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Autore Discussione: CARLO FEDERICO GROSSO.  (Letto 44703 volte)
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« inserito:: Ottobre 07, 2007, 11:55:03 am »

7/10/2007
 
Se giudici e politici ormai pari sono
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
C’è analogia fra il clima politico del 1992 e quello del 2007, fra i tempi di Mani Pulite e l’antipolitica di oggi. Vi sono, tuttavia, alcune rilevanti differenze. Allora non tutto il mondo politico era travolto dall’ira popolare e c’era comunque una speranza di uscita democratica dalla degenerazione. Oggi tutti i partiti sembrano invece coinvolti nel discredito; una via d’uscita dalla crisi sembra pertanto molto più difficile. Si salvano, per il loro prestigio personale o istituzionale, talune grandi personalità, come il Capo dello Stato. Si assiste, d’altro canto, al successo popolare dell’antipolitico per eccellenza. Di quel Grillo, comico di professione, che sta cavalcando gli umori ancestrali della gente contro il potere ufficiale. Per altro verso, mentre all’epoca di Mani Pulite c’era una fiducia senza tentennamenti nel potere giudiziario e una procura della Repubblica che dettava l’agenda del Paese, oggi quella fiducia nella magistratura si è in larga misura sfrangiata. La gente è più avveduta, distingue, talvolta critica apertamente. Sicuramente non è più propensa a credere ciecamente alle iniziative giudiziarie. Al contrario, diffida della giustizia.

C’è inoltre una crisi in molti elettori di sinistra. Una parte di essi riteneva che con l’avvento del governo Prodi le tensioni fra politica e giustizia sarebbero scomparse. Alcune cose sono sicuramente cambiate: ad esempio, non ha più costituito intento dichiarato della politica porre limiti alla libertà di indagine, è cessato l’attacco sistematico al mondo giudiziario. Tuttavia, non si è giunti all’idillio. Le leggi vergogna non sono state abrogate, le risorse per il funzionamento della macchina giudiziaria non sono state reperite, il rapporto fra mondo politico e mondo giudiziario continua ad essere complicato. Lo dimostrano le iniziative e le accese discussioni di questi giorni.

Quali reazioni si sono, a loro volta, sviluppate contro l’antipolitica dilagante? C’è stato un grande agitarsi sui temi della riduzione del numero dei parlamentari, del contenimento dei consigli di amministrazione e dei consiglieri comunali e regionali, della riduzione delle prebende e dei privilegi, delle auto blu. È davvero sufficiente per riacquistare consensi? O ci vuole, a questo punto, ben altro?

Veniamo alle vicende che hanno infiammato i palazzi in quest’ultima settimana. Com’è noto, giorni fa Mastella, sulla base dei risultati di un’ispezione ministeriale, aveva chiesto al Csm di trasferire in via cautelare dal suo ufficio il pubblico ministero calabrese De Magistris, che sta conducendo importanti indagini penali che coinvolgono personalità politiche di rilievo fra cui il presidente del Consiglio. La ragione di tale iniziativa sarebbe individuabile in un’asserita sua incompatibilità ambientale e nella commissione di atti abnormi nell’esercizio della funzione giudiziaria.

Non conoscendo gli atti, non sono in grado di esprimere giudizi sulla vicenda. Posso soltanto manifestare un generico stupore di fronte alla peculiarità dell’iniziativa del ministro e alle conseguenze che essa rischia di produrre sul terreno delle inchieste calabresi in corso. Attendo comunque le valutazioni del Csm, confidando che le procedure siano state regolari e che non si sia inteso colpire un magistrato scomodo chiedendo un trasferimento non giustificato. L’iniziativa disciplinare assunta nei confronti di De Magistris era, comunque, destinata a suscitare reazioni. Esse si sono puntualmente manifestate, addirittura al di là di quanto era prevedibile. La televisione ha contribuito a enfatizzarle oltre misura. Si è, fra l’altro, assistito a inaccettabili giustizie sommarie televisive celebrate sull’onda della pressione popolare e alla sorprendente apparizione sul video di magistrati pronti a partecipare, sorridenti, allo spettacolo. È giusto che i magistrati, se indebitamente attaccati, si difendano. Vi sono tuttavia luoghi e modi a ciò deputati. Non ritengo che sia opportuno che qualcuno di essi si precipiti in televisione, coccolato dal conduttore e applaudito dagli spettatori, parli di se stesso e del coraggio con il quale difende legalità e diritti dei cittadini, di come contrasta le illegalità dello Stato e degli altri poteri, di come sia di conseguenza attaccato, ostacolato, delegittimato.

Per altro verso, un magistrato che, presentandosi a una trasmissione televisiva, accarezza i sentimenti già accesi della gente, solletica gli istinti e le rabbie degli ascoltatori, cerca il consenso popolare, è un magistrato che rischia di non giovare neppure alla categoria cui appartiene. Diventa un Masaniello, una caricatura, finisce per identificarsi pericolosamente con Grillo, si trasforma in una parodia. Se si trattasse, d’altronde, di una mera operazione di promozione della propria immagine sulla pelle dei cittadini amministrati, per cercare, magari, visibilità utile per altre avventure, la circostanza sarebbe altrettanto grave.

Ecco perché, come dicevo all’inizio, oggi il contesto nel quale ci ritroviamo è peggiore di quello del ’92. Allora c’era una Repubblica al tramonto, ma c’era speranza nel riscatto della politica, c’era fiducia nell’attività taumaturgica, moralmente ineccepibile, del potere giudiziario, c’era la certezza di uscirne in qualche modo. Oggi c’è una classe politica allo sbando, delegittimata nel suo insieme dai cittadini ma, anche, una magistratura che non sempre sembra all’altezza dei suoi compiti, che pare aver perso talvolta contezza del suo ruolo, che troppo spesso pasticcia. C’è, dunque, una Repubblica doppiamente infranta.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Dicembre 08, 2008, 10:08:12 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 17, 2007, 03:53:59 pm »

17/12/2007 - INTERCETTAZIONI
 
La casta al telefono
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Poiché non conosco gli atti del processo di Napoli, non sono in grado di valutare se Berlusconi abbia o no commesso corruzione o istigazione alla corruzione di uno o più senatori. Posso peraltro affermare che, in astratto, la corruzione consiste nel dare o promettere denaro o altra utilità a un pubblico ufficiale perché compia un atto di ufficio o un atto contrario ai doveri di ufficio.

Posso soggiungere che un senatore il quale esprime un voto a favore o contro un governo in carica compie, verosimilmente, un atto del suo ufficio. Posso pertanto concludere che dare o promettere vantaggi privati ad un parlamentare perché voti in un modo piuttosto che in un altro costituisce corruzione o, se l’invito non è accolto, istigazione alla corruzione. L’espressione di voto da parte di un parlamentare è, d’altronde, atto discrezionale. Ciò significa che all’eventuale compravendita di voti si applica la disciplina elaborata in materia di atti discrezionali: se il parlamentare, per effetto della dazione o della promessa di denaro o di altri vantaggi, ha votato diversamente da come avrebbe fatto se non fosse stato corrotto, la sua condotta integra addirittura la forma più grave di corruzione, quella per atti contrari ai doveri di ufficio. Né si può in qualche modo sostenere che l’accettare denaro o altra utilità per esercitare in un modo piuttosto che in un altro la funzione è coperta dall’immunità parlamentare, trattandosi d’ipotesi estranea all’ambito di operatività di tale istituto.

A questo punto, al di là delle polemiche strumentali e degli attacchi alla Procura della Repubblica di Napoli innescati dopo l’esplosione pubblica della questione Berlusconi, non resta che attendere che la magistratura accerti definitivamente con serietà ciò che è realmente accaduto. È oltretutto grande interesse dei cittadini venire a sapere se c’è stata o non c’è stata corruzione o tentata corruzione di senatori, poiché si tratta di una vicenda che coinvolge addirittura il capo del maggior partito d’opposizione. Il tema dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di questo tipo costituisce d’altronde un ulteriore nodo di grande rilievo politico e giuridico.

