell’usare, in udienza, l’arte dell’argomentazione.

In questi ultimissimi tempi l’affinamento e l’impiego sempre più frequente della cosiddetta «prova scientifica» nei casi di omicidio e di violenza (prova affidata alla ricerca del Dna, all’individuazione delle impronte, alla ricostruzione della scena del delitto utilizzando le tecniche della Bpa, ecc.) hanno per altro verso reso, sovente, ancora più sofisticata l’istruttoria dibattimentale oltre che la requisitoria del pubblico ministero e l’arringa del difensore. Quando si discute di prova scientifica, nulla è più concesso all’oratoria: si parla di numeri, di analisi matematiche, di riscontri chimici, di dimensione e forma delle macchie di sangue, di direzione degli schizzi, di consistenza della materia di cui sono formate le cose ritrovate sul luogo del delitto. Che c’è da dire, allora, se non contestare con gli argomenti rigorosi della scienza le argomentazioni della controparte, affidate magari ad una scienza che segue una tecnica ed una metodologia diversa?

Ecco perché, allora, fa un certo effetto osservare, oggi, la fotografia di un pubblico ministero che mima in aula, con la pistola in pugno, il gesto della persona che egli accusa di omicidio. Non credo, peraltro, che si tratti di un ritorno a vecchi modelli di intervento delle parti nel processo. Probabilmente, in questo caso, la riproduzione scenica del gesto dell’agente, data la peculiarità della vicenda (c’era stato un colpo di pistola sparato ad altezza d’uomo dall’agente di polizia, che aveva colpito e ucciso, a distanza, un giovane tifoso) era particolarmente utile per spiegare la ragione della tesi accusatoria sostenuta del pubblico ministero, che al termine della sua requisitoria ha chiesto una condanna a quattordici anni di reclusione per omicidio doloso. Di qui l’utilizzazione, da parte sua, della pur inusuale ricostruzione scenica del gesto dell’imputato.

Semmai, sull’onda di un mondo che è sempre più spettacolo e sfruttamento (senza rispetto) delle cronache quotidiane, si è dovuto negli ultimi anni registrare l’irrompere violento, sulla scena dei procedimenti penali, dei processi celebrati per finta, in parallelo a quelli veri, fuori dalle aule di giustizia: soprattutto in certi studi televisivi, dove finti magistrati, finti periti, finti psichiatri, finti avvocati (tutti finti, perché nessuno di essi faceva parte del processo vero, ed aveva pertanto studiato con la dovuta attenzione gli atti processuali), hanno discettato per ore su colpe e responsabilità di persone che non avevano mai visto e conosciuto, valutato le loro condizioni fisiche e mentali, emesso sentenze, sparato giudizi.
Un teatro, questo sì, nuovo e dannoso, perché nessuno può dire quanto la finzione che in esso veniva recitata può avere, indirettamente, influenzato comportamenti e giudizi di coloro che vivevano invece, come accusatori, difensori, consulenti tecnici, testimoni e giudici, il processo vero.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Dura lex, sed lex
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:26:52 pm
4/8/2009
 
Dura lex, sed lex
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La liberazione di Valerio Fioravanti suscita, inevitabilmente, sconcerto. Condannato più volte all’ergastolo perché giudicato esecutore materiale della strage alla stazione di Bologna e per avere commesso altri numerosi omicidi politici, nonostante la pesante gravità dei reati dei quali è stato riconosciuto colpevole è stato giudicato meritevole del beneficio della liberazione condizionale.

Eppure non ci si può stupire più di tanto. Il nostro codice penale prevede, infatti, che anche il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (che in realtà sono ancora meno, grazie all’abbuono di tre mesi per ogni anno di detenzione, stabilito per ogni condannato che abbia tenuto una buona condotta carceraria).

La liberazione condizionale non è, ovviamente, prevista senza condizioni: essa può essere concessa soltanto se il condannato ha tenuto un comportamento tale da fare ritenere sicuro il suo ravvedimento e soltanto se ha risarcito le vittime del reato, salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili. Evidentemente Fioravanti è stato giudicato dal Tribunale di sorveglianza ravveduto e, poiché non mi risulta che abbia risarcito, deve avere dimostrato l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili maturate.

Prendiamo atto. D'altronde la legislazione penale italiana prevede, all’art. 27 comma 3 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; pertanto, se non fosse previsto che anche l’ergastolano ravveduto ha titolo per essere riammesso nel consorzio degli uomini liberi, la pena dell’ergastolo sarebbe, inevitabilmente, costituzionalmente illegittima.

Ciò detto, credo che sia comunque importante, nel caso di specie, procedere ad alcune precisazioni ulteriori. Innanzitutto occorre sottolineare che la concessione della liberazione condizionale non ha nessun riflesso sulle condanne a suo tempo inflitte. Esse sono state pronunciate, sono diventate esecutive, in quanto tali hanno scolpito la «verità giudiziale». Per la giustizia italiana, ad oggi, Valerio Fioravanti, nonostante si sia dichiarato innocente, è pertanto, sempre, l’esecutore materiale, insieme a Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini, della strage del 2 agosto 1980. E’ stato liberato, ma soltanto perché il suo comportamento carcerario, e le valutazioni sulla sua attuale personalità, hanno convinto un Tribunale che egli fosse soggetto ormai ravveduto, non perché la sua condotta sia stata valutata diversamente da allora.

In secondo luogo, occorre prendere atto che, con il trascorrere degli anni, sono emerse perplessità sulla colpevolezza dei tre (allora giovanissimi) neofascisti condannati come esecutori materiali della strage, e che tali perplessità, alimentate inizialmente soltanto dalla estrema destra (per ragioni evidenti di immagine e di interesse politico), si sono con il tempo rafforzate, fino a coinvolgere ambienti della stessa sinistra. Ciò non può tuttavia scalfire, occorre dirlo con forza, il peso e l’importanza di un processo condotto in un contesto molto difficile, intossicato da ripetuti tentativi di depistaggio, che è riuscito, comunque, a fare emergere qualche brandello di verità: i forti elementi indiziari a carico di alcuni imputati dell’esecuzione della strage, che legittimano a pieno titolo (allo stato) la loro condanna penale, e la prova dell’attività criminale dei servizi nella costruzione delle false piste sulle quali si è cercato di dirottare l’indagine penale.

Il processo di Bologna non è riuscito, è vero, ad individuare, a fianco degli esecutori materiali, i mandanti e gli organizzatori della strage. Il processo era partito con un numero elevato di imputati, nel capo di imputazione aveva individuato mandanti, istigatori e responsabili morali. Nei loro confronti non è stato tuttavia in grado di raccogliere prove o indizi sufficienti per una loro condanna. Capisco, peraltro, che i familiari delle vittime, e la città, nel Paese delle stragi impunite, pur chiedendo che tutti i veli vengano sollevati e che siano finalmente individuati mandanti ed organizzatori, difendano comunque le condanne ottenute, e ne rivendichino la legittimità contro chi vorrebbe cancellarle e, soprattutto, cancellare l’aggettivo «fascista» dalla lapide che, nella stazione, ricorda gli 85 morti del 1980.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Siamo finiti dentro una guerra
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 03:54:42 pm
5/8/2009
 
Siamo finiti dentro una guerra
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Era tutto fuorché un segreto, il fatto che solo l’estrema ampiezza dello spettro dei singoli caveat nazionali, e l’elasticità nell’interpretazione dello spirito e dello stesso obiettivo della missione, fosse condizione tutt’altro che accessoria tra quelle che avevano permesso di arruolare, e mantenere, nell’Isaf un numero relativamente elevato di nazioni. Finora, ognuno dei Paesi che compongono l’Isaf ha sostanzialmente impostato la propria partecipazione secondo le proprie attitudini e convenienze, talvolta modificate in seguito al cambiamento della maggioranza di governo.

Di fronte all’offensiva scatenata dai talebani per cercare di impedire la celebrazione delle prossime elezioni presidenziali, questa elasticità è divenuta un’ambiguità insostenibile. La Gran Bretagna, che ha contato una media di un morto al giorno nel solo mese di luglio, ha sollevato platealmente il problema di una coalizione in cui alcuni combattono e altri stanno a guardare, magari nel frattempo discutendo di «soluzioni politiche», profilando «exit strategy», inseguendo la chimera dei «talebani moderati».

Intendiamoci molto bene. Gli stessi Usa che oggi chiedono, con scarso successo, più mezzi, più uomini e più determinazione ai recalcitranti alleati europei (giacché canadesi e australiani fanno la loro parte da tempo), sono tra i principali responsabili della situazione che si è venuta a creare in Afghanistan: pericolosa per il futuro di quel Paese, e rischiosa per il destino della Nato. Lo sono ovviamente per aver aperto il controverso fronte iracheno prima della chiusura di quello afghano nel 2003 (con la conseguente distrazione di truppe e attenzione e con la spaccatura causata all’interno dell’Alleanza Atlantica). Lo sono per avere lungamente escluso ogni responsabilità per la ricostruzione del Paese dopo la conclusione della campagna del 2002. Lo sono per essersi colpevolmente fidati del Pakistan doppiogiochista di Musharraf e dei suoi servizi segreti. Ma lo sono soprattutto per aver rifiutato quell’appoggio che, apertamente e non senza difficoltà, gli alleati avevano offerto agli Stati Uniti, in applicazione (per nulla scontata né automatica) dell’articolo 5 del Patto Atlantico. In quel momento, se gli Usa avessero accettato la profferta di aiuto europea, la coalizione che sarebbe sorta sarebbe stata priva di ambiguità, conscia del fatto che i Paesi membri stavano adempiendo al casus foederis che li chiamava a combattere una guerra contro un nemico comune. Sulla base di considerazioni militari opinabili e di valutazioni politiche che si sono rivelate fallaci, l’amministrazione Bush rifiutò tale aiuto e diede vita a un’operazione solitaria (Enduring Freedom), salvo poi chiedere il sostegno degli alleati per una missione dal carattere più ambiguo (Isaf), quando l’Iraq reclamava più truppe di quelle ipotizzate e la campagna afghana si rivelava tutt’altro che conclusa.

La Gran Bretagna di Tony Blair fu corresponsabile delle avventate scelte dell’amministrazione Bush, accettando di partecipare singolarmente alla campagna afghana (e poi a quella irachena), invece di aiutare Washington a comprendere che il rifiuto della collaborazione offerta dagli alleati era un clamoroso errore politico e militare, oltretutto foriero di nefaste conseguenze per la sopravvivenza stessa della Nato. In un certo senso, si potrebbe dire, Londra paga anch’essa i suoi errori. Ma riconoscere errori e responsabilità non basta. Occorre prendere atto della realtà e cercare le misure adeguate al mutato scenario afghano.

In Afghanistan, e non da oggi, la situazione è tale da richiedere non più peace-keeper, ma peace-warrior. Servono cioè truppe che combattano per riportare la pace nel Paese e non per mantenerne una ormai inesistente. E’ una sfida alla quale l’Alleanza non può sottrarsi. Non è per nulla accidentale che il contingente italiano sia sempre più attivamente coinvolto nei combattimenti. Questo, inevitabilmente, comporterà più perdite di quelle fin qui subite. Gli esperti ci dicono che l’opinione pubblica non è ancora preparata a una tale eventualità. Sarebbe opportuno che il governo si dedicasse a colmare questo gap, e, almeno in questo caso, non si limitasse a leggere i sondaggi, ma li sfidasse.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Sarebbe oro il silenzio dei magistrati
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:42:44 pm
16/9/2009

Sarebbe oro il silenzio dei magistrati
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Antonio Laudati, neo Procuratore della Repubblica di Bari, ha fama di magistrato serio e preparato. Impegnato in passato in complesse indagini di mafia, è altresì autore di saggi su temi di diritto penale e criminalità organizzata. Ha stupito, pertanto, vederlo attivo, al momento dell’insediamento, in tante dichiarazioni e parole davanti a microfoni e giornalisti.

Il momento, alla Procura di Bari, non è sicuramente tranquillo. Le inchieste in corso sono scottanti, riguardando la grande corruzione pugliese nella Sanità, coinvolgendo ampi settori del mondo politico, interessando le ragazze ormai famose di Tarantini, chiamate a partecipare alle feste del presidente del Consiglio.

Per altro verso, sembra che i rapporti interni alla magistratura locale non siano idilliaci, dato che fra i sostituti procuratori impegnati nei diversi filoni dell’inchiesta vi sono state polemiche e veleni e che due giudici donne avrebbero chiesto addirittura l’esonero dai loro impegni giudiziari in quanto frequentatrici abituali di feste e serate.

Un bel vespaio, e sotto l’attenzione molesta di televisioni e giornali. Ma proprio per questo l’arrivo del nuovo Procuratore doveva essere particolarmente rassicurante: impronta di grande serietà, garanzia assoluta di conduzione imparziale e serena dell’ufficio, totale silenzio su opinioni e intenzioni.

Invece, tante parole.

Poco prima del momento in cui il Procuratore ha messo piede nel nuovo ufficio è esplosa sui giornali la pubblicazione dei verbali degli interrogatori di Tarantini. L’irritazione del nuovo capo, che ha parlato addirittura di rapporti anomali fra strutture degli inquirenti e strutture dell’informazione, è stata durissima. Troppo dura, soprattutto nei confronti dei giornalisti, che, sappiamo, cercano per mestiere con ogni mezzo le notizie, e che, se riescono a procurarsele, inevitabilmente le pubblicano.

Il giorno dopo il Procuratore ha voluto essere esplicito anche sul merito delle indagini: «È di tutta evidenza - ha dichiarato - che Berlusconi è assolutamente fuori da qualsiasi responsabilità». Di tale specifica circostanza sono assolutamente convinto anch’io, quantomeno per quanto concerne il traffico delle fanciulle. Era tuttavia prudente, o opportuno, che il nuovo capo dell’ufficio si lanciasse - proprio lui, che sarà, d’ora in avanti, la voce più importante nella conduzione delle indagini - in tale esplicita pubblica valutazione sulla posizione del presidente del Consiglio?

Poi, le più o meno velate censure ai colleghi: basta con le sovraesposizioni mediatiche che danneggiano inchieste e magistrati e determinano tensioni con il mondo della politica, ha dichiarato. Le indagini rimarranno ai loro titolari, ma sarà compito del Procuratore svolgere un’incisiva attività di coordinamento generale. Tutto corretto: ma, ancora una volta, che bisogno c’era di parlare? È stata pubblicata infine la notizia che è intenzione del Procuratore di rifiutare a Tarantini il patteggiamento. Segno che le dichiarazioni di costui non lo hanno convinto fino in fondo. Bene. Ma, di nuovo, perché dichiararlo?

Io confido che il Procuratore Laudati, forte delle sue capacità e del suo carisma personale, sappia affrontare con la fermezza e l’equilibrio necessari il difficile compito che lo attende nel complesso mondo pugliese, mettendo, se del caso, anche in riga i sostituti procuratori, la cui pregressa attività ha, talvolta, lasciato perplessi o preoccupati gli osservatori esterni.

Il suo problema è comunque rilevante. E non è soltanto un problema tecnico. Egli proviene da un’esperienza ministeriale, dove ricopriva l’importante ufficio di Direttore generale per gli affari penali. La sua frequentazione con il ministro Alfano, del quale era uno dei più stretti collaboratori, era pertanto, per necessità, costante. Il suo incarico viene quindi guardato oggi, da taluno, con sospetto: nel timore che la sua missione sia di governare la Procura di Bari cercando di «normalizzarla» in qualche modo, o di indirizzarla nell’una o nell’altra direzione.

Suo compito dovrebbe essere invece attivarsi affinché le indagini vengano chiuse il più rapidamente possibile nel totale rispetto delle regole della legalità e della serietà investigativa. Chi sulla base delle risultanze processuali deve essere colpito, chiunque esso sia, sia inflessibilmente colpito. Chi non risulta raggiunto da prove di colpevolezza, sia velocemente archiviato. Cessino strumentalizzazioni e inutili polveroni.

Ma per fare questo, e nella fiducia di tutti, è necessaria una immagine forte di magistrato incorruttibile, equilibrato e imparziale. Una immagine che il trambusto e le troppe parole dei primi giorni non hanno rafforzato, ma che, si spera, il Procuratore Laudati saprà presto garantirsi, con i fatti, nella sua quotidiana attività di capo dell’ufficio di Procura.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Napolitano non aveva alternative
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2009, 10:59:47 am
5/10/2009

Napolitano non aveva alternative
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Lo scudo fiscale approvato dal Parlamento, politicamente, è molto criticabile: un regalo inaccettabile a chi ha evaso le tasse trafugando illegalmente denari all’estero e che, ora, potrà farli rientrare puliti in Italia versando pochi spiccioli.

E’ tuttavia, altresì, grave che un politico di prima fila si sia permesso di attaccare con accuse inaccettabili il Presidente della Repubblica che, promulgando la legge, non ha fatto altro che esercitare, legittimamente, il suo potere. Di fronte allo sconcerto della gente che ha assistito all’incredibile polemica, credo sia opportuno cercare di fare, sommessamente, chiarezza in punto di diritto.

Partiamo dal dato di fatto. Il Presidente, ricevuto il testo della legge, lo ha promulgato. Una decisione, a mio parere, giuridicamente corretta. La Costituzione prevede che le leggi siano promulgate dal Presidente della Repubblica (art. 73) e soggiunge che egli, prima di promulgarle, può con messaggio motivato chiedere una nuova deliberazione, ma una volta soltanto. Se le Camere approvano nuovamente la legge, essa dev’essere comunque promulgata (art. 74). È pacifico che questa disciplina non attribuisce al Presidente nessun potere di veto all’entrata in vigore di una legge.

Nella prassi costituzionale per qualche tempo si è ritenuto che i Presidenti potessero motivare anche soltanto politicamente le loro eventuali richieste di una nuova lettura parlamentare. A partire dalla Presidenza Ciampi si è cominciato a ritenere che le richieste presidenziali di una nuova deliberazione dovessero invece essere ancorate a profili ritenuti di manifesta, clamorosa illegittimità costituzionale.


Il vaglio di costituzionalità
Profili «manifesti», «clamorosi», poiché nel nostro sistema giuridico il vaglio di costituzionalità delle leggi non compete al Capo dello Stato ma alla Corte Costituzionale.
Nel caso di specie, al di là delle possibili critiche politiche, si deve comunque escludere l’esistenza di un «vistoso» profilo di illegittimità costituzionale. Vi sarebbe palese illegittimità se la prevista esclusione della responsabilità penale per determinati reati dovesse essere considerata, nella sostanza, una amnistia (le leggi di amnistia devono essere infatti approvate dai due terzi dei componenti delle Camere, cosa che nel caso di specie non è avvenuto). Ma ciò deve essere escluso. Meccanismi analoghi di condono penale collegato al rientro di capitali dall’estero sono già stati utilizzati in passato dal nostro Paese, senza che la Corte Costituzionale sia mai intervenuta per dichiarare la loro illegittimità (essa, anzi, ha più di una volta escluso che in tali casi si potesse parlare di amnistia). La non punibilità dei reati, nella legge sullo scudo fiscale, è stata circoscritta ai casi in cui non sia già iniziato un processo penale; l’amnistia, invece, ha sempre coinvolto anche reati per i quali era già in corso un processo o vi era già stata, addirittura, una condanna.


La valutazione del Capo dello Stato
Passiamo ora a valutare il contenuto della legge. Un giudizio politico negativo non può condizionare, di per sé, la valutazione di un Capo dello Stato in sede di promulgazione. Perché possa essere ragionevolmente prospettata una ipotesi di messaggio motivato alle Camere devono essere riscontrati profili che rendano il contenuto della legge del tutto irragionevole.

La legge sullo scudo fiscale prevede una «copertura» penale ampia. Se si segue il suo iter legislativo, si scopre che il suo impianto originario è stato comunque modificato. Originariamente era stato previsto che la documentazione relativa al rimpatrio del denaro non potesse essere utilizzata quale prova a carico in nessun processo penale pendente o futuro. Il che avrebbe di fatto impedito l’accertamento di reati di ogni specie, anche gravissimi, come il riciclaggio, il traffico di droga, l’associazione a delinquere, l’omicidio e via dicendo. Una vera assurdità.

L’inutilizzabilità dei documenti è stata tuttavia successivamente, anche per l’intervento del Capo dello Stato, circoscritta ai processi amministrativi, civili e tributari non ancora aperti, mentre il loro impiego come prova di reato è stato consentito in tutti i processi penali pendenti o futuri. Nello stesso tempo si è mantenuto l’obbligo degli intermediari finanziari di segnalare le operazioni sospette, neutralizzando i ripetuti tentativi del governo di eliminarlo a tutela degli evasori. L’ambito della copertura penale è stato circoscritto ai settori, sia pure estesi, dei reati tributari e di quelli strumentali all’evasione fiscale, come i falsi materiali e i falsi in bilancio. I profili più evidenti di illegittimità costituzionale sono stati, peraltro, eliminati.
Su questa base bloccare la legge in sede di promulgazione non era né semplice né, probabilmente, consentito. Piuttosto, se fra le pieghe della legge dovessero emergere, in futuro, profili di illegittimità, a pronunciarsi dovrà essere la Corte Costituzionale, come prevede la Costituzione.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Riforma contro la giustizia
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2009, 07:12:59 am
24/10/2009

Riforma contro la giustizia
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Dopo alcuni mesi di stallo sembra che le riforme progettate dal governo in materia di giustizia subiranno, di qui a poco, una grande accelerazione.
Stando alle recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio parrebbe, anzi, che presto vi saranno ulteriori novità. Si vorrebbe affrontare rapidamente anche il tema della riforma costituzionale della giustizia.

Che la giustizia italiana debba essere riformata costituisce quasi un luogo comune. Chiunque frequenta i tribunali è costretto a fare ogni giorno i conti con le disfunzioni: processi rinviati a causa delle omesse notifiche, tempi eccessivi fra una udienza e l’altra, processi che non si celebrano perché un giudice trasferito non è stato tempestivamente sostituito, processi che saltano a causa del riscontro tardivo di situazioni di incompatibilità. Per tacere dei casi, non frequenti ma comunque riscontrabili, di sciatteria, di prepotenza, di inaccettabile gestione burocratica del servizio.

Costituisce pertanto esigenza prioritaria predisporre una riforma in grado di restituire efficienza alla macchina arrugginita: una riforma che tocchi alcuni profili della legislazione penale, che incida sui meccanismi dell’organizzazione giudiziaria, che sia caratterizzata da interventi coordinati diretti a rimuovere le cause principali del cattivo funzionamento. Di fronte a quest’esigenza, le riforme pendenti in Parlamento e quelle che sono state ulteriormente prospettate in questi ultimi giorni lasciano peraltro insoddisfatti.

Preoccupano, innanzitutto, le modalità del dibattito politico. Nei mesi che hanno preceduto la sentenza della Corte Costituzionale sul «Lodo Alfano», nessun politico di maggioranza ha più parlato di riforma della giustizia: non si voleva, probabilmente, alimentare discussioni nell’imminenza di una decisione giudiziaria molto importante per il premier. Quando si è avuta la notizia della clamorosa bocciatura, la polemica è invece riesplosa con violenza. Con un palese atteggiamento punitivo, si è gridato che entro dicembre le riforme pendenti in Parlamento devono essere approvate e che entro l’anno devono essere anche impostate le riforme costituzionali. Fra le priorità: separazione delle carriere, trasformazione dell’ufficio del pubblico ministero, spaccatura in due del Csm, riforma dei criteri di selezione dei giudici costituzionali.

Ma preoccupano, soprattutto, molti contenuti delle riforme progettate. Faccio alcuni esempi. Approvare la riforma delle intercettazioni nel testo votato dalla Camera, che subordina il loro impiego all’acquisizione di gravi indizi di colpevolezza e circoscrive la loro durata, significherebbe ridurre la possibilità di utilizzare con efficacia tale importante strumento di investigazione. Approvare la parte della riforma del processo penale in forza della quale si sottrae la polizia giudiziaria al controllo diretto del pubblico ministero, rischierebbe di indebolire ulteriormente l’incisività delle indagini. Consentire di citare i testimoni senza possibilità di controllo da parte del giudice, significherebbe concedere agli avvocati di allungare a dismisura i tempi dei processi attraverso la presentazione di liste di testi strumentalmente gonfiate.

Si pensi, d’altronde, a cosa accadrebbe se dovessero essere introdotte misure volte a consentire a ministri e parlamentari di opporre senza ritegno impegni politici alla celebrazione dei processi. O se, per preservare comunque il premier, si ritenesse di accorciare oltre misura i tempi della prescrizione anche nei confronti di reati gravi come la corruzione. Ben altre dovrebbero essere, come è evidente, le riforme della giustizia penale nell’interesse dei cittadini.

Quanto alle riforme costituzionali, per ora soltanto minacciate, per esprimere giudizi occorre ovviamente attendere la loro specifica formulazione. Già ora è, comunque, possibile procedere ad alcune considerazioni di metodo. Le proposte di cui si è sentito parlare nei giorni scorsi hanno una chiave di lettura comune: si vuole indebolire il potere giudiziario sul presupposto che la magistratura sarebbe progressivamente diventata una forza senza controlli nel panorama dei poteri dello Stato. Essa, si sostiene, ha acquistato nel tempo un peso esorbitante, ha prevaricato le sue funzioni, è diventata, nei fatti, una scheggia che è necessario riequilibrare.

Il problema non è di poco conto. Talune preoccupazioni possono anche avere un certo fondamento. Poiché una società democratica non può comunque rinunciare ai capisaldi dello Stato di diritto, preoccupa che una questione di tanta delicatezza sia affrontata nella concitazione di un momento di difficoltà del premier, con il rischio di soluzioni punitive elaborate al solo scopo di assicurare coperture ed immunità a politici che hanno commesso reati.

In astratto l’antidoto potrebbe essere un progetto di riforma costituzionale sul quale convergano maggioranza e opposizione. Il presidente del Consiglio, nei giorni scorsi, ha tuttavia già dichiarato che le riforme che verranno progettate dalla sua parte politica si faranno comunque, anche contro l’eventuale parere delle minoranze.
 
In questa prospettiva la notizia, battuta ieri dalle agenzie, secondo cui la «Consulta Giustizia del Pdl» avrebbe chiesto, invece, di cercare soluzioni concordate, muovendo dal progetto elaborato a suo tempo dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, fa soltanto sorridere. A parte il fatto che, come si ricorderà, tale progetto non era condiviso da una parte consistente di coloro che fanno oggi parte della minoranza politica che dovrebbe concordare.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Inchiesta rigorosa senza giudizi sommari
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2009, 10:55:25 am
31/10/2009

Inchiesta rigorosa senza giudizi sommari
   
CARLO FEDERICO GROSSO


La vicenda di Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri per il possesso di una piccola quantità di sostanza stupefacente, e dopo una settimana morto, ufficialmente, «per presunta causa naturale», è esplosa sulle cronache.

Tutto è avvenuto dopo la pubblicazione delle fotografie, sconvolgenti, del suo corpo coperto di ematomi, ecchimosi e tumefazioni.

Giustamente la famiglia chiede verità. Si è rivolta al governo, ai ministri competenti, alla magistratura, perché facciano chiarezza su ciò che è accaduto. E fare chiarezza costituisce dovere primario e imprescindibile delle pubbliche istituzioni, poiché non è ammissibile che un ragazzo di poco più di trent’anni muoia senza ragione, coperto di ferite, quando si trova, ristretto, tra le braccia dello Stato.

Ciò che è stato denunciato dai famigliari è stato pubblicato ieri su tutti i giornali. Fermato dai carabinieri la sera del 15 ottobre, Stefano Cucchi è apparso a casa sua poco dopo per una perquisizione, assolutamente integro. Il giorno dopo è arrivato nell’aula del processo, per la convalida del fermo, con la faccia gonfia e sfigurata. La visita all’ingresso del carcere di Regina Coeli, dove è stato condotto dopo l’udienza, ha riscontrato «ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione». Successivamente il ragazzo è stato trasportato all’Ospedale Pertini. I genitori, nonostante i loro sforzi, non sono riusciti a vedere il figlio: la burocrazia li ha bloccati per tre giorni, il 19, il 20 e il 21 ottobre. Il 22 ottobre Stefano è morto.

I carabinieri, chiamati indirettamente in causa dai genitori, respingono ogni accusa. Quando Stefano si trovava in camera di sicurezza dopo il fermo, sostengono, ha accusato un malore. E’ stata chiamata subito un’autoambulanza, un medico lo ha visitato stilando un referto che parla di epilessia e di tremori, il ragazzo ha rifiutato ricovero e cure chiedendo, semplicemente, di essere lasciato dormire.

Le cose, ovviamente, non quadrano. Se il ragazzo la sera del 15 ottobre era integro e in salute, ed il 16 ottobre è apparso in tribunale tumefatto, qualcosa nel frattempo è evidentemente accaduto. Deve essere chiarito che cosa è effettivamente capitato: se c’è stato un pestaggio, da parte di chi, con quali modalità, per quali ragioni le lesioni hanno determinato a loro volta la morte del ragazzo. Non è d’altronde un caso che la Procura di Roma, che aveva inizialmente aperto un fascicolo per «atti relativi» alla morte di Stefano Cucchi, abbia deciso, ieri pomeriggio, di indagare, più specificamente, per omicidio preterintenzionale. Si ipotizza, appunto, che il giovane sia stato picchiato e che sia morto a causa delle lesioni subite.

L’inchiesta dovrà d’altronde chiarire molte cose. Oltre che la causa delle ferite riscontrate, la ragione per cui nessuno, né il giudice, né il pubblico ministero né l’avvocato difensore, nell’udienza del 16 ottobre abbia rilevato la gravità delle condizioni del ragazzo. Quali terapie sono state predisposte dopo il ricovero al Pertini. Per quale ragione i genitori sono stati così duramente respinti e tenuti lontani dal loro ragazzo.

Si tratta di un’indagine complessa, ma sicuramente non «impossibile». E’ prevedibile, anzi, che con l’ausilio degli strumenti della medicina legale si sia in grado di stabilire con certezza con quali modalità le lesioni sono state cagionate e per quali ragioni esse hanno portato, ad una settimana di distanza, alla morte di chi le aveva subite. Se emergerà che qualcuno ha pestato, sarà compito della Procura stabilire chi lo ha fatto, come e perché. Gli strumenti della medicina legale, e la predisposizione di una rigorosa tecnica di indagine, dovrebbero, d’altronde, consentire di stabilire per quali ragioni il ricovero in ospedale e le cure predisposte non sono stati in grado di salvare il giovane.

Ciò che è assolutamente indispensabile, di fronte alla gravità di ciò che sembra essere accaduto, è che le istituzioni preposte all’accertamento siano in grado di fare chiarezza seriamente, con efficacia e, soprattutto, in fretta. E’ inoltre indispensabile che nel fare chiarezza esse operino senza interferenze. Troppe volte, in passato, la lentezza, i depistaggi, le deviazioni, le reticenze, le timidezze, i timori, hanno ostacolato, impedito, intorbidito, con conseguenze molto pesanti per la convivenza civile e per la credibilità delle istituzioni.