Nei giorni scorsi, appena la notizia dell’indagine napoletana è stata improvvisamente pubblicizzata da la Repubblica, si è ancora una volta - com’era accaduto per Unipol - assistito a un balletto corale del mondo politico in materia di intercettazioni telefoniche, libertà di stampa, diritto dei cittadini a essere informati. Quasi tutti d’accordo, senza distinzione di colore o di casacca: le intercettazioni telefoniche costituiscono un rischio d’indebita interferenza nella vita privata e occorre pertanto circoscriverle, la loro pubblicazione costituisce indebita violazione della privacy, è giunto il momento di porre finalmente un freno alla licenza dilagante dei giornalisti approvando una legge restrittiva in materia di intercettazioni e di loro pubblicazione. Essa in realtà è già stata scritta, pende in Parlamento. Basta avere il coraggio di approvarla. Avanti tutta, allora.

Una tristezza. La legislazione vigente pone vincoli di segretezza su determinati atti d’indagine penale; tali vincoli non sono stabiliti nell’interesse dei singoli, ma dell’ordinato esercizio dell’attività giudiziaria, che non può rischiare di essere turbata da fughe di notizie. La legge prevede, ulteriormente, vincoli di segretezza nell’interesse della riservatezza e della libertà dei soggetti. Anch’essi sono vincoli sacrosanti, che rispondono all’esigenza di non vedere processati in piazza fatti di natura esclusivamente personale. Tali vincoli devono essere tuttavia bilanciati con l’esigenza, altrettanto forte, d’informare la gente su circostanze, anche private, che hanno comunque un interesse pubblico. In questa prospettiva, maggiore è l’esposizione pubblica di una persona, più elevata diventa la possibilità che le notizie che lo riguardano assumano una dimensione di interesse pubblico, come, appunto, quelle che concernono i parlamentari, i ministri, i sindaci, in genere i politici.

Nel complesso si tratta di una buona legislazione, che cerca di contemperare con equilibrio esigenze contrapposte. Perché allora cambiarla, con il rischio di limitare la libertà di stampa? Nel caso della ventilata compravendita di senatori da parte di Berlusconi, divulgare la notizia dell’inchiesta prima della caduta del segreto investigativo non era sicuramente consentito; se qualcuno l’ha fatto, ne risponderà, giustamente, davanti al giudice. Una volta caduto il segreto, pubblicare tale notizia, in tutti i suoi particolari, comprese le intercettazioni, costituiva invece esercizio del sacrosanto diritto/dovere d’informare la gente su vicende di rilievo concernenti un importante personaggio politico. Guai se, domani, non fosse più possibile farlo, o anche soltanto se farlo dovesse risultare in qualche modo più difficile o rischioso. A tutti noi interessa infatti sapere se Berlusconi, o un altro qualsiasi eletto dal popolo, ha davvero commesso fatti ostituenti illecito penale o comunque accadimento moralmente riprovevole.

Al di là delle possibili iniziative del mondo politico in materia di segreti o quant’altro, c’è un profilo che induce a ottimismo: che un bravo giornalista, quando acquisisce una notizia riscontrata d’interesse pubblico, inevitabilmente la diffonde.

Diciamolo forte: è un garanzia per la democrazia.

 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 25, 2008, 11:28:06 pm »

25/7/2008
 
Di male minore in male minore
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
La maggioranza targata Berlusconi ha fatto nuovamente tombola. D’un colpo solo ha approvato definitivamente il lodo Alfano sull’immunità del presidente del Consiglio e il decreto sicurezza. Una dimostrazione indiscutibile di forza e, nel contempo, di capacità di operare. Terminato il primo round, dichiarazioni bellicose annunciano che a settembre s’inizierà la sistemazione definitiva del capitolo giustizia. Alla luce di quanto è accaduto nei primi mesi di governo, è verosimile pensare che anche in questo caso Berlusconi potrebbe fare centro. Se dovesse proseguire con le stesse modalità con le quali ha agito fino ad ora, per giustizia e Stato di diritto potrebbe essere, tuttavia, il disastro.

Nella fase riformatrice che si è appena conclusa la maggioranza parlamentare ha sparato altissimo. Per salvare Berlusconi dall’incalzare dei suoi procedimenti penali, essa ha dapprima deciso d’inserire nel decreto sicurezza l’emendamento blocca processi: per fermare i suoi processi, prevedeva di bloccare, nella sostanza, una porzione cospicua di giustizia italiana. Contemporaneamente, il Guardasigilli ha predisposto un rinnovato lodo Schifani diretto a coprire d’immunità le quattro più alte cariche dello Stato senza incorrere, per quanto possibile, nelle censure espresse a suo tempo dalla Corte Costituzionale. Il nuovo lodo è stato immediatamente approvato dal Consiglio dei ministri e trasmesso al Parlamento per l’approvazione.

A questo punto, con la mediazione preziosa del Capo dello Stato, si è raggiunto un compromesso. L’emendamento blocca processi è stato sostituito con un nuovo emendamento meno sconvolgente. Il lodo Alfano, pur giudicato anch’esso illegittimo da numerosi autorevoli costituzionalisti, ha avuto disco verde in Parlamento ed è stato velocemente approvato dalla maggioranza parlamentare e quindi promulgato dal Presidente della Repubblica. Male minore, hanno osservato molti commentatori. Di fronte all’esigenza, giudicata imprescindibile dalla maggioranza di governo, di bloccare per la durata della carica i processi penali del presidente del Consiglio, si è quantomeno evitato di rinviare assurdamente migliaia di altri processi penali.

Stabilito di cancellare l’emendamento blocca processi, non più necessario per salvaguardare Berlusconi, la maggioranza non ha, per altro verso, preso la decisione più ragionevole: eliminarlo e basta. Ha sostituito l’emendamento originario con un nuovo, più circoscritto, provvedimento di sospensione discrezionale di alcuni processi. Gli osservatori più attenti hanno subito rilevato che, nella sua specifica configurazione, anche il nuovo emendamento avrebbe rischiato di creare non pochi inconvenienti all’ordinato esercizio della giurisdizione. Comunque, anche in questo caso, male minore, hanno osservato numerosi commentatori. L’importante era che fosse spazzato l’obbrobrio del salva processi originario.

In questi giorni si è cominciato a discutere in commissione Giustizia della Camera il disegno di legge sulle intercettazioni. Si tratta di un provvedimento che contiene una novità importante: l’obbligo di espungere dagli atti processuali le intercettazioni che riguardano terzi estranei ai processi e il divieto della loro pubblicazione. Un’esigenza sacrosanta, diretta a evitare abusi nei confronti della privatezza delle persone. Nel contempo, tale provvedimento prevede peraltro novità preoccupanti, come il totale divieto di pubblicare notizie concernenti indagini penali in corso e la previsione di pesanti pene detentive nei confronti dei giornalisti, con buona pace del diritto-dovere di informare e del controllo popolare sull’esercizio dell’attività investigativa. Ieri sono apparsi sui giornali cauti segnali d’apertura, in materia, da parte di taluni esponenti politici: non più divieto totale d’informare, non più galera per i giornalisti; semmai, semplici restrizioni e, soltanto, forti sanzioni pecuniarie per gli editori in caso d’infrazione. Poiché pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori sono, in ogni caso, inevitabilmente destinate a provocare rilevanti turbative sulla libertà di stampa, dovremo, ancora una volta, acconciarci a commentare che, fortunatamente, è stato garantito il minor male possibile data la temperie del momento?

Di mediazione in mediazione, il quadro delle riforme compiute o in gestazione in questo primo spicchio di legislazione è comunque desolante. Si è trasformato il presidente del Consiglio in una sorta di Principe liberato, sia pure a termine, dalle normali, doverose, responsabilità giudiziarie per i fatti dei quali è accusato. Si è introdotto un meccanismo inutile, se non addirittura nocivo, di sospensione facoltativa dei processi di primo grado concernenti i reati minori. Con la nuova disciplina delle intercettazioni si rischia di turbare, in un modo o nell’altro, l’esercizio della libertà di stampa.

Ecco perché, di fronte alle baldanzose dichiarazioni sulla ventilata riforma d’ottobre della giustizia italiana, vi sono motivi di grande preoccupazione.

Non vorrei che Berlusconi, nella sua radicata volontà di ribaltare i rapporti di forza fra i poteri dello Stato, sparasse nuovamente più in alto possibile, per addivenire poi, nel quadro di una mediazione resa artatamente necessaria, a risultati che costituiscono comunque un male, sia pure minore di quello paventato. Sarebbe, come dicevo, il disastro per la giustizia e per lo Stato di diritto.