Ciò che dobbiamo dunque chiedere con forza allo Stato, oggi, è un’inchiesta trasparente, seria, efficace, rapida, che sappia chiarire in fretta i fatti e che consenta, se risulterà dimostrato che alcuni pubblici ufficiali hanno compiuto efferatezze, una punizione esemplare. Dobbiamo, peraltro, evitare giudizi sommari, condanne a priori, inutili generalizzazioni. Se verranno individuate responsabilità di singoli carabinieri, essi siano duramente puniti; se dovessero emergere responsabilità, anche, di alcuni loro superiori diretti, o tentativi di copertura, anch’essi siano sanzionati con severità. Con la consapevolezza, tuttavia, che l’eventuale responsabilità di singoli soggetti non coinvolge comunque, automaticamente, la responsabilità dell’intero corpo al quale essi appartengono o, peggio, quella dell’intero apparato delle pubbliche istituzioni del Paese.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. I confini del segreto
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2009, 10:13:25 am
5/11/2009

I confini del segreto
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Gli agenti Cia sono stati condannati a pene pesanti per il sequestro di Abu Omar. Pollari, Mancini e tre altri funzionari del Sismi sono stati, invece, dichiarati non giudicabili a causa del segreto di Stato che copre la documentazione relativa all’eventuale ruolo esercitato nella vicenda.

La ragione giuridica di questa decisione è individuabile nell’art. 202 codice di procedura penale, che stabilisce che «qualora per la definizione del processo risulti essenziale quanto è coperto dal segreto di Stato, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto». Più in generale si può rilevare che, nel nostro sistema giuridico, l’opposizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal presidente del Consiglio, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto; non è in ogni caso precluso all’autorità giudiziaria di procedere in base ad elementi autonomi e indipendenti dagli atti coperti dal segreto.

Ciò che è avvenuto nel processo a carico degli agenti Cia e dei responsabili dei servizi segreti italiani è, a questo punto, chiaro. Su determinati atti è stato opposto, e confermato dalla Presidenza del Consiglio, il segreto di Stato (come si ricorderà, il segreto era stato confermato da ben due Presidenti, ed era stato ulteriormente avallato dalla Corte Costituzionale, chiamata a decidere su di un conflitto di attribuzioni con il governo sollevato dalla Procura di Milano). Cionondimeno, la Procura ha ritenuto di potere comunque insistere nella prospettiva accusatoria, confidando nelle prove desumibili da elementi diversi dai documenti secretati. Il giudice ha ritenuto che per la definizione del processo tali documenti fossero invece essenziali.

Non conoscendo gli atti del processo, non sono in grado di dire se ha ragione il giudice o la Procura. Al di là delle valutazioni di merito, è comunque utile cogliere il significato della decisione assunta ieri a Milano ragionando sulle sue implicazioni. Al riguardo sono significative le reazioni alla sentenza manifestate dal principale imputato italiano e quelle dei suoi accusatori milanesi.

Pollari ha dichiarato di essere rammaricato dalla circostanza che, se il segreto fosse stato svelato, la sua innocenza sarebbe emersa con evidenza. La Procura ha commentato a sua volta che la sentenza dimostra che l’azione penale è stata esercitata legittimamente: non soltanto perché gli americani e gli agenti italiani processati per favoreggiamento sono stati condannati, ma anche perché Pollari e Mancini sono stati considerati non giudicabili a causa dell’essenzialità delle notizie coperte dal segreto, e non, invece, in ragione della loro estraneità ai fatti.

Ciò significa che, in ogni caso, conoscere e utilizzare gli atti coperti dal segreto di Stato sarebbe stato importante per risolvere in modo convincente il caso giudiziario in questione: nell’interesse degli imputati «non giudicati», nei cui confronti rimane comunque aperto il sospetto di avere partecipato all’azione illegale; nell’interesse della Procura, che avrebbe avuto diritto a una risposta giudiziale alle accuse formulate; soprattutto, nell’interesse della giustizia, perché l’oscurità mantenuta su di una vicenda di tanto rilievo umano e politico non può comunque soddisfare.

La questione relativa al caso Abu Omar ripropone d’altronde il tema generale dei confini del segreto di Stato in una società democratica, nella quale chiarezza e trasparenza dovrebbero essere considerati beni di importanza primaria. E’ vero che la ragion di Stato può imporre limiti e paletti a tutela della sicurezza nazionale. In quale misura, tuttavia, è consentito nascondere ai cittadini comportamenti e azioni di governo? Quanti e quali misteri d’Italia potrebbero essere finalmente svelati, da Ustica a Bologna, da Brescia alle altre stragi impunite, se il segreto sugli atti secretati fosse finalmente rimosso?

I Procuratori di Milano, nella loro requisitoria, non hanno esitato a proporre con forza il problema, affermando che la democrazia si fonda sulla salvaguardia dei principi irrinunciabili di civiltà anche nei momenti di emergenza e sostenendo che non possono essere consentiti accordi internazionali che concernano la commissione di reati. La sentenza che ha chiuso, in primo grado, il caso giudiziario, applicando il diritto vigente, su questo tema non ha potuto dare una risposta che, al di là del profilo strettamente giuridico, possa soddisfare.

In ogni caso ha risolto, questa volta in modo soddisfacente, una ulteriore questione: fino a che punto l’Italia sia disposta a tollerare azioni illegali condotte da agenti stranieri sul suo territorio. La condanna degli agenti americani costituisce, almeno su questo piano, una risposta che, finalmente, convince.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Tutto inutile se i tribunali non funzionano
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:15:45 am
11/11/2009

Tutto inutile se i tribunali non funzionano
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Gianfranco Fini avrebbe confermato, ieri, il suo no alla prescrizione breve dei reati. Avrebbe tuttavia avallato la «prescrizione processuale», in forza della quale i processi penali, anche quelli in corso fino alla fase del primo grado, dovranno concludersi entro sei anni (due anni per il primo grado, due per il secondo, due per la Cassazione). Se tali termini non saranno rispettati, scatterà la loro estinzione per decorso del tempo, con la, conseguente, assoluzione degli imputati.

Se questa dovesse essere la nuova disciplina, ho l’impressione che l’obiettivo da tempo perseguito da Berlusconi sarebbe in ogni caso assicurato: nei suoi processi pendenti egli riuscirebbe, ancora una volta, a sfuggire al giudizio dei suoi giudici. Insieme a Berlusconi, sarebbero d’altronde graziati centinaia di altri imputati. Caduto il lodo Alfano per violazione manifesta del principio di eguaglianza, per salvaguardare il premier, e nel contempo l’eguaglianza, si rischierebbe un’impunità generalizzata, con buona pace delle vittime dei reati.

Precisando che una valutazione definitiva su ciò che ci attende potrà essere formulata soltanto quando saranno chiari gli accordi di maggioranza ed esplicitati i testi dei disegni di legge, cerchiamo comunque di capire che cosa significhi, allo stato, prevedere, nel modo indicato, la prescrizione dei processi, compresi quelli in corso fino al giudizio di primo grado.

In astratto stabilire che i processi devono concludersi entro sei anni, con scadenze prefissate per ciascuna fase, sarebbe soluzione splendida. Se si riuscisse nell’intento, il male più rilevante della giustizia si dissolverebbe e, quantomeno con riferimento al tema della durata dei processi, essa diventerebbe giustizia accettabile. Perché una riforma dei tempi possa essere credibile, occorrerebbero tuttavia, quantomeno, due condizioni: che essa riguardi soltanto processi futuri, iniziati cioè da magistrati consapevoli fin dall’inizio della durata consentita; che l’imposizione di tempi stretti sia accompagnata da una riforma adeguata nell’organizzazione e nei mezzi, in grado di rendere possibile, nei fatti, il rispetto delle nuove durate. Altrimenti, se ci si limitasse a stabilire nuove regole, ed a disporre l’estinzione dei processi (compresi quelli in corso) in caso di loro inosservanza, sarebbe lo sfracello: centinaia e centinaia di processi estinti.

E’ vero che Fini, consapevole dei problemi, ha dichiarato di avere chiesto al presidente del Consiglio che alla giustizia siano destinate risorse adeguate alle nuove esigenze. Chiedere non è tuttavia, ovviamente, sufficiente; Tremonti permettendo, sarà necessario quantomeno stanziare. Ma anche stanziare potrà non bastare: occorrerà infatti che gli stanziamenti si concretino in strumenti concreti di efficienza, e che alle nuove risorse si accompagnino comunque altre riforme - di organizzazione e di legislazione - idonee a rendere di fatto praticabili i nuovi tempi stabiliti per la durata dei processi penali.

C’è, inoltre, un altro profilo sul quale è necessario riflettere. Verosimilmente, imboccata la strada della prescrizione dei processi troppo lunghi, la maggioranza avrà molta fretta di approvare la legge. L’urgenza di fare riforme in grado di velocizzare i processi è fuori discussione; è tuttavia altrettanto fuori discussione che realizzare una riforma seria dell’organizzazione giudiziaria richiede tempi tecnici non brevi. Che cosa accadrebbe se vi fosse una sfasatura fra i tempi di approvazione della legge che impone rapidità ai processi penali e di quelle che consentono un’organizzazione della gestione giudiziaria idonea a fronteggiare le nuove prescrizioni in materia di durata consentita?

Ancora. Secondo quanto è emerso, dovrebbero essere coinvolti nei processi a rischio di prescrizione quelli che riguardano reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a dieci anni (compresa, guarda caso, la corruzione), fatti salvi quelli che concernono mafia, terrorismo o, comunque, fatti di particolare allarme sociale. Tutti indifferenziatamente, senza badare alla maggiore o alla minore gravità dei reati, od alla maggiore o minore complessità dell’attività processuale necessaria?

I tempi stretti riguarderebbero d’altronde soltanto gli imputati incensurati. E perché mai? Se la prescrizione processuale non costituisce un premio per gli imputati, ma la risposta ad un’esigenza generale di rapidità processuale, censurati o incensurati la regola dovrebbe essere la stessa.

Si potrebbe continuare. Agli effetti di una prima reazione alle novità che si profilano all’orizzonte della giustizia italiana, quanto ho rilevato mi sembra sufficiente. Con un auspicio. Che gli addetti ai lavori, consapevoli dei problemi, sappiano comunque, se possibile, opporsi agli errori. Che siano in grado di farlo uomini della maggioranza. Che lo facciano, con decisione, tutti gli uomini dell’opposizione, senza indulgenze o compiacenze di sorta.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Un progetto irragionevole
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:38:28 pm
25/11/2009

Un progetto irragionevole
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Ieri in materia di giustizia vi è stato ingorgo. Guardasigilli e magistrati hanno continuato a litigare sulle cifre del disastro della giustizia conseguente al «processo breve». Maggioranza e governo, ad onta di ogni critica, hanno iniziato a discutere in Senato il disegno di legge con l’intenzione di approvarlo entro Natale. Il Csm ha convocato, ed ascoltato, i capi dei maggiori uffici giudiziari d'Italia per fare chiarezza sull’impatto delle nuove norme ipotizzate. Ed, in effetti, un po’ di chiarezza è stata fatta, poiché dall’audizione è emerso che una percentuale elevata di processi in corso, con la riforma, sarebbe destinata ad estinguersi. E, fra di essi, molti processi importanti.

Una cosa è, pertanto, certa. Piaccia o non piaccia al ministro Alfano, il nuovo «processo breve» rischierà comunque di determinare uno sconquasso. Per il passato, insieme ai processi di Silvio Berlusconi, come hanno confermato al Csm i dirigenti consultati, rischieranno di essere travolti centinaia di processi in corso.

Per il futuro, non ha comunque senso imporre per legge una uguale durata massima di anni due (o se si vuole tre) per il giudizio di primo grado a tutti i processi, qualunque sia il tipo di reato trattato o la tipologia del procedimento.

Come ben sa chiunque abbia maturato un minimo d'esperienza nelle aule di giustizia, vi sono processi che possono esaurirsi in un battito d’ala, ma vi sono processi che a causa della difficoltà dell’accertamento dei fatti, per il numero dei testimoni che occorre esaminare, a cagione della necessità di esperire perizie tecniche complesse, non hanno tempi definibili a priori, dureranno in ogni caso più a lungo. Imporre una barriera fissa a pena di prescrizione processuale, significa pertanto rischiare di mandare a monte, comunque, anche nel futuro, i processi più importanti e delicati. Significa, per altro verso, trattare in modo uguale situazioni processuali che possono essere fortemente diseguali: il che comporta, sicuramente, violazione del principio costituzionale di ragionevolezza.

In questa prospettiva, qualche anno fa avevo già espresso riserve nei confronti del progetto elaborato, in casa Ds, dai senatori Finocchiaro, Calvi e Fassone, un progetto che, quantomeno, non aveva l’obbiettivo di salvare dai loro processi singole persone. A fortiori ritengo che occorra rifiutare, oggi, l’analogo progetto Pdl Gasparri, Quagliariello, Bricolo, peggiore perché costituisce, altresì, legge palesemente «ad personam». Né ci racconti il Guardasigilli che si tratta di un progetto elaborato pensando alle esigenze dei cittadini ad avere processi penali rapidi e giusti. Ben altri sarebbero, infatti, gli interventi necessari per realizzare l’obbiettivo di una giustizia a misura del cittadino: riorganizzazione degli uffici e dei servizi, potenziamento e redistribuzione delle risorse, modifiche del sistema dei reati e delle pene, interventi su taluni nodi problematici del processo, maggiore impegno coatto di tutti gli addetti ai lavori.

D'altro canto, come è emerso ieri nell’audizione organizzata dal Csm, la prospettiva del «processo breve», e dei suoi effetti «salvifici», potrebbe indurre molti imputati a rinunciare a richieste di patteggiamento, determinando così un ingolfamento ulteriore dei processi, un conseguente allungamento dei tempi complessivi della giustizia penale e pertanto, assurdamente, il moltiplicarsi delle estinzioni.

Al di là della tristezza dei nuovi contenuti legislativi, colpisce, per altro verso, il degrado del dibattito politico del momento. Non si era mai sentito un Guardasigilli che, rivolto ai magistrati, parlasse di un loro «clamoroso abbaglio» sulle cifre e li invitasse a non «giocare con i numeri». Nessun parlamentare si era permesso di affermare, come ha fatto invece l’onorevole Gasparri, che l’Associazione Nazionale Magistrati «spara fesserie». Nessuno aveva osato sostenere, come ha fatto il presidente della commissione Giustizia del Senato Berselli, che ascoltare in commissione il parere di autorevoli costituzionalisti sulla legittimità costituzionale del disegno di legge è una «inutile perdita di tempo» e che i costituzionalisti italiani vanno, comunque, «presi con le molle».

La realtà è che, al di là dell’irragionevolezza di trattare in modo eguale tutti i processi penali a prescindere dalla specifica tipologia dei reati considerati e dalle peculiarità del singolo processo, il disegno di legge sul «processo breve» presenta diversi, evidenti, profili d’illegittimità costituzionale: in primo luogo, il trattamento diseguale dei censurati e degli incensurati e l’esclusione del reato di clandestinità e degli altri reati connessi al testo unico sull’immigrazione. Forse si cercherà, adesso, di porre qualche rimedio al disastro normativo. Ma come ha rilevato la presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, ora ogni cambiamento rischia l'effetto paradosso: «Più si cerca di rendere il provvedimento conforme alla Costituzione, più si allarga l’impatto (negativo) del ddl sulla collettività».

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. L'inchiesta dai piedi d'argilla
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 04:33:50 pm
18/12/2009


L'inchiesta dai piedi d'argilla
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Di fronte alle risultanze del supplemento d’istruttoria disposto dal giudice nel corso del processo, l’assoluzione di Albero Stasi era nell’aria. Le contraddizioni emerse nei confronti dell’impalcatura accusatoria erano risultate, infatti, talmente vistose, da rendere, ragionevolmente, improponibile l’idea di una loro tenuta.

Il punto, tuttavia, è domandarsi perché si è arrivati a una tale sconcertante situazione processuale. Vediamo, innanzitutto, di elencare i profili sui quali si reggeva l’accusa e i motivi in forza dei quali essi si sono rilevati inidonei a sostenerla fino in fondo: il tema delle scarpe, quello del Dna della vittima sui pedali della bicicletta dell’imputato, l’impronta sul portasapone, l’alibi del computer, il movente, l’arma del delitto. A non convincere gli investigatori erano state, all’inizio, le scarpe immacolate di Alberto Stasi, che, secondo la versione raccontata dal ragazzo, avrebbero dovuto, ragionevolmente, essersi macchiate al momento della scoperta del corpo privo di vita di Chiara Poggi. Poco dopo, la prospettiva accusatoria si era rafforzata a causa dell’asserito ritrovamento del Dna della vittima sui pedali della bici. Entrambi questi profili d’accusa non hanno tuttavia retto alle perizie successive: gli esperti super partes hanno scritto che non era possibile precisare la natura del materiale organico di Chiara presente sui pedali e, quanto alla mancanza di macchie di sangue sulle scarpe di Alberto, essi hanno osservato che le suole erano idrorepellenti e ben potrebbero essersi ripulite con il camminare successivo.

L’impronta di Alberto mista al Dna della vittima trovata sull’erogatore del sapone liquido, considerata prova dall’accusa, è stata agevolmente smontata dai periti nominati dal giudice: la spiegazione più ragionevole, essi hanno rilevato, è che «i due abbiano toccato l’oggetto in tempi e per un numero di volte sconosciute», una spiegazione che «rende il dato del tutto irrilevante al fine della costituzione di una prova scientifica».

Clamoroso è stato, d’altronde, il profilo relativo al computer. Alberto Stasi ha sempre sostenuto di avere lavorato, al computer, nella stesura della sua tesi di laurea l’intera mattina in cui Chiara è stata assassinata: un vero e proprio alibi, se fosse stato vero. Questa affermazione non è stata tuttavia mai creduta dagli investigatori. Ad agosto scorso la perizia informatica disposta dal giudice ha peraltro dimostrato che l’imputato ha acceso il suo computer alle 9,35, che dalle 9,36 alle 12,20 ha salvato in continuazione il file e che le tracce di questi passaggi erano state cancellate da accessi impropri fatti dai carabinieri nel corso delle indagini. Quanto all’arma del delitto, variamente ipotizzata nel corso del processo, essa non è stata, in realtà, mai individuata. Quanto al movente, identificato dall’accusa nella circostanza che Chiara potrebbe avere scoperto qualcosa di disdicevole sul computer di Alberto, esso si è rivelato, nel corso del processo, nulla più che una supposizione.

Di fronte a questo elenco di indizi sfilacciati, la soluzione ampiamente prevedibile del processo era l’assoluzione dell’imputato. E così è stato. Una soluzione per molti aspetti sconcertante. Come è possibile, si domanderà infatti la gente, che dopo due anni e mezzo di indagine e di processo si arrivi a non fare nessuna giustizia? Come è possibile che una uccisione orrenda di una giovane ragazza rimanga senza causa e senza spiegazione? Come è possibile che sulla base di indizi ritenuti sufficienti da un ufficio del pubblico ministero un ragazzo venga rinviato a giudizio e che poi si scopra che, addirittura, il suo alibi era stato inopinatamente cancellato per imperizia dagli investigatori?

È possibile, rispondo, nel nostro modo sovente disastrato di fare giustizia. Ed infatti è accaduto. Ma forse, a questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull’efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell’imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l’imputato possa essersi trattenuto al computer l’intera mattinata in cui si è consumato l’omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9,36 alle 12,20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati dell’accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati.

Che dire, d’altronde, del «balletto» sull’ora della morte della povera ragazza? In un primo tempo il pm aveva sostenuto che essa era stata uccisa «fra le 11 e le 11,30». Nella «requisitoria bis», di fronte ai risultati clamorosi della perizia informatica disposta dal giudice, egli ha cambiato opinione: la ragazza sarebbe morta «fra le 12,46 e le 13,26», una soluzione che non ha trovato d’accordo neppure la parte civile, che ha individuato l’ora della morte fra le 9 e le 10 del mattino.

C’è comunque un aspetto, il solo, che, nel disastro complessivo di questa drammatica vicenda giudiziaria, può essere considerato positivo: che, di fronte all’equivocità degli indizi, un giudice ha assolto, ricordandosi che «senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio» nessuno, secondo i principi, nel nostro Paese può essere condannato. Altre volte, purtroppo, non è avvenuto.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. La sfida della politica
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:19:26 pm
21/1/2010

La sfida della politica
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Il Senato ha approvato ieri il processo breve, l'ultima legge ad personam studiata per sottrarre Berlusconi ai suoi processi. Una vergogna che non merita neppure più discutere. Se il testo diventerà davvero legge, provocherà disastri nell'esercizio quotidiano della giustizia, e si potrà soltanto sperare che la Corte Costituzionale sia veloce nel rilevare la sua palese illegittimità.

In questo giorno poco fausto per le prospettive di giustizia, vale peraltro la pena di affrontare un tema, che, risolto malamente, rischierebbe di compromettere ancora di più il rispetto della legalità nel nostro Paese. È stato ancora una volta Berlusconi a porlo sul tappeto, quando all’attività giudiziaria svolta dai magistrati ha contrapposto, in termini di sfida, la forza che deriva ai politici dall’investitura ottenuta con il voto popolare.

Questo tema è stato affrontato qualche tempo fa da questo giornale in un bellissimo articolo di Barbara Spinelli. La conclusione dell'autrice è stata netta: anche l'eletto dal popolo è tenuto a rispettare la legge. Anzi, senza rispetto della legalità da parte di tutti, inclusi coloro che hanno ricevuto l'investitura a governare, non esiste democrazia. Con altre parole, si può affermare che il primato della politica sulla giurisdizione, in uno Stato di diritto, può essere accettato a condizione che non si traduca in un'ingiustificata impunità, dato che il voto dei cittadini non è un mandato in bianco all'esercizio del potere, ma impegna a governare nel rispetto delle regole.

In questa prospettiva, fra controllo di legalità e legittimazione popolare non dovrebbe esservi contrapposizione: chi è eletto governa, essendo stato legittimato dal popolo a farlo; se infrange la legge, deve essere tuttavia sanzionato come ogni altro cittadino. Eppure, rispetto a tale ragionevole soluzione c'è, oggi, chi si ribella: sostenendo che non è tollerabile che la magistratura, tramite le sue indagini e i suoi processi nei confronti dei politici, possa interferire senza limiti sulle gestioni pubbliche, rischiando d’inceppare l'attività di governo e di danneggiare, pertanto, gli interessi del Paese.

Il dibattito è stato enfatizzato a causa della peculiare posizione del Presidente del Consiglio che, incalzato dalle indagini penali, sta cercando da tempo di assicurarsi spazi personali d'impunità. Ora, tuttavia, non pare sia più, soltanto, problema personale del capo del governo: una parte consistente della classe politica, di maggioranza e d'opposizione, sembra propensa a ripristinare addirittura l’immunità parlamentare, travolta dalle temperie giudiziarie di Mani pulite. Una condizione, si dice, per restituire alla politica la forza perduta e per recuperarne l'indispensabile capacità di decidere.

Storicamente, l’immunità parlamentare aveva una sua giustificazione: s'intendeva proteggere il rappresentante del popolo dalle potenziali, temute, «persecuzioni» degli altri poteri e salvaguardare così la sua libertà di agire e di votare. Per questa ragione, e forse anche perché si voleva proteggere il potere legislativo da una magistratura cui si stava concedendo forte autonomia, l’immunità è stata mantenuta nella Costituzione. Peraltro, le Giunte per le autorizzazioni a procedere raramente hanno applicato l'istituto con il dovuto rigore, preoccupandosi cioè di tutelare soltanto i parlamentari vittime di persecuzione giudiziaria; hanno, piuttosto, cercato di salvare chiunque, eletto in parlamento, avesse commesso reati, dando in questo modo corpo, nei fatti, ad una situazione intollerabile di privilegio non giustificato.

Ecco perché, oggi, reintrodurre l’immunità suona alle orecchie di molta gente come ripristino di un odioso privilegio. Né le forme nuove d'immunità con le quali una parte della classe politica cerca di ammorbidire l'impatto del ventilato ripristino (si pensi al recente disegno di legge Chiaromonte/Compagna) sembrano in grado di dissipare perplessità e resistenze. Si tratta, comunque, della previsione di «coperture» che intaccano il principio fondamentale secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, si tratti di gente comune ovvero di potenti.

Ha ragione, per altro verso, chi rileva che, negli anni, la politica ha perso, ad una ad una, le sue tutele tradizionali e si presenta, oggi, in larga misura priva di adeguate salvaguardie di fronte alle azioni giudiziarie sbagliate o prevaricanti; e soggiunge che, parallelamente, la corporazione dei magistrati ha assunto poteri strabordanti. Il che costituisce un pericolo per la credibilità di entrambi i versanti istituzionali. Si tratta, tuttavia, di stabilire se il riequilibrio debba essere necessariamente realizzato reintroducendo odiose protezioni della classe politica o possa essere conseguito con altri mezzi, e a tutela di tutti i cittadini. Ad esempio, con un criterio diverso di selezione del personale giudiziario, con più adeguati meccanismi di controllo, con maggiore rigore disciplinare nei confronti dei magistrati che sbagliano o prevaricano.

Mi ha colpito che nei giorni scorsi un autorevole magistrato, il Procuratore della Repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti, abbia sostenuto che, «vista la situazione», la reintroduzione dell'immunità parlamentare potrebbe essere strumento confacente, per consentire che vengano abbandonati i progetti più devastanti che, per salvare a tutti i costi il premier, rischiano di neutralizzare la stessa funzione giudiziaria. Si tratta, evidentemente, della disperazione di chi, di fronte all'apparente ineluttabilità delle cose, cerca di salvare in qualche modo il salvabile. Confido ancora, nonostante tutto, che si riesca ad uscire altrimenti dal difficile groviglio di temi e problemi.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Emergenza nazionale
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 10:31:30 am
30/1/2010

Emergenza nazionale
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.

Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.

Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.

Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.

Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.

Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.

Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.

È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Equilibri in pericolo
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2010, 10:16:46 am
4/2/2010

Equilibri in pericolo
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Tutto come da copione. La maggioranza ha votato ieri alla Camera il legittimo impedimento, l’ennesimo provvedimento salva-premier. Vi sono stati alcuni aggiustamenti rispetto al testo originario, il beneficio è stato esteso a tutti i ministri.

Una scelta fatta per attenuare l'effetto ad singulam personam della versione iniziale (ed ottenendo così il risultato di coprire l'intero governo rispetto alla celebrazione dei processi).

La sostanza è rimasta in ogni caso inalterata. Sarà sufficiente una certificazione di Palazzo Chigi, e per sei mesi il Presidente del Consiglio potrà sfuggire al disturbo di un processo in un'aula di giustizia. La sospensione sarà reiterabile per due volte, per un totale di diciotto mesi, quanto basta per riapprovare il lodo Alfano con legge costituzionale.

Sul piano giuridico c'è poco da rilevare. Il nuovo provvedimento legislativo è, come altri che lo hanno preceduto, illegittimo da un punto di vista costituzionale, e nel caso in cui venisse definitivamente approvato subirà verosimilmente la medesima sorte: approderà al Palazzo della Consulta e verrà annullato dalla Corte. Il legittimo impedimento esiste già oggi, ma è regolato in modo ragionevole: può ottenere il rinvio del processo il politico che dimostra di avere un impegno istituzionale pressante. L'impedimento che autorizza il rinvio del processo è individuato in un episodio specifico di esercizio della funzione, ed il rinvio, valutato dal giudice, avviene soltanto con riferimento a quell'impedimento e per il tempo strettamente necessario.

Con la nuova disciplina l'istituto risulta stravolto. Non si deve più stabilire se il ministro è impedito perché è concretamente impegnato nell'esercizio della funzione, né il giudice ha potere di valutazione; si presume invece automaticamente che non gli sia possibile essere presente in un processo (per un totale massimo di diciotto mesi) perché esercita una funzione di governo. L'impedimento si trasforma, cioè, in un'immunità temporanea riconosciuta in ragione della funzione esercitata. Ma, allora, nulla distingue, nella sostanza, tale istituto dalla sospensione dei processi delle alte cariche dello Stato stabilita con il lodo Alfano, bocciato dalla Corte Costituzionale per violazione del principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge penale.

Sul terreno del diritto, dunque, pochi sono i commenti possibili: il testo votato ieri dalla Camera è costituzionalmente illegittimo, punto e basta. Sul terreno politico il discorso si presenta invece, inevitabilmente, più articolato, ed esprime posizioni diversificate anche fra coloro che non apprezzano la deriva giuridica imboccata dal governo e dalla maggioranza che lo sostiene.

Autorevoli esponenti della società civile, e di istituzioni diverse da quelle politiche, cominciano a sostenere che, piuttosto che assistere alla distruzione della giustizia allo scopo di salvare Berlusconi dai suoi processi, tanto vale consentire di salvarlo e basta con modifiche costituzionali ad personam, anche se ciò avviene in spregio dei principi. La giustizia, nel suo complesso, potrebbe così continuare, bene o male, a funzionare e si potrebbe cominciare a pensare seriamente ad un suo miglioramento con riforme appropriate.

Il «male minore», dunque. Se ne era parlato quando il governo aveva presentato, oltre un anno e mezzo fa, un disegno di legge sulla sospensione di tutti i processi (progetto che era stato ritirato dopo l'approvazione del lodo Alfano); se ne ritorna a parlare oggi di fronte alla minaccia di approvazione definitiva del processo breve e delle altre misure progettate per proteggere in ogni caso il presidente del Consiglio. Sostanzialmente è un ricatto; ma, in certe situazioni, si dice, ragion di Stato e realismo possono consigliare anche di abbozzare alle minacce. Magari è una vergogna, ma in certi casi anche le vergogne possono essere praticate se servono ad evitare vergogne più grandi.

Su di un punto sarei in ogni caso intransigente. Oggi si avverte, forte, il rischio di uno stravolgimento degli equilibri fra i poteri dello Stato. C'è, anzi, un rincorrersi di voci su possibili intese trasversali attraverso le quali la politica intenderebbe rinserrare i ranghi, rafforzando il suo potere e, nel contempo, indebolendo gli organi di garanzia ed i controlli. In questo contesto l'opposizione dovrebbe giocare fino in fondo il suo ruolo: opponendosi appunto, difendendo la separazione e l'indipendenza dei poteri, isolando coloro che abbozzano, rifiutando accordi e compromessi poco onorevoli. E i cittadini, a questo punto, dovrebbero essere a loro volta in grado di selezionare attentamente fra chi difende e chi, invece, rischia di stravolgere gli assetti dello Stato di diritto.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ora addio a riforme di emergenza
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:05:38 pm
26/2/2010

Ora addio a riforme di emergenza
   

CARLO FEDERICO GROSSO

La soluzione del processo per corruzione a carico dell’avvocato Mills sembrava dipendere, in larga misura, dalla risposta che, in diritto, si riteneva di dare a due questioni interpretative delle norme che prevedono i delitti di corruzione.

Prima questione.
Costituisce opinione pacifica che il reato di corruzione si realizzi già con la promessa di denaro od altra utilità da parte del privato e l’accettazione della stessa da parte del pubblico ufficiale, cioè con la stipulazione del patto criminoso, essendo irrilevante che alla promessa segua la dazione.

Problema: che cosa accade, tuttavia, quando all’accordo segue invece, nei fatti, la dazione?

A questo problema sono state date due risposte: secondo un’interpretazione minoritaria il reato rimarrebbe «consumato» al momento della promessa fatta ed accettata; secondo l’interpretazione prevalente, la consumazione si sposterebbe invece al momento della dazione, e soltanto da allora comincerebbe a decorrere la prescrizione.

Seconda questione.
Sotto il profilo della corruzione in atti giudiziari (reato molto più grave della corruzione base prevista dall’articolo 319 codice penale: pena della reclusione da tre ad otto anni in luogo di quella da due a cinque anni), rileva soltanto la corruzione «antecedente», cioè la promessa o la dazione di denaro od altra utilità fatta perché il pubblico ufficiale compia in futuro un atto che favorisca o danneggi una parte in un processo, ovvero, anche, la corruzione «susseguente», cioè la promessa o la dazione riferita a un atto già commesso dal pubblico ufficiale? Si tratta di un problema sulla cui soluzione vi è divergenza, poiché a causa di una formulazione infelice della norma che prevede il delitto di corruzione in atti giudiziari entrambe le interpretazioni possono essere ragionevolmente prospettate. Eppure, dalla risposta dipendono conseguenze pratiche rilevantissime: nel caso si accettasse la seconda interpretazione, infatti, la corruzione susseguente, anche se commessa con riferimento ad un atto giudiziario, dovrebbe essere considerata corruzione base, punita con una pena molto più bassa, e prescrivibile in tempi molto più rapidi.

Entrambe le questioni erano rilevanti nel processo Mills, poiché la corruzione contestata all’avvocato inglese era sicuramente susseguente, e perché la dazione si era «perfezionata» nel 2000, mentre la promessa era sicuramente anteriore, risalente quantomeno al 1999. Pertanto, se le Sezioni Unite della Cassazione avessero individuato il momento consumativo del reato in quello della promessa e, soprattutto, se avessero sostenuto che la corruzione susseguente doveva comunque essere classificata come corruzione base, il reato avrebbe dovuto essere considerato prescritto.

In effetti, le Sezioni Unite hanno dichiarato il reato contestato a Mills prescritto. La ragione della prescrizione, a quanto si è appreso, è stata, tuttavia, individuata nella circostanza che si è ritenuto che il reato si sia consumato nel momento (fine 1999) in cui i denari (secondo quanto sostenuto da Mills in una lettera e nella sua prima confessione) sarebbero stati messi a disposizione dell’imputato sul conto di una società che faceva capo, fra gli altri, a lui, e non, come avevano sostenuto i giudici di merito, il 29 febbraio 2000, momento in cui egli acquisì la diretta disponibilità dei 600 mila dollari intestandosi quote di pari valore del Torrey Global Fund.

Par di capire, dunque, due cose. Che la Cassazione abbia (giustamente) ritenuto che la corruzione, quando c’è dazione del denaro, si consumi al momento della stessa; che abbia, tuttavia, considerato come «dazione» la messa a disposizione su di un conto e non la (successiva) effettiva acquisizione del denaro tramite l’intestazione delle quote del menzionato fondo monetario. Che essa abbia, comunque, ritenuto che il fatto, ancorché di corruzione «susseguente», fosse qualificabile come corruzione in atti giudiziari: prescrizione decennale comunque superata dal decorso del tempo.

La lettura della motivazione della sentenza consentirà, quando essa sarà depositata, di verificare quale sia stato, effettivamente,
l’insieme dei ragionamenti seguiti dalla Corte. E, soprattutto, di valutare il peso e la ragionevolezza dell’argomentazione giuridica compiuta. Al momento è, soltanto, possibile prendere atto della risposta di fondo data alle questioni giuridiche che erano sul tappeto.
Ed è possibile indicare, comunque, le conseguenze giuridiche e politiche che la decisione presa avrà nei confronti di Berlusconi, imputato come corruttore nello stesso processo in cui l’avvocato Mills figurava come corrotto, e la cui posizione era stata stralciata in ottemperanza del lodo Alfano, approvato dal Parlamento, ma annullato, perché illegittimo, dalla Corte Costituzionale.

Il reato, giudicato prescritto con riferimento a Mills, non potrà che essere considerato tale anche con riferimento a Berlusconi.
La giustizia, bene o male, ha seguito il suo corso, ed è giunta, nel caso di specie, al suo epilogo con un giudizio di acquisita prescrizione. La prescrizione esprime, sempre, un fallimento per la giustizia. Speriamo che, quantomeno, nel caso di specie la decisione presa serva a stemperare le tensioni ed a consentire che vengano abbandonati provvedimenti infausti quali il processo breve, il legittimo impedimento, le guarentigie per ministri ed alte cariche dello Stato, e via dicendo.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Un'inchiesta e molti interrogativi
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 08:11:10 am
16/3/2010

Un'inchiesta e molti interrogativi
   

CARLO FEDERICO GROSSO

La vicenda giudiziaria che ha coinvolto Berlusconi, Innocenzi e Minzolini a Trani solleva quantomeno tre rilevanti interrogativi giuridici. Secondo quanto è stato pubblicato sui giornali, la Procura della Repubblica di Trani stava indagando su di una vicenda di truffa ed usura relativa a finanziamenti per il credito al consumo di una carta di credito della American Express. Nel corso di intercettazioni disposte con riferimento a tale indagine, sarebbero emerse 18 telefonate riguardanti presunte pressioni per fare chiudere «Annozero» di Santoro ed interferire in qualche modo su «Ballarò» di Giovanni Floris e «Parla con me» di Serena Dandini.

Niente a che fare con l’indagine in relazione alla quale le intercettazioni erano state disposte. Secondo la Procura, si tratterebbe comunque di concussione e di violenza o minaccia a corpo amministrativo, reati dei quali dovrebbero essere chiamati a rispondere i tre menzionati personaggi della politica e dell’informazione. Essa li ha, di conseguenza, iscritti nel registro degli indagati. Primo interrogativo. E’ legittimo che intercettazioni disposte per acquisire indizi o prove con riferimento ad una determinata ipotesi accusatoria consentano di procedere per reati diversi che dovessero casualmente emergere nel corso delle intercettazioni?

A mio avviso la risposta non può che essere affermativa.

Si consideri, ad esempio, che nel corso di intercettazioni disposte per individuare i responsabili di una corruzione emerga la traccia di un omicidio: è evidente che l’indizio acquisito costituisce nuova notizia di reato sulla quale l’autorità giudiziaria ha il dovere di indagare. Essa procederà pertanto, sulla base della notizia acquisita, ad aprire un ulteriore fascicolo processuale, e se il reato è di sua competenza procederà nelle indagini secondo le regole generali. Nessun abuso di intercettazione, dunque, ma esercizio doveroso dell’azione penale.

Il problema tuttavia si complica se dovesse emergere che la nuova notizia di reato appartiene alla competenza di un ufficio giudiziario diverso da quello che sta procedendo. Nel nostro ordinamento giuridico, stranamente, nel corso delle indagini preliminari l'obbligo di dichiarare la propria incompetenza è stabilita soltanto per il giudice, non per il pubblico ministero; il pubblico ministero è obbligato a rilevarla solo nel caso in cui essa sia stata espressamente eccepita dall’indagato. Cionondimeno, io ritengo che un pubblico ministero scrupoloso dovrebbe essere comunque attento a non sconfinare, mai, nelle competenze altrui, non fosse altro che per evitare sospetti di forzature od abusi.

Ecco allora, nel caso di Trani, la prima ragione di perplessità. La Procura della Repubblica di Trani, competente per i reati di truffa ed usura per i quali stava procedendo, è, palesemente, incompetente rispetto alle presunte condotte delittuose emerse dalle 18 conversazioni casualmente intercettate fra Berlusconi, Innocenzi e Minzolini, poiché è pacifico che esse non sono state commesse a Trani, ma nei luoghi dove gli interlocutori si trovavano al momento delle telefonate. Come ho chiarito, tale Procura non aveva l’obbligo di trasmettere senza indugio ad altro ufficio la nuova notizia di reato acquisita. Davvero, tuttavia, non sarebbe stato opportuno che lo facesse, tanto più trattandosi di un caso particolarmente delicato in ragione della personalità degli indagati?

Terzo interrogativo. La vicenda emersa è sicuramente molto grave sia sul terreno politico, sia su quello della valutazione sociologica delle presunte pressioni esercitate: mai e poi mai un Premier dovrebbe permettersi di usare i suoi poteri per interferire sulla libera espressione dei programmi televisivi pubblici. Quale è tuttavia, davvero, la valenza penale di ciò che è accaduto? Fino all’altro ieri si prospettava la contestazione del (gravissimo) delitto di concussione. Ieri, a fianco della concussione, è apparsa la prospettazione del delitto di violenza o minaccia ad un corpo amministrativo (nella specie il Garante per le comunicazione).

Costituisce delitto di concussione il fatto del pubblico ufficiale che «abusando della sua qualità o dei suoi poteri», costringe o induce taluno «a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro od altra utilità». Costituisce a sua volta violenza o minaccia ad un corpo amministrativo il fatto del pubblico ufficiale che «usa violenza o minaccia» a tale corpo «per impedirne in tutto o in parte, o per turbarne comunque l'attività». Si arguisce che la concussione è stata ipotizzata con riferimento ad una «utilità» consistente nel vantaggio politico derivante a Berlusconi dal blocco delle trasmissione più critiche nei suoi confronti. La violenza o minaccia nei confronti del Garante per la comunicazione è stata a sua volta, verosimilmente, configurata sul presupposto che la libera attività di tale Authority sia stata «impedita» o «turbata» dalle pressioni esercitate.

La lettura degli atti processuali consentirà, a suo tempo, di capire su quali elementi di prova si basino tali gravissime ipotesi di reato e fino a che punto esse siano davvero fondate. Per ora dobbiamo limitarci a rilevare due ulteriori inquietanti accadimenti: l’evidente, clamorosa, violazione del segreto investigativo realizzata con la rivelazione e la pubblicazione della notizia delle intercettazioni da parte di un noto quotidiano; l’immediata spedizione a Trani degli ispettori del ministero della Giustizia da parte del Guardasigilli, con grave rischio d’interferenza sulle indagini.

Non vorrei, d’altronde, che sull’onda di quest’ulteriore pagina delicata della storia giudiziaria del nostro Paese governo e maggioranza forzino la mano per realizzare riforme sciagurate in materia di giustizia, circoscrivendo arbitrariamente il potere delle Procure e l’ambito delle intercettazioni consentite.

da lastampa.it


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il vero obiettivo è il controllo dei pm
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2010, 09:37:53 am
15/6/2010
 
Il vero obiettivo è il controllo dei pm
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Ancor prima che la nuova disciplina delle intercettazioni abbia raggiunto l'esito auspicato da governo e maggioranza con la sua approvazione definitiva, il Guardasigilli Alfano ha lanciato una nuova minaccia. A settembre, ha dichiarato l'altro ieri, sarà presentato un progetto di riforma costituzionale della giustizia che coinvolgerà il suo assetto istituzionale: separazione delle carriere, doppio Csm, nuovo meccanismo disciplinare, nuova disciplina dell'ufficio del pubblico ministero.

Si tratta di idee che erano già ripetutamente circolate nei mesi scorsi, per cui non stupisce che siano state ancora una volta ribadite, anche se è la prima volta che il ministro s'impegna apertamente nell'indicare contenuti e tempi del progetto.

Il progetto, nel suo complesso, mi piace poco. Un profilo, comunque, mi preoccupa particolarmente. C'è il rischio che la riforma che si prospetta determini un indebolimento molto forte, e per questa ragione inaccettabile, dell'ordine giudiziario, incidendo, in particolare, sull'indipendenza degli uffici del pubblico ministero. Di questo profilo il Guardasigilli non ha parlato espressamente. Ne ha parlato tuttavia il giorno prima il presidente del Consiglio, evocando non a caso il sistema francese, che distingue il giudice dai pubblici ministeri e sottopone questi ultimi ad un rilevante condizionamento del ministero della Giustizia.

Per rendersi conto della consistenza del pericolo, è d'altronde sufficiente considerare taluni dei profili che caratterizzano la riforma che s'ipotizza. Si pensa, ad esempio, di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, creando due distinti Csm, quello dei giudici presieduto dal Presidente della Repubblica e quello dei pubblici ministeri presieduto dal procuratore generale della Cassazione; s'ipotizza d'incrementare la percentuale della componente non togata dei due Csm a scapito di quella togata, aumentando in questo modo il livello del potenziale condizionamento politico di tale istituzione; si prefigura di modificare i rapporti fra pubblici ministeri e polizia giudiziaria nella fase della conduzione iniziale delle indagini, sottraendo alle procure della Repubblica ogni potere d'iniziativa o pungolo. Che altro significa, tutto questo, se non, appunto, condizionare, ridurre, spezzettare, indebolire, soprattutto l'ufficio del pubblico ministero?

Emblematica mi sembra d'altronde, in particolare, l'idea di creare due Csm, uno soltanto dei quali ancora presieduto dal Presidente della Repubblica. Come è noto, la presidenza del Capo dello Stato è simbolo di autorevolezza e di caratura costituzionale dell'organo di autogoverno della magistratura. Mutare la presidenza, ed assegnarla ad una, sia pure elevata, autorità dell'ordine giudiziario, significherebbe degradare comunque il Consiglio. Da organo di rilevanza costituzionale esso sarebbe inevitabilmente trasformato in normale istituzione dello Stato, in quanto tale normalmente aggredibile. Si pensi, allora, a che cosa significhi, specificamente, stabilire che il Csm dei giudici mantiene intatta l'aureola di organo di rilevanza costituzionale, quello dei pubblici ministeri viene invece privato della medesima autorevolezza. Sarebbe la premessa perché i pubblici ministeri, trasformati in normale istituzione, siano «normalmente» assimilati a tutte le altre amministrazioni pubbliche: non siano più «potere dello Stato», ma si trasformino in ordinaria pubblica burocrazia, in questa prospettiva «ordinariamente» soggetti al controllo del ministero di riferimento.

Che cos'altro può significare, d'altronde, la circostanza che si prefiguri, fra l'altro, una nuova normativa costituzionale in forza della quale i giudici (non più tutti i magistrati) resteranno un «ordine autonomo ed indipendente da ogni potere», mentre i pubblici ministeri, semplicemente, «eserciteranno l'azione penale secondo le modalità stabilite dalla legge»? Se la legge, successivamente all'eventuale entrata in vigore del nuovo testo costituzionale, dovesse stabilire che l'esercizio dell'azione penale, quantomeno in certi casi, è subordinato all'assenso del ministro, nessuno, sul terreno della legalità formale, potrebbe più obbiettare alcunché. Per il momento ci troviamo, fortunatamente, ancora sul piano delle parole, degli intenti, delle ipotesi. Nessun progetto articolato è stato reso noto, nessun organo dello Stato ha, fino ad ora, approvato alcunché. Nei giorni scorsi abbiamo, tuttavia, assistito con sgomento a che cosa è accaduto in materia d'intercettazioni.

A bloccare un disegno di legge eversivo perché brutalizza nel contempo giustizia e informazione, e perché infrange due cardini del sistema costituzionale, non sono servite critiche, proteste, appelli e mobilitazioni. Governo e maggioranza hanno proseguito imperterriti per la loro strada. Ecco perché in materia di riforma costituzionale della giustizia, nonostante ci si trovi per ora soltanto di fronte alle parole di un ministro, il nuovo pericolo dev'essere comunque immediatamente avvertito e messo a fuoco, e la mobilitazione cominciare.

Non si vorrebbe infatti che, dopo un'eventuale definitiva approvazione, a luglio, della legge sulle intercettazioni, una nuova forzatura dello Stato di diritto voluta dalla maggioranza scardini definitivamente i capisaldi della divisione dei poteri e del sistema dei controlli. Magari, questa volta, con la complicità compiacente di qualche settore dell’opposizione.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7474&ID_sezione=&sezione=


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il giudice va a cena da solo
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2010, 05:16:52 pm
16/7/2010

Il giudice va a cena da solo
   
CARLO FEDERICO GROSSO

Ricordo che mio padre mi diceva che ai suoi tempi era regola indiscussa che il magistrato non dovesse essere «commensale abituale» di coloro nei confronti dei quali amministrava la giustizia.

Non doveva, cioè, coltivare relazioni sociali, avere rapporti di interesse, anche soltanto ostentare amicizie nella città dove aveva
l’ufficio. Lo imponeva una regola elementare di prudenza. Poiché egli doveva non soltanto essere, ma ancor prima apparire imparziale, la sua immagine sarebbe stata inevitabilmente intaccata se egli fosse stato visto sedere abitualmente al tavolo degli stessi commensali, frequentare circoli, salotti, cene o cenacoli.

Altra regola sentita era che il magistrato doveva esprimersi esclusivamente con gli atti processuali e le sentenze: non doveva esibirsi, rilasciare interviste, parlare dei suoi processi fuori dalle sedi processuali, cercare a tutti i costi la vetrina. La sua attività doveva essere improntata a grandissima riservatezza. Ogni eccesso avrebbe infatti potuto intorbidire un’immagine che doveva apparire, invece, manifestazione di equilibrato esercizio delle funzioni.

Ulteriore regola di prudenza era che mai il magistrato avrebbe dovuto utilizzare la notorietà comunque acquisita con i suoi processi per tentare la strada di carriere parallele: nella politica, nei ministeri, negli uffici studi dei partiti od in qualunque altro luogo che gli consentisse di avere rapporti ravvicinati con il potere politico. La stessa possibilità d’intraprendere una carriera parallela avrebbe potuto costituire, infatti, motivo di esercizio turbato della sua attività giudiziaria, improntata al perseguimento d’inconfessabili ragioni d’interesse personale piuttosto che al perseguimento dell’interesse di giustizia.

Può darsi che quest’idea di magistrato avulso da ogni profilo di promozione sociale, estraneo ad ogni gioco di potere o d’interessi, lontano dalle ribalte, di magistrato stretto in una carriera necessariamente separata da tutte le altre carriere, fosse un’idea impraticabile, antica, fuori dal tempo. Osservare, e fare rigorosamente osservare, sempre, quantomeno alcune regole di rigore e di prudenza nelle frequentazioni degli appartenenti all’ordine giudiziario, nelle loro esternazioni, nei loro coinvolgimenti politici, nelle loro manifestazioni pubbliche e private, sarebbe tuttavia stato, probabilmente, utile e sacrosanto.

Lo dimostrano le sconcertanti vicende che la cronaca giudiziaria di questi giorni ha portato sulle prime pagine dei giornali e che stanno coinvolgendo taluni magistrati di rilievo. Esse, si badi, non costituiscono d’altronde un caso isolato. Si inseriscono in una sequenza di episodi che, sia pure interessando settori circoscritti della magistratura, hanno ripetutamente connotato le dinamiche del mondo giudiziario. È significativo, ad esempio, che alcuni dei magistrati che sono oggi al centro dell’attenzione mediatica perché coinvolti nell’ultimo scandalo, siano già stati, anni fa, oggetto d’inchiesta da parte del Csm e scagionati, non so se a ragione o a causa del gioco perverso delle trasversalità correntizie. Segno, comunque, che il sistema di controllo interno della magistratura non ha funzionato.

Che dire, d’altronde, della circostanza che fra i soggetti dei quali oggi si mormora vi siano addirittura Primi Presidenti, componenti del Csm, ex Presidenti della Corte Costituzionale? A poco conta che, come sembra, essi non abbiano accolto le richieste d’interferenza che sono state loro rivolte; è già sufficiente, a preoccupare, che tali soggetti abbiano potuto essere anche soltanto avvicinati.

Ciò che è stato, comunque, è stato. Sarebbe importante, ora, che le vicende emerse, e che rivelano l’esistenza di una questione morale interna alla magistratura oltre che al Paese nel suo insieme, forniscano l’occasione per il rinnovamento quantomeno di alcune regole. Mi limito ad accennare ad alcuni temi sui quali occorrerebbe cominciare a ragionare.

Primo. Attenzione al problema dei rapporti fra appartenenti all’ordine giudiziario e società. Non basta, si badi, vietare ai magistrati la frequentazione di ambienti quali quello degli affari, dei partiti, dei cenacoli e delle società segrete. Bisognerebbe, forse, decidere finalmente che il magistrato faccia, e soltanto, il magistrato, e non possa più essere distaccato in un ministero, in un ufficio politico, in un ufficio studi.

Secondo. Massimo rigore nel vietare le esternazioni improprie, le apparizioni televisive e le interviste sui processi in corso, comunque l’autopromozione mediatica.

Terzo. Divieto che un magistrato possa transitare senza scosse dalla magistratura all’attività politica. Se vuole farlo, si dimetta dalla magistratura ed affronti la nuova carriera libero da ogni condizionamento pregresso e futuro.

Quarto. Una riforma dei criteri di selezione dei componenti togati del Csm, per evitare finalmente che le trasversalità correntizie incidano sulla selezione dei dirigenti degli uffici, sulle decisioni disciplinari, su quant’altro potrebbe essere deviato dall’esistenza di rapporti impropri.

È difficile dire chi potrà, oggi, impostare riforme di questo tipo (le riforme di cui sta discutendo il mondo politico sono, al momento, di tutt’altro segno). Potrebbe, forse, essere la stessa magistratura organizzata a farsi carico, in un sussulto d’orgoglio, dei suoi problemi, nel tentativo di un’autoriforma salvifica dei principi di rigore, d’indipendenza e di onestà ai quali dovrebbe ispirarsi, sempre, l’attività dei magistrati.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7601&ID_sezione=&sezione=


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Fuori dal Csm i legulei di parte
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 10:29:39 am
20/7/2010

Fuori dal Csm i legulei di parte
   
CARLO FEDERICO GROSSO


Fino a che non emerga un’eventuale prova contraria, nessuno è legittimato a pensare che Mancino, contattato da Lombardi, si sia comportato diversamente da quanto ha dichiarato alla Stampa.

Abbia, cioè, ignorato le richieste che gli venivano rivolte dal conterraneo geometra campano affinché si adoperasse per la nomina di Marra a presidente della Corte di appello di Milano.

Rimane, comunque, il fatto che egli ricevette Lombardi, ascoltò le sue richieste e, soprattutto, votò a favore di Marra insieme al primo presidente della Cassazione, risultando in questo modo determinante per la vittoria del candidato a favore del quale vi erano state tante pressioni.

Dalle cronache di questi giorni è d’altronde emerso che più d’uno furono i componenti del Csm che, destinatari di tentativi d’interferenza, votarono per Marra. Anche qui, forse, una coincidenza. Bene ha comunque fatto il presidente Napolitano a rifiutare che il Consiglio in carica, ormai prossimo alla scadenza, mettesse all’ordine del giorno il tema delle regole deontologiche interne al Csm e ad affermare che occorre essere in ogni caso attenti a non gettare ombre su coloro che si pronunciarono, al di fuori da ogni condizionamento, su quella proposta concorrendo alla sua approvazione.

È evidente, infatti, che il tema della correttezza deontologica in seno al Csm difficilmente avrebbe potuto essere affrontato con sufficiente distacco ed equilibrio da coloro che sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti nelle polemiche. È d’altronde altrettanto evidente che, nell’interesse dell’istituzione prima ancora che dei singoli suoi componenti, occorra evitare che si faccia di ogni erba un fascio: poiché è un fatto che anche in questo Consiglio Superiore, nonostante le decisioni che hanno suscitato perplessità, vi sono consiglieri al di sopra di ogni sospetto.

Piuttosto, di fronte allo sconcerto suscitato dalle troppe vicende consiliari discutibili, varrebbe la pena di cominciare a ragionare con serietà sul modo con il quale il Csm suole affrontare i suoi problemi. Per cercare, in qualche modo, di rimediare agli scompensi più rilevanti.

Due sono i nodi che devono essere affrontati in modo prioritario: il peso strabordante delle correnti, i rapporti con la politica. Due nodi che, sia pure in modo diverso, condizionano le decisioni del Consiglio.

Il peso delle correnti è assolutamente asfissiante. Lo era già anni fa, quando ho fatto io stesso parte del Consiglio come componente laico eletto dal Parlamento. E mi dicono che oggi sia molto peggio. Già allora la questione avrebbe comunque dovuto essere messa all’ordine del giorno dalla stessa magistratura come questione prioritaria. Ma è difficile pensare che, senza una spinta forte, senza, magari, uno scandalo, l’ordine giudiziario sia in grado di autoriformare se stesso, rinunciando a qualche abitudine consolidata o a qualche privilegio o potere di qualche suo dirigente. Ed infatti non è accaduto nulla. Né la politica ha avuto la forza d’imporre alcunché dall’esterno.

Le interferenze della politica sul Consiglio sono meno appariscenti, ma, forse, più subdole. Nella magistratura c’è sempre stata l’orgogliosa difesa della propria indipendenza dalla politica. E, quando la politica ha cercato di spostare gli equilibri all’interno del Consiglio Superiore (oltreché nei rapporti fra potere politico ed esercizio della funzione giudiziaria), essa ha, giustamente, reagito con veemenza.

Eppure, nei fatti, sovente il Consiglio Superiore non è stato insensibile alle sirene dei partiti, alle interferenze, agli scambi. Magistrati che cercavano la simpatia e l’appoggio dei politici; politici che cercavano a loro volta di appoggiare per acquisire meriti e potere; rapporti con il mondo dei partiti specificamente coltivati attraverso il cordone ombelicale offerto dalla presenza dei consiglieri laici di nomina parlamentare, sovente intesi come mera cinghia di trasmissione della volontà del segretario politico che li aveva designati.

Quale rimedio? Al momento non ne vedo molti. Forse, soltanto, l’appello a regole di buon governo e di ritrovata dignità. È un fatto, per esempio, che se i partiti anziché eleggere quali componenti del Csm persone autorevoli dell’Università o dell’avvocatura, in quanto tali (ragionevolmente) autonomi dai partiti che li hanno designati, preferiscono mandare in Consiglio politici di lungo corso o, peggio, come è talvolta accaduto, piccoli avvocati senza prestigio, è più facile che il cordone ombelicale si rafforzi.

Ecco, allora, l’auspicio. La magistratura ha già eletto i componenti del nuovo Consiglio. Fra di essi spiccano alcune persone di grande carisma. La politica faccia, ora, al meglio le sue scelte. Dico apertamente che un vicepresidente professore, lontano dal mondo e dalle temperie della politica, non aduso a compromessi ed a giochi di potere, eticamente attrezzato e indipendente, dopo gli scandali che stanno emergendo in questi giorni dovrebbe essere scelta assolutamente prioritaria. Come assolutamente prioritaria dovrebbe essere la preoccupazione di mandare al Consiglio consiglieri laici seri che non siano meri esecutori d’ordini e direttive di questo o di quel segretario di partito.

Ma le speranze sono poche. Ho letto che i partiti, data la difficoltà di trovare un accordo, non sono, per il momento, neppure in grado di eleggere i nuovi consiglieri. C’è addirittura il rischio che, nel gioco dei veti contrapposti, i tempi previsti per l’insediamento del nuovo Consiglio si consumino senza risultato e che quello in carica sia addirittura prorogato. Sarebbe una beffa, uno sberleffo a quanti (pochi) credono ancora nella serietà delle istituzioni. Altro che speranza di rinnovamento e serietà.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7615&ID_sezione=&sezione=


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Cosa serve davvero alla giustizia
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2010, 05:16:39 pm
2/10/2010

Cosa serve davvero alla giustizia

CARLO FEDERICO GROSSO

La giustizia costituisce sicuramente, oggi, una priorità. Nove milioni di processi pendenti sono davvero, come ha detto Berlusconi in Parlamento, «un macigno» che «dovremmo, tutti, voler rimuovere». In questa prospettiva era inevitabile che il tema dell’efficienza della giustizia comparisse fra i cinque punti del programma di governo.

Berlusconi, sempre in Parlamento, ha tracciato la sua linea: riforma costituzionale che consenta di ristabilire fra i poteri dello Stato un giusto equilibrio (equilibrio a suo dire turbato da un uso politico della giustizia da parte di alcuni magistrati); riforma costituzionale che assicuri parità fra difesa ed accusa nel processo penale attraverso la separazione delle carriere e la spaccatura in due del Csm; legge ordinaria che garantisca l’accelerazione dei processi; piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili pendenti; piano carceri che consenta di ridurre il sovraffollamento. Ed ancora: attuazione della delega per la semplificazione dei riti del processo civile, aumento delle risorse per la giustizia. Davvero, tuttavia, si tratta di un progetto funzionale, destinato a garantire l’obiettivo di una giustizia penale e civile finalmente efficiente? Dimentichiamoci, per un istante, che obiettivo primario di questo governo in materia di giustizia sembra essere stato, fino ad ora, assicurare l’impunità al presidente del Consiglio attraverso un’elaborata rete di leggi personali. Dimentichiamoci, anche se è difficile, gli attacchi pronunciati ripetutamente dallo stesso presidente contro la magistratura «politicizzata» che, a suo dire, tramerebbe nell’ombra per rovesciarlo (attacchi ripetuti pesantemente ieri sera, al rientro dalle sue fatiche parlamentari, davanti ad un gruppo di seguaci plaudenti). E domandiamoci se gli interventi prospettati ufficialmente in Parlamento siano davvero idonei a tranquillizzare sul conseguimento del dichiarato obiettivo di efficienza.

La mia risposta è assolutamente negativa. Come tecnico del diritto, lette le parole pronunciate dal presidente del Consiglio, mi sono domandato quante, e quali, delle iniziative menzionate prevedano rimedi in grado di superare concretamente questa, o quella, specifica causa di ritardo senza danneggiare l’ordinata gestione dei processi. Pressoché nessuna.

Consideriamo due dei principali interventi prospettati: l’approvazione di una legge che consenta l’accelerazione dei processi, un piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili pendenti. Sul primo versante, una legge con quale contenuto? Se si trattasse di una rivisitazione del c.d. «processo breve», che è sempre in cima all’agenda berlusconiana nonostante il veto dei finiani, l’obiezione sarebbe infatti radicale: imponendo, pena la loro estinzione, tempi rapidi precostituiti ai processi penali senza che siano state previamente assicurate le condizioni per una loro altrettanto rapida celebrazione, il risultato sarebbe l’ecatombe dei processi e pertanto la denegata giustizia generalizzata. Dalle parole del presidente non si ricava, d’altronde, l’indicazione di nessun altro progetto.

Che cosa significa, d’altro canto, «piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili»? Significa trasferire per intero l’ammontare dei processi dalla competenza del giudice togato alla rete di una giustizia «privatizzata» allo scopo di consentire soluzioni rapide perché sbrigative? E con quali garanzie per le parti? Ancora una volta i finiani, giustamente preoccupati, hanno ammonito: «Siamo d’accordo a smaltire le cause civili pendenti, ma non saremo mai d’accordo con una legge che tolga la possibilità, anche ad un solo cittadino, di avere la giustizia che attende dal suo giudice civile». E senza l’appoggio dei finiani, come si è capito, la maggioranza non andrà lontano.

E’ giusto, d’altra parte, prevedere l’aumento delle risorse destinate alla giustizia ed ipotizzare la realizzazione di un piano carceri volto a ridurre il sovraffollamento. Peccato che il presidente del Consiglio non abbia indicato a quanto potrebbero ammontare i nuovi investimenti ed abbia dovuto ammettere che il piano carceri già in via di realizzazione non abbia, fino ad ora, assicurato grandi risultati.

Rimangono, per altro verso, le annotazioni a mio avviso più inquietanti: da un lato, la dichiarata necessità di riaffermare la supremazia della politica sulla magistratura; dall’altro, la separazione delle carriere dei magistrati e lo sdoppiamento del Consiglio Superiore. Questi temi non hanno ovviamente nulla a che vedere con la dichiarata necessità di recuperare efficienza alla macchina giudiziaria.

Con il primo si tende a ripristinare il sistema delle immunità dei politici, reso necessario, si sostiene, da un asserito uso politico della giustizia da parte dell’ordine giudiziario. La posta in gioco è, comunque, sempre la stessa: come garantire al presidente del Consiglio, pur con i paletti imposti dai finiani, di sfuggire all’epilogo naturale dei processi nei quali è coinvolto.

Con il secondo, a parole, si tende a realizzare il principio costituzionale della parità fra accusa e difesa nel processo. Sullo sfondo si profila, peraltro, ancora una volta, l’obiettivo d’indebolire le procure della Repubblica, degradando i pubblici ministeri ad avvocati dell’accusa e privandoli della gestione delle indagini, affidata, come si prevede, ad una polizia giudiziaria che raccoglie prove, decide quali indagini coltivare, con quanta rapidità, con quali mezzi.