A questo punto non credo che le pur utili mediazioni realizzate fino ad oggi potrebbero più essere d’aiuto.

Nessuna copertura, nessun salvacondotto potrebbe più essere accettato o condiviso.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 05, 2008, 10:54:26 am »

5/9/2008
 
Dopotutto, auguri ad Alfano
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
A un importante seminario sulla giustizia organizzato a Roma dall’Udc, il ministro Alfano, intervenendo nella discussione, ha assunto una posizione di grande equilibrio. Era la prima volta che egli esponeva pubblicamente le sue intenzioni in tema di riforma complessiva della giustizia.

Fra gli oppositori dell’attuale maggioranza politica c’era una certa apprensione per ciò che egli avrebbe annunciato. Creavano infatti timori e preoccupazioni le infauste precedenti iniziative del governo, volte ad assicurare l’immunità penale al presidente del Consiglio.

Ele frequenti dichiarazioni dello stesso presidente su possibili interventi di natura costituzionale in materia di processo e di ordinamento giudiziario. La proposta del ministro, nel metodo, è stata invece ineccepibile.

Egli ha osservato che la giustizia è una delle grandi emergenze del Paese: otto milioni di processi pendenti e ritardi di anni nella soluzione delle controversie costituiscono un’urgenza ineludibile. Di qui la grande sfida che ci attende: una riforma che sappia restituire tempi ragionevoli e certezza ai processi civili e penali, ponendo il cittadino al centro dell’azione riformatrice. «Metterò pertanto innanzitutto in cantiere - ha affermato - la riforma della giustizia civile, ormai al limite della denegata giustizia; affronterò subito dopo i problemi del processo penale, imponendo ritmi più serrati, semplificando il sistema dei reati, restituendo certezza alla pena; mi occuperò infine del tema della detenzione, cercando di privilegiare in ogni modo la strada delle sanzioni alternative e dell’esecuzione penale fuori dal carcere».

Quanto ai temi di rilevanza costituzionale, quali l’obbligatorietà dell’azione penale, la struttura ed i poteri del Csm, la separazione delle carriere, sui quali v’è stata, ancora di recente, polemica tra le forze politiche, egli ha garantito che non avrebbe forzato i tempi di un’eventuale riforma. Essa, se necessario, sarebbe stata affrontata a tempo debito e con le dovute cautele, cercando comunque il confronto e la maggiore condivisione possibile.

Poiché, in quel convegno, mi è toccato di prendere la parola subito dopo il ministro, non ho esitato ad esprimere il mio apprezzamento per quanto avevo appena ascoltato. E l’ho fatto con convinzione. Forse le parole pronunciate dal Guardasigilli erano troppo generiche e lasciavano pertanto aperti molti interrogativi, forse nascondevano le reali intenzioni del governo sulla ridefinizione, nel lungo periodo, dei rapporti di forza tra i poteri dello Stato. Era comunque importante, mi pareva, che il ministro, anziché minacciare sfracelli immediati come si poteva paventare, mostrasse moderazione e, soprattutto, metodo condivisibile nell’indicare modalità, obbiettivi e priorità di intervento.

Davvero tutto bene, dunque? Sicuramente meglio di quanto si poteva temere. Le preoccupazioni, comunque, permangono. Ne accennerò alcune. Mi domando, prima di tutto, che cosa accadrebbe se il presidente del Consiglio tornasse a dettare l’agenda in materia di giustizia, chiedendo interventi immediati e radicali diretti a stravolgere gli equilibri di potere fra politica e magistratura come aveva fatto a fine luglio. Che farebbe il ministro, saprebbe proseguire sulla linea di saggezza che ha tracciato ieri l’altro o sarebbe costretto ad allinearsi? E se decidesse di non allinearsi, che cosa accadrebbe?

Ancora, quale opposizione di fronte alle proposte della maggioranza? Un’opposizione dura alla Di Pietro? Un’opposizione ragionata caso per caso? La ricerca di un’intesa, nella speranza di riuscire a condizionare comunque in qualche modo la maggioranza? E fino a che punto cercare accordi o condivisioni? La prima opzione mi sembrerebbe una scelta comunque sciagurata. Negli altri casi, nella condizione dell’attuale opposizione, trovare il giusto equilibrio potrebbe essere peraltro non sempre facile.

Ma torniamo al tema dal quale sono partito. Il ministro, come ho riferito, ha fornito le sue, apprezzabili, indicazioni di metodo in materia di riforma della giustizia. Se il metodo indicato verrà rispettato, al momento della pubblicazione dei relativi disegni di legge si potrà giudicare il merito delle proposte concretamente formulate. Ottenere i risultati prefissi, data la condizione attuale della giustizia, sarà comunque molto difficile. Sarà tanto più difficile se le riforme delle leggi e dell’organizzazione degli uffici giudiziari, in controtendenza rispetto alle scelte operate dalla legge finanziaria, non saranno sostenute da adeguati investimenti.

Ministro Alfano, comunque auguri. Spero davvero che lei, con i suoi collaboratori, riesca a confezionare con abilità gli ingredienti necessari ad una riforma efficace dell’ordinario sistema della giustizia civile e penale, senza stravolgere gli equilibri costituzionali e senza introdurre normative inutilmente punitive per l’ordine giudiziario. Sarebbe un grande servizio per il Paese e sarei il primo a rallegrarmi per il suo successo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 14, 2008, 05:12:43 pm »

14/11/2008
 
Il diritto di dire basta
 

CARLO FEDERICO GROSSO
 

Per il Vaticano interrompere l’alimentazione artificiale di Eluana Englaro costituisce omicidio doloso, addirittura un assassinio: lo ha dichiarato ieri l’altro il cardinale Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute. E ieri sera mons. Fisichella commentava: «È eutanasia di fatto e di diritto». La Cassazione, un anno fa, aveva valutato diversamente. Con un’importante interpretazione della legislazione vigente, aveva affermato che, a determinate condizioni, sospendere la somministrazione artificiale di sostanze vitali a una persona che si trova in stato vegetativo irreversibile costituisce esercizio legittimo di un diritto. È pacifico che ogni persona capace d’intendere e di volere ha il diritto di rifiutare le cure mediche e di lasciarsi morire.

Lo si ricava dalle norme costituzionali (artt. 2, 13, 32 Cost.), dalle fonti giuridiche soprannazionali (Convenzione di Oviedo e Carta dei diritti fondamentali dell’Ue), dalla giurisprudenza ben salda della Corte di Cassazione in materia di consenso informato quale condizione di liceità dell’intervento medico. Ciò significa che ognuno di noi ha la facoltà di rifiutare una terapia in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale: si tratta dell’esercizio di un diritto fondamentale di libertà. Né si può sostenere che il rifiuto consapevole delle cure, quando conduca alla morte, costituisca un’ipotesi di eutanasia: tale rifiuto esprime, semplicemente, la libera scelta del malato che la malattia segua il suo decorso naturale.

Il problema, a questo punto, è stabilire quale sia la regola applicabile ove il malato non sia in grado di manifestare la sua volontà. La Cassazione, un anno fa, ha stabilito che può decidere il tutore. Se una persona è portata in stato di incoscienza a un pronto soccorso, il medico deve subito effettuare gli interventi urgenti imposti dal migliore interesse terapeutico. Superata l’urgenza, si ripropone peraltro la problematica del consenso informato: il medico che spiega, il paziente che decide, questa volta attraverso la volontà espressa dal suo tutore, soggetto al quale il codice civile riconosce rappresentanza anche con riferimento alla sfera degli interessi non patrimoniali.

Il carattere personalissimo del diritto alla salute impedisce tuttavia che al rappresentante legale possano essere trasferiti poteri incondizionati. Il tutore dovrà decidere, ha stabilito la Cassazione, non «al posto» del malato, ma «insieme a lui», ricostruendo la presunta volontà del paziente inconsapevole tenendo conto dei desideri da lui espressi quando era cosciente ovvero desumendo la sua volontà, dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori, dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali. Di qui l’importante principio di diritto enunciato. In caso di malato incapace tenuto artificialmente in vita, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio sanitario, ma unicamente quando sia provato con certezza che lo stato vegetativo è irreversibile e che la richiesta d’interruzione da parte del rappresentante legale corrisponde alla presumibile volontà del paziente. In applicazione di questo principio di diritto la Corte d’Appello di Milano, alla quale la Cassazione aveva rinviato la causa per la decisione di merito, verificata l’esistenza dei menzionati presupposti, a metà 2008 ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione artificiale di Eluana Englaro.