Perché, allora, agganciarli al tema dell’efficienza, considerato assolutamente prioritario? E, più in generale, quanto davvero sta a cuore, a Berlusconi ed alla sua maggioranza, l’asserita priorità di una giustizia efficiente, e quanto, piuttosto, prioritario è l’obiettivo di coprire, proteggere, tutelare, garantire, difendere dall’esercizio dell’attività giudiziaria? E fino a che punto Fini, ed i finiani, sapranno avventurarsi lungo la strada del distacco per assicurare al Paese, come dicono, legalità e Stato di diritto?

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. La giustizia "sotto il trono"
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2010, 07:28:47 am
11/10/2010

La giustizia "sotto il trono"

CARLO FEDERICO GROSSO

Il tema giustizia è al centro dell’attenzione riformatrice del capo del governo. Le riforme pensate riguardano peraltro, in larga misura, temi che poco hanno a che fare con l’obiettivo di efficienza che dovrebbe essere prioritario.

Mi riferisco non soltanto ai progetti che salvaguardano il premier dai suoi processi, come il lodo Alfano, ma soprattutto a quelli finalizzati a «riequilibrare», così si dice, i poteri dello Stato, assicurando una protezione generalizzata alla politica contro le iniziative giudiziarie: articolato sistema di immunità, indebolimento del Csm, rafforzamento dell’ingerenza dei partiti nella gestione della magistratura, limitazioni dell’indipendenza di pubblici ministeri e giudici. In questa prospettiva, ancora in questi giorni, si è parlato di sdoppiamento del Csm, d’incremento della componente di nomina politica dei suoi membri, di separazione delle carriere, di ribaltamento dei poteri fra procure e polizia giudiziaria nella conduzione delle indagini.

Io sono in larga misura critico di fronte a questo «nuovo». E sono critico, soprattutto, nei confronti delle ventilate riforme costituzionali «di struttura», che finirebbero per assicurare molta impunità alla politica, ma sicuramente poca giustizia rapida ed eguale nell’interesse dei cittadini. Mi si obietta tuttavia da qualche lettore: bene, ma non basta criticare. Quali sono invece, concretamente, le proposte alternative finalizzate all’efficienza? Senza pretese d’esaustività, mi sembra possibile tratteggiare un quadro di possibili riforme utili a una giustizia funzionante. Occorrerebbe, in primo luogo, affrontare la questione della riorganizzazione delle sedi giudiziarie, eliminando quelle inutili e procedendo ai necessari accorpamenti (sono anni che tale problema è sul tappeto; nulla è stato peraltro realizzato a causa delle resistenze locali).

Ancor prima, occorrerebbe risolvere il nodo delle sedi disagiate vacanti (vi sono, addirittura, procure della Repubblica ormai senza sostituti, e quindi di fatto impedite). A questo riguardo il governo ha varato una riforma che prevede il trasferimento coattivo dalle sedi limitrofe. Tale provvedimento è stato accusato da taluno d’incostituzionalità (violerebbe il principio d’inamovibilità dei magistrati); sembrerebbe, addirittura, che il Csm stia facendo resistenza alla sua applicazione. In ogni caso, la questione dovrebbe essere risolta in fretta: o con la rigorosa applicazione della nuova legge o con altri, possibili, strumenti.

C’è, in secondo luogo, un problema di riorganizzazione interna degli uffici giudiziari. Nel Paese esistono alcuni esempi d’interventi che hanno consentito l’ottimizzazione dei mezzi con risultati apprezzabili; il che dimostra che, riorganizzando in maniera razionale, è possibile ottenere. Perché non cercare d’estendere la riorganizzazione felicemente praticata all’intero sistema? D’importanza decisiva può diventare, a questo punto, l’informatizzazione del servizio giustizia, con la sostituzione degli accessi alle cancellerie con collegamenti via Internet e quella delle copie cartacee degli atti con la loro trasmissione per e-mail.

Sono prospettabili, inoltre, interventi legislativi mirati che potrebbero assicurare l’abbattimento dei rinvii o degli annullamenti «postumi» dei processi. Ne indico alcuni: semplificazione del regime delle notifiche; esaurimento delle questioni relative alla competenza nell’udienza preliminare, e possibilità di ricorso immediato in Cassazione; semplificazione delle nullità con onere, per i difensori, di eccepirle immediatamente; riduzione dei legittimi impedimenti (sovente strumentali) di imputati e avvocati; modificazione della disciplina della contumacia.

Si potrebbe, a questo punto, pensare a cambiamenti più articolati del sistema processuale. Ad esempio, imposizione ai pubblici ministeri di un termine perentorio per le proprie determinazioni una volta esauriti i tempi delle indagini; riordino della disciplina dell’udienza preliminare (oggi trasformata in una sorta di «quarto» grado di giudizio); rivisitazione del sistema delle impugnazioni (es. limitazioni all’uso contemporaneo dell’appello e del ricorso per Cassazione e dei casi di ricorribilità in Cassazione, divieto di ricorrere contro i patteggiamenti).

Si potrebbe, infine, prospettare una riforma organica dei codici e del processo. I tempi per la realizzazione di iniziative di ampio respiro di questo tipo potrebbero essere lunghi. È tuttavia peculiare che progetti organici di riforma, elaborati nell’ultimo decennio da alcune commissioni ministeriali (io stesso ho presieduto una di esse, di riforma del codice penale), siano stati lasciati cadere, sprecando così risorse e vanificando risultati positivi possibili. Requisito indispensabile sarebbe, infine, non tagliare, ma se possibile incrementare, e di molto, le risorse destinate alla giustizia.

A questo punto, di fronte a un’inerzia apparentemente incomprensibile (talune delle menzionate riforme, si badi, sarebbero realizzabili velocemente e a costo zero), viene peraltro un sospetto: che alla politica, al di là delle parole, una giustizia veramente funzionante interessi poco. Ciò che interessa in realtà a larghi settori dell’una come dell’altra sponda politica è, soprattutto, che la magistratura sia saldamente, e definitivamente, collocata «sotto il trono»

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Ristabilita l'uguaglianza
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2011, 11:19:30 am
14/1/2011

Ristabilita l'uguaglianza

CARLO FEDERICO GROSSO

La Corte Costituzionale ha deliberato nei tempi previsti. Con uno stringato, ma esauriente, comunicato diffuso ieri pomeriggio, ha reso pubblici i contenuti della sua importante decisione sul legittimo impedimento. Essi mi paiono assolutamente condivisibili. I giudizi potranno essere esaustivi solo quando si potranno leggere le motivazioni della sentenza.

Oggi mi sembra importante cercare di capire il significato di ciò che è stato deciso e quali saranno le conseguenze sui processi penali del premier.

Vediamo, innanzitutto, di riassumere che cosa stabiliva, esattamente, la legge sul legittimo impedimento. Nel suo art. 1 comma 1 essa elencava i casi «che costituiscono legittimo impedimento per il Presidente del Consiglio a comparire quale imputato nelle udienze penali in ragione del concomitante esercizio di una o più delle sue attribuzioni». Nell’art. 1 comma 3 disponeva a sua volta che il giudice, su richiesta della parte, era obbligato a rinviare il processo ad altra udienza, senza potere procedere ad alcuna valutazione di merito sulla istanza presentata. Nell’art. 1 comma 4 soggiungeva che la presidenza del Consiglio aveva titolo «ad attestare che l’impedimento era continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni», e che in questo caso il giudice era tenuto «a rinviare il processo ad udienza successiva al periodo indicato» (che poteva essere addirittura di sei mesi).

In questo modo si configurava un vero e proprio titolo dell’Alta Carica, insindacabile dal giudice, a non presentarsi alle udienze penali adducendo l’impedimento, e ad ottenere in questo modo, automaticamente, il rinvio del processo (è utile ricordare che l’imputato ha diritto ad essere presente alle udienze penali nelle quali si tratta il suo processo). Secondo i critici, si veniva così a configurare una vera e propria condizione personale d’immunità processuale, che configgeva con il principio d’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, tanto più grave se si considerava che con certificazione, neppure motivata, la presidenza del Consiglio avrebbe potuto «attestare» la continuità dell’impedimento ed ottenere, in questo modo, un rinvio automatico del processo di rilevante durata.

Ebbene, la Corte Costituzionale ha, innanzitutto, dichiarato in modo assolutamente deciso l’illegittimità dell’art. 1 comma 4 della legge sul legittimo impedimento, stabilendo che l’ipotesi d’impedimento continuativo attestato dalla presidenza del Consiglio viola clamorosamente il principio di eguaglianza. Esso infrange infatti, è scritto nel comunicato, l’art. 3 Cost., che prevede, appunto, che «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».

In secondo luogo la Corte ha stabilito che è incostituzionale altresì il comma 3 dell’art. 1, «nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420 ter c.p.p., l’impedimento addotto». Tale comma 3 prevedeva l’automatismo della sospensione del processo: l’Alta Carica presentava istanza di rinvio adducendo l’esistenza di un legittimo impedimento; il giudice era obbligato a disporre il rinvio. Questo automatismo, ha deciso la Corte, viola anch’esso il principio di eguaglianza, introducendo una situazione di privilegio ingiustificabile a favore di determinati soggetti. La norma ritorna, invece, ad essere legittima nella misura in cui si riconosca che il giudice può valutare in concreto, secondo quanto stabilisce per tutti i cittadini l’art. 420 ter c.p.p., se l’impedimento è appunto giustificato o no. Ma ciò significa avere, anche in questo caso, eliminato la norma di privilegio introdotta dalla legge n. 51/2010.

Dell’impalcatura originaria di tale legge rimane in piedi, quindi, soltanto la previsione dei casi d’impedimento, elencati nel comma 1 dell’art. 1. Nei confronti di questa norma la Corte ha infatti precisato che le questioni di legittimità costituzionale sollevate «non sono fondate». Ha tuttavia specificato che esse non sono fondate nella misura in cui «la disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420 ter c.p.p.»: che venga, cioè, interpretata nello spirito dei principi generali enunciati nei confronti di tutti i cittadini. Anche sotto questo profilo, pertanto, pure se non attraverso una dichiarazione d’illegittimità costituzionale, il privilegio sembra pertanto svanire. A questo punto è agevole indicare quali saranno gli effetti della sentenza della Corte sui processi del premier. Essi ovviamente riprenderanno. Il premier avrà, pur sempre, titolo per opporre, di volta in volta, un suo eventuale legittimo impedimento. Il giudice avrà, tuttavia, la possibilità di valutare in concreto la fondatezza o meno dell’istanza. Il principio di eguaglianza risulterà, in questo modo, sicuramente ristabilito. Non è difficile tuttavia immaginare quali saranno le tensioni che si accompagneranno ad ogni istanza presentata e ad ogni decisione di merito del giudice.

Un’ultima riflessione. Nel comunicato della Corte Costituzionale si precisa che le due norme sono state dichiarate incostituzionali per violazione «degli artt. 3 e 138 Cost.». Dell’art. 3 ho già parlato. Il riferimento all’art. 138 Cost. significa, verosimilmente, che a giudizio della Corte il «privilegio» del presidente del Consiglio potrebbe essere reintrodotto attraverso una legge di rango costituzionale. Un principio che era già stato enunciato nelle sentenze che avevano sancito l’incostituzionalità dei lodi Schifani ed Alfano.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8292&ID_sezione=&sezione=


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il rito breve diventerà molto lungo
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:48:39 pm
16/2/2011

Il rito breve diventerà molto lungo

CARLO FEDERICO GROSSO

Come era prevedibile, il gip di Milano ha accolto la richiesta di giudizio immediato nei confronti di Berlusconi. Evidentemente ha ritenuto che sussistessero entrambi i requisiti ai quali la legge subordina tale specialissimo rito processuale (l’evidenza della prova e l’avvenuto interrogatorio dell’indagato o la sua mancata comparizione davanti al pubblico ministero).

Non è questo il momento di discutere se questo rito sia stato assunto a ragione o a torto, anche se le notizie sul contenuto dell’inchiesta pubblicate sui giornali consentono, ampiamente, di capire le ragioni in forza delle quali la richiesta di giudizio immediato ha potuto essere formulata e, quindi, essere accolta dal giudice. Piuttosto, può essere interessante capire che cosa potrà accadere d’ora in avanti sul terreno del processo.

Iniziamo dalla polemica innescata ieri da esponenti del mondo politico sull’irritualità dell’attività giudiziaria compiuta dalla magistratura, in quanto essa contrasterebbe con le valutazioni del Parlamento. Poiché la Camera, giudicando su di una richiesta di autorizzazione ad eseguire una perquisizione, ha affermato che la concussione sarebbe stata compiuta da Berlusconi nell’esercizio delle sue funzioni, ed avrebbe pertanto dovuto essere giudicata dal Tribunale dei ministri, il differente avviso manifestato dall’autorità giudiziaria costituirebbe un attentato alla sovranità popolare.

Questa affermazione, giuridicamente, è una sciocchezza, poiché la magistratura nell’interpretare le leggi è totalmente indipendente e le sue decisioni non sono, pertanto, condizionate dal giudizio espresso da una maggioranza parlamentare. Tali accuse lasciano comunque supporre che di qui a poco il governo, la maggioranza parlamentare, o i difensori di Berlusconi, solleveranno conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale, cercando di sottrarre comunque il premier alla giurisdizione della magistratura ordinaria, se non addirittura alla giustizia (per potere procedere nei confronti dei reati ministeriali è necessario, infatti, che il Parlamento conceda la sua autorizzazione. E quando mai questo Parlamento la concederebbe?).

Diciamo subito che il conflitto di attribuzione non obbliga a sospendere il processo (tutt’al più, se la Corte dovesse dare torto alla magistratura, gli atti giudiziari compiuti risulterebbero nulli). Ciò significa che il 6 aprile il processo penale a Berlusconi per concussione e prostituzione minorile potrà essere iniziato (a meno che egli non chieda, incredibilmente, il giudizio abbreviato o il patteggiamento). E’ difficile, tuttavia, pensare che esso possa comunque proseguire spedito.

La difesa potrà infatti utilizzare un vasto arsenale di operazioni dilatorie: innanzitutto fare leva sul legittimo impedimento dell’imputato. Questo «rimedio» non è più così agevole com’era fino a ieri, in quanto la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la legge che riconosceva a Palazzo Chigi il potere di certificare in modo vincolante la condizione di soggetto impedito del primo ministro. Berlusconi pertanto, come ogni altro cittadino, se vorrà rinviare il processo dovrà di volta in volta addurre uno specifico, documentato, impegno istituzionale, la cui consistenza potrà essere valutata dal giudice. Non è peraltro difficile immaginare quali e quante tensioni e polemiche potrà suscitare, ad ogni udienza, l’eventuale decisione del premier di ostacolare la prosecuzione del suo processo. E soprattutto, quanto effettivo ritardo essa potrà concretamente causare all’ordinato svolgimento della giustizia nei suoi confronti.

In via preliminare, i difensori di Berlusconi potranno d’altronde dispiegare un complesso articolato di eccezioni. Innanzitutto potranno eccepire l’incompetenza del tribunale ordinario, affermando che la concussione, in quanto reato ministeriale, deve essere giudicata dal Tribunale dei ministri, ed affermare che la prostituzione minorile, a questo punto necessariamente separata dalla concussione, deve essere a sua volta assegnata al suo giudice naturale, cioè il Tribunale di Monza (in quanto Arcore, luogo nel quale sarebbero state commesse le condotte costitutive di tale delitto, si trova in quel circondario). In secondo luogo potranno sostenere l’illegittimità della richiesta di giudizio immediato, eccependo che di tale rito difettava taluno dei presupposti, magari, addirittura, l’evidenza delle prove. In terzo luogo potranno cercare, fra le pieghe della burocrazia giudiziaria (eventuali avvisi difettosi, termini non rispettati, altre incombenze processuali trascurate), la strada per ottenere in qualche modo annullamenti, ripetizioni di atti, comunque ritardi.

Un percorso difficile, dunque, dalle possibili conseguenze imprevedibili. Sicuramente un processo lungo, carico di tensioni, che decollerà con difficoltà e non si sa come e quando potrà arrivare a sentenza, ad onta del rito «breve» specificamente adottato.

Un ingorgo per altro verso pericoloso per la tranquillità della vita istituzionale del Paese, foriero di ulteriori strappi e distorsioni nel mondo della politica e della giustizia. Mi ha ad esempio colpito, ieri, la precipitazione con la quale una importante conferenza stampa congiunta del presidente del Consiglio e del ministro Maroni è stata annullata non appena la notizia relativa al processo immediato ha cominciato a circolare. Un imbarazzo, dato che le asserite vittime della concussione del premier sono dipendenti del ministero dell’Interno? E quanti altri imbarazzi si porranno, di qui al 6 aprile, e dal 6 aprile in avanti?

da - lastampa.it/


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Conflitto tra poteri dello Stato
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2011, 06:24:50 pm
10/3/2011

Conflitto tra poteri dello Stato

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.

Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.

I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri. L’elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.

Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.

Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.

Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.

Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?

C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?

Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO La scelta del rinvio senza fine
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2011, 03:50:46 pm
6/4/2011

La scelta del rinvio senza fine


CARLO FEDERICO GROSSO

La Camera ha votato il conflitto di attribuzioni sul caso Ruby. Il voto era scontato in quanto già una volta, poche settimane fa, la maggioranza aveva stabilito che la telefonata del premier alla polizia diretta a far rilasciare la ragazza costituiva esercizio delle funzioni ed era pertanto qualificabile come reato ministeriale di competenza del tribunale dei ministri.

È interessante chiedersi, a questo punto, quali saranno gli effetti di tale voto nei palazzi di giustizia di Milano e Roma, nei quali saranno assunte, di qui a poco, le decisioni relative alla vicenda. Prima di affrontare questo problema, mi preme chiarire tuttavia un profilo fondamentale per capire le ragioni di tanta attenzione parlamentare attorno a questo caso e, in particolare, attorno al tema del conflitto.

I tribunali dei ministri sono costituiti da magistrati di carriera (estratti a sorte ogni tre anni fra i magistrati del distretto); magistrati di carriera compongono, allo stesso modo, i tribunali ordinari. Non è tuttavia vero, come hanno sostenuto nei giorni scorsi numerosi politici del polo, che per un ministro essere giudicato dall’uno ovvero dall’altro organismo è lo stesso. La legge stabilisce, infatti, che in caso di reato ministeriale il processo può iniziare soltanto se il parlamento l’autorizzi. Ecco perché, per la maggioranza, era così importante dichiarare che nel caso Ruby non era competente il tribunale ordinario. Spostare il processo significava, infatti, porre le premesse perché il parlamento potesse bloccarlo «politicamente» con un voto di totale impunità del Presidente.

Che cosa accadrà tuttavia, ora che il conflitto è stato sollevato, sul terreno dei processi penali e costituzionali che si apriranno? Questa mattina si inaugurerà normalmente, a Milano, il processo Ruby, che, secondo prassi, trattandosi della prima udienza, dopo la costituzione delle parti verrà rinviato all’udienza dedicata alle questioni preliminari.

Nel frattempo le carte verranno inviate dal parlamento alla Corte costituzionale. Qui si porrà, subito, una prima delicata questione: l’asserito conflitto sollevato dal parlamento è ammissibile o inammissibile? Il problema esiste perché si può sollevare conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato soltanto quando si contrappongono poteri di enti diversi o di diverse articolazioni statuali (Stato e Regione, Regione e Regione, Parlamento e magistratura, e via dicendo). Ma nel caso di specie di che tipo di conflitto, davvero, si tratta, dato che si discute, in realtà, di competenza di diverse autorità tutte giudiziarie (tribunale ordinario e tribunale dei ministri), fra le quali non esiste fra l’altro, al momento, nessun conflitto?

Da un lato c’è la magistratura ordinaria che ritiene, ricostruendo i fatti di causa e interpretando la legge in un certo modo, che la competenza appartiene al tribunale ordinario; dall’altro c’è il Parlamento che, ricostruendo altrimenti i fatti, e interpretando diversamente la legge, sostiene che la competenza appartiene invece al tribunale dei ministri. Ma davvero il Parlamento ha il potere di sostituirsi alla magistratura nel ricostruire fatti giudiziari ed interpretare le leggi loro applicabili, ed investire per questa ragione la Corte di questo specifico «conflitto interpretativo»? Davvero si potrebbe, sotto altro profilo, sostenere che la magistratura ordinaria, dichiarandosi competente, è venuta «di fatto» a menomare il diritto dei parlamentari di non autorizzare un processo che era, a loro avviso, di competenza del tribunale dei ministri?

Bizantinismi giuridici, forse. La Corte dovrà, comunque, necessariamente affrontarli e gestirli in tempi possibilmente rapidi. E soltanto nel caso in cui decidesse che la questione sollevata è, nonostante i molti dubbi, ammissibile, potrà andare al cuore del problema entrando nel merito.

Nel frattempo il tribunale di Milano non sarà obbligato a sospendere il processo. Semplicemente, se la Corte costituzionale dovesse in futuro ritenere la sua incompetenza, gli atti processuali posti in essere sarebbero nulli (ma in questo caso sarebbero nulli anche gli atti d’indagine compiuti dalla Procura, e l’istruttoria dovrebbe ricominciare daccapo secondo le regole stabilite per il tribunale dei ministri).

Ammettiamo d’altronde che, dopo l’udienza di smistamento che si terrà questa mattina, il processo (fra qualche mese) riesca in qualche modo a decollare. La prima questione che, verosimilmente, i difensori di Berlusconi solleveranno sarà, ancora una volta, quella d’incompetenza del tribunale ordinario. Su di essa il collegio dovrà decidere immediatamente. Ove essa fosse respinta, si procederebbe oltre. Compatibilmente, tuttavia, con la decisione della Corte costituzionale, con gli impegni istituzionali del premier, con l’ingorgo dei processi concentrati al lunedì secondo gli accordi intervenuti. Fino a quando, tuttavia, per quanto tempo, con quali strascichi e tensioni? E quando mai potrà essere pronunciata anche soltanto la prima sentenza?

Nel complesso, una grande tristezza. Ieri c’è stato il voto con il quale la maggioranza ha cercato di porre le premesse per bloccare (tramite il futuro diniego dell’autorizzazione a procedere) il processo Ruby; a breve vi sarà quello sull’abbreviazione della prescrizione, che dovrebbe assicurare a Berlusconi di evitare anche soltanto l’onta di una sentenza di primo grado per corruzione nel processo Mills. Dopodomani, se anche questi tentativi dovessero fallire, voteranno, magari, l’improcedibilità a prescindere, l’immunità assoluta, l’esenzione totale dalla responsabilità, o quant’altro d’immaginabile sul terreno della protezione penale personalissima del capo del governo?

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. La riforma aiuterà i corrotti
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2011, 05:02:35 pm
14/4/2011

La riforma aiuterà i corrotti

CARLO FEDERICO GROSSO

Tutti sanno che la prescrizione abbreviata risponde all’interesse del premier nel processo Mills. Si può dire, anzi, che i suoi dettagli sono stati studiati per favorire il Presidente: l’abbreviazione vale per gli incensurati, e Berlusconi è incensurato, l’accorciamento non è elevato, ma quanto basta per evitargli una condanna, le nuove regole si applicano quando non è stata pronunciata sentenza di primo grado.

E in nessuno dei suoi processi tale sentenza è stata, appunto, pronunciata.

Dove è finito, tuttavia, il «processo breve» che costituiva l’obiettivo originario del progetto e, soprattutto, quali saranno le conseguenze della nuova «prescrizione» sulla sorte dei processi normali? Con il «processo breve» s’intendeva introdurre una durata prestabilita di tutti i processi, nel senso che essi non dovevano superare determinati tempi, e se il giudice li sforava, il processo automaticamente si estingueva. Tale meccanismo era demenziale. Qualunque fosse stata la complessità del processo, anche se fosse stato impossibile chiuderlo nei tempi prefissati, esso sarebbe comunque finito nel nulla. La conseguenza? Un’ecatombe di processi, un mare d’impuniti. Un assurdo che lo stesso Capo dello Stato aveva, a suo tempo, additato con preoccupazione.

La legge approvata ha mantenuto lo scadenzario, ma ha eliminato l’estinzione, stabilendo, semplicemente, che in caso di sforamento il capo dell’ufficio «comunica il ritardo al guardasigilli ed al procuratore generale» (cioè ai due titolari dell’azione disciplinare). Per certi versi, bene. Non si rischia tuttavia, così, di scaricare sul magistrato «inadempiente» il carico degli sforamenti che, molte volte, sono dovuti a carenze delle strutture piuttosto che a negligenze individuali? Non sarà, questo, un modo per intimidire l’ordine giudiziario?

Ma veniamo al tema che interessa di più i cittadini. La prescrizione abbreviata per gli incensurati avrà l’effetto d’estinguere un numero elevato di reati? La prescrizione era già stata accorciata nel 2005, senza che fossero state, già allora, previste le riforme indispensabili per consentire un’accelerazione dei processi. Ciò ha causato una situazione pesante, con oltre 150 mila reati estinti all’anno. Se si considera che la maggior parte dei processi che si concludono con una decisione di merito riesce, già oggi, ad evitare per un soffio la mannaia, è facile immaginare che la nuova legge determinerà, in ogni caso, un ulteriore, doloroso, incremento del fenomeno.

Le conseguenze appaiono d’altronde ancora più gravi se si considerano i reati che saranno i più toccati, perché commessi da incensurati. Un incremento rilevante di reati prescritti si verificherà fra i reati dei colletti bianchi. Si pensi ai processi per truffa, per aggiotaggio, per bancarotta, per incidenti sul lavoro, molti dei quali già oggi riescono a sfuggire per poco, quando vi riescono, all’estinzione. Ad esempio, il primo processo Parmalat per aggiotaggio (che si prescriverà a giugno) riuscirà, forse, a concludersi con sentenza definitiva ai primi di maggio; ed il secondo, contro le banche, a giungere a sua volta alla sentenza di primo grado entro aprile, salvando così quantomeno i risarcimenti. Si tratta di processi che, dopo l’ulteriore riforma, sarebbero stati sicuramente prescritti. Davvero ragionevole?

Non solo. In taluni casi la normativa contraddice linee di politica criminale assolutamente prioritarie. Si consideri la corruzione. Le statistiche parlano di un suo incremento del 30%. Giuristi ed economisti chiedono, da anni, un’apposita legge anticorruzione (fra l’altro imposta dalla normativa europea). Ebbene, poiché i pubblici ufficiali corrotti sono, di regola, incensurati, con la nuova legge l’Italia, incrementando i reati prescritti, favorirà, anziché contrastare, la corruttela. Una vergogna, tanto più che il Parlamento, nel frattempo, si guarda bene dall’approvare il disegno di legge anticorruzione.

Il Guardasigilli ha sostenuto che l’aumento delle prescrizioni sarà minimo (0,2%). Il dato è contestabile (il Csm ha parlato del 10% in più); ma anche se fosse corretto, dato l’alto numero di prescrizioni già presenti, sarebbe comunque un male. Il ministro si è, d’altronde, ben guardato dallo spiegare «quali» saranno i reati più colpiti. Se lo avesse fatto, la gente avrebbe tanto più motivo d’indignarsi.

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Contro ogni logica
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2011, 04:28:45 pm
5/7/2011

Contro ogni logica

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ art. 373 del codice di procedura civile stabilisce nel suo comma 1, che «il ricorso in Cassazione non sospende l’esecuzione delle sentenze». Soggiunge che «tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte, e qualora dall’esecuzione possa derivare un grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione».

Il significato di questa disciplina è chiaro. La sentenza civile d’appello è esecutiva ed il ricorso in Cassazione non vale a sospendere tale esecutorietà. Cionondimeno il giudice che ha deciso «qualora dall’esecuzione possa scaturire un danno grave ed irreparabile», ad evitarlo «può» disporre che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata idonea cauzione in attesa della sentenza definitiva. Norma ragionevole, dato che mira ad evitare danni irreparabili, previa valutazione discrezionale del giudice, e sentite le ragioni delle parti in causa.

Il governo ha approvato un decreto recante «disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria». Nel suo art. 37, contenente «disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie», è stato inserito (proprio al fondo, al suo punto 23 lettera b), una norma che precisa che nel menzionato art. 373 del codice di procedura civile dev’essere inserita la seguente ulteriore disposizione: «La sospensione prevista è in ogni caso concessa per condanne superiori a venti milioni di euro se la parte istante presta idonea cauzione». Sembrerebbe che tale disposizione non figurasse nelle bozze del decreto che erano circolate in giornata, e che sia improvvisamente comparsa nel testo ufficiale inviato alla Presidenza della Repubblica.

L’aggiunta appare, di per sé, stupefacente. Perché mai la sospensione della esecuzione della esecutorietà della sentenza dovrebbe essere «in ogni caso» concessa se la parte istante presta idonea cauzione, essere in altre parole concessa a prescindere da qualsiasi valutazione di danno grave ed irreparabile da parte del giudice? Perché mai questa strana disposizione derogatoria rispetto alla discrezionalità giudiziale dovrebbe valere per condanne «di ammontare superiore a venti milioni di euro», creando pertanto, quantomeno, una discriminazione nei confronti di chi, ad esempio, sia stato condannato a pagare venti milioni esatti, o diciannove milioni, diciotto e via dicendo?

Ma soprattutto. Che senso ha inserire una norma siffatta in un provvedimento legislativo concernente la stabilizzazione finanziaria? E ancor più, dato che la nuova norma figura in un articolo destinato ad assicurare «l’efficienza del sistema giudiziario» nonché «la celere definizione delle controversie», che cosa c’entra, la disposizione di cui si discute, con tale dichiarato obiettivo generale? Rendere «in ogni caso» concessa la sospensione dell’esecutività di una sentenza civile se l’istante presta idonea cauzione significa, semplicemente, favorire una parte a danno della parte avversa, parte che fra l’altro ha vinto la causa, e che ha diritto, in mancanza di danno irreparabile alla parte soccombente, di non vedersi privato del suo sacrosanto titolo ad essere risarcito.

Quale è, infine, la ragione «di urgenza» che giustificherebbe l’ «innovazione» introdotta all’ultimo momento nel testo del decreto sottoposto al Capo dello Stato? Nessuna, apparentemente. A meno che, ovviamente, l’urgenza sia individuabile nell’imminenza di qualche sentenza che potrebbe incidere sugli interessi di qualcuno. Tutti sappiamo, ad esempio, che è attesa fra pochi giorni la sentenza d’appello concernente il Lodo Mondadori che, se confermasse la sentenza di primo grado, condannerebbe una società del Presidente del Consiglio a pagare una somma superiore ai settecento milioni di euro.

Al di là di questo possibile profilo, che spiegherebbe ovviamente l’altrimenti inspiegabile realtà della specifica innovazione della quale stiamo discutendo, rimangono, comunque, le gravissime discrasie di carattere generale.

Ci troviamo di fronte ad una nuova norma che modifica illogicamente una disciplina che appare, oggi, logica a ragionevole; di fronte ad una norma che non trova nessuna sua collocazione razionale nel contesto di un decreto finalizzato a risanare, se possibile, la nostra economia; di fronte ad una norma che costituisce un corpo estraneo rispetto alla stessa finalità specifica, di celerità ed efficienza della giustizia civile, cui vorrebbe rispondere l’articolo nel quale essa risulta inserita. Ci troviamo, infine, di fronte ad una norma che non ha nessuna valenza generale d’urgenza. Si tratta di una norma che, davvero, può pertanto legittimamente permanere nel testo del decreto nel quale è stata, all’ultimo momento, più meno furbescamente inserita?

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Qualche idea per il nuovo ministro
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:26:15 pm
28/7/2011

Qualche idea per il nuovo ministro

CARLO FEDERICO GROSSO


Alfano si è dimesso, rinunciando al doppio incarico, ministeriale e politico, che lo assillava. Abbiamo, pertanto, un nuovo Guardasigilli: l’ex magistrato Nitto Palma. Se la legislatura dovesse durare fino alla sua scadenza naturale del 2013, egli avrebbe, al massimo, poco più di un anno e mezzo per lasciare la sua impronta al ministero. Quale impronta, tuttavia, egli potrebbe, davvero, imprimere in questo non lunghissimo lasso di tempo?

Noi abbiamo bisogno di riforme incisive in grado di dare nuovi ritmi ed efficienza sia alla giustizia civile che a quella penale. Le carceri stanno d’altronde scoppiando, e anche su questo terreno (più che aprire nuove prigioni come si sta cercando di fare) sarebbero urgenti interventi sulla legislazione penale e penitenziaria in grado di risolvere il problema del sovraffollamento utilizzando un ampio sistema di sanzioni alternative al carcere.

Non credo che un anno e mezzo, o poco più, siano tuttavia sufficienti per realizzare riforme dei codici in grado di fornire risposte convincenti alle esigenze di giustizia della gente e/o risolvere il problema carcerario. Tanto più che nessun progetto di questo tipo è stato elaborato dal Guardasigilli che si è appena dimesso. Tutt’altri erano, infatti, i suoi pensieri.

Per capire che cosa potrebbe succedere, guardiamo dunque, piuttosto, ai progetti elaborati fino ad ora e al dibattito in corso sui temi della giustizia. Il panorama è deludente. Nessuno dei temi di fondo di una riforma utile per i cittadini è stato infatti messo in cantiere dal governo nel corso di questa legislatura, e fra i politici si è discusso, soprattutto, di come risolvere per legge i problemi giudiziari di qualcuno e di come modificare i rapporti di forza con la magistratura. Cercherà, NittoPalma, di modificarequest’impronta?

Egli dovrà, innanzitutto, decidere come affrontare i temi caldi della riforma costituzionale della giustizia (in discussione davanti alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera) e dei numerosi progetti di riforma di legislazione ordinaria che modificano alcuni profili altrettanto caldi del processo penale.

E’ quasi certo che la riforma costituzionale della giustizia, che esige un doppio passaggio in entrambi i rami del Parlamento, non potrà essere approvata nel corso dell’attuale legislatura. Sarebbe, comunque, un bel segnale se il nuovo ministro dovesse in qualche modo frenare.

Sarebbe, d’altronde, un segnale ancora migliore se il nuovo ministro dovesse frenare su altri disegni di legge che pendono in Parlamento: il disegno di legge sulla prescrizione breve, quello, ancora più dannoso, sul processo breve, quello sulle intercettazioni, quello che prevede il divieto per il giudice di sfoltire gli elenchi dei testimoni predisposti dalle parti (che già oggi dovrebbe essere discusso, e forse votato, in Senato).

Non spero ovviamente in tanto. Ciascuno di tali disegni di legge è destinato ad aiutare il premier in uno dei suoi processi, ed è pertanto giocoforza che un ministro indicato dal presidente del Consiglio in sostituzione di altro ministro che, di quei progetti, era stato acceso paladino, segua la linea tracciata con la dovuta dedizione, anche se essa rischia di recare grandi danni all’ordinato esercizio della giustizia quotidiana. Come accadrà, ad esempio, se il progetto che vieta di sfoltire la lista dei testimoni presentati dalle parti dovesse essere approvato, poiché ogni avvocato sarebbe, a quel punto, inevitabilmente spinto a gonfiare la lista, cercando così di allungare i tempi del processo in modo da ottenere la prescrizione del reato di cui è accusato il suo assistito.

Al di fuori dei menzionati settori sui quali si articola ormai da tempo, e in maniera incattivita, il dibattito quotidiano in materia di giustizia, che cosa potrebbe qualificare comunque, oggi, l’attività di un nuovo Guardasigilli che si affaccia sulla scena del governo in un momento assai poco positivo per l’immagine del mondo al quale appartiene? Che cosa potrebbe dare, ad esempio, una grandissima caratura positiva alla sua immagine di ministro di Giustizia?

Io avrei una idea. Perché il nuovo ministro, raccogliendo il dilagare del disgusto della gente di fronte all’esplosione di una questione «corruzione» senza precedenti, peggiore, forse, di quella emersa venti anni or sono, non si fa paladino di qualche iniziativa dirompente? Perché, per esempio, non propone lui stesso, come ministro di Giustizia, di abolire l’autorizzazione per l’arresto dei parlamentari, che, giustificata un tempo, oggi non ha più nessuna ragione per essere difesa? Perché non impegna l’intero ministero a redigere un testo, finalmente efficace, per la prevenzione del malaffare in politica e per la moralizzazione dei partiti? Perché non si fa deciso promotore di una immediata abolizione di ogni privilegio della categoria di cui fa parte?

Sarebbe un modo per riuscire, nonostante il tempo non lunghissimo che egli ha davanti a sé, a lasciare un segno della sua presenza al ministero.

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Perchè è utile il reato di omicidio stradale
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2011, 04:30:51 pm
17/8/2011

Perchè è utile il reato di omicidio stradale

CARLO FEDERICO GROSSO

L’incidente provocato alcuni giorni fa dall'automobilista che, drogato, guidando contromano in autostrada aveva cagionato la morte di quattro ragazzi francesi aveva destato grande scalpore. Scalpore ancora più grande aveva cagionato, d'altronde, la circostanza che il responsabile della strage non fosse stato neppure tratto in arresto.

In questa prospettiva la dichiarazione del ministro Maroni, che ha annunciato la volontà del governo d'introdurre un delitto esemplare di omicidio stradale per chi si mette alla guida avendo ingerito sostanze alcoliche o stupefacenti, può anche essere condivisa. Come può essere condivisa l'intenzione di prevedere, oltre che una elevata sanzione penale, l'arresto in condizione di flagranza o di quasi flagranza.

Per comprendere quale sia, tuttavia, esattamente l'utilità di una nuova (eventuale) disciplina della materia, vale la pena di chiarire quale è, al momento, esattamente il contesto normativo che regola il fatto di chi cagiona la morte sulle strade in violazione delle norme sulla circolazione stradale, guidando in stato di ebbrezza o avendo assunto sostanze stupefacenti o psicotrope.

Bisogna innanzitutto ricordare che, di fronte al ripetersi frequente, negli ultimi anni, di fenomeni di questo tipo, ed al rischio che la magistratura non reagisse con sufficiente severità alle stragi cagionate da chi guidava ubriaco o drogato (il delitto di omicidio colposo era punito con la reclusione da sei mesi a - soli - cinque anni), il Parlamento, con decreto legge 23 maggio 2008, convertito in legge il 24 luglio 2008, ha previsto che, in caso di omicidio colposo, «si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope» (art. 589 comma 3 c.p.), aumentabile fino al triplo (sia pure con limite di quindici anni massimo) nel caso di morte di più persone. E' d'altronde previsto sia l'arresto facoltativo in flagranza da parte degli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria (se la misura risulta giustificata dalla gravità del fatto o dalla pericolosità del soggetto), sia il provvedimento di custodia cautelare da parte dell'autorità giudiziaria.

La pena prevista dalla legislazione vigente è, quindi, in astratto, tutto sommato già elevata. Nel caso, recente, che ha sollevato un generalizzato scalpore per l'obiettiva gravità della condotta tenuta dal guidatore, e per le spaventose conseguenze cagionate, l'autorità giudiziaria avrebbe d'altronde potuto applicare, sicuramente, un provvedimento restrittivo della libertà personale.

Quale è, tuttavia, il punto debole di tale normativa? Poiché la violazione delle norme sulla circolazione stradale e la guida in stato di ebbrezza o di alterazione psichica dovuta all'assunzione di droga sono previste come semplici «circostanze aggravanti» del delitto di omicidio colposo, in base ai principi generali previsti dal codice penale la sanzione astrattamente prevista potrà essere, in concreto, abbattuta nel caso in cui il giudice dovesse ritenere di «bilanciare» tali circostanze con eventuali circostanze attenuanti del reato (in questo caso il giudice può infatti infliggere la pena prevista per il reato base, annullando del tutto la maggior pena prevista in considerazione delle circostanze aggravanti).

Ecco, allora, la vera utilità di prevedere un autonomo delitto di «omicidio stradale» finalizzato a colpire, senza possibilità di sconti, chi, guidando in stato di ebbrezza o avendo ingerito droghe, cagioni la morte di una o più persone. Perché abbia senso, la nuova incriminazione dovrebbe verosimilmente prevedere una pena ancora superiore a quella oggi configurata dall'art. 589 comma 3 c.p., e, soprattutto, una pena che, essendo prevista come sanzione di un autonomo delitto di omicidio stradale, non sia suscettiva di subire incongrui abbattimenti nelle fasi della sua irrogazione ed applicazione.

Vi è, d'altronde, un motivo in più per ritenere assolutamente ragionevole introdurre il nuovo, duro, reato di omicidio stradale. Una parte consistente della dottrina penalistica ritiene, giustamente, che chi ingerisce consapevolmente alcol o sostanze stupefacenti, e poi si mette alla guida di un’automobile, accetta implicitamente il rischio di provocare un incidente e la conseguente morte o lesione personale di qualcuno. Questa «accettazione del rischio» trasformerebbe il delitto colposo in doloso, sia pure nella forma attenuata del c.d. «dolo eventuale». Pubblici ministeri e giudici hanno, in qualche caso, seguito questa strada. La stragrande maggioranza di essi ha continuato tuttavia a contestare, ed a condannare, soltanto per omicidio colposo.

Prevedere un delitto autonomo di omicidio stradale, punito con una pena non molto meno elevata di quella prevista per l'omicidio doloso, consentirebbe di superare la disputa dogmatica sulla natura dolosa o colposa del reato, consentendo in ogni caso l'inflizione di una pena adeguata alla oggettiva gravità e pericolosità sociale del fenomeno della guida in stato di ebbrezza o di alterazione psichica dovuta alla assunzione di sostanze stupefacenti.

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Tre domande sul conflitto con la procura
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2011, 04:30:02 pm
17/9/2011

Tre domande sul conflitto con la procura

CARLO FEDERICO GROSSO

Gli avvocati Longo e Ghedini hanno annunciato, ieri, che Berlusconi non si farà interrogare come persona offesa nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta estorsione realizzata ai suoi danni. I due legali sostengono che il premier dovrebbe essere, al massimo, sentito come imputato in un procedimento connesso o collegato (Rubygate).

E quindi, a loro giudizio, con l’assistenza dei difensori. La Procura di Napoli ha fatto sapere che non vi sono le condizioni perché egli possa essere considerato imputato in un procedimento connesso, e che egli dovrà pertanto presentarsi, in quanto persona offesa da un reato, come una normale persona informata sui fatti e rendere testimonianza senza nessuna assistenza e che, ove egli dovesse rifiutare di presentarsi, sarebbe giocoforza procedere alla richiesta di un suo accompagnamento coattivo.

Un nuovo conflitto fra Berlusconi e Procure, dunque. Su quali presupposti tuttavia, e perché? Apparentemente il presidente del Consiglio non dovrebbe, infatti, avere difficoltà a presentarsi davanti ad una Procura che lo ha individuato come vittima di un reato e, dicendo il vero, contribuire a ricostruire la verità dei fatti perpetrati a suo danno. Ed invece, evidentemente, teme qualcosa. Ma, bando alle supposizioni o ai sospetti, rimaniamo ai fatti. Chi ha ragione, giuridicamente, in questo contrasto di posizioni fra Procura partenopea e difesa del premier?

Procediamo per gradi. Prima domanda: davvero un presidente del Consiglio può essere citato, a discrezione, da una Procura perché deponga come teste? La risposta è, ovviamente, positiva. Non si vede infatti perché un'autorità pubblica, per elevato che sia il suo rango, dovrebbe essere esentata dal dovere, civico prima ancora che giuridico, di riferire all'autorità giudiziaria ciò che sa intorno a circostanze oggetto di indagini, collaborando in tal modo all'accertamento della verità. La legge stabilisce, d'altronde, tassativamente i casi nei quali un soggetto è esentato dal dovere di testimoniare (prossimi congiunti, titolari di segreti professionali, di segreti di ufficio, di segreti di Stato). Ciascuno di questi casi ha una sua ratio. Al di fuori di essi il dovere di testimoniare è tuttavia, giustamente, inderogabile, e vale ovviamente per tutti, cittadino comune e pubblica autorità.

Seconda domanda. Che cosa accade se il testimone, citato, non si presenta? La legge prevede che, in questo caso, l'autorità giudiziaria può disporre il suo accompagnamento coattivo. Nel caso di specie, poiché Berlusconi è parlamentare, e l'accompagnamento coattivo costituisce una, sia pure circoscritta, limitazione della sua libertà personale, sembrerebbe che l'autorità giudiziaria debba, comunque, sottoporre alla Camera la richiesta di accompagnamento per l'autorizzazione. Il che creerebbe qualche problema alla Procura, ma, forse, anche al Parlamento, in quanto non sarebbe agevole dimostrare che il parlamentare è vittima di accanimento quando l'autorità giudiziaria intende sentirlo per tutelare, ed eventualmente rafforzare, la sua posizione di vittima di un reato. Ma veniamo all'emergenza dell'ultima ora. Davvero Berlusconi, come sostengono i suoi difensori, ha diritto di essere sentito in qualità di imputato di procedimento connesso (o collegato) e pertanto con l'assistenza dei difensori, e, eventualmente, con le ulteriori garanzie riconosciute a questo tipo affatto particolare di «testimone»?

Non conoscendo né gli atti del procedimento milanese né di quello napoletano non sono ovviamente in grado di dare una risposta. Posso, soltanto, fornire qualche indicazione sulle norme che regolano l'interrogatorio di persona imputata in un procedimento connesso (o «collegato»). Si ha «connessione» o «colleganza» di procedimenti quando essi riguardano situazioni fra loro interdipendenti. Quando si tratta, ad esempio, di reato commesso da più persone, ma processate separatamente; o di un reato commesso per eseguirne od occultarne un altro; o quando la prova di un reato influisce su quella dell'altro. In queste situazioni l'imputato, interrogato nel procedimento connesso, rischia di danneggiare la sua situazione processuale in quello a suo carico. Per questa ragione gli si assicura l'assistenza del difensore e, se del caso, addirittura il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Sostenendo che Berlusconi, a Milano, è imputato di processo connesso a quello per cui si procede a Napoli, i suoi difensori affermano dunque, nella sostanza, che il rapporto con la minore Ruby avrebbe qualche collegamento, quantomeno probatorio, con l'estorsione di cui egli sarebbe persona offesa. Davvero? E non sarebbe, questa, un'ammissione per certi versi addirittura pericolosa per il premier? Non potrebbe trattarsi allora, dato che i suoi difensori sono, tecnicamente, molto preparati, soltanto di un espediente, l'ultimo, per ritardare, o addirittura bloccare, l'iniziativa giudiziaria in corso?

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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. L'incerta prova scientifica
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2011, 06:19:58 pm
3/10/2011 - IL DELITTO MEREDITH

L'incerta prova scientifica

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi i giudici di Perugia si riuniranno in camera di consiglio. Questa sera, forse nella notte, dovremmo conoscere la sentenza. Raramente un epilogo giudiziale è stato tuttavia così aperto, così incerto.

Tutti abbiamo seguito con attenzione il processo. Un processo indiziario nel quale c’è stata un’accanita, a volte violenta battaglia giudiziaria. Un processo nel quale scenari, prospettive, quadro e dettagli sono sovente cambiati. Un processo in cui, ancora una volta, come in altri processi per delitti di sangue, un ruolo di rilievo ha avuto la «prova scientifica», ma nel quale essa, ancora una volta, si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.

Non credo sia il caso di ripercorrere, qui, la storia del processo o di riassumere gli elementi a carico o a discarico attorno ai quali hanno discusso accusa e difese. Lo hanno già ampiamente fatto, nei giorni scorsi, le cronache giudiziarie. Mi preme, piuttosto, cogliere l’occasione dell’attesa di una importante sentenza per riproporre vecchi interrogativi in materia di processo indiziario e porre gli interrogativi nuovi suscitati da vicende giudiziarie il cui epilogo, in un modo o nell’altro, non ha del tutto convinto.

Il processo indiziario è un processo nel quale non esiste una «prova decisiva» a carico dell’imputato, ma nel quale a suo carico è emersa una pluralità di elementi indizianti che, nel loro insieme, fanno ritenere che egli sia colpevole. La legge stabilisce che gli indizi possono essere considerati prova, e legittimare la condanna, se sono sufficientemente numerosi, se sono univoci e se sono concordanti.

La legislazione penale italiana prevede tuttavia anche (norma approvata qualche anno fa) che «nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza». È un segnale forte di garanzia. Per potere condannare, nel nostro sistema giuridico, occorre, cioè, avere raggiunto l’assoluta certezza della responsabilità penale dell’imputato. Se un dubbio, anche minimo, permane, si deve assolvere. Ciò significa che gli indizi, per consentire una condanna penale, devono essere talmente forti, talmente univoci, talmente concordanti, da garantire la totale certezza della colpevolezza. Se non l’assicurano, ed i giudici cionondimeno condannano, violano la legge.

Che faranno, allora, i giudici di Perugia? Ovviamente non lo so. So soltanto che, per legge, potranno condannare i due ragazzi soltanto se gli elementi sottoposti alla loro attenzione garantiranno davvero la sicurezza della loro responsabilità. Se dovesse residuare anche soltanto un piccolo dubbio, dovranno necessariamente assolvere.

Sappiamo che media ed opinione pubblica americana, con riferimento al processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, hanno criticato, anche pesantemente, il nostro sistema di giustizia, hanno tacciato addirittura di barbarie la nostra legge ed i nostri tribunali. Sul terreno della legge, tuttavia, per le ragioni indicate non abbiamo nulla di cui rimproverarci. Il nostro è un processo garantista, esattamente come garantista è il processo «accusatorio» americano: in entrambi, se non si raggiunge la certezza processuale della colpevolezza, è giocoforza assolvere. Un problema, se esiste, non è pertanto di legislazione, ma di prassi, di costume giudiziario, di capacità degli inquirenti e dei giudici di gestire con capacità e correttezza prove ed indizi. Ed in effetti, proprio questo è il punto, poiché è su questo terreno che, a quanto ci è stato dato di sapere dalle cronache del processo, ragioni di critica e di perplessità non sono mancate.

Uno dei profili che ha attirato la mia attenzione è stato, su questo terreno, il tema delle prove scientifiche. Sappiamo, ad esempio, che i periti del primo giudice avevano riscontrato sul reggiseno della ragazza uccisa e sull’arma del delitto tracce ematiche asseritamente decisive nei confronti, rispettivamente, di Raffaele e di Amanda; ma che una perizia disposta dai giudici di appello ha ritenuto del tutto inattendibili tali prove. Un contrasto di giudizio tecnico stupefacente, che mai, se nessun perito avesse compiuto errori, dovrebbe profilarsi in un’aula di giustizia.

Non conoscendo gli atti non sono in grado di valutare, nel caso di specie, torti e ragioni. In ciò che è accaduto a Perugia c’è tuttavia una conferma di quanto molti penalisti vanno ripetendo ormai da qualche anno: che troppe volte la prova scientifica nei processi nei quali, altrimenti, non c’è prova della commissione del reato, ma vi sono soltanto indizi, è fonte d’incertezza piuttosto che, come dovrebbe, di certezze. È accaduto, ad esempio, nel processo a carico di Alberto Stasi, dove vi è stata assoluzione, ma è accaduto altresì, a mio parere, nel processo a carico di Annamaria Franzoni, dove vi è stata invece condanna. Vedremo questa sera, o domani, che cosa decideranno i giudici di Perugia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9275


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Non si poteva decidere altrimenti
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 05:06:02 pm
4/10/2011

Non si poteva decidere altrimenti

CARLO FEDERICO GROSSO

I giudici hanno deciso ed assolto. Non conosco gli atti, ma d’istinto, per quanto sono riuscito a cogliere dalle cronache, ritengo che non potessero fare altrimenti.

Spiace che l’assassinio di una giovane donna rimanga in larga misura insoluto (non si può sicuramente dire che la condanna definitiva di Rudy Guede possa tranquillizzare le coscienze; anzi, la nuova sentenza aggiunge perplessità a perplessità). Regole e garanzie del processo penale devono, tuttavia, essere sempre rispettate, e nel caso di specie garanzia voleva che, di fronte alla contraddittorietà degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, i giudici non potessero fare altro che assolvere. Non c’erano indizi sufficienti, non c’erano, soprattutto, stante le contraddizioni emerse nel dibattimento, indizi univoci e concordanti.

Anche se le regole sono state rispettate, e la sentenza è, verosimilmente, ineccepibile, per la giustizia italiana non è, comunque, una vittoria. E’ mancato il riscontro probatorio delle accuse; di fronte al dubbio i giudici hanno tratto, inesorabilmente, ma anche giustamente, le loro conclusioni. Si tratta di un’assoluzione che lascia, comunque, l’amaro in bocca. Chi ci dice che, se non vi fossero stati errori, incertezze, cambi improvvisi di rotta nella prospettazione accusatoria, inconcepibili divergenze fra i periti, fallimento della prova scientifica, la risposta processuale non avrebbe potuto essere diversa? Ma perché potesse essere diversa, sarebbe stato necessario evitare, appunto, i vuoti, le incertezze e le contraddizioni, e non incorrere in errori. Tutto ciò non è, sicuramente, accaduto.

Ed allora, quasi per necessità, il discorso si sposta sull’efficienza della nostra giustizia e sulle capacità dei nostri magistrati, poiché troppi sono, ormai, i casi d’omicidio ai quali la giustizia non è riuscita a dare risposte in grado di convincere del tutto o, addirittura, di convincere e basta. Su questo terreno è, sicuramente, necessaria una riflessione. Il processo di Perugia, in questa prospettiva, fornisce più di uno spunto. Ma in realtà altri spunti, e di non poco conto, erano già stati forniti da altri, altrettanto clamorosi, casi giudiziari.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9280


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Conflitto di interessi famigliari
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 09:25:35 am
6/10/2011

Conflitto di interessi famigliari

CARLO FEDERICO GROSSO


Marina Berlusconi ha rilasciato ieri al «Corriere» un’intervista il cui contenuto è a dir poco stupefacente.

Il punto centrale del ragionamento è costituito da una vicenda e da una notizia. La vicenda è la controversia civile che ha visto Cir contrapposta a Fininvest, e quest’ultima condannata, in appello, a risarcire alla prima oltre 564 milioni di euro. La notizia è che Fininvest avrebbe «appena presentato un esposto al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione (cioè ai titolari dell’azione disciplinare) nel quale si segnala un’anomalia che avrebbe avuto un peso decisivo sulla sentenza». Sarebbe accaduto che, nella motivazione, la Corte di appello avrebbe fatto perno su un precedente giurisprudenziale fondamentale, che sarebbe stato tuttavia stravolto con il taglio di passaggi decisivi, tali da ribaltare addirittura «totalmente» la tesi giuridica ivi sostenuta.

Le parole usate da Marina Berlusconi sono durissime: «Altro che leggi ad personam, qui siamo al diritto cucito su misura; quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura princìpi giurisprudenziali inediti; peccato che siano princìpi inesistenti, nati dal “taglio” di una frase e dalla mancata citazione di altre».

Anche se a domanda successiva del giornalista: «Ma allora sta dicendo che la sentenza è stata manipolata; accusa i giudici di un falso?», la presidente risponde: «Me ne guardo bene, l’esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto», l’accusa ai giudici è, in ogni caso, precisa e grave. In questa sede non m’interessa tanto stabilire se ciò che è stato denunciato sia giusto o sbagliato (anche se mi sembra davvero peculiare che giudici esperti, chiamati a giudicare un caso tanto scottante, siano incorsi in un errore clamoroso agevolmente individuabile dai legali del soccombente). Mi interessa, piuttosto, domandarmi: che significato «politico» ha denunciare a tutto tondo, sul maggior quotidiano italiano, che i giudici che hanno condannato ad un risarcimento pesante un’azienda del presidente del Consiglio hanno manipolato le carte ed annunciare l’avvenuta presentazione di un esposto disciplinare?

L'esposto al ministro e al procuratore generale non è un’iniziativa di routine; presuppone il sospetto (o addirittura la certezza) di dolo o colpa grave da parte di chi ha giudicato; costituisce un’extrema ratio che raramente si ritrova nelle aule di giustizia. Di regola, se si sospetta un’utilizzazione errata di atti o di sentenze, noi avvocati ricorriamo in Cassazione, denunciamo l’errore di diritto, sicuri, se veramente abbiamo certezza di essere nel giusto, di ottenere l’auspicato annullamento. Se davvero la sentenza che ha condannato Fininvest a pagare oltre 564 milioni a Cir fosse viziata da un’inesatta, errata o monca utilizzazione di precedenti decisivi, il suo annullamento da parte della Cassazione sarebbe fuori discussione. Ed allora perché, appunto, la presentazione, del tutto inusuale, addirittura anticipata rispetto al deposito del ricorso in Cassazione, di un esposto?

Presentare un esposto costituisce un diritto di chi ritiene di avere subito un torto. Non potrebbe essere tuttavia, questa specifica iniziativa, fatta dal presidente di Fininvest (e Mondadori), che è figlia del presidente del Consiglio (a sua volta interessato nella stessa), oggettivamente, un’intimidazione e basta? Un’intimidazione ai giudici che saranno chiamati a giudicare in Cassazione, alla magistratura tutta intera? Gli interessi di famiglia sono troppo importanti, a questo punto, e troppo minacciati, perché si possa ancora tentennare.

Ma non solo. Dopo avere discettato a lungo su torti e ragioni della menzionata vicenda giudiziaria privata di famiglia, Marina apre a tutto campo. Il suo babbo sarebbe la vittima di un’aggressione concertata: contro di lui «s’inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti», «il fango fabbricato viene palleggiato fra una Procura e l’altra e infine riciclato», «il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media». Infine, rispondendo a specifica domanda che citava l’editoriale di Panebianco che chiedeva a Berlusconi un passo indietro nell'interesse del Paese, un’affermazione tranciante: «Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà».

Privato e pubblico, a questo punto, sembrerebbero impropriamente mescolati: risarcimenti non dovuti che devono essere pagati, Procure eversive che utilizzano il potere giudiziario per colpire a tradimento, libera stampa e informazione complice della terribile congiura. Quindi, resistenza, resistenza. Ad ogni costo.

Ma non sarà, allora, che al di là dell’indiscutibile conflitto di interesse personale del presidente del Consiglio, si sta profilando, a questo punto, un conflitto di interesse famigliare?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9287


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Le riforme a costo zero da fare subito
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2011, 05:32:48 pm
21/11/2011

Le riforme a costo zero da fare subito

CARLO FEDERICO GROSSO

Nel giorno dell’insediamento, il nuovo ministro della Giustizia si è lasciato scappare una sola battuta: in materia di giustizia penale la questione carcere è per me questione assolutamente prioritaria. In questo modo il neo Guardasigilli ha dimostrato sensibilità ed intelligenza.

In effetti il problema carcerario è, fra i tanti, il problema dei problemi. Le carceri, con i loro 67.000 detenuti a fronte di 45.000 posti «regolamentari» disponibili (numeri esorbitanti rispetto a quelli della media europea), sono tornate ad essere terreno d’ingestibilità: celle stipate, promiscuità, impossibilità di realizzare qualsiasi programma di rieducazione, difficoltà, addirittura, di gestire il quotidiano. Spia eloquente, e terribile, del disagio è il numero (crescente) dei suicidi e dei tentati suicidi.

Encomiabile è, pertanto, avere posto, almeno a parole, il nodo carcere al primo posto nell’attenzione. Tuttavia, che fare? Soprattutto, che fare nei pochi mesi che separano dalle elezioni? Dare una risposta non sarà facile. La costruzione di nuovi istituti penitenziari non potrà che seguire le cadenze già programmate; si potranno, forse, impostare politiche di depenalizzazione e di sostituzione delle sanzioni detentive con pene alternative, ma si tratta di misure che, anche se adottate, potranno tutt’al più produrre effetti fra qualche anno. L’urgenza è, invece, attuale.

Ed allora, al di là dell’eventuale impostazione di un programma serio di riforma del sistema sanzionatorio penale, il nuovo Guardasigilli dovrà affrontare un nodo di fondo: se, per realizzare l’indispensabile, urgente, sfoltimento della popolazione carceraria non sia giocoforza fare, ancora una volta, ricorso ai vecchi ed abusati istituti dell’amnistia e dell'indulto.

Noi penalisti sappiamo che si tratta d’istituti che sarebbe opportuno utilizzare con parsimonia, in quanto la rinuncia indiscriminata alla punizione dovrebbe costituire evenienza assolutamente eccezionale. Sappiamo pure, tuttavia, che il permanere dell’attuale condizione delle nostre prigioni viola diritti fondamentali della persona e costituisce un attentato al principio di umanità del trattamento carcerario. A questo punto, nel bilanciamento fra esigenze contrapposte, non avrei comunque dubbi nel privilegiare il rispetto dei diritti. Con un auspicio, tuttavia: che l’eventuale adozione dei benefici si accompagni, finalmente, ad un’impostazione riformatrice in grado di evitare che, come è sempre accaduto nel passato, dopo qualche anno ci si ritrovi in identiche situazioni di necessità.

Al di là degli interventi urgenti sul carcere, che cosa potrà d’altronde fare un ministro della Giustizia che ha di fronte a sé, al massimo, una quindicina di mesi (e pochi denari) per gestire il ministero? Paola Severino è tecnico preparato ed ha sicuramente le idee chiare. Mi limito quindi, semplicemente, a prospettare, a me stesso ed ai lettori, un quadro possibile di piccole o medie riforme «a costo zero» o «quasi zero» realizzabili velocemente che, tutte insieme, potrebbero portare qualche giovamento all’ordinato, e più rapido, esercizio della giustizia penale quotidiana. In realtà, ne ho già parlato più volte sulle pagine di questo giornale.

Sul terreno dell’organizzazione giudiziaria, veloce realizzazione dell’informatizzazione dei processi penali, revisione delle circoscrizioni giudiziarie, misure in grado di assicurare la copertura delle sedi disagiate, concorsi in grado di tappare i buchi aperti fra il personale ausiliario.

Sul terreno del sistema processuale penale, quantomeno, l’eliminazione di tutte le storture che costituiscono, di fatto, le maggiori cause dei rinvii delle udienze o dell’annullamento dei processi (dalla semplificazione del sistema delle notifiche e da un nuova disciplina degli irreperibili alla riduzione delle nullità processuali, da una nuova disciplina degli impedimenti «legittimi» alla regolamentazione delle udienze, alla rivisitazione degli effetti dell’incompetenza territoriale).

Sul terreno del diritto penale sostanziale, come dicevo, l’impostazione di una riforma del sistema sanzionatorio ed un piano di drastica eliminazione dei reati bagatellari.

A queste opzioni, altre potrebbero essere preferite. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. L’importante è che il ministro, individuate rapidamente le sue preferenze, cominci ad operare con iniziative utili ed appropriate, compatibili con i tempi ed i denari di cui dispone.