Questa decisione potrà essere condivisa, potrà essere criticata. Si tratta, in ogni caso, di un’importante operazione interpretativa «per principi» della legislazione italiana con la quale la Cassazione, in assenza di una regolamentazione specifica del testamento biologico, ha desunto la regola di giudizio applicabile attraverso un’attenta ricostruzione dei principi costituzionali, della giurisprudenza pregressa in tema di consenso informato, delle norme di diritto soprannazionale in materia.

In questo contesto, parlare d’illegittima autorizzazione all’omicidio mi sembra, quantomeno, indice di scarso rispetto per le istituzioni giudiziarie che hanno valutato e deciso. Non ho, d’altronde, mai dubitato che la suprema magistratura italiana non si sarebbe lasciata condizionare da pressioni esterne. La decisione di ieri, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Milano, conferma la libertà di giudizio dei nostri alti magistrati; ma, soprattutto, ha il grande merito di porre fine a una questione dalla grandissima rilevanza umana e sociale, sancendo il primato della libertà di decidere sulla volontà di proteggere a tutti i costi una vita in condizione vegetativa irreversibile, che non è più, propriamente, vita umana meritevole di ogni protezione giuridica.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:26:49 am »

20/11/2008
 
Ministro, evitiamo quella prova
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Sul disegno di legge Alfano in materia di sospensione condizionale della pena e di «messa in prova» il governo sembra in affanno. Il provvedimento avrebbe dovuto essere approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Esponenti della Lega e di An l’hanno bloccato. Il progetto intendeva introdurre nel nostro ordinamento giuridico due rilevanti novità: una significativa innovazione della disciplina della sospensione condizionale della pena (e di altri benefici), l’introduzione dell’istituto della «messa in prova». A quanto si è appreso, con la prima novità si sarebbe inteso subordinare l’applicazione della sospensione della pena a una prestazione onerosa da parte del condannato che, grazie alla concessione del beneficio, evitava il carcere.

Oggi è previsto che, nel pronunciare una sentenza di condanna a una pena detentiva per un tempo non superiore a due anni, il giudice possa ordinare che l’esecuzione penale rimanga sospesa per cinque anni; se in tale periodo il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa specie, il reato è estinto. Nonostante che il codice penale disponga che il beneficio possa essere concesso soltanto quando il giudice «presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati», e che possa essere subordinato a determinati adempimenti (ad esempio, al risarcimento del danno cagionato alla vittima del reato), nella prassi la sospensione condizionale è venuta, pian piano, ad assumere quasi la veste di un diritto (gratuito) che non si nega a nessuno che sia condannato, per la prima volta, a una pena non superiore a due anni. In questi termini, è diventato quasi uno scandalo.

Ebbene, il ministro, giustamente, avrebbe inteso incidere su questa prassi non accettabile. Eliminando la gratuità del beneficio, e prevedendo che esso potesse venire concesso soltanto previo l’impegno a lavorare gratis a favore della collettività, si sarebbe reso sicuramente più rigoroso il sistema penale. Un segnale di maggiore severità che avrebbe inevitabilmente giovato alla serietà complessiva del nostro ordinamento giuridico. Per altro verso il ministro Alfano, riesumando un vecchio progetto di Mastella, ha previsto che ogni delinquente potesse giovarsi di un istituto per ora ipotizzato soltanto nei confronti dei minori. Secondo la nuova disciplina prevista, chi, incensurato, è sottoposto a un processo penale con l’accusa d’aver commesso un reato punito con una pena non superiore, nel massimo, a quattro anni di reclusione, può chiedere d’«essere messo alla prova» con obbligo di prestazione di lavoro utile non retribuito per un periodo determinato. Nel caso di tale richiesta, il processo può essere sospeso e la «messa in prova» concessa. Se nel periodo stabilito il soggetto messo alla prova non commette altri reati, e non infrange gli adempimenti previsti, il reato si estingue.

Capisco la ratio di tale provvedimento. Come si ricava dalla lettura della relazione che lo accompagna, in una prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative alla detenzione s’intende accentuare il principio secondo cui l’accesso al circuito carcerario deve costituire l’extrema ratio di esecuzione penale. Nello stesso tempo, poiché, nonostante l’indulto di due anni fa, esiste nuovamente, com’era prevedibile, un problema di sovraffollamento carcerario, si può sperare che, attraverso quest’ampliamento della sanzione alternativa, meno soggetti varchino le porte degli istituti di reclusione.

Come si concilia, tuttavia, questa prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative, con il rigore penale ripetutamente dichiarato, e talvolta praticato, dall’attuale compagine governativa? Com’è possibile che una maggioranza politica che ha fatto della sicurezza dei cittadini e della repressione inflessibile dei delinquenti una bandiera, improvvisamente si acconci a rinunciare al carcere nei confronti di centinaia di autori di reati, ancorché incensurati? Per altro verso, il ministro è davvero sicuro che il nuovo istituto della «messa in prova» contribuirebbe in modo decisivo a evitare il collasso «per affollamento» delle nostre carceri?

Nei commenti a caldo apparsi ieri sulla stampa è stata, soprattutto, criticata la grandissima estensione della messa in prova. Data l’elevazione della pena massima considerata rispetto a quella ipotizzata dal precedente progetto Mastella (addirittura quattro anni rispetto agli originari due), il nuovo istituto consentirebbe di evitare la condanna alla reclusione, e di estinguere agevolmente il reato, a quanti commettono una massa enorme di illeciti penali: furto semplice, corruzione per un atto d’ufficio, abuso d’ufficio, falso in bilancio, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, corruzione di minorenni, frode in commercio, reati urbanistici, reati ambientali, reati fiscali. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Si capisce, a questo punto, perché Lega ed An hanno bloccato il disegno di legge. Ho tuttavia l’impressione che chiunque abbia a cuore il ripristino d’un minimo di certezza nella pena e di effettivo rigore sanzionatorio non potrebbe apprezzare. Prima di tentare improvvide, settoriali, fughe in avanti, si pensi a un’articolata, organica, razionale, rivisitazione complessiva del sistema dei reati e delle pene.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 27, 2008, 03:49:36 pm »

27/11/2008
 
Assassino chi guida drogato
 

CARLO FEDERICO GROSSO

 
Il Tribunale di Roma ha condannato ieri a dieci anni di reclusione per il reato di omicidio doloso Stefano Lucidi, che il 22 maggio scorso, conducendo drogato l’auto di suo padre, aveva investito e ucciso due ragazzi che viaggiavano su di un motorino. Si tratta di una sentenza di grande rilievo giuridico: è la prima volta, infatti, che un giudice riconosce una responsabilità penale dolosa a carico di chi cagiona la morte guidando in stato di ebbrezza o sotto l’azione di sostanze stupefacenti.

La morte dei due ragazzi non è stata evidentemente, in questo caso, voluta da chi ha ucciso. Il giudice, riconoscendo la sussistenza del dolo eventuale, ha ritenuto tuttavia che Lucidi, essendosi messo volontariamente alla guida di un’automobile in condizioni psichiche alterate, ha, nel caso specifico, accettato il rischio di uccidere qualcuno: valutando che chi si ubriaca o si droga, e poi inizia a guidare, può mettere in conto il pericolo derivante dalle sue menomate capacità di controllo. E se lo mette in conto, non può che rispondere di omicidio doloso.

Tale decisione, in questo senso, è impeccabile, poiché, secondo le regole del nostro codice penale, chi agisce accettando il rischio che dalla sua azione scaturiscano eventi dannosi deve comunque rispondere a titolo di dolo, e non di colpa.

La sentenza è tanto più significativa se si considera che l’imputazione per omicidio doloso nel caso di specie era stata configurata dal pubblico ministero fin dall’inizio dell’indagine, ma era stata trasformata in imputazione per omicidio colposo dal giudice delle indagini preliminari al quale era stata chiesta la convalida dell'arresto. Evidentemente il pubblico ministero ha insistito nella sua impostazione giuridica e, finalmente, un giudice, quello del giudizio, gli ha dato ragione.