C’è infine, comunque, un importante nodo politico che il Guardasigilli difficilmente sarà in grado di eludere. Come è noto, pendono in Parlamento riforme quali il disegno di legge sulle intercettazioni, la prescrizione breve, l’introduzione del principio secondo cui il giudice non può ridurre la lista dei testimoni richiesti dalle parti. Ciascuna di esse ha suscitato polemiche e controversie. Nessuna di esse potrà essere d’altronde affrontata a cuor leggero, sia per l’impatto che l’eventuale loro adozione potrà avere sull’efficacia delle indagini e sul diritto ad informare (disegno di legge sulle intercettazioni), ovvero sugli interessi processuali dell’ex premier e, corrispondentemente, sulla (mancata) tenuta o (eccessiva) durata della generalità dei processi penali (prescrizione breve e irriducibilità dei testimoni).

Che cosa farà il ministro, nel caso in cui vi sia richiesta di una loro trattazione da parte di taluno dei partiti che oggi sostengono il governo? Appoggerà, non appoggerà, cercherà di defilarsi dichiarando che si tratta di competenze ormai esclusive del Parlamento?

L’interrogativo non è di poco conto. Non si vorrebbe infatti che, nel gioco dei possibili veti incrociati e delle reciproche concessioni, il governo fosse costretto a contrattare taluni dei provvedimenti utili per il Paese scambiandolo con l’appoggio a misure che per la generalità dei cittadini sono dannose e utili soltanto per qualcuno. Sarebbe un brusco risveglio nel passato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9462


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Carceri l'inevitabile clemenza
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:01:15 pm
15/12/2011

Carceri l'inevitabile clemenza

CARLO FEDERICO GROSSO

Paola Severino ha annunciato che cercherà di fare approvare, già al Consiglio dei Ministri di domani, un decreto-legge destinato a ridurre il sovraffollamento carcerario: dovrebbe trattarsi dell’allungamento a 18 mesi del periodo residuo di pena che, con alcune limitazioni, un detenuto può scontare agli arresti domiciliari anziché in carcere. Tale provvedimento, secondo i calcoli, dovrebbe determinare la scarcerazione immediata di 3000-3500 detenuti.

A tale decreto dovrebbe seguire un disegno di legge che, sempre nell’ottica di una riduzione del numero dei detenuti, dovrebbe allargare l’ambito delle pene alternative, estendere l’utilizzo dell’affidamento in prova, procedere alla depenalizzazione di alcuni reati.

Tra le misure immediate non vi sarà tuttavia il «braccialetto elettronico», poiché, ha soggiunto il ministro, non è stata ancora acquisita la certezza del suo funzionamento e la ragionevolezza dei suoi costi.

In linea di principio questo programma è condivisibile. Appare giusto utilizzare, quando non vi siano controindicazioni, gli arresti domiciliari quale alternativa al carcere nel periodo finale dell’esecuzione penale; è condivisibile pensare ad uno sfoltimento dei reati con la depenalizzazione degli illeciti di minore allarme sociale; è sacrosanto ipotizzare una vasta gamma di pene alternative (gli stessi arresti domiciliari utilizzati quale pena irrogabile in luogo della reclusione, il lavoro a favore della collettività, le interdizioni da un’attività o da una professione, un complesso articolato di pene pecuniarie proporzionate alla capacità economica del reo).

Appare, d’altronde, altrettanto ragionevole una pausa di riflessione nei confronti del cosiddetto «braccialetto». Esso, introdotto da tempo fra gli strumenti ai quali affidare l’esecuzione della pena, non ha, fino ad ora, dato i frutti sperati. Il suo impiego è risultato costoso e soprattutto poco affidabile (diversi milioni pagati per circa 400/450 braccialetti di tecnologia obsoleta e quindi poco efficienti). Di qui, pertanto, l’opportunità di valutare se e come proseguire nell’esperienza, tanto più che la convenzione stipulata a suo tempo fra ministero dell’Interno e Telecom per la gestione di tale partita è in scadenza, e si presenta, di conseguenza, una rilevante opportunità per risparmiare.

In linea di principio, pertanto, nulla da obbiettare al ministro: la linea imboccata va, sicuramente, nella direzione giusta. Ho, soltanto, un dubbio. La popolazione carceraria assomma, oggi, a 67.000 detenuti a fronte di 45.000 posti/carcere regolamentari.
L’affollamento è, di conseguenza, assolutamente inaccettabile. Non a caso nelle carceri si è verificato, negli ultimi anni, un numero impressionante di suicidi e di tentativi di suicidio; di recente vi sono state violenze e sommosse destinate verosimilmente ad aumentare. Un intervento forte, in grado di rimediare ad una situazione non più sostenibile, sembrerebbe quindi indispensabile e urgente.

Ed allora mi domando: che effetto avrà assicurare, con il previsto decreto-legge, la scarcerazione di 3000/3500 detenuti? Sarà un bene per i poco più di tremila fortunati che lasceranno il carcere. Ma per i restanti 63.000/64.000 che resteranno reclusi cambierà qualcosa? Mi domando, ancora: quale incidenza potranno avere, sulla sopra menzionata situazione d’insostenibile affollamento, gli ulteriori provvedimenti che il ministro pensa d’inserire nel successivo disegno di legge programmato?

Come ho già detto, sul terreno della politica-criminale in materia di pena e di esecuzione penale le misure complessivamente ipotizzate vanno sicuramente nella direzione giusta. Con il tempo l’insieme di tali misure, unitamente alla costruzione di nuovi istituti carcerari predisposta dai precedenti Guardasigilli, potrà determinare una situazione caratterizzata da un rapporto più ragionevole fra numero di detenuti e numero di posti/carcere disponibili. Ma l’urgenza, oggi, è un’altra. Per ristabilire un minimo di umanità e di decenza nelle prigioni occorrerebbe ridurre entro pochi mesi, forse poche settimane, di quantomeno ulteriori 15.000 unità la popolazione carceraria.

Ho letto che il ministro, nel tracciare il quadro delle cose fattibili in materia di giustizia da un governo tecnico destinato a durare poco più di un anno ed a convivere con una situazione politica difficile, ha dichiarato che avrebbe fatto soltanto proposte in grado di unire, mentre avrebbe scartato ogni iniziativa destinata a dividere.

In questa prospettiva, facendo specifico riferimento al contesto carcerario, ha escluso che per risolvere la situazione avrebbe fatto, mai, ricorso ad istituti quali l’amnistia e l’indulto, attorno ai quali si sarebbe, a suo dire, inevitabilmente scatenata una bagarre.

E se, per caso, la situazione nelle carceri dovesse diventare ingestibile? E se l’unico modo per ristabilire in qualche modo ordine e vivibilità fosse, proprio, il ricorso agli istituti di clemenza? Continuerebbe, il ministro, a chiudere ogni prospettiva a tale, a quel punto forse inevitabile, tipo di intervento?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9546


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. La turnazione dei giudici va difesa ma riorganizzata
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2012, 03:13:25 pm
2/1/2012 - IL DIBATTITO SUL RUOLO DEI MAGISTRATI

La turnazione dei giudici va difesa ma riorganizzata

CARLO FEDERICO GROSSO

«La Stampa», nei giorni scorsi, ha avuto il merito di aprire un dibattito sulla qualità dell’attività giudiziaria e sulla specializzazione in magistratura.

Il problema era stato posto con forza, mesi or sono, da alcune Procure della Repubblica (Torino, Milano, Palermo), nelle quali operano gruppi specializzati nel trattare temi delicati (reati economici, inquinamento, corruzione, colpa medica, mafia). Esse lamentavano il fatto che l’applicazione delle norme che ponevano limiti alla permanenza dei magistrati in uno stesso ufficio determinava trasferimenti massicci di pubblici ministeri specializzati, con un danno evidente per il migliore esercizio dell’attività giudiziaria. E chiedevano, pertanto, flessibilità nell’applicazione di tali norme in modo da rendere, quantomeno, compatibile l’efficienza con la rotazione.

Di fronte allo sfaldamento di alcuni di questi gruppi dovuto alla contemporaneità dei tempi di scadenza di numerosi magistrati, la questione posta appariva ragionevolissima. Tuttavia, come è stato chiarito su questo giornale, vi sono esigenze di segno diverso che inducono a mantenere comunque la turnazione. Se un magistrato permane troppo a lungo nello stesso ufficio, si è detto, vi è infatti il rischio che si cristallizzino consuetudini di rapporti non opportune, e si determinino di conseguenza vischiosità o inquinamenti nell’esercizio dell’attività giudiziaria, senza che i meccanismi di vigilanza interni alla magistratura siano in grado di contrastare efficacemente il fenomeno.

Per rimediare alla situazione, senza alterare le norme che hanno introdotto limiti di tempo alla permanenza negli uffici giudiziari, perché non affrontare comunque le contingenze valutando caso per caso le situazioni, ed evitando gli smantellamenti con regole transitorie che consentano sostituzioni graduali? E perché, a regime, non si potrebbe salvaguardare l’esigenza di specializzazione con un’organizzazione appropriata del turnover, garantendo sostituzioni scaglionate che consentano al gruppo di non perdere la qualificazione complessiva ed ai nuovi arrivati d’impratichirsi lavorando a fianco dei colleghi già esperti?

D’altronde il magistrato che ha acquisito esperienze qualificate in un determinato ufficio potrebbe chiedere di passare ad un ufficio diverso, ma in cui esse siano ugualmente utilizzabili. E se, davvero, l’esigenza di specializzazione dovesse essere riconosciuta come uno dei cardini dell’efficienza della giustizia, perché non pensare, in tale specifica prospettiva, ad una deroga sia pure circoscritta al principio d’inamovibilità dei magistrati?

Al di là di quanto è emerso nel dibattito aperto nei giorni scorsi su «La Stampa», il tema della qualificazione professionale dei magistrati pone, d’altronde, ulteriori questioni e sollecita ulteriori riflessioni. Su di esse vorrei soffermarmi specificamente.

Chiediamoci, innanzitutto, in quali sedi giudiziarie possono essere costituiti gruppi o sezioni di alta specializzazione professionale. La risposta è ovvia: soltanto nelle grandi sedi. Nelle sedi piccole, i pochi magistrati che le compongono dovranno acconciarsi comunque ad operare come «magistrati tuttofare».

Chi ha maturato esperienza di difensore in processi penali concernenti materie tecnicamente complesse (violazioni economiche, disastri ambientali, grandi bancarotte, truffe compiute tramite sofisticati strumenti finanziari) e celebrati in piccole sedi giudiziarie, avrà, per altro verso, potuto constatare che i suoi assistiti erano sovente giudicati da magistrati non sufficientemente preparati e che più facilmente rischiavano pertanto di sbagliare.

Ecco che si profila, allora, un ulteriore aspetto del tema delle specializzazioni in magistratura, forse ancora più delicato, e che dev’essere affrontato con una coraggiosa rimeditazione dell’intera organizzazione degli uffici giudiziari e delle loro rispettive competenze.

La questione ha, in realtà, quantomeno due risvolti. Coinvolge da un lato il problema dell’eliminazione delle sedi giudiziarie minori, dall’altro quello dell’introduzione di «riserve di competenze» a favore degli uffici giudiziari più importanti.

Il primo tema è da tempo oggetto di attenzione da parte di tecnici e politici. A causa delle resistenze di natura locale, nessuno è riuscito tuttavia a realizzare, fino ad ora, la riforma auspicata. Il secondo, tutto sommato più semplice (sarebbe sufficiente prevedere che le materie che maggiormente richiedono specializzazione siano assegnate alla competenza dei tribunali più importanti, situati nelle sedi di Corte d’appello), non è stato, addirittura, mai affrontato.

Eppure, per una classe politica che intendesse assicurare al Paese una giustizia penale la più efficace possibile, sembrerebbe un tema ancora più strategico.

Il ministro della Giustizia Severino ha affermato, nei giorni scorsi, che uno degli obiettivi prioritari della sua gestione sarà, proprio, la riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie. Perché, prendendo spunto dall’esigenza di specializzazione, non muovere, allora, da tale già riconosciuta esigenza di riorganizzazione per affrontare a tutto campo il tema di una migliore utilizzazione specialistica delle risorse?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9603


Titolo: C. F. GROSSO. Avvocati, sì all'esame selettivo no all'abolizione dell'ordine
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:47:32 am
16/1/2012

Avvocati, sì all'esame selettivo no all'abolizione dell'ordine

CARLO FEDERICO GROSSO

Le liberalizzazioni che il governo s’appresta ad approvare mi sembrano, in linea di principio, auspicabili. Esse possono produrre vantaggi economici, ma, soprattutto, incrinare le numerose incrostazioni che ingessano commerci, mestieri e professioni, liberando la società italiana dai troppi lacci che frenano il suo sviluppo.

Alcune categorie interessate, prima ancora di conoscere i dettagli delle nuove discipline, tuttavia già protestano. «La Stampa» ha documentato ieri l’altro, riportando opinioni e commenti, le preoccupazioni di una delle lobby più potenti, quella degli avvocati. Vediamo di valutare torti e ragioni, soffermandoci su talune delle principali questioni aperte (qualificazione professionale, trasparenza, tariffe, associazione di professionisti).

Il primo è profilo particolarmente delicato. Giustamente Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense, in un intervento su «Il Corriere della Sera» ha rivendicato che gli avvocati puntano su competenza e qualità, poiché i diritti dei cittadini sono troppo importanti per essere affidati a chi non ha sufficiente scienza e coscienza. Parole sacrosante. Siamo tuttavia sicuri che la paventata liberalizzazione porterà davvero danni alla qualificazione di una categoria che, già oggi, presenta ampie sacche di dequalificazione?

Si tratta, evidentemente, di valutare come la riforma affronterà i problemi. È ovvio che se dovesse passare un addolcimento dei test d’ingresso alla professione, o, addirittura, l’abbandono dell’esame di Stato, le conseguenze di questa (abnorme) liberalizzazione degli accessi sarebbero nefaste. Ma se dovesse essere liberalizzato semplicemente il tirocinio (oggi riservato agli studi professionali), e si dovessero prevedere altre modalità di praticantato (presso uffici della magistratura, od organizzate in scuole postuniversitarie di elevato livello od all’interno delle stesse Università nell’ultimo biennio degli studi (come si prospetta in una delle bozze di riforma), il risultato potrebbe essere addirittura migliore.

Più aspiranti, nel complesso meglio selezionati e preparati, potrebbero presentarsi, allora, ad un esame che dovrebbe diventare molto selettivo e consentire pertanto la costituzione di una categoria professionale altamente qualificata. Perché mai gli avvocati dovrebbero opporsi, a questo punto, a tale encomiabile prospettiva?

Ma veniamo al secondo profilo: la trasparenza con i clienti. Già la riforma della professione approvata dal Senato nel 2010 prevedeva che gli avvocati dovessero essere assicurati, dovessero pattuire preventivamente il compenso e fornire ogni informazione sugli oneri, sui rischi e sulla complessità della causa. Questi principi, se dovessero essere anticipati nel decreto sulle liberalizzazioni, data la loro ragionevolezza non dovrebbero suscitare nessun dissenso.

Più complesso è il tema delle tariffe, che la riforma pretenderebbe di abolire, minimi compresi. Come si evince dalle prime reazioni, la valutazione dei professionisti su questo profilo è molto negativa. Si sostiene che s’innescherebbe una concorrenza selvaggia, si rischierebbe d’abbassare il livello delle prestazioni, si rischierebbe di favorire lo sfruttamento dei professionisti da parte delle grandi committenze.

In larga misura queste osservazioni sono fondate. Il problema è, tuttavia, valutare il peso delle esigenze contrapposte. Da un lato c’è quella di tutelare il professionista, ma dall’altro quella di calmierare il costo delle prestazioni, di fornire chances d’inserimento professionale ai giovani, di aprire comunque il più possibile il Paese alla concorrenza. Ed allora, purché sia salvaguardato il livello delle prestazioni, perché non sperimentare, quantomeno, l’abolizione temporanea delle tariffe, e sottoporre tale sperimentazione ad un monitoraggio «indipendente»? Se l’innovazione dovesse condurre davvero ai guasti paventati, si potrebbe, sempre, ritornare indietro.

Su di un profilo sono, invece, del tutto contrario: la possibilità d'introdurre, senza limiti, soci non professionisti nelle associazioni professionali, secondo quanto prevede il maxi emendamento al patto di stabilità. Qui, davvero, i rischi di conseguenze gravi per la tutela dei diritti dei cittadini e per la libertà dei professionisti sono elevati: soltanto i grandi gruppi imprenditoriali e finanziari (e, quel che è peggio, la stessa criminalità organizzata) avranno interesse ad entrare in tali società, per abbassare i costi delle prestazioni o per condizionare selezione o conduzione delle cause; si rischierà d’indebolire l’indipendenza dell’avvocato, che difficilmente sarà in grado di fronteggiare le pretese del socio di mero capitale; sarà minacciato il segreto professionale, in quanto a stento il professionista sarà in grado di difendere i propri fascicoli dalla curiosità del socio dominante. Davvero, dunque, si tratta di una riforma utile per l’avvocatura?

Non approfondisco, per ragioni di spazio, gli altri problemi. Mi limito ad accennare che riterrei nefasto ipotizzare, addirittura, l’abolizione degli ordini forensi come taluno ha sostenuto, e che mi sembra che la forte opposizione alla «conciliazione obbligatoria» introdotta dal ministro Alfano sia viziata da troppi profili «corporativi» per poter essere difesa fino in fondo.

Una cosa, comunque, mi conforta. Ho letto che il ministro Severino dovrebbe incontrare oggi o domani i rappresentanti dei professionisti, e che vi sarà, forse, un attimo di riflessione ulteriore sul tema delle liberalizzazioni delle professioni. La notizia è confortante, perché nessuna riforma può prescindere da un confronto del governo con le categorie. Speriamo che in tutti gli interlocutori, pure nei rappresentanti delle corporazioni, vi sia attenzione anche per gli interessi generali del Paese.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9653


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Tav, punite le violenze non il movimento
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:23:29 pm
27/1/2012

Tav, punite le violenze non il movimento

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ operazione coordinata ieri dalla procura della Repubblica di Torino, che ha portato all’arresto di ventisei manifestanti No Tav per le violenze compiute nel corso delle manifestazioni dell’anno scorso in Val di Susa, susciterà inevitabilmente discussioni e polemiche. Rilevati i fatti che sono stati contestati, essa era comunque inevitabile.

Noi viviamo in uno Stato di diritto, nel quale è giustamente riconosciuto il diritto di esprimere, anche in forma dura, il proprio dissenso e la propria opposizione alle decisioni delle autorità, ma nel quale non è consentito usare la violenza contro persone o cose per affermare, e fare eventualmente prevalere, le proprie disapprovazioni.

D’altro canto, se si riscontra la commissione di reati, è dovere dell’autorità giudiziaria procedere secondo le regole stabilite dal codice di procedura penale: aprendo indagini, eventualmente arrestando, esercitando l’azione penale nei confronti di coloro a carico dei quali sono emersi sufficienti indizi di colpevolezza. Si tratta di un ulteriore profilo del principio di legalità sul quale si fonda lo Stato di diritto.

Proprio perché viviamo in uno Stato di diritto, a ciascun indagato (ed a ciascun arrestato) è d’altro canto riconosciuto il diritto di difendersi in un giusto processo, dimostrando la propria innocenza o la liceità di ciò che si è commesso e per il quale si è accusati.

Avremo sicuramente modo di vedere, in futuro, se gli arrestati di ieri mattina sapranno smontare le accuse che sono state loro rivolte. Al momento non possiamo che prendere atto del lavoro compiuto dagli investigatori e rilevare che, se le contestazioni dovessero trovare ulteriore riscontro nel corso delle indagini e/od essere confermate nel processo penale, la condanna sarà inevitabile e sacrosanta, perché a nessuno è consentito provocare lesioni personali, danneggiare dolosamente cose, usare violenza o resistere illegittimamente alle forze dell’ordine. Tanto più, ove queste condotte rischino di minare le regole della civile convivenza democratica.

Questo precisato, le imputazioni configurate dalla Procura della Repubblica meritano qualche ulteriore riflessione.

Innanzitutto, mi sembra doveroso sottolineare che la Procura di Torino ha contestato, a soggetti singoli ed individuati, specifiche condotte che hanno cagionato lesioni personali o dato luogo a violenza o resistenza a pubblici ufficiali. In questa prospettiva è evidente che l’autorità giudiziaria non ha in nessun modo inteso criminalizzare il «movimento», o minacciare il diritto delle popolazioni interessate a dissentire o protestare contro l’Alta velocità. Ha, semplicemente, colpito singole persone che si sono rese individualmente responsabili di singole (o plurime) azioni illegali.

La preoccupazione che non si facesse confusione fra tali piani è apparsa d’altronde chiara nelle parole del Procuratore Caselli, che ha tenuto a precisare che l’operazione coordinata dal suo ufficio era specificamente mirata a perseguire «singoli autori di azioni criminose», non a criminalizzare «una valle», «un movimento di opinione» o «mobilitazioni che si svolgono entro i confini della legge». Si è trattato, ha soggiunto, di una «azione di cesello su di una materia incandescente», volta alla repressione di comportamenti, di fatti illeciti specifici, non di idee od opinioni, e, soprattutto, attenta a non coinvolgere indiscriminatamente chi manifestava sulla base della sola circostanza che era presente sul luogo dei fatti.

Delle dichiarazioni di Caselli mi ha colpito, d’altronde, anche un ulteriore profilo. Nel descrivere l’oggetto delle indagini del suo ufficio, egli ha precisato che gli attacchi alle forze dell’ordine non sarebbero stati frutto d’improvvisazione, bensì sarebbero consistiti in azioni coordinate e organizzate, realizzate nel quadro di un’accurata programmazione e con obbiettivi preordinati (come sarebbe fra l’altro dimostrato dalla tipologia degli oggetti utilizzati dai manifestanti nel corso delle loro azioni: «Pietre, punte ferrate, bulloni, oggetti contundenti vari, secchi di vernice, letame, petardi, bombe carta e paratie per ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine»).

Prendo atto di questa ricostruzione. Essa è, d’altronde, del tutto credibile. Però a questo punto mi domando. Perché agli imputati sono stati contestati soltanto gli specifici, molteplici, delitti di lesione personale commessi, gli specifici atti di danneggiamento, di violenza o di resistenza ai pubblici ufficiali rilevati, e non l’associazione a delinquere? Se è vero che una pluralità di persone, in concorso, ha aggredito le forze dell’ordine, ha ferito persone, ha resistito illegittimamente alla polizia, e se è vero che queste azioni si sono ripetute in diverse manifestazioni, e sembravano rispondere ad un’idea organizzata piuttosto che ad un’improvvisazione estemporanea, l’ipotesi di reità associativa (quantomeno secondo l’idea che noi penalisti abbiamo dell’associazione a delinquere: pluralità di persone che, dotati di un minimo di organizzazione, si associano allo scopo di commettere una pluralità di delitti) è, forse, qualcosa di più di una mera ipotesi teorica.

Anche a questo riguardo sarebbe tuttavia indispensabile sottolineare con forza un aspetto fondamentale. Se davvero dovessero emergere, in ciò che è accaduto, profili di delinquenza associativa, dovrebbe essere chiaro che si tratterebbe di un’associazione fra i violenti, che mai potrebbe coinvolgere coloro che manifestano pacificamente per il solo fatto di avere partecipato a manifestazioni nel corso delle quali sono accaduti fatti di violenza organizzata o, ancor prima, il movimento No Tav in quanto tale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9698


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 10:30:25 am
9/2/2012

Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente

CARLO FEDERICO GROSSO

Ancora una volta una sentenza d'assoluzione è destinata a far discutere. Un bambino è stato (probabilmente) ucciso. Non si sa se dalla mamma, o dal convivente della mamma, o dalla mamma e dal suo convivente insieme. Nessuno (probabilmente) sarà mai condannato per avere cagionato quella morte.

Il dato di cronaca è drammatico. Ambiente degradato, intossicazione da stupefacenti, la mamma che esce di casa per procurarsi la droga, ritorna istupidita, durante la notte il compagno la sveglia indicandole il bambino ormai freddo. Cercano di nascondere le responsabilità denunciando un incidente, poi si accusano a vicenda.

La Procura della Repubblica incrimina d'omicidio il convivente, ed accusa la madre (soltanto) d'abbandono di minore. In primo grado l'uomo, ritenuto colpevole, viene condannato a ventiseì anni di reclusione per il grave reato che gli era stato contestato (la Corte chiede tuttavia che la Procura torni ad indagare per omicidio anche la madre, non ritenendo escluso un suo contributo alla causazione della morte del bambino). Ieri il ribaltone: l'uomo è assolto per non aver commesso il fatto, ed è immediatamente scarcerato. Per la donna, al momento, nessuna novità.

Ancora una volta, con riferimento ad un fatto di sangue, la giustizia italiana non è dunque riuscita a far chiarezza, ad individuare il responsabile, ad incastrare il colpevole. E in una vicenda nella quale è pressoché sicuro che un bambino, per dolo, per colpa o per incuria è stato ucciso da qualcuno individuabile in una cerchia ristretta di persone, nessuno, probabilmente, sarà mai chiamato a rispondere di quella morte cagionata (o non impedita).

Inadeguatezza del nostro sistema giudiziario (incapacità di fare indagini, trasandatezza nella raccolta delle prove, incertezza nella fase del giudizio), ovvero insuperabile complessità del caso e, conseguentemente, ineludibile incertezza nelle prove?

Può darsi che vi sia stato qualche errore. Può darsi, comunque, che data la peculiarità del contesto (nessun testimone, nessun elemento in grado di caricare univocamente su taluno dei protagonisti della tragica vicenda la responsabilità della morte del bimbo, nessuna confessione ma, anzi, l'accusa reciproca dei due indiziati), fornire una riposta in termini di colpevolezza certa "al di là di ogni ragionevole dubbio" (come prescrive la nostra legge) fosse difficile, se non, addirittura, impossibile.

Così stando le cose, la risposta "ultima" offerta dal nostro sistema di giustizia nel caso di specie potrebbe essere giudicata comunque "ineccepibile", poiché nessuno, secondo le regole del nostro codice di procedura penale, può essere condannato senza prova certa della sua colpevolezza.

Non sarebbe d'altronde la prima volta che i nostri giudici hanno affrontato casi nei quali c'era la certezza che uno degli imputati fosse il colpevole, ma non si era in grado di dimostrare chi, fra di essi, avesse commesso il reato. In questi casi i giudici sono stati, di regola, costretti ad assolvere tutti gli imputati, anche se era sicuro che, così facendo, si assolveva certamente anche un colpevole (si ricordi il famoso «caso Bebawi», nel quale due amanti, uno dei quali aveva sicuramente assassinato il marito della donna, si sono accusati reciprocamente del delitto, cercando in questo modo di sfuggire entrambi alla condanna penale).

Ma assolvere un colpevole nei cui confronti non esiste prova certa di reità costituisce cardine dello Stato di diritto, come costituisce cardine del processo penale in uno Stato di diritto la circostanza che è preferibile rischiare di assolvere un colpevole che rischiare di condannare un innocente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9752


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Un altro risanamento necessario
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 11:34:53 am
17/2/2012

Un altro risanamento necessario

CARLO FEDERICO GROSSO

Il presidente della Corte dei Conti, nella sua relazione annuale, ha denunciato ieri che illegalità e corruzione sono fenomeni tuttora ampiamente presenti nel Paese.

A vent’anni da Mani Pulite tutto sembra, dunque, immutato (o quasi). Colpa della disonestà di molti operatori economici e pubblici ufficiali. Colpa, soprattutto, della classe politica, che non ha mai affrontato il problema con la dovuta solerzia.

Eppure, tecnici del diritto ed esperti d’indagini penali hanno, più volte, indicato la strada attraverso cui sarebbe possibile realizzare un sistema incisivo di prevenzione e repressione degli illeciti. E gli organismi internazionali hanno richiamato l’Italia all’osservanza delle regole stabilite da trattati e convenzioni.

Ieri un autorevole esponente della magistratura milanese ha sottolineato gli aspetti sui quali occorrerebbe intervenire prioritariamente: trasparenza dei flussi contabili e finanziari, riforma della prescrizione, organizzazione degli organi preposti alla repressione degli illeciti, introduzione di nuovi reati quali la corruzione fra privati.

I primi due profili sono d’importanza fondamentale. Evasione fiscale e corruzione sono fenomeni connessi, essendo le tangenti in larga misura dipendenti dalla possibilità di procurarsi il «nero» in grado di soddisfare le richieste dei pubblici ufficiali corrotti. Ed allora, perché si tarda a mettere in agenda l’indispensabile riforma dei delitti di falso in bilancio (di fatto depenalizzati nel 2002)? Perché non si considera l’urgenza di stroncare le fatturazioni gonfiate o per operazioni inesistenti? Perché (abbassando le soglie di non punibilità) non si elimina la condizione di sostanziale impunità di gran parte delle frodi fiscali? Perché, ancora, non si pensa di colpire più incisivamente il riciclaggio e, soprattutto, di punire anche in Italia il c.d. «autoriciclaggio» (cioè la condotta di chi accumula denaro illegalmente - mediante tangenti, evasioni, ecc. - e poi se lo ripulisce da solo)?

Se si volesse davvero fare la guerra alla corruzione, occorrerebbe d’altronde ascoltare anche altre «raccomandazioni internazionali»: rafforzare le istituzioni preposte alla prevenzione degli illeciti (si pensi che l’Italia non è stata neppure in grado d’istituire un’Autorità Anticorruzione incisiva e indipendente; si è inventata un’Autorità, ma non l’ha dotata di forze e mezzi, ed essa, poco tempo dopo, è stata sciolta per palese inefficienza); accogliere le sollecitazioni Ocse sulla prescrizione, oggi in materia di corruzione sciaguratamente breve (dai quindici anni di un tempo, si è passati, con la Cirielli, ad un incredibile «sette anni e mezzo»); rafforzare l’incisività della disciplina penale della corruzione (ad esempio, introducendo premi a favore del privato che denunci i pubblici ufficiali corrotti); affiancare al delitto di corruzione dei pubblici ufficiali quello di corruzione fra privati (il numero dei manager privati infedeli che accettano tangenti è elevatissimo, e, oggi, assurdamente non punito).

O ancora, si potrebbero introdurre regole di totale trasparenza degli appalti, istituire albi pubblici delle imprese vincitrici delle gare, pubblicare gli elenchi degli imprenditori condannati. E via dicendo.

Una cosa è, comunque, certa. Che di fronte alle «cifre» del nostro Paese, ogni ulteriore ritardo sarebbe delittuoso. L’Italia, d’altro canto, è largamente inadempiente rispetto alle convenzioni internazionali anticorruzione, si tratti di quella comunitaria oppure di quella Ocse (da anni il Parlamento si gingilla con una legge di attuazione mai approvata). Ieri il Guardasigilli ha promesso grandissima attenzione. Per il governo tecnico, credo, date le finalità di risanamento complessivo del Paese che persegue, dovrebbe trattarsi di un obiettivo imprescindibile. Che sia, davvero, la volta buona?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9783


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Un esito figlio di tre leggi
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:21:25 pm
26/2/2012

Un esito figlio di tre leggi

CARLO FEDERICO GROSSO

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato.

Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale?

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9816


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Un aiuto per inasprire le pene
Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2012, 10:01:28 am
29/2/2012

Un aiuto per inasprire le pene

CARLO FEDERICO GROSSO

Il ministro Passera, nel corso di un’audizione in commissione Trasporti della Camera, ha affrontato ieri il tema dell’introduzione in Italia del delitto di «omicidio stradale» (un reato destinato a reprimere duramente chi commette omicidio mettendosi alla guida di un automezzo in condizione di ubriachezza od avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope).