Fino ad ora le resistenze da parte della magistratura ad applicare la regola del dolo eventuale in casi di incidenti stradali erano state molto forti. Numerosi Procuratori della Repubblica, in ipotesi di morti cagionate da ubriachi o drogati, avevano evitato di contestare il dolo eventuale, accontentandosi dell'imputazione per omicidio colposo, temendo di non essere in grado di riuscire a dimostrare nel dibattimento che c’era stata, da parte di chi ha guidato in condizione di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, l’effettiva percezione del rischio. O che, in ogni caso, il giudice avrebbe rifiutato la configurazione delittuosa più grave.

La decisione di ieri del Tribunale di Roma ha fatto giustizia di questa, più comoda, e magari psicologicamente più tranquillante, consuetudine giudiziaria. Una valutazione esauriente delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la decisione presa ieri a Roma potrà essere fatta soltanto dopo la lettura delle motivazioni. Fin da ora si può tuttavia rilevare che il giudice ha, evidentemente, ritenuto che nel caso di specie, date le specifiche modalità con le quali il fatto è stato realizzato e la personalità dell’autore, costui ha concretamente percepito la situazione di pericolo che cagionava, ed ha pertanto accettato il relativo rischio. Si tenga presente che, secondo quanto emerge dalle notizie di cronaca, non sarebbe stata la prima volta che il giovane in questione aveva avuto incidenti, che al momento del fatto non possedeva la patente, che gli era stato contestato il passaggio ad un semaforo rosso ad alta velocità.

La sentenza appare d’altronde tanto più significativa se si considera che il Parlamento, con il decreto sicurezza approvato quest’anno, proprio per garantire una repressione più forte di chi uccide guidando in condizione di ubriachezza o sotto l'azione della droga, ha specificamente previsto l'omicidio colposo commesso «con violazione delle norme sulla circolazione stradale, da un soggetto in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti»; e lo ha punito, anziché con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni come avviene normalmente nelle ipotesi di omicidio colposo, con quella assai più grave della reclusione da tre a dieci anni.

Evidentemente il giudice di Roma, nel caso di Stefano Lucidi, non si è accontentato di questa tipologia di reato e di questa dimensione sanzionatoria (si badi che, avendo chiesto il giudizio abbreviato, il condannato godeva automaticamente della riduzione di un terzo della pena irrogata). Di fronte alle particolarità del fatto ed alle caratteristiche dell’autore, ha ritenuto di dovere comunque riscontrare la fattispecie delittuosa più grave dell'omicidio doloso. Come ha sottolineato l’avvocato delle parti civili, questa sentenza costituisce un giusto monito per coloro che hanno perso il senso della loro vita ed il rispetto della vita altrui.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 30, 2008, 10:48:07 pm »

30/11/2008
 
Perché crollano le scuole
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Un terzo delle scuole non è in regola con le prescrizioni sulla sicurezza stabilite dalla legge n. 626. Per metterle a norma sono necessari 10 miliardi di euro, forse 13. Lo ha dichiarato il sottosegretario Bertolaso in Parlamento.

È emerso altresì che dall’anno in cui è entrata in vigore la 626, le istituzioni competenti in materia di sicurezza nelle scuole ogni anno hanno prorogato la vecchia disciplina. La ragione: non ci sono i denari necessari per metterle in regola. Ciò significa che dal 1994 le norme che sono state giudicate indispensabili per la prevenzione possono essere «legalmente» infrante nei luoghi dove operano quotidianamente bambini e ragazzi. Un Paese da Terzo Mondo.

Ora, dopo che è accaduto un grave disastro, dopo che presidi allarmati denunciano pubblicamente le carenze e minacciano di chiudere le loro scuole, le risorse necessarie saranno reperite? Bertolaso ha detto: 10 miliardi costituiscono un miraggio, si può, forse, pensare di reperirne 4 indispensabili per intervenire quantomeno nelle zone a rischio sismico. Non è il massimo, ma quantomeno si cominci subito con i primi interventi e si programmino quelli successivi.

Quanto tempo sarà tuttavia necessario anche soltanto per individuare i casi urgenti, approvare i progetti, reperire i denari, realizzare le priorità? E quanto per rendere sicuro l’intero universo edilizio? Conoscendo la durata degli appalti pubblici, non oso pensarlo. Intanto, le situazioni d’insicurezza riscontrate continueranno a pesare sul capo di alunni ed insegnanti. E le corrispondenti situazioni di responsabilità, su chi peseranno?

Anche quest’ultimo non è problema di poco conto. Quando si palesa una condizione di pericolo, e non è possibile eliminarla con tempestività perché mancano le risorse o sono necessari tempi tecnici per l’esecuzione dei lavori, si pone, sempre, un problema di possibile responsabilità giuridica. O si chiude la scuola, si blocca la sala operatoria insicura, si chiude la fabbrica o, se si ritiene che il costo umano o sociale del blocco sia troppo elevato, si prosegue nelle normali attività cercando, attraverso opportune cautele, di ridurre al minimo i rischi. Qual è, peraltro, il «rischio minimo consentito», al di là del quale s’impone comunque la chiusura, e se non si chiude si risponde degli incidenti che dovessero verificarsi?

Stabilirlo è sempre difficile. In ogni caso, se si verifica un disastro, sarà il giudice a valutare dopo i fatti, a bocce ferme, secondo i suoi criteri. Chi si è trovato nella necessità di decidere, in un senso o nell’altro, rischierà comunque un processo, qualunque sia stata la sua scelta. In caso di prosecuzione dell’attività, per il disastro colposo che si sia verificato; in caso di blocco, per interruzione di un pubblico servizio, ove le ragioni della chiusura non dovessero risultare giustificate. Una situazione sommamente ingiusta.

Il presidente dell’associazione presidi, intervistato da La Stampa, ha descritto in questo modo la situazione. Ogni anno ognuno di noi è tenuto a presentare una mappa dei rischi ed a formulare le richieste di manutenzione. Ogni anno, sindaci e presidenti di Provincia, disponendo di budget insufficienti, sono peraltro costretti a scegliere gli interventi più urgenti. Noi - ha concluso - abbiamo di conseguenza imparato a convivere «con situazioni di rischio relativo», in quanto «una rigidità eccessiva nell’applicazione delle norme sulla sicurezza comporterebbe la chiusura di molte scuole». Ma se hanno fatto tutto il possibile per fronteggiare la situazione, se si sono dannati l’anima per trovare fondi e risorse, perché dovrebbero rischiare quantomeno onore e denaro affrontando un processo penale per omissione di intervento?

E poi, quali sono, davvero, gli interventi doverosi se, come si è visto, attraverso il sistema delle proroghe si è addirittura legalizzata, nel mondo scolastico, l’infrazione di ciò che si ritiene comunemente indispensabile per assicurare la sicurezza?

Le responsabilità sono ben altre. Sono le responsabilità degli autori di eventuali negligenze clamorose (presidi, assessori, funzionari, quant’altri avrebbero dovuto intervenire o sono intervenuti male), di errori nell’esecuzione dei lavori, d’inerzie senza giustificazione; o di chi, dovendo usare i denari pubblici con scienza e coscienza, ha compiuto frodi, truffe, malversazioni, ruberie.

Che dire, d’altronde, di coloro che, investiti a livello nazionale di responsabilità di governo, non hanno predisposto strumenti, risorse, mezzi, programmi, consentendo che il patrimonio edilizio degradasse e diventasse, sovente, un pericolo per chi vi lavora? In questi giorni si mormora che in Friuli il 51% degli edifici sarebbe privo di agibilità, in Lombardia addirittura il 70%. C’è un’evidente responsabilità politica. Ma non si potrebbe intravedere, pure, qualche profilo di responsabilità giuridica?

Il rischio è, tuttavia, ancora un altro. Quando scoppia uno scandalo la gente discute, dileggia, recrimina, denuncia. Passata la buriana cala, di solito, il silenzio. Quando la questione sicurezza nelle scuole scomparirà dalle pagine dei giornali, temo che scomparirà anche il problema, e presidi, assessori, responsabili tecnici torneranno a dover fare i loro difficili conti quotidiani con le risorse insufficienti e la mancanza di programmazione nazionale. Fino al prossimo disastro, al prossimo funerale.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:45:13 am »

5/12/2008
 
Il colle e l'oscuro groviglio
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
La situazione è senza precedenti: per il groviglio delle competenze interessate, per l’importanza della posta in gioco, per i possibili risvolti politici, soprattutto per il rischio di perdita di credibilità delle istituzioni giudiziarie.

L’altro ieri avevamo letto, con stupore misto ad interesse, dell’iniziativa della Procura della Repubblica di Salerno nei confronti dei colleghi di Catanzaro, indiziati per un asserito complotto organizzato contro De Magistris. Il sospetto di tale Procura era che taluni magistrati e taluni politici lo avessero ordito contro il giovane sostituto procuratore allo scopo di bloccare, o deviare, alcune inchieste che coinvolgevano personaggi eccellenti. Soltanto la convinzione della Procura salernitana poteva d’altronde giustificare la gravità dell’accusa e la spettacolarità, anche mediatica, dell’iniziativa.

Ieri le contromosse di Catanzaro. La Procura Generale di tale sede giudiziaria ha reagito, indagando a sua volta i colleghi di Salerno per abuso di ufficio ed interruzione di un pubblico servizio, e disponendo il sequestro dello stesso materiale sequestrato il giorno precedente da Salerno. Una iniziativa a sua volta sconcertante.

Tanto più sconcertante, se si considera che Procura competente a valutare i reati commessi da magistrati di Salerno non è quella di Catanzaro, bensì quella di Napoli.

Non è possibile stabilire, al momento, chi ha ragione e chi ha torto. Non si conoscono infatti gli atti d’indagine compiuti dai magistrati che hanno ereditato i processi di De Magistris, gli atti delle indagini compiute dalla Procura di Salerno, le motivazioni delle accuse di abuso e interruzione di servizio pubblico elevate dalla Procura generale di Catanzaro. D’altronde quand’anche si fosse in grado di conoscere tali atti, orientarsi non sarebbe agevole.

Bene hanno fatto, pertanto, il Consiglio superiore della magistratura e il Guardasigilli, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni, ad intervenire immediatamente. Bene ha fatto, soprattutto, il Presidente della Repubblica, interpellato dal Procuratore generale di Catanzaro, a non sottrarsi alla richiesta di fare chiarezza.

L’intervento del Capo dello Stato merita un’attenzione assolutamente particolare. Giorgio Napolitano ha chiesto, in un primo tempo, al Procuratore della Repubblica di Salerno «l’urgente trasmissione di ogni notizia e atto utile a meglio conoscere una vicenda che, a prescindere dal merito, presenta aspetti di eccezionalità con rilevanti implicazioni di carattere istituzionale, prima fra tutte quella di determinare la paralisi della funzione processuale». In un secondo tempo, appresa la menzionata reazione della Procura generale di Catanzaro, ha chiesto a sua volta a tale Procura notizie utili a valutare ciò che stava accadendo.

Tale iniziativa del Presidente della Repubblica non appartiene all’ambito delle sue competenze codificate. Assunta in qualità di supremo garante della legalità e dei diritti di tutti i cittadini, appare comunque, in un momento di così grave tensione e difficoltà, assolutamente apprezzabile per la forza e la tempestività del segnale offerto.

Una ultima riflessione. I prossimi giorni consentiranno, forse, di comprendere meglio il significato di ciò che è accaduto e di formulare le prime valutazioni di merito. Al momento è in ogni caso necessario auspicare con forza che nessuno mediti di utilizzare quest’ultimo, assai poco encomiabile, episodio di guerra fra Procure, per cercare di imporre, in qualche modo, un bavaglio all’esercizio dell’attività giudiziaria.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 08, 2008, 10:05:34 am »

8/12/2008 - GIUSTIZIA E POLITICA
 
La voglia di regolare i conti
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Le Procure di Salerno e di Catanzaro, dovunque stiano ragione e torto, dalle vicende di questi ultimi giorni escono a pezzi. In realtà, è la stessa magistratura italiana, nel suo insieme, a uscirne con un’immagine fortemente incrinata.

In passato era accaduto più d’una volta di assistere a polemiche roventi fra magistrati o di essere chiamati a dirimere conflitti più o meno aspri. Non era peraltro mai accaduto di assistere a un contrasto tanto duro, anche nella forma. Non è sicuramente consueto che decine di sostituti procuratori e carabinieri eseguano perquisizioni e sequestri penetrando in massa negli uffici e nelle abitazioni private di altri magistrati. Non è usuale che magistrati inquisiti reagiscano a loro volta indagando gli avversari e procedendo al sequestro degli stessi atti processuali loro sequestrati. A tacer d’altro, i procuratori di Catanzaro, essendo parte lesa degli asseriti reati compiuti a loro danno, avrebbero dovuto astenersi da ogni attività giudiziaria e investire della questione la Procura competente (Napoli o Roma).

Come abbiamo letto nelle cronache di ieri, Consiglio superiore della magistratura e Guardasigilli, dopo l’inusuale, ma necessario, intervento del Presidente della Repubblica di giovedì scorso, si sono mossi con tempestività: il primo convocando a Palazzo dei Marescialli i due capi degli uffici interessati e aprendo nei confronti di entrambi una procedura di trasferimento, il secondo sguinzagliando i suoi ispettori a Salerno e Catanzaro per acquisire notizie e cercare di avere chiarezza. Ieri vi sono state lodi sperticate per tanta speditezza. A me sembra che si sia compiuto, soltanto, ciò che era necessario fare, poiché, nella situazione, qualunque ritardo sarebbe stato inimmaginabile. D’altronde, vi ricordate con quanta rapidità, e quanta intransigenza, all’inizio di questa vicenda l’allora ministro della giustizia Mastella e il Consiglio Superiore si erano mossi nei confronti di De Magistris?

Le indagini su quanto è accaduto si dipaneranno secondo le competenze di ciascun ufficio interessato e secondo le regole stabilite dall’ordinamento giudiziario. Al di là della soluzione delle questioni di merito, le vicende di questi ultimi giorni hanno rivelato che vi sono pezzi della magistratura fortemente malati. Queste malattie, queste deviazioni, devono essere estirpate con la massima urgenza. Mi auguro che l’ordine giudiziario sia in grado di trovare al suo interno gli strumenti per realizzare le correzioni necessarie e restituire serenità e trasparenza a ogni settore di giustizia.

La preoccupazione maggiore, oggi, è comunque un’altra. Da tempo settori importanti della politica stanno scaldando i muscoli contro la magistratura. Non è in gioco, si afferma, la libertà dei magistrati di esercitare la giurisdizione; è in gioco l’abnorme interferenza che l’ordine giudiziario si arrogherebbe sul terreno dell’esercizio del potere. È qui che bisogna intervenire, si sostiene, modificando la struttura del Consiglio Superiore (più rappresentanti dei partiti, meno magistrati); spezzando in due tronconi il Consiglio in modo da indebolire entrambi; rendendo autonoma la polizia dai pubblici ministeri e stemperando pertanto il loro potere; magari attenuando l’obbligatorietà dell’azione penale e facendola dipendere, in qualche modo, anche dal governo.

Non vorrei che, a questo punto, il contesto di guerra fra Procure fornisca alla politica la grande occasione per giungere finalmente là dove, fino ad ora, non sono riusciti affondi decisivi. Leggiamo le più recenti dichiarazioni rilasciate da esponenti politici di primo piano dell’una e dell’altra sponda. Il ministro Alfano ha affermato giovedì scorso che, di fronte allo sfacelo, occorre porre urgentemente mano alle riforme costituzionali e ha chiesto all’uopo il contributo dell’opposizione. Massimo D’Alema in persona, il giorno dopo, ha dichiarato che, in effetti, è giunto il momento di occuparsi con serietà del problema dell’organizzazione costituzionale della giustizia italiana. Ha chiuso il cerchio ieri, in un’intervista alla Stampa, Niccolò Ghedini, appena sbarcato a New York per il grande ponte: gli americani non riescono a capire per quale ragione i giudici, da noi, hanno tanto potere al di fuori di ogni verifica democratica; ora tocca pertanto, necessariamente, alla giustizia essere raggiunta da riforme forti; ben venga, se ci sarà, il contributo dell’opposizione.

Ce n’è abbastanza per essere preoccupati. Quando erano soltanto Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori a elaborare una riforma punitiva del mondo giudiziario, si poteva temere, ma anche sperare nelle resistenze degli altri. Quando hanno cominciato qua e là ad abbozzare anche esponenti dell’attuale opposizione, si è cominciato a essere sorpresi. Oggi non si è più soltanto sorpresi. C’è il timore che, di fronte a inchieste giudiziarie che coinvolgono esponenti di ogni partito, si decida di regolare i conti una volta per tutte, risolvendo in questo modo i problemi giudiziari presenti e futuri.