Di fronte a un testo di legge-delega di riforma del Codice della strada che intenderebbe introdurre sanzioni pesanti nei confronti di chi uccide guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito droghe (reclusione non inferiore nel minimo ad otto anni e nel massimo a diciotto anni, possibilità di arresto in fragranza, revoca definitiva della patente), il ministro ha espresso apprezzamento, ma, nel contempo, ha manifestato cautela. L’iniziativa è seria, ha detto, e merita riflessione. Occorre tuttavia fare attenzione a rispettare i parametri europei, evitare di introdurre divieti radicali che costituirebbero un «unicum» in Europa e rischierebbero di risolversi in un pregiudizio per la circolazione (ritiro perpetuo della patente), rispettare il criterio della «delega» che fa riferimento al «principio di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione nell’ambito dell’Unione europea».

Al di là delle preoccupazioni manifestate, è comunque importante che il governo abbia preso atto dell’esistenza del problema dei così detti «omicidi stradali» e si sia dichiarato disponibile ad affrontarlo. Da anni, infatti, alcuni tecnici del diritto ed una parte dell’opinione pubblica insistono sulla necessità di reprimere adeguatamente il fenomeno di chi si mette consapevolmente alla guida di un automezzo sapendo di essere ubriaco o di avere ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope e cagiona incidenti mortali.

Vediamo, innanzitutto, di chiarire qual è, oggi, lo stato della legislazione e quali orientamenti giurisprudenziali si sono imposti nelle aule di giustizia. Quando si verifica un incidente stradale che cagiona la morte di una persona, di regola viene applicata la norma che prevede l’omicidio colposo. La pena prevista per chi cagiona colposamente la morte guidando un automezzo in stato di ubriachezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è, oggi, dopo gli aumenti introdotti nel 2008, la reclusione da tre a dieci anni.

Nonostante l’aumento introdotto nel 2008, la repressione dell’omicidio causato in stato di ebbrezza o da chi ha ingerito sostanze stupefacenti è stata, in realtà, relativa. La pena minima prevista dalla legge è, come si è visto, di soli tre anni di reclusione; essa può essere ulteriormente diminuita se sono presenti circostanze attenuanti; ulteriori diminuzioni possono essere concesse in ragione del rito prescelto dall’imputato (giudizio abbreviato o patteggiamento).

In questa situazione è sovente accaduto che le pene concretamente irrogate siano state assai poco elevate ed agevole preda della sospensione condizionale. E’ vero che, proprio per evitare tale «marginalizzazione criminale», alcuni magistrati hanno cercato di inquadrare l’omicidio in questione nel ben più grave delitto di omicidio doloso, ritenendo che nei casi indicati fosse possibile riscontrare il c.d. «dolo eventuale» (chi si è messo alla guida di un’autovettura ubriaco o drogato avrebbe «accettato il rischio» di cagionare un evento mortale; tale evento dovrebbe essergli pertanto addebitato a titolo di «dolo eventuale», che si riscontra appunto quando un soggetto, pur non volendo cagionare la morte, «accetta il rischio» che essa si verifichi a cagione della condotta improvvida posta in essere).

Si è trattato, tuttavia, di tentativi sporadici. Non ha d’altronde senso fare dipendere dalla casualità dell’interpretazione giuridica specificamente seguita conseguenze così rilevanti quali sono l’applicazione dell’omicidio colposo ovvero di quello doloso (punito, si badi, con la reclusione non inferiore ad anni ventuno). Di qui la forte spinta ad introdurre, appunto, un autonomo reato di omicidio stradale, punito adeguatamente (reclusione da otto a diciotto anni) ed in grado di sottrarsi ad ogni casualità interpretativa.

Bene ha fatto, tuttavia, il ministro Passera a richiedere comunque una riflessione, soprattutto alla luce della (doverosa) armonizzazione europea della materia. Nei Paesi europei, sebbene non sia di regola previsto un delitto autonomo di omicidio stradale, e si utilizzi normalmente lo strumento dell’omicidio colposo, la repressione di chi cagiona incidenti guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è comunque più dura di quanto lo sia oggi in Italia. Un incremento delle nostre pene non introdurrebbe pertanto, sicuramente, di per sé disarmonia.

Non potrebbe essere, d’altronde, l'Italia, con l'introduzione del menzionato delitto autonomo di omicidio stradale, ad aprire una strada che potrebbe essere ragionevolmente seguita, presto, da altri Paesi?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9826


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. CASO DELL'UTRI - Senza "concorso" Mafia più forte
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:24:48 pm
12/3/2012 - CASO DELL'UTRI

Senza "concorso" Mafia più forte

CARLO FEDERICO GROSSO

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.

Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9876


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. L'incognita della durata dei processi
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:22:55 pm
24/3/2012

L'incognita della durata dei processi

CARLO FEDERICO GROSSO

L’intervento legislativo sull’art. 18 approvato dal governo inciderà profondamente sui licenziamenti consentiti. I sindacati, ed una parte delle forze politiche, hanno posto, come era naturale, l’accento sul tema, delicatissimo, dell’affievolimento dei diritti.

C’è tuttavia un ulteriore profilo che merita una riflessione: l’impatto che la nuova disciplina può avere sull’esercizio della giustizia, e conseguentemente sui costi per imprese e lavoratori, dato che il protrarsi dei processi di lavoro può recare danno ad entrambi.
La circostanza che il giudice continui ad essere, in un processo, l’arbitro della legittimità o dell’illegittimità dei licenziamenti è stato considerato (nei giorni scorsi) dal governo una risorsa per i lavoratori: la maggiore flessibilità non avverrà senza regole, si è detto, ed a garanzia del rispetto delle norme ci sarà il presidio, prezioso, dell’autorità giudiziaria, che giudicherà se esistevano, o non esistevano, i presupposti per il licenziamento.

In astratto questo ragionamento è ineccepibile. Ma in concreto? La nostra giustizia non è in grandissima salute, e anche se, nel settore della giustizia del lavoro, si rinvengono eccellenze che riescono a chiudere le pratiche giudiziarie in tempi abbastanza accettabili, ma vi sono situazioni diverse, nelle quali si fatica ad arrivare anche soltanto ad una sentenza di primo grato. Come ha riferito l’altro ieri La Stampa, da una recente ricerca condotta su undicimila controversie in materia di licenziamento per giusta causa ex art. 18 (vigente), trattate dai tribunali di Torino, Milano e Roma, è emerso che le disomogeneità fra sede e sede, e addirittura fra giudice e giudice della stessa sede, sono clamorose: in media un processo per licenziamento dura 200 giorni a Torino, 266 giorni a Milano, 429 a Roma, e fra i singoli giudici di quei tribunali le discrasie sono ancora più marcate (da 179 giorni di durata a 693). Che cosa accade in altre sedi giudiziarie, soprattutto in molte sedi periferiche, è d’altronde agevolmente intuibile.

Il problema è rilevante, e rischia di diventare drammatico se con la riforma dell’art. 18 il contenzioso dovesse aumentare, e non si provvedesse, nel contempo, ad attrezzare adeguatamente le sezioni dei giudici del lavoro.

Bisogna dare atto che il governo non ha ignorato il problema. Nel comunicato stampa diffuso ieri subito dopo l’approvazione del disegno di legge esso ha precisato che, quanto ai costi dovuti all’incertezza che circonda gli esiti dei procedimenti avviati a fronte dei licenziamenti, si è introdotta «una precisa delimitazione dell’entità dell’indennità risarcitoria eventualmente dovuta e si sono eliminati alcuni costi indiretti dell’eventuale condanna», svincolando in tal modo «il datore di lavoro, in caso di vittoria del lavoratore, dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario»; stabilito che la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal giudice soltanto nel caso di licenziamenti discriminatori o in alcuni casi d’infondatezza del licenziamento disciplinare, ha sottolineato che «negli altri casi, tra cui il licenziamento per motivi economici, il datore di lavoro può essere condannato solo al pagamento di un’indennità» (è stata comunque dedicata, si è precisato, «particolare attenzione all’intento di evitare abusi»); ha infine sottolineato che «è prevista l’introduzione di un rito procedurale abbreviato per le controversie in materia di licenziamenti, che ridurrà ulteriormente i costi indiretti del licenziamento».

Quanto al rito speciale, specificamente destinato ad abbreviare i tempi di trattazione delle controversie concernenti i licenziamenti, in astratto va benissimo: la sua introduzione (i cui dettagli saranno individuati di concerto con il ministero della Giustizia), se le sue cadenze saranno ben congegnate, potrà servire ad accelerare (eventualmente) le cause. Speriamo che accada.

Rimane, per altro verso, intatto il rischio di effetti nefasti sul terreno dell’incremento del contenzioso, conseguenti alla diversità del trattamento stabilito per i licenziamenti discriminatori e quelli disciplinari (che consentono la reintegrazione), e quelli effettuati per motivi economici (che non la consentono, e per i quali è previsto il solo indennizzo del lavoratore). E’ infatti agevole prevedere che il lavoratore licenziato per motivi economici cercherà comunque di sostenere che il suo allontanamento è avvenuto per motivi discriminatori; mentre il datore di lavoro potrebbe essere tentato di contrabbandare per motivo economico il motivo discriminatorio, o di cercare di privilegiare, a danno degli altri, i lavoratori che considera «meno pericolosi», mantenendo loro il posto o reimpiegandoli in posti diversi da quelli soppressi per ragioni economiche. Se ciò dovesse accadere (o se i lavoratori dovessero anche soltanto sospettarlo) la spinta al contenzioso sarebbe ovviamente fortissima.

Il governo si è preoccupato di precisare, a questo punto, che particolare attenzione sarà prestata «all’obiettivo di evitare abusi».
Anche qui, in astratto, benissimo. Perché l’intenzione manifestata si traduca in misure efficaci, occorrerà tuttavia che gli strumenti ipotizzati per prevenire abusi e violazioni da parte dei datori di lavoro siano davvero stringenti (descrizione dettagliata delle situazioni qualificabili come giusta causa economica di licenziamento, eventuale costituzione di organismi indipendenti ai quali affidare la valutazione preventiva sull’effettiva esistenza delle ragioni che legittimano l’espulsione dei lavoratori dall’azienda, sanzioni per i datori di lavoro inadempienti, e via dicendo).

Non è comunque sicuro che, nonostante le attenzioni, il paventato incremento dei processi dovuto all’aumento della flessibilità ed alla mutata disciplina delle categorie dei licenziamenti consentiti riesca ad essere evitato. Lo stesso governo ha, d’altronde, ammesso questo rischio quando ha indicato la ragione per cui ha ritenuto d’introdurre misure dirette a contenere i costi del datore di lavoro nelle cause: in questo modo, ha detto, si è inteso svincolare tali costi «dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario», riconoscendo così, palesemente, il possibile fallimento di ogni politica diretta a contenere contenzioso e durata dei processi.
Non sarebbe, anche sotto questo profilo, un buon viatico per la nuova disciplina dei licenziamenti che sta per intraprendere il suo difficile cammino nelle aule di Camera e Senato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9919


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Anticorruzione, la migliore riforma possibile
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 11:32:23 pm
11/6/2012

Anticorruzione, la migliore riforma possibile

CARLO FEDERICO GROSSO

Se il governo chiederà davvero la fiducia sul ddl anticorruzione, e se la Camera l’approverà, ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore «tacca» che l’esecutivo potrebbe inserire nel suo carnet di provvedimenti positivamente assunti nell’interesse del Paese.

La riforma non è, in astratto, la migliore possibile. Di fronte al dilagare della corruzione sarebbe stato opportuno essere più drastici: ripristinando la vecchia durata della prescrizione, vergognosamente accorciata dalla legge ex Cirielli; reinserendo (o inserendo ex novo) reati utili a colpire le provvigioni di denaro «nero», usuale premessa per l’esecuzione di operazioni corruttive (recupero di reati quali il falso in bilancio, repressione più pesante delle false fatturazioni, introduzione del reato di autoriciclaggio); prevedendo minimi di pena più elevati; disciplinando in maniera più incisiva talune fattispecie (pur opportunamente introdotte nel nuovo testo legislativo) come la corruzione tra privati e il traffico d’influenze.

In concreto, l’articolato proposto costituisce tuttavia uno dei testi «migliori» praticabili nell’attuale, difficile, contesto politico.

Esso adempie, finalmente, agli impegni internazionali assunti dallo Stato italiano (Convenzione contro la corruzione delle Nazioni Unite, Convenzione di Strasburgo); rispetto alla legislazione vigente rafforza in modo rilevante gli strumenti di prevenzione e repressione contro la corruttela; sotto diversi profili si allinea ai meccanismi di contrasto utilizzati dalla maggior parte delle legislazioni europee.

In questo contesto, nell’impossibilità «politica» di realizzare una legislazione ancora più incisiva, è preferibile fare saltare l’intera riforma (in attesa di ipotetici tempi «migliori») ovvero approvare la soluzione «compromissoria», ma tutto sommato equilibrata, elaborata dal governo? Personalmente non avrei dubbi: poiché il disegno di legge prevede l’introduzione d’istituti amministrativi di forte impatto nella lotta alla corruzione e rafforza, pur con diverse timidezze, l’attuale livello della repressione penale, perché soprassedere, rinunciando a un significativo passo avanti nella lotta alla corruzione?

Per dare, sia pure brevemente, conto dell’utilità di approvare il progetto mi sembra opportuno riassumere alcuni dei suoi profili qualificanti. Il ddl prevede d’introdurre, in attuazione dell’art. 6 della Convenzione delle Nazioni Unite e degli artt. 20 e 21 della Convenzione di Strasburgo, una «Autorità nazionale anticorruzione» deputata a realizzare attività coordinata di controllo e di prevenzione della corruzione e ad approvare un «Piano nazionale anticorruzione» in grado di programmare il contrasto dei fenomeni corruttivi; assicura trasparenza alle pubbliche amministrazioni prescrivendo la pubblicazione sui siti istituzionali delle informazioni relative ad ogni procedimento amministrativo; prescrive la pubblicità delle posizioni dirigenziali in modo da rendere palesi gli assetti decisionali delle pubbliche amministrazioni; prevede norme a protezione dei dipendenti pubblici che riferiscano condotte illecite; prevede norme di controllo delle imprese esposte al rischio d’infiltrazioni mafiose; prevede, novità davvero rilevante, l’adozione di norme in tema di divieto a ricoprire cariche elettive e di governo conseguente a sentenze definitive di condanna.

In materia penale prevede a sua volta un aumento pressoché generalizzato delle sanzioni (ancorché non sempre adeguato alla gravità di ciascun illecito previsto); introduce (sia pure in modo perfettibile) alcuni nuovi reati, come il traffico d’influenze illecite, particolarmente importante per colpire indebiti arricchimenti di pubblici ufficiali sganciati dal compimento di specifici atti di ufficio, e (sia pure con una configurazione non del tutto adeguata alla pluralità degli interessi offesi) la corruzione tra privati; per effetto degli aumenti delle sanzioni determina un allungamento (sia pure non sufficiente) dei tempi della prescrizione di buona parte dei reati previsti.

Perché allora, come dicevo, non approvare un progetto che, ancorché perfettibile, contiene comunque norme che migliorano, e di non poco, lo standard della nostra legislazione anticorruzione?

Rimane, a questo punto, un’unica obiezione, riguardante il cosiddetto «spacchettamento» del delitto di concussione. Si tratta di questo. Nel ddl anticorruzione la «induzione» a dare o promettere utilità al pubblico ufficiale (oggi punita come concussione al pari della «costrizione» a pagare usando violenza o minaccia) viene estrapolata dal delitto di concussione e prevista come reato autonomo. Con questa innovazione s’intende trattare come vittima del reato (e pertanto come soggetto non punibile) soltanto chi paga la tangente perché «costretto», e punire invece chi si è lasciato semplicemente «indurre» a farlo. L’innovazione tende a rendere più incisiva la disciplina anticorruzione, evitando ampliamenti non giustificati dell’ambito d’impunità di chi, nella sostanza, è concorrente nel reato e non vittima dello stesso (si badi che in nessun altro Paese europeo si prevede il delitto di concussione per induzione: il privato «indotto» è sempre punito a titolo di concorso in corruzione).

Ebbene, si sostiene dai critici più accesi, con questa innovazione il governo tecnico, cedendo alle pressioni del Pdl, e con l’avallo del Pd, favorirebbe, nei fatti, Berlusconi, imputato di concussione per induzione del processo Ruby, in quanto i suoi difensori, dopo l’approvazione della riforma, avranno buon gioco nel sostenere che il reato di concussione per induzione è stato abrogato e che, pertanto, il loro assistito deve essere conseguentemente assolto.

Tecnicamente, quest’obiezione non sta in piedi. Il reato d’induzione a pagare tangenti al pubblico ufficiale, se la riforma dovesse essere approvata, non risulterebbe abrogato, ma sarebbe, semplicemente, previsto come un reato autonomo; in base ai principi vigenti in materia di successione di leggi penali, trattandosi di cambiamento della disciplina di un fatto che era, e continua ad essere, reato, troverà applicazione la norma penale più favorevole al reo. Berlusconi, ove venisse riconosciuto colpevole dei fatti ascrittigli, dovrebbe essere pertanto in ogni caso condannato, tutt’al più con una pena leggermente inferiore.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10216


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Il Quirinale e la mossa legittima
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2012, 11:19:10 pm
19/6/2012

Il Quirinale e la mossa legittima

CARLO FEDERICO GROSSO

Tutti speriamo che l’autorità giudiziaria sia messa, finalmente, nella condizione di far luce sulla trattativa che si presume intercorsa fra mafia e Stato nella primavera del 1992.

Tutti confidiamo che i responsabili dei reati siano individuati e condannati. Permane d’altronde intatto lo sconcerto di fronte al fatto che tanti politici che sapevano siano rimasti per tanti anni silenti e che, soltanto ora, fra reticenze e sussurri, qualcuno cominci a raccontare.

La vicenda, com’era inevitabile, a causa della sua enorme rilevanza politica e criminale (Borsellino sarebbe stato assassinato proprio per la sua opposizione alla trattativa; le stragi di Firenze e Roma sarebbero state la reazione alle incertezze dello Stato), non poteva non lasciare dietro di sé, ad ogni passaggio, sciami di polemiche e di veleni.

Da ieri l’altro la polemica sembra lambire il Capo dello Stato a causa di una lettera che egli ha fatto inviare il 4 aprile 2012 dal segretario generale della Presidenza al procuratore generale presso la Cassazione, concernente una doglianza, ricevuta dell'onorevole Mancino, sul fatto che non fossero state, fino ad allora, adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari.

Che cosa scriveva in quella lettera il segretario generale? Trasmettendo la lettera a sua volta inviata a Napolitano da Mancino, egli precisava che «conformemente a quanto da ultimo sostenuto nella Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato auspica che possano essere adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure sulla base degli strumenti previsti dal nostro ordinamento, al fine di dissipare le perplessità che possono derivare da gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali».

In termini burocratici, si sollecitava dunque, semplicemente, il procuratore generale della Cassazione ad assicurare, per quanto possibile, l’opportuno coordinamento delle indagini, allo scopo di evitare che iniziative discordanti potessero danneggiarle. Ed allora, che c’è di strano? Il Capo dello Stato, nella prospettiva di una proficua collaborazione istituzionale, ha sollecitato, semplicemente, il procuratore generale presso la Cassazione ad esercitare con tempestività ed efficienza i suoi poteri di controllo in una materia particolarmente incandescente quali sono le indagini sulla trattativa mafia-Stato.

Si badi che l’esercizio dei poteri di sorveglianza sollecitati al procuratore generale della Cassazione sono specificamente riconosciuti dalla legge. L’art. 106 del d.lgs. n. 106/2006 dispone che «il procuratore generale presso la Corte di Appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, ed invia al procuratore generale presso la Cassazione una relazione annuale» (ovviamente per consentirgli un’adeguata sorveglianza); l’art. 104 del d.lgs. n. 159/2011, sotto il titolo «attribuzioni del procuratore generale della Cassazione in relazione alla attività di coordinamento investigativo», dispone a sua volta che «il procuratore generale presso la corte di Cassazione esercita la sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia». Il procuratore nazionale antimafia ha sicuramente il potere di dirigere e coordinare le attività investigative delle Direzioni distrettuali antimafia; egli è tuttavia soggetto, a sua volta, a specifica sorveglianza da parte del procuratore generale presso la Cassazione, la massima autorità requirente del Paese.

Il Capo dello Stato, nei suoi interventi in materia di giustizia, aveva d’altronde manifestato più volte preoccupazione sul fatto che indagini collegate potessero avere sviluppi non adeguatamente coordinati; e già altre volte aveva opportunamente allertato il procuratore generale in questo senso (si può ad esempio ricordare il suo intervento nel momento in cui era scoppiato un grave conflitto fra le procure generali di Catanzaro e Salerno). È pertanto naturale che anche questa volta abbia potuto, in piena legittimità, rivolgersi alla massima autorità giudiziaria competente a sorvegliare il funzionamento delle procure per sollecitare interventi funzionali al miglior esercizio possibile dell’attività giudiziaria.

Dato il tenore della lettera, non è d’altronde vero che si siano verificate indebite pressioni sul procuratore generale, non è vero che sia stato scavalcato il Capo della Dna, nulla, nella lettera, fa lontanamente pensare che essa tendesse a salvare in qualche modo i politici.

Che su questa vicenda si sia imbastita una polemica di tal fatta, è segno tristissimo della crisi in cui annaspa il nostro Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10242


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. No Tav, l'udienza della chiarezza
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 11:07:33 am
6/7/2012

No Tav, l'udienza della chiarezza

CARLO FEDERICO GROSSO

Oggi inizia il processo contro i No Tav imputati di gravi reati contro le forze dell’ordine commessi il 27 giugno e il 3 luglio 2011. E’ l’occasione per rendere giustizia con un processo «giusto»: garantista nei confronti degli imputati, come dev’essere ogni processo penale, ma nel contempo attento alle esigenze della «difesa sociale».

L’inizio del processo può essere altresì l’occasione per fare il punto su ciò che è accaduto, fino ad ora, in tale vicenda giudiziaria: occasione tanto più importante, date le polemiche che hanno investito l’attività della procura della Repubblica di Torino che ha condotto le indagini, e chiesto le misure cautelari e i rinvii a giudizio.

Un punto dev’essere innanzitutto evidenziato: che a scorrere gli atti giudiziari nulla sembra essere stato ispirato a una logica d’intervento «emergenziale». Nessuna applicazione di legge speciale (allo stato d’altronde inesistente); nessun coinvolgimento «collettivo», ma paziente ricerca, e individuazione, degli elementi in grado di sostenere l’accusa nei confronti di ciascun manifestante incriminato; grande attenzione a non criminalizzare «il movimento», ma criminalizzazione, soltanto, degli autori identificati di specifici, e dimostrati, atti di violenza; rigoroso rispetto, quindi, del principio di personalità della responsabilità penale e nessuna confusione fra responsabilità individuale e comportamenti collettivi; addirittura (nonostante la sussistenza di indizi a mio avviso precisi in tale direzione), mancata contestazione del delitto di associazione a delinquere, che avrebbe potuto far sorgere il sospetto di criminalizzazioni collettive o del movimento in quanto tale.

I fatti emersi appaiono, d’altronde, di rilevante gravità: lancio di pietre, massi, bombe carta, razzi, estintori, altri oggetti contundenti contro le forze dell’ordine; riversamento sui mezzi d’opera di liquido infiammabile e ammoniaca, con evidente creazione di una situazione di pericolo per l’incolumità delle maestranze e della polizia; meticolosa organizzazione degli attacchi da parte di gruppi che uscivano a turno dalla boscaglia per attaccare le posizioni difese dalla polizia; centinaia di persone che agivano «previo concerto» (cioè dopo essersi accordate nell’esecuzione di un piano prestabilito) e «travisate» (con caschi, cappucci, maschere antigas); centinaia di poliziotti feriti e contusi. Né conta che alcuni degli episodi contestati siano meno gravi di altri: si è sostenuto, ad esempio, da taluno dei critici delle indagini compiute, che «afferrare per un braccio un operatore di polizia», «ostruire il passaggio delle forze dell’ordine con una paratia mobile», «rimuovere un cancello», siano cose diverse dal lanciare sassi o biglie. Che c’entra? Anche tali episodi, giustamente contestati dalla procura della Repubblica, costituiscono reato (violenza, resistenza, danneggiamento); essi, unitamente ai fatti più gravi, concorrono a dimostrare in ogni caso la presenza in Valsusa, nel giugno e nel luglio di un anno fa, di un compendio di violenza criminale intollerabile da qualunque Stato di diritto.

Le indagini che hanno appurato questi fatti, e che nel mare d’impuniti (concorrenti «allo stato non identificati», come li definisce ripetutamente il capo di imputazione) sono riuscite a individuare, riconoscendoli, alcuni dei facinorosi, ad evidenziare le loro specifiche gesta, ed a pretendere di conseguenza, con la richiesta di rinvio a giudizio, la loro punizione, sono state pertanto null’altro che normalissime indagini preliminari rispettose dei nostri principi processuali. Non è d’altronde irrilevante che le decisioni prese da procura e gip siano state avallate da numerose ordinanze del Tribunale del riesame, e che la stessa Cassazione, pur annullando talune decisioni di custodia cautelare, abbia salvaguardato l’impianto complessivo dell’accusa.

Detto questo, poche parole sul processo che sta per iniziare. Come ho accennato, che esso sia processo «giusto» e come tale rispettoso delle garanzie degli imputati ma, anche, di quelle delle vittime. Guai se non lo fosse, guai se sulla spinta di rinnovati sommovimenti di piazza, il processo dovesse subire qualche sbandamento. Non si può dimenticare, infatti, ciò che è accaduto in occasione dei provvedimenti di custodia cautelare, e dopo di essi: le scritte vergognose sui muri di Torino contro il procuratore Caselli, le violenze che gli hanno addirittura impedito di esercitare, in diverse città, il suo legittimo diritto di parlare.

I dirigenti del movimento No Tav si sono dissociati da tali manifestazioni d’eversione. Ovviamente non basta. I facinorosi dovrebbero essere isolati, cacciati, espulsi dalla Valle, in modo da consentire, nell’opposizione all’opera ferroviaria, quantomeno il ripristino della legalità. Anche per questo è necessario che il processo che inizia oggi proceda con la necessaria speditezza, e, individuati i colpevoli, li condanni alle pene previste dalla legge.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10303


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Le punizioni e i benefici devono essere uguali per tutti
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:57:09 pm
14/7/2012

Le punizioni e i benefici devono essere uguali per tutti

CARLO FEDERICO GROSSO

La Cassazionehaconfermato,ieri,l’impianto della condanna dei dieci manifestanti accusati di devastazione e saccheggio» in occasione del G8: le condanne sono state tutte rese definitive, soltanto alcune delle pene originariamente comminate sono state ridotte (con annullamento conrinviointalunicasi,conridefinizionedaparte della stessa Corte in altri). A pochi giorni di distanza, dunque, per una strana coincidenza, la Suprema Corte si è pronunciata sia sulla vicenda a carico dei poliziotti responsabili dei fatti commessi alla scuola Diaz, sia su quella a carico dei giovani accusati di avere messo a ferro e fuoco la città.

La decisione assunta ieri riaprirà inevitabilmente le polemiche, numerosi intellettuali abbiano sottoscritto, nei giorni scorsi, un appello nel quale si chiedeva alla Cassazione l’annullamento di tale sentenza. Da un lato si contestava la legittimità dell’imputazione per «devastazione e saccheggio», un reato, si sosteneva, ereditato dal fascismo, punito con una pena troppo elevata, non adeguatamente definito sul terreno della individuazione delle condotte punibili, sempre più utilizzato contro chi manifesta, protesta, si oppone. Dall’altro ci si domandava se era giusto fare dei dieci imputati condannati i «capri espiatori» della moltitudine d’incappucciati che aveva partecipato ai disordini(perchéproprioqueidieci,enonaltri?),eseera giusto, soprattutto, condannarli per un reato che prevedeva una pena molto più elevata di quella prevista per i reati per i quali erano stati a loro volta incriminati i poliziotti autori di violenze e crudeltà nei confronti di manifestanti inermi.

Siponevainfineun’ultima questione: se a dieci anni di distanza dai fatti fosse ragionevole infliggere sanzioni così devastanti a persone che nel frattempo erano cambiate, si erano inserite nella società, avevano trovato lavoro, si erano sposate, avevano avuto figli: persone che non possedevano pertanto più la «pericolosità» (eventualmente) posseduta al momento dei fatti e che esigevano pertanto tutt’altro trattamento.

Ciascuna delle questioni poste merita attenzione. E’possibilechelapesantezzadellapenaprevista per il delitto di devastazione e saccheggio risenta dello spirito autoritario del codice penale Rocco del 1930. I fatti di «devastazione», cioè di distruzione sistematica, carica d’odio, di cose e luoghi della città da parte di gruppi organizzati, travisati,armatidimazze,sprangheebombemolotov,sonoinognicasogravissimi:nonhannonulla a che vedere con i semplici «danneggiamenti», sono espressione di guerriglia eversiva, costituiscono un attentato all’ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini. In questa prospettiva mi sembra che, di conseguenza, anche in uno Stato democratico essi debbano trovare una collocazione adeguata alla loro oggettiva gravità. Osservazioni analoghe possono essere formulate con riferimento al concetto di «saccheggio», che non è semplice sottrazione di cose altrui (furto), bensì asportazione sistematica di ogni bene rinvenuto in determinati luoghi o circostanze.

E’ vero invece che non è ragionevole che i manifestantiautorididevastazioniesaccheggisiano puniti in modo tanto più pesante di chi, dovendo operare in nome della legge, ha commesso invece, nell’esercizio della funzione, indebite violenze o cagionato lesioni personali a cittadini inermi. L’abnormitàèdovutatuttaviaalfattocheilParlamento, nonostante gli impegni internazionali assunti, non ha ancora previsto il delitto di tortura. Se tale delitto fosse stato introdotto, ben diverso sarebbe stato l’epilogo del processo concernente le violenze perpetrate. Nessun problema di disparità di trattamento avrebbe avuto, pertanto, ragione di essere posto.

Inognicaso,questaèlanostralegge.Chepoteva fare, a questo punto, la Cassazione: annullare la sentenza contro i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio perché i poliziotti, in un altro processo, non sarebbero stati adeguatamente puniti per le violenze perpetrate alla scuola Diaz?

Quanto al rischio di fare, dei dieci ragazzi condannati, i «capri espiatori» della moltitudine di persone che nel 2001 ha messo Genova a ferro e fuoco, è agevole obbiettare che, anzi, la circostanzachesoltantoneiconfrontididiecipersonesisia giunti alla condanna per il delitto di devastazione e saccheggio rivela, positivamente, l’attenzione dell’autorità giudiziaria a non coinvolgere nell’imputazione persone nei confronti delle quali non erano emerse prove specifiche di responsabilità penale.

Rimanel’ultimaquestione:gliimputati,oggi,a oltre dieci anni di distanza, sono persone diverse. Non ha pertanto senso applicare loro una sanzione che poteva, tutt’al più, essere giustificata al tempo del commesso reato.

Il problema non è di poco conto. Esso si pone tutte le volte in cui il processo dura troppo a lungo,esifiniscepereseguireunacondannaaeccessiva distanza dal momento della commissione del reato. Se l’autore del fatto non presenta più i profili criminogeni che lo hanno condotto a delinquere, sostiene una corrente di pensiero, è giocoforza rinunciare alla pena; altrimenti sarebbe contraddetta la stessa funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla sanzione penale, che verrebbeapplicataachi,essendodifattogià«rieducato», dovrebbe essere per tale ragione rimesso immediatamente in libertà.