È ciò che, francamente, non dovrebbe accadere. Se lo Stato ha stabilito che non si deve rubare, o non si deve prevaricare, nessuno deve essere legittimato a rubare o prevaricare, si tratti di un cittadino comune o di un esponente politico. In entrambi i casi la magistratura deve essere libera di intervenire, senza lacci, impedimenti, autorizzazioni. Questo, si badi, è, semplicemente, rispetto per la legalità, non è questione di potere.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 19, 2008, 06:49:28 pm »

19/12/2008
 
Tolleranza zero
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
I botti giudiziari di questi ultimi giorni, che hanno coinvolto esponenti di rilievo del Partito democratico, hanno aperto una rilevante questione politica. L’esistenza di tale questione non cancella tuttavia la contemporanea esistenza di una questione morale e di una questione giudiziaria.

La grande novità è che al centro della questione morale si trova, oggi, il principale partito di opposizione. Questione morale nella politica significa, innanzitutto, predisposizione di meccanismi adeguati di selezione del personale dei partiti e di controllo del loro operato, idonei a prevenire prevaricazioni, favoritismi, interessi privati, ruberie. In altre parole, trasparenza nella scelta dei dirigenti e dei candidati, nella gestione degli appalti, nel finanziamento dei partiti, nell’approccio con il mondo dell’imprenditoria e della finanza. Nella consapevolezza che, sebbene la maggioranza degli amministratori pubblici sia costituita da persone che svolgono con onestà il loro lavoro, è sufficiente anche un solo scandalo per gettare nel discredito l’intera categoria. Figurarsi se gli scandali si ripetono a ritmo quasi quotidiano.

Questione morale nell’emergenza significa, in secondo luogo, segnale forte di pulizia. Le inchieste penali avranno il loro corso, oggi non è consentito considerare nessuno degli inquisiti un colpevole, prima di formulare giudizi definitivi occorre sicuramente attendere l’esito delle indagini e dei processi. Sul piano politico, peraltro, non c’è tempo per aspettare. Un partito non può rimanere inerte settimane o mesi. Con la dovuta ponderazione, deve comunque intervenire con iniziative in grado di rimuovere ogni ragione di sospetto. Senza condanne anticipate irrevocabili, ma anche senza indulgente tolleranza, deve sapere rimuovere, estirpare, potare.

A che cosa serve, per altro verso, avere le mani candide, se la testa era comunque girata dall’altra parte, e pertanto non ha visto, non si è accorta, non ha impedito? Non è una circostanza comunque censurabile? L’efficienza, la capacità, la soluzione dei problemi della gente, la selezione dei collaboratori, sono parte integrante della buona politica, e pertanto, in certo senso, della stessa questione morale.

A fianco della questione morale si pone d’altronde con altrettanta forza, oggi, la questione giudiziaria, con una differenza, peraltro, rispetto a quanto accadeva, alcuni anni or sono, ai tempi di Mani pulite. Allora, nei più, c’era la convinzione di sapere dove stavano i buoni e dove stavano i cattivi. I buoni, nell’immaginario collettivo, erano sicuramente i magistrati che controllavano la legalità dei comportamenti pubblici, i cattivi erano invece annidati nei partiti che gestivano la politica in spregio della legge penale e civile. Era una certezza, forse illusoria, ma sicuramente tranquillante. Oggi questa fiducia è in certa misura svanita. Troppe inchieste, troppe lotte, troppi contrasti, troppi coinvolgimenti hanno rivelato che pezzi minoritari, ma importanti, dell’ordine giudiziario sono stati collusi, coinvolti, partecipi, sono diventati parte integrante di un sistema di potere trasversale.

Cionondimeno, oggi più che mai il potere giudiziario dev’essere difeso, quantomeno sul terreno dei principi. Qualche giorno fa ho denunciato su questo giornale il pericolo che la guerra, sicuramente non esaltante, che si è scatenata fra le procure di Salerno e di Catanzaro fornisse al potere politico, contraddistinto da inusitate convergenze, la grande occasione per sferrare l’affondo decisivo contro l’indipendenza del potere giudiziario e l’iniziativa del pubblico ministero. Oggi, dopo i blitz degli ultimi giorni, le preoccupazioni inevitabilmente si allargano. C’è il rischio che porzioni consistenti del maggior partito d’opposizione, colpito duramente dalle indagini penali dei giorni scorsi, si ribellino, cercando la rivincita decisiva sul terreno di una riforma della giustizia punitiva nei confronti dei magistrati concordata con la maggioranza.

Che una riforma incisiva della giustizia civile e penale sia indispensabile nell’interesse dei cittadini è fuori discussione. Che sia altresì necessario assicurare regole certe per evitare arbitrii nell’esercizio dell’attività giudiziaria è altrettanto fuori discussione. La riforma non deve tuttavia incidere, direttamente o indirettamente, sul potere della magistratura di iniziare liberamente indagini penali, di condurre processi, di pronunciare sentenze. I temi caldi sono, d’altronde, sempre gli stessi: obbligatorietà dell’azione penale, rapporti fra pubblico ministero e polizia, autonomia e poteri del Consiglio superiore della magistratura, ripartizione dei poteri all’interno del Consiglio, intercettazioni telefoniche e ambientali. L’altro ieri il Presidente della Repubblica, nell’incontro con le alte cariche dello Stato, ha auspicato ancora una volta riforme condivise, accennando, in materia di giustizia, a problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti fra politica e magistratura, a misure volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, a rischi di arbitrio e conflitti nell’esercizio della giurisdizione. Ben vengano i moniti, anche severi, del Capo dello Stato, supremo garante della legalità del Paese. Siamo infatti certi che il Presidente saprà salvaguardare fino in fondo i principi fondamentali dello Stato di diritto e della divisione dei poteri dello Stato.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 27, 2008, 10:01:30 am »

27/12/2008
 
Riequilibrio dei poteri
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

Catanzaro, Salerno, Pescara: tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario, tre Procure che, con modalità diverse, hanno reso un servizio pessimo all’immagine dell’ordine giudiziario. Poiché non si tratta di casi isolati di scarsa avvedutezza, un problema «magistratura» nel nostro Paese indubbiamente esiste. Si tratta di stabilire come affrontarlo.

Da tempo una parte della politica sta affilando le armi contro i magistrati poiché, sostiene, occorre riequilibrare i rapporti di potere fra giustizia e politica, sbilanciati a favore della prima. È ora di farla finita, si precisa, con una magistratura senza controlli, in grado d’interferire pesantemente sulla politica e capace di fare e disfare amministrazioni e governi con il gioco delle inchieste giudiziarie. È accaduto ai tempi di Mani pulite, ora basta. Quest’idea affiora oggi, talvolta, anche tra le file della sinistra. Non si tratta, ancora, di linee politiche ufficiali. Tutt’altro: ufficialmente a sinistra si nega e si rifiuta. Il rischio, peraltro, è che in un quadro politico contraddistinto da una maggioranza apparentemente granitica e da una minoranza divisa e disorientata, la prospettiva di un’ampia impunità degli atti politici attraverso il parziale controllo di indagini e indagatori possa fare improvvisamente breccia e trovare il suo sbocco in una sorta di autoassoluzione collettiva.

La posta in gioco è rilevante. Sono in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, la divisione dei poteri, l’eguaglianza dei cittadini. Essa appare, d’altronde, tanto più rilevante ove si consideri che, contemporaneamente, si vocifera di modificazioni dei regolamenti parlamentari o di riforme costituzionali destinate a rafforzare l’esecutivo rispetto a un Parlamento giudicato un intralcio per un’efficiente azione di governo. Già oggi, d’altronde, attraverso l’impiego ripetuto del voto di fiducia, l’esecutivo cerca di troncare il dibattito parlamentare eludendo la normale dialettica con l’opposizione, mentre soltanto la resistenza del Presidente della Repubblica evita che la decretazione d’urgenza diventi strumento sistematico di produzione legislativa. Qualcuno, giorni fa, ha parlato di tenace ricerca di un potere sostanzialmente unico, del governo e del suo capo.

Ma torniamo al tema giustizia. C’è un nodo fondamentale attorno al quale occorre riflettere: che il politico, come ogni altro cittadino, deve essere soggetto alla legge e non può godere di odiosi privilegi. Un ministro che ruba, un presidente di Regione che prevarica, un sindaco che accetta indebitamente denaro deve essere punito, come deve essere punito chi scippa, rapina, violenta. Anzi, se una ruberia è commessa da un eletto, la giustizia dovrebbe essere inflessibile, in quanto l’autore ha tradito la fiducia che gli è stata riconosciuta con il voto.

In questa prospettiva, parlare di riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura, di conseguente limitazione delle indagini nei confronti degli eletti, di selezione politica dei reati annualmente perseguibili, di sottrazione ai pubblici ministeri del controllo della polizia, di limitazione nell’uso di strumenti fondamentali come le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione è del tutto privo di senso. In realtà, occorrerebbe rivedere la stessa disciplina dell’autorizzazione alle misure cautelari nei confronti dei parlamentari, che una prassi lassista tende a dilatare rispetto ai limiti stabiliti del fumus persecutionis.

Per altro verso, occorre invece reprimere gli arbitrii, gli eccessi, gli errori, le arroganze dei magistrati. Non è tollerabile che l’incapacità, l’inadeguatezza, la scarsa avvedutezza di qualcuno, la sua sicumera, la ricerca di visibilità, magari la stupidità, consentano eventuali aperture improprie di indagini penali, una loro prosecuzione non giustificata, iniziative improvvide sul terreno cautelare. Questo problema non concerne tuttavia, specificamente, il rapporto fra giustizia e politica; interessa tutti i cittadini, che, appunto tutti, hanno il diritto di non essere trascinati in procedimenti penali avventati, in giudizi non sufficientemente ponderati, in iniziative esorbitanti.

Ecco, allora, l’indubbia necessità di un intervento riequilibratore. Esso non deve essere, tuttavia, riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra esercizio del potere giudiziario e diritto di tutti i cittadini a una valutazione giudiziaria seria e serena. Esso non può, per altro verso, incidere sul contenuto del controllo di legalità, che in uno Stato bene ordinato deve essere libero e indipendente, ma riguardare la verifica di correttezza dell’attività di pubblici ministeri e giudici e la conseguente attività disciplinare. Su questo piano il Parlamento dovrebbe essere finalmente drastico. Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, serie valutazioni attitudinali, controlli periodici, magari a campione ma penetranti, riorganizzazione manageriale degli uffici e della loro dirigenza, monitoraggio sull’attività compiuta da ciascun magistrato dell’ufficio, inflessibilità nella repressione disciplinare degli abusi, delle inerzie, degli errori. Tutto ciò che oggi non avviene, o che avviene poco o malamente, ma che, a garanzia di tutti i cittadini, dovrebbe invece inflessibilmente accadere.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:09:46 am »

2/1/2009
 
Riforme e giustizia
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Nel suo messaggio di fine anno il Capo dello Stato ha toccato, con semplicità e chiarezza, tutti i problemi caldi del momento, a partire dalla crisi economica, che rischia di togliere serenità e sicurezza. Mi hanno colpito, soprattutto, le sue parole di fiducia e di speranza. Giorgio Napolitano ha parlato, ripetutamente, di crisi come grande occasione: per riequilibrare le ricchezze, cambiare lo stile dei comportamenti, ritornare a un mondo denso di valori, rilanciare l’economia e uscire dalle difficoltà con un Paese diverso, più equo e giusto. Un’occasione che costituisce una grande scommessa. Uno sforzo che dev’essere compiuto da tutti, con unità d’intenti, abbandonando le reciproche diffidenze.

Al di là di quest’importante presa di posizione, c’è stato, da parte del Presidente, un agire perfetto come Capo di Stato imparziale e garante della posizione di tutti. Un richiamo all’importanza delle riforme condivise, ma nessuna discesa in campo personale, nessuna indicazione di merito. Risolvere i problemi e trovare soluzioni, ha precisato il Presidente, sono compiti delle forze politiche, in particolare del Parlamento, del quale deve essere difesa la posizione di centralità nel sistema costituzionale del Paese. Quello delle riforme condivise costituisce, da mesi, il tema ricorrente degli interventi del Capo dello Stato.

Ed è assolutamente giusto che un Presidente, garante dell’ordinato funzionamento delle istituzioni, si preoccupi che l’accordo, o quantomeno il rispetto reciproco, favorisca il superamento di difficoltà o la risoluzione di problemi che, altrimenti, rischierebbero di aprire ferite difficili da rimarginare.

Cionondimeno, occorre ribadire che vi sono decisioni sulle quali avere condivisione è difficile. Nell’impossibilità di fornire un quadro esauriente delle questioni che dividono, mi limiterò a indicare due temi caldi in materia di giustizia sui quali, immagino, ma soprattutto auspico, non vi sarà mai condivisione dell’opposizione con le idee della maggioranza. La separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, della quale ha parlato ancora una volta il presidente del Consiglio in un’intervista di due giorni fa, e il rapporto fra pubblici ministeri e polizia nella ricerca delle notizie di reato.

La prima è una questione annosa. Sostiene il presidente del Consiglio che sarebbe necessario procedere alla separazione delle carriere trasformando il pubblico ministero in un «avvocato dell’accusa», dotato di diritti e doveri uguali a quelli dell’avvocato difensore. Lo imporrebbe l’esigenza di assicurare al cittadino un giudice imparziale e di riequilibrare la posizione delle parti nel processo. La nuova configurazione del pubblico ministero dovrebbe dare luogo a un ordine separato, con propri accessi e carriere, e con un proprio Consiglio Superiore.

Le obiezioni a questa soluzione sono forti. Creare un ordine di pubblici ministeri indipendenti, si sostiene, sarebbe un rischio in sé per la democrazia, poiché realizzerebbe un corpo separato potente, impermeabile a qualunque confronto, una scheggia che potrebbe trasformarsi in uno strumento di potere con propri, autonomi, obiettivi politici. Se, per altro verso, la separazione delle carriere dovesse costituire la premessa per un asservimento dei pubblici ministeri al governo, l’attentato sarebbe ancora più evidente: mai, in uno Stato democratico, dovrebbe essere consentito all’esecutivo d’interferire sull’esercizio dell’azione penale. Esiste, infine, un problema di funzionalità. Poiché il pubblico ministero ha compiti d’indagine, come si potrebbe conciliare la sua trasformazione in «avvocato dell’accusa» con il mantenimento di tale funzione? O, per altro verso, come si potrebbero attribuire alle difese dell’imputato poteri d’indagine identici a quelli del pubblico ministero senza sconvolgere l’ordinato funzionamento dell’attività giudiziaria? Si tratta di un complesso di ragioni che rendono, pertanto, oltremodo difficile per l’opposizione trovare un’intesa con la maggioranza.

La seconda questione è più recente. Ai primi di settembre ha cominciato a circolare l’ipotesi, ribadita dal presidente del Consiglio nell’intervista, di un ritorno alla disciplina anteriore alla riforma del 1989 del codice di procedura penale in tema di rapporti fra Procure e polizia. Nella fase della ricerca delle notizie di reato, si sostiene, la polizia dovrebbe essere rigorosamente autonoma, mentre il pubblico ministero dovrebbe essere autorizzato a iniziare le sue indagini soltanto a seguito di un rapporto delle forze dell’ordine. In questo modo si impedirebbe quella ricerca a 360 gradi di notizie di reato da parte delle Procure, quella sorta di pesca a strascico, che tanta paura arrecherebbe alla tranquillità dei cittadini onesti.

Il problema non è di poco conto. Non è, in effetti, ragionevole che alle Procure siano consentite indiscriminate iniziative volte a cercare, in assenza di qualsiasi notizia di reato, eventuali indizi a carico dei cittadini. Per altro verso, stabilire rigidamente che il pubblico ministero non possa impartire, mai, direttive alle forze dell’ordine, o imprimere, mai, ritmi o direzioni alle ricerche fino al momento in cui la polizia non gli abbia depositato un rapporto, sarebbe, a sua volta, molto pericoloso. Poiché la polizia dipende gerarchicamente dal governo, il rischio che l’esecutivo possa interferire, frenare, impedire, è elevato. E a poco varrebbe ribadire, data la menzionata situazione di dipendenza, che le forze dell’ordine hanno