Altri risponde, a mio avviso a ragione, che il problema non riguarda l’applicazione della pena, che è assolutamente inderogabile, ma, eventualmente, la sua esecuzione, che nei limiti stabiliti dalla legge dovrà tenere comunque conto della già avvenuta rieducazione del condannato.

Nel caso di specie stupisce, comunque, che il richiamo della personalità cambiata, che giustificherebbe la rinuncia alla punizione, sia stata invocata soltanto nei confronti dei manifestanti, non nei confronti dei poliziotti, che anch’essi, a distanza di dieci anni, possono essere diventati «diversi», e alcuni dei quali, nel frattempo, sono stati protagonisti di brillanti operazioni. Se si ritiene che un beneficio debba essere concesso, esso dovrebbe essere infatti preteso per tutti, e non soltanto per qualcuno.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10331


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Deputati-detenuti i limiti del colloquio
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2012, 10:38:43 am
11/8/2012

Deputati-detenuti i limiti del colloquio

CARLO FEDERICO GROSSO

Davvero illegittime le visite in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia? Come è noto essi, rispettivamente impegnati nelle commissioni Antimafia dei Parlamenti europeo ed italiano, nel corso delle visite avrebbero invitato alcuni boss a collaborare con lo Stato. Di qui la polemica esplosa a seguito della pubblicazione della notizia su di uno dei maggiori quotidiani italiani.

Vediamo, innanzitutto, che cosa stabiliscono le norme. L’art. 67 dell’ordinamento penitenziario (1975) prevede che ministri, parlamentari, giudici costituzionali ed altre circoscritte categorie di soggetti possano visitare le carceri senza necessità d’autorizzazione. Il suo regolamento di esecuzione (d.p.r. n. 230/2000), all’art. 117 disciplina le visite disponendo che esse «sono rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni di vita degli stessi. Non è consentito fare osservazioni sulla vita dell’istituto in presenza di detenuti o internati o trattare con imputati argomenti relativi al processo in corso».

Non v’è pertanto dubbio che se i due parlamentari avessero rivolto ai boss con i quali sono entrati in contatto domande su processi per i quali erano imputati (ad esempio la trattativa fra Stato e mafia), avrebbero clamorosamente infranto una prescrizione di legge. Ma davvero è pensabile che essi abbiano interloquito sui processi? E’, piuttosto, verosimile che essi si siano limitati ad invitare in generale i mafiosi a collaborare con lo Stato. E’ su questa ipotesi che, pertanto, ha esclusivamente senso interrogarsi.

Ebbene, alla luce del citato art. 117 non pare dubbio che, se vi fosse stata una sollecitazione a collaborare con lo Stato, essa sarebbe apparsa, comunque, non vietata: come ho precisato, tale articolo vieta infatti soltanto di «fare commenti sulle condizioni carcerarie davanti ai detenuti» e di «rivolgere ad essi domande sui processi in corso» e null’altro.
Oltre che con la legge, sempre sul terreno delle norme dettate in materia carceraria, occorre tuttavia fare i conti anche con una circolare ministeriale, emanata nel 2009 con l’obiettivo di raccogliere, per ragioni di chiarezza, le disposizioni concernenti le modalità di svolgimento delle visite, nonché di «apportare gli aggiornamenti suggeriti dall’esperienza applicativa della legge».

Orbene, nell’art. 4 tale circolare stabilisce che le autorità in visita «possono rivolgere la parola ai detenuti al fine di rendersi conto in maniera più completa delle condizioni di vita degli stessi. Tali dialoghi, però, non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vertenti sui contenuti espressamente vietati dell’art. 117 del d.p.r. n. 230/2000. Nel caso in cui la disposizione del capoverso precedente non venga rispettata, il direttore (del carcere) invita l’autorità a non perseverare in tale condotta». In questo modo sembrerebbe che il dialogo autorità/detenuto, pur consentito, debba risultare tuttavia circoscritto al tema delle condizioni di vita carceraria, e che non possa comunque travalicare in un colloquio o in una intervista: due limitazioni che sicuramente non comparivano nel regolamento di esecuzione del 2000, e tanto meno nel testo dell’ordinamento giudiziario del 1975.

Che valore ha, tuttavia, questa apparente modifica restrittiva? Su di un terreno di valutazione giuridica formale, si può obbiettare che una circolare non può contraddire una norma di rango superiore, come è quella contenuta nel d.p.r. n. 230/2000. Da un punto di vista sostanziale, che senso avrebbe, d’altronde, circoscrivere il dialogo fra autorità visitante e detenuto al tema delle sue condizioni di vita carceraria, con esclusione di ogni divagazione su temi diversi (che possono magari essere di loro conforto)? E come è possibile distinguere il «dialogo» dal «vero e proprio colloquio» nel quale esso non dovrebbe trasformarsi? La realtà è che fra autorità visitante e carcerato, fra i quali è sicuramente consentito un contatto diretto e un dialogo (sia pure alla presenza del direttore o di un suo delegato), potrà instaurarsi un rapporto umano, un discorso, che potrà vertere su diversi temi, purché essi non siano specificamente vietati dalla legislazione carceraria o da altre leggi.

Tornando al caso dell’iniziativa dei due parlamentari in questione, quali potrebbero essere i divieti scaturenti dalla legge? La legislazione carceraria, abbiamo visto, vieta esplicitamente soltanto che il dialogo concerna processi in corso. In un generico invito a collaborare con lo Stato (se davvero soltanto questo è stato l’invito rivolto dai due parlamentari in questione ai mafiosi), è d’altronde individuabile, come è stato sostenuto da alcuni commentatori, un indebito straripamento della politica in un campo riservato all’autorità giudiziaria? Una indebita invasione di campo vi sarebbe sicuramente stata se i due parlamentari, entrando nel merito di qualche particolare processo, avessero cercato di convincere ad uno specifico e mirato pentimento. Ma se l’obbiettivo era, genericamente, di spingere qualche criminale di rango a collaborare con lo Stato, non comprendo quale violazione di «campo riservato» vi sarebbe mai stata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10422


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Anticorruzione una riforma senza scambi
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:21:02 pm
27/8/2012 - GIUSTIZIA

Anticorruzione una riforma senza scambi

CARLO FEDERICO GROSSO

Il ministro Severino, alla ripresa dei lavori del governo, ha fatto il punto sulle riforme possibili in materia di giustizia. Ancora una volta le idee del ministro mi sono sembrate in larga misura condivisibili: priorità assoluta allo smaltimento dei processi civili e alle norme anticorruzione, anche per rispondere positivamente alle sollecitazioni europee. Poi si vedrà.

Questa calendarizzazione mi sembra importante. Durata irragionevole dei processi civili e dilagare della corruzione costituiscono due piaghe che, unitamente alle lungaggini della burocrazia, contribuiscono a rendere l’Italia un luogo poco appetibile per le imprese e a danneggiare pertanto la sua economia. Non stupisce pertanto che siano individuate come priorità da un governo che si prefigge, appunto, il risanamento economico del Paese e la sua uscita dalla crisi, costituendo la durata eccessiva delle controversie civili e la corruzione oneri aggiuntivi molto pesanti per chi intende intraprendere un’attività imprenditoriale o commerciale.

I numeri della giustizia civile forniti ieri da «La Stampa» sono drammatici: cinque milioni e mezzo di processi pendenti al 30 giugno 2011, oltre quattro anni la durata media di un processo, 1032 giorni quella di un processo di appello.

Giusto, quindi, che il ministro annunci misure specifiche per contrastare il fenomeno: introduzione (già decisa) di un filtro per l’appello nei processi civili (che in prospettiva dovrebbe consentire di non accumulare eccessivi arretrati), una task force da dedicare alla trattazione dei processi pendenti (secondo una simulazione, ha rilevato il ministro, se si applicassero duecento persone a smaltire le cause in appello che sono in attesa di decisione da oltre tre anni, calcolando quarantamila sentenze l’anno, s’impiegherebbero cinque anni e mezzo per azzerare l’arretrato complessivo). Semmai, se possibile, le misure dovrebbero essere ancora più incisive.

Per altro verso, l’Europa sta aspettando da oltre dieci anni che l’Italia adempia agli obblighi internazionali assunti con la sottoscrizione dei trattati anticorruzione. Una legge perfettibile, ma tutto sommato ampiamente accettabile (anche se non è riuscita a risolvere adeguatamente tutti i problemi: ad esempio, quello della prescrizione dei reati), è stata approvata dalla Camera prima dell’estate e attende ora l’approvazione del Senato. Il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha, giustamente, ribadito che l’approvazione definitiva di tale ddl costituisce una priorità del governo. Ma esso riuscirà davvero a condurlo in porto, date le critiche concentriche, di segno contrapposto, che sono state rivolte sia da una parte consistente del Pdl sia dall’attuale opposizione? L’auspicio è che vi riesca, anche se le difficoltà (e i possibili costi) sono elevati.

Vale la pena di fare il punto della situazione per cercare d’individuare appunto difficoltà e rischi dell’iter prossimo venturo degli interventi legislativi in materia di giustizia. Il Pdl, critico nei confronti di alcuni profili importanti della legge anticorruzione (ha manifestato, ad esempio, contrarietà all’introduzione dei reati di corruzione fra privati e di traffico d’influenze illecite, e all’aumento generalizzato dei massimi delle pene, in quanto a suo dire esso allungherebbe eccessivamente i tempi della prescrizione), prima dell’estate aveva posto come condizione che in Senato si affrontassero insieme i temi della legge anticorruzione, delle intercettazioni e della responsabilità civile dei magistrati. L’obiettivo era evidente: affrontare insieme tutti i nodi sul tappeto avrebbe consentito di trattare con le altre forze politiche di maggioranza e con lo stesso governo possibili scambi, ed eventualmente ottenere soluzioni auspicate sull’uno o sull’altro fronte.

I rischi maggiori concernono la materia delle intercettazioni, sulla quale da anni governi e Parlamenti si stanno cimentando. E’ noto come il Pdl, ma anche frange non marginali del Pd, da anni cerchino di ridurre l’incisività delle indagini penali e d’imbavagliare l’informazione attraverso una drastica limitazione delle intercettazioni e un altrettanto drastico divieto di pubblicare atti delle indagini penali (ben al di là del ragionevole intento di evitare che persone estranee ai processi penali, casualmente intercettate, possano finire nel tritacarne massmediatico). Ebbene, preoccupa non poco che questo tema possa diventare oggetto di scambio con la normativa anticorruzione, magari utilizzando, come clava, lo spauracchio della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ufficialmente osteggiata dal Pd ma appoggiata dalla Lega.

Ecco perché una rigorosa calendarizzazione dei problemi, che non consenta improprie confusioni fra l’una e l’altra questione, mi sembrerebbe essenziale per una ragionevole ed ordinata loro soluzione (anche per, eventualmente, porre la fiducia sull’uno o sull’altro provvedimento). Il ministro, nell’intervista rilasciata ieri a «La Stampa», dopo avere precisato che costituisce valutazione comune dell’intero governo che la legge anticorruzione rappresenti una assoluta priorità, ha soggiunto che «i problemi tecnici sono, comunque, tutti ragionevolmente risolvibili» e che anche il tema delle intercettazioni «va risolto laicamente» e che in ogni caso «si è molto avanti, grazie anche al contributo del confronto svolto dai responsabili dei partiti della maggioranza».

Continuo a ritenere che sarebbe in ogni caso più tranquillizzante se il governo, rispettando le priorità che a dire del ministro esso stesso si sarebbe dato, procedesse senza tentennamenti lungo la strada indicata, senza rischiare pericolose commistioni fra problemi diversi e senza mescolare le urgenze (legge anticorruzione, accelerazione dei processi civili) con questioni che non sembrano proprio essere altrettanto urgenti per il bene del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10462


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Non aspettiamo che la sentenza sia definitiva
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2012, 06:40:08 pm
Editoriali
05/11/2012

Non aspettiamo che la sentenza sia definitiva

Carlo Federico Grosso


Secondo indiscrezioni, il governo starebbe lavorando alla stesura del decreto delegato sulla non candidabilità dei condannati definitivi;
l’intenzione sarebbe, addirittura, di approvare il nuovo testo legislativo in tempo utile già per le elezioni regionali di Lazio e Lombardia. 

Se la notizia fosse confermata e, soprattutto, se l’iniziativa avesse successo, si tratterebbe di una dimostrazione ulteriore di efficienza di questo esecutivo.

 

Sempre secondo le indiscrezioni ricevute, la non candidabilità conseguente alle condanne penali avrebbe natura temporanea. Essa riguarderebbe, in particolare, i soggetti condannati in via definitiva ad una pena di almeno due anni di reclusione, ed avrebbe una durata doppia rispetto alla condanna ricevuta: quattro anni di sospensione per una condanna a due anni di reclusione, sei anni di sospensione per una condanna a tre anni, e via dicendo. 

 

I reati/ostacolo ad una candidatura sarebbero stati individuati, sostanzialmente, nell’ambito di tre tipologie: quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p, quelli previsti dall’art. 51 comma 3 quater c.p.p., quelli previsti dal libro II, titolo II capo I c.p.
Si tratta, fondamentalmente, delle seguenti categorie di illeciti penali: a) di reati gravissimi di tipo associativo, come le associazioni a delinquere finalizzate a commettere reati attinenti alla schiavitù delle persone, alla contraffazione di marchi o brevetti, al traffico di stupefacenti e al contrabbando, o le associazioni di tipo mafioso, nonché di reati altrettanto gravi come il sequestro di persona a scopo di estorsione e la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone; b) di reati di terrorismo; c) di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. 

 

Che dire di fronte a queste indiscrezioni? Un giudizio esauriente sul decreto potrà essere espresso, ovviamente, soltanto quando ci si troverà di fronte ad un testo scritto in tutti i suoi dettagli. Già ora è tuttavia possibile formulare alcune valutazioni, talune sicuramente positive, altre ispirate ad una maggiore cautela.

 

Nulla da eccepire, innanzitutto, in merito all’indicazione, fra i reati la cui condanna è di ostacolo a una candidatura politica o amministrativa, dei reati associativi più gravi, degli ulteriori reati indicati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p. e dei reati di terrorismo. Perché, tuttavia, tali reati, e non altri reati «comuni» altrettanto, o addirittura più gravi? Qual è il criterio in forza del quale un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione non può presentarsi alle elezioni e può invece, ad esempio, presentarsi l’autore di una violenza o di un altro reato contro la persona?

 

Il profilo più qualificante del decreto riguarda peraltro, sicuramente, l’inclusione, fra i reati ostacolo ad una candidatura, di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Tutti, anche quelli meno gravi, come l’omissione di atti di ufficio o l’abuso di ufficio, e non soltanto il peculato, la concussione e la corruzione. Si tratta, mi sembra, di un doveroso, importante, completamento della legge anticorruzione recentemente approvata in via definitiva dal Parlamento (e che prevedeva appunto, nel suo testo, la delega al governo per la definizione delle cause d’incandidabilità).

 

Anche qui, tuttavia, una domanda è d’obbligo. Perché circoscrivere a condanne superiori a anni due di reclusione l’ostacolo a candidarsi?
Dato che i minimi edittali previsti nei confronti dei delitti contro la pubblica amministrazione non sono sempre elevati, e consentiranno frequenti condanne penali di minore entità, perché non abbassare quantomeno a un anno il livello delle condanne penali in grado di impedire di presentarsi alle elezioni? Dato che si tratta di reati commessi con abuso delle funzioni pubbliche esercitate, l’abuso mi sembrerebbe elemento di per sé in grado di impedire la sospensione temporanea del diritto di candidarsi.

 

Su un ulteriore profilo si potrebbe, infine, discutere: perché attendere, per applicare la sanzione d’incandidabilità, la sentenza definitiva, e non anticiparla invece al momento in cui viene pronunciata la sentenza di condanna di primo grado o quantomeno quella di secondo grado? Perché, mi si potrebbe rispondere, la Costituzione prevede che l’imputato deve essere presunto innocente fino alla condanna passata in giudicato, e, pertanto, fino a quel momento non lo si può ragionevolmente colpire con la limitazione di un suo diritto fondamentale. Accettiamo, nella prospettiva di questo giustificato garantismo, che le nostre assemblee elettive continuino ad essere, talvolta, zeppe di indagati e condannati di prima e di seconda istanza. Non potrebbero essere tuttavia, a questo punto, le stesse forze politiche ad autoregolamentarsi?

 

Al di là dei possibili rilievi, il testo che il governo si appresterebbe ad approvare costituisce comunque, rispetto alla situazione attuale, un grande passo avanti. Benissimo, pertanto, se esso verrà, come si prospetta, tempestivamente approvato. Che dire, tuttavia, se il governo cercasse di utilizzare gli ultimi scampoli di legislatura che l’attendono per fare approvare, magari con un decreto legge, quelle due/tre/quattro ulteriori innovazioni che renderebbero la legislazione anticorruzione davvero incisiva a tutto campo nei confronti della corruttela dilagante? 

 

Ci attendiamo dunque con ansia, dal ministro Severino, quantomeno i seguenti ulteriori provvedimenti, tutti, si badi, di agevole e rapida confezione: l’abrogazione della Cirielli (per restituire tempi ragionevoli alla prescrizione), la reintroduzione del falso in bilancio,
l’introduzione del delitto di autoriciclaggio, la riforma del voto di scambio. 

da - http://lastampa.it/2012/11/05/cultura/opinioni/editoriali/non-aspettiamo-che-la-sentenza-sia-definitiva-d1G8iMv8qVkwbgsiBDGWuM/pagina.html


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Caro Monti, non lasci sola Elsa Fornero
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:40:50 pm
Editoriali
14/11/2012

Caro Monti, non lasci sola Elsa Fornero

Gian Enrico Rusconi

Caro Presidente Monti, 

trovo incomprensibile il modo con cui Lei non reagisce ai continui indecenti attacchi contro il Suo ministro del lavoro, Elsa Fornero.
Suppongo che Lei in realtà lo abbia fatto. Ma nella comunicazione pubblica del nostro paese – come Lei ha perfettamente imparato – esiste solo ciò che si impone con prepotenza nel sistema dei media.

E mi aspettavo che lei alzasse la voce : «Chi insulta il ministro Fornero, insulta il presidente del Consiglio». Se Lei lo pensa, deve dirlo forte. Non mi fraintenda, caro Presidente. Non sto parlando dell’esasperazione delle manifestazioni pubbliche delle opinioni nel nostro paese, ma di una situazione particolare più insidiosa che cerco ora di precisare. I Suoi sostenitori, dentro e fuori il Paese, lodano l’intervento sulle pensioni e alcune misure sul lavoro come l’operazione più riuscita (forse l’unica – si spinge a dire qualcuno). Non entro nel merito di questo giudizio che credo Lei condivida. Ma anche nel caso la considerassi invece un’operazione sbagliata, iniqua o inefficace trovo inaccettabile e indecente il diverso «trattamento pubblico» riservato ai reponsabili della politica sociale che sono in solido il Presidente e il ministro. Eppure persino i competitors nelle primarie del centrosinistra hanno di fatto avallato di fronte ai loro virtuali elettori questa separazione di trattamento. 

Caro Presidente, tolga la sgradevole sensazione che ci sia un ministro parafulmine (più volgarmente sfogatoio) per le responsabilità di governo che - come tutte le persone oneste riconoscono – sono straordinariamente impegnative.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/caro-monti-non-lasci-sola-elsa-fornero-yTKKW9kiAI28jmBy8KpyiP/pagina.html


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Sallusti, se mancano politica e buonsenso
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2012, 05:35:08 pm
Editoriali
02/12/2012

Sallusti, se mancano politica e buonsenso

Carlo Federico Grosso


Come era prevedibile, il caso Sallusti è esploso ancora una volta. 

I fatti pregressi sono noti. Il direttore de «Il Giornale» era stato condannato alla reclusione per un reato di diffamazione commesso dal suo giornale; i giornalisti ed una parte dell’opinione pubblica aveva reagito duramente a tale condanna, giudicando assurdo usare la galera contro giornalisti e direttori ed invocando l’abolizione del carcere per la diffamazione; il Parlamento, al quale la soluzione del problema era stata affidata, non era tuttavia riuscito a trovare una soluzione condivisa, e si era avvitato in una inconcludente, quanto avvilente, sequenza di polemiche e di proposte inaccettabili. Conclusione, il blocco di qualunque decisione.

Scaduti i trenta giorni concessi per l’esecuzione della sentenza di condanna, era giocoforza che la Procura della Repubblica di Milano si muovesse. Ed essa, per contenere l’impatto esterno che l’esecuzione carceraria avrebbe provocato, ha cercato di circoscrivere i disagi, chiedendo che la reclusione fosse tramutata in arresti domiciliari (richiesta accolta dal giudice) e concedendo tutte le «libertà» ragionevolmente concedibili dato il contesto (uso del telefono, nessuna preclusione alle visite, due «ore d’aria» giornaliere, e via dicendo). 

 

Tutti sapevano, tuttavia, che Sallusti da giorni andava dicendo che mai avrebbe accettato il compromesso dei domiciliari e che, se si doveva eseguire la sentenza, essa doveva essere eseguita in carcere come avevano disposto i giudici di appello e cassazione. Una provocazione, evidentemente. Una provocazione, peraltro, assolutamente legittima da parte di chi giudicava un insulto alla libertà di stampa usare il carcere per reprimere la diffamazione ed un insulto alla intelligenza il modo scomposto con il quale il Parlamento non era riuscito a risolvere il problema di una ragionevole riforma dei delitti di diffamazione e ingiuria.

Ulteriore provocazione è stata avere atteso i poliziotti «esecutori» barricandosi nel giornale (nella cui sede aveva addirittura passato l’ultima notte di libertà), ed obbligandoli pertanto ad eseguire l’arresto nel luogo «sacrale» dell’esercizio della funzione giornalistica. Simbolicamente, un ulteriore insulto alla libertà di stampa, un po’ come, un tempo, veniva considerato un insulto alla religione ed alla pietà procedere all’arresto nei templi e nelle chiese. 

 

Detto questo, qualche parola di commento sul comportamento dei magistrati. Già in altra occasione, su questo stesso giornale, ho considerato irragionevole, se pure consentito dalla legge, condannare alla reclusione i giornalisti che hanno commesso diffamazione e, soprattutto, i direttori che, per colpa, hanno omesso di controllare il contenuto del giornale (è comunque un fatto, ho pure osservato, che le sentenze di condanna alla reclusione in materia di diffamazione a mezzo stampa si contano sulle dita di una mano, e che, normalmente, i giudici, quando ritengono esistente il reato di diffamazione, condannano, ragionevolmente, alla pena pecuniaria).

 

Nessuna questione, invece, su quanto i magistrati hanno fatto nella fase della esecuzione della sentenza. Di fronte ad un Parlamento che, si pensava, si stava muovendo per risolvere il problema con una opportuna riforma di legislazione, essi hanno, giustamente, procrastinato l’esecuzione della sentenza di condanna per tutto il tempo che la legge concedeva loro. 

 

Esaurito questo tempo, essi hanno dovuto, ovviamente, agire; ma, sempre nei limiti previsti dalla legge, hanno cercato di mitigare l’asprezza dell’esecuzione concedendo domiciliari e benefici. Quando poi, condotto coattivamente al domicilio prestabilito, Sallusti è, provocatoriamente, e per suscitare scandalo, subito uscito in strada abbandonando il luogo dove si trovava «ristretto», è scattato, inesorabile, l’arresto in flagranza. E non poteva essere altrimenti. Formalmente il condannato aveva commesso il delitto di evasione (che si applica anche a chi, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato, se ne allontani), la flagranza imponeva l’arresto ed il processo per direttissima. Sallusti è stato quindi legittimamente (e doverosamente) riarrestato e condotto in Tribunale per i prescritti adempimenti procedurali e dovrà affrontare, di qui a poco, il processo per il nuovo reato compiuto.

 

A questo punto la giustizia seguirà il suo corso (vedremo come). La palla torna tuttavia a questo punto, inesorabilmente, al Parlamento. E vedremo allora se, di fronte ad una situazione per certi versi grottesca, ma per altri versi drammatica, avranno ancora il coraggio di baloccarsi, fra diatribe e rancori, nell’affrontare una riforma che logica vorrebbe semplice e facile: abolizione del carcere per i giornalisti e previsione di pene esclusivamente pecuniarie, possibilmente nel quadro di un processo affidato a percorsi privilegiati, dato che la vittima ha davvero ristoro soltanto se, oltre a ricevere un giusto risarcimento dei danni subiti, la condanna del diffamatore avviene in tempi non troppo lontani dalla offesa perpetrata. 

http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/sallusti-se-mancano-politica-e-buonsenso-oq9oL4dvV0zePUcTWk3yjP/pagina.html


Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO. Sentenza a futura memoria
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:51:41 pm
Editoriali
19/07/2014


Carlo Federico Grosso

La sentenza della Corte di Appello di Milano che, ribaltando di 360 gradi la sentenza di primo grado, ha assolto ieri Berlusconi con formula piena non può non sconcertare la gente comune. Sconcerta per il fatto in sé, in quanto difficilmente la gente può concepire che due collegi giudicanti possano valutare gli atti di uno stesso processo in modo così antitetico; sconcerta, soprattutto, stante la personalità del soggetto interessato, che dato il suo passato e il suo presente politico avrebbe avuto diritto, sempre, prima come dopo, alla massima prudenza da parte degli organi di giustizia.

In realtà, noi esperti di vicende giudiziarie, sappiano che ribaltamenti delle decisioni possono accadere, e si sono verificati numerose volte. La stessa circostanza che la legge preveda la possibilità di appellare una sentenza di primo grado, e, ulteriormente, di ricorrere in cassazione contro quella di secondo grado, presuppone, logicamente, l’eventualità del ripensamento. E proprio perché, in astratto, è sicuramente bene che più giudici diversi siano chiamati a valutare le situazioni delicate che, frequentemente, caratterizzano i processi penali, io ho sempre paventato che l’esigenza di ridurre i tempi dei processi potesse indurre qualche sprovveduto a suggerire di abbreviarli tagliando sul terreno delle impugnazioni. Perderemmo, in questo modo, una fetta importante di garanzia.

Ma veniamo al processo Berlusconi. In primo grado egli era stato condannato per concussione perché avrebbe «costretto» un funzionario di polizia a consegnare Ruby ad una persona alla quale essa, minorenne, non avrebbe potuto essere consegnata, e per prostituzione minorile perché avrebbe avuto consapevolmente rapporti sessuali con una minorenne. La Corte di Appello ieri ha assolto l’imputato dalla prima imputazione «perché il fatto non sussiste», dalla seconda imputazione «perché il fatto non costituisce reato». Non conosciamo, al momento, le motivazioni della decisione. Dalle formule assolutorie rispettivamente usate dalla Corte possiamo tuttavia intuire quale può essere stato il ragionamento che ha condotto alla decisione.

Si assolve «per insussistenza del fatto» – lo lascia intendere lo stesso significato linguistico delle parole – quando si ritiene che il reato contestato non esista, che, in altre parole, i fatti che si addebitano non concretino una condotta penalmente rilevante. Si assolve «perché il fatto non costituisce reato» quando si ritiene invece che il «fatto» sia stato commesso, ma che l’imputato non sia punibile per altra causa, ad esempio perché ha agito in buonafede (senza dolo), o perché era presente una causa di non punibilità (ha ucciso per difendersi). Le due formule, rispettivamente usate dalla Corte di Appello con riferimento ai due capi d’imputazione a carico di Berlusconi, possono pertanto fornirci qualche idea su ciò che è stato deciso in camera di consiglio.

La concussione «non sussiste», è stato decretato. Ciò significa che secondo i giudici l’intervento di Berlusconi, nella famosa serata nella quale egli si è messo in contatto con la Questura di Milano, inviando la fida Minetti a recuperare la ragazza trattenuta in un ufficio di polizia, non ha avuto alcuna valenza «costrittiva» (violenza o minaccia), come esige invece l’art. 317 c.p. che prevede il delitto di concussione (riconosciuto esistente dal giudice di primo grado). 

La Corte, esclusa la «costrizione», avrebbe potuto comunque riconoscere l’esistenza di una «induzione indebita» rilevante ai sensi del nuovo art. 319 quater c.p. (si tratta del reato previsto dalla c,d, riforma Severino, nel quale è stata fatta confluire l’originaria concussione per induzione, che con riferimento alla posizione dell’induttore – salva la pena minore – è assolutamente identico alla fattispecie originaria di concussione per induzione, e risultava pertanto, in astratto, sicuramente applicabile nel caso di specie). Si vede che la Corte, escluso che nel comportamento di Berlusconi fossero rinvenibili profili di minaccia, ha escluso altresì che vi si potessero rinvenire profili di semplice induzione di soggetti pubblici a compiere alcunché d’illecito. 

Diverso è il caso della prostituzione minorile. La formula assolutoria impiegata sembra lasciare arguire – vedremo, leggendo le motivazioni, se sarà davvero questo il ragionamento seguito – che la Corte di Appello abbia ritenuto che il «fatto», cioè la relazione dell’imputato con la giovane ragazza, vi sia stato. Che tale relazione non costituisca tuttavia reato (verosimilmente) perché mancava il dolo, cioè la percezione della minore età della sua partner da parte dell’attore maschile.

Il processo, d’altro canto, non è comunque ancora definitivamente risolto a favore di Berlusconi, perché la Procura Generale di Milano, che aveva chiesto la conferma della durissima condanna di primo grado, ed è uscita pesantemente sconfitta dal processo di appello, potrà pur sempre ricorrere in cassazione, aprendo in questo modo un’ulteriore, altrettanto drammatica, fase giudiziaria a carico dell’ex Presidente del Consiglio. 

La sentenza appena pronunciata innesca d’altronde, su altri fronti, una serie di ulteriori interrogativi giudiziari. Che cosa accadrà, ad esempio, del processo Ruby bis, che, pure, si era concluso con pesanti condanne degli imputati da parte del giudice di primo grado? Che cosa accadrà dell’indagine aperta a seguito della trasmissione, da parte del Tribunale di Milano alla locale Procura della Repubblica, di atti dai quali, a suo giudizio, emergerebbero episodi di falsa testimonianza di testi ascoltati in udienza e d’impulso a rendere falsa testimonianza addirittura da parte di alcuni legali?

 In teoria, l’assoluzione pronunciata ieri potrebbe essere ininfluente nei confronti di tali diversi processi, essendo essi affidati alle prove emergenti, o non emergenti, dai loro rispettivi atti (ad esempio, se dovesse risultare confermato il «fatto», sia pure non punibile, di prostituzione minorile, le asserite false testimonianze relative a ciò che sarebbe accaduto, o non accaduto, nel corso delle «serate eleganti» di Arcore non risulterebbero, certo, automaticamente cancellate).

L’impressione, tuttavia, è che al di là di questo o di quel particolare, dopo la sentenza di ieri nulla sarà più come prima. Inevitabilmente essa darà una scossa, farà affrontare i futuri processi Berlusconi – che pendono davanti a diverse sedi giudiziarie, Napoli e Bari oltre che Milano – in una prospettiva assolutamente «altra». 

Rispetto alla sentenza d’appello di ieri l’auspicio è, comunque, che essa abbia costituito davvero, e soltanto, come dovrebbe essere, il risultato di una scelta compiuta in coscienza, autonomia e libertà da parte di giudici onesti e trasparenti e che su di essa non abbia in nessun modo interferito l’annoso problema dei rapporti fra politica e giustizia.

Da - http://lastampa.it/2014/07/19/cultura/opinioni/editoriali/sentenza-a-futura-memoria-6cVk4kmtFIpXOgJyDjzWOI/pagina.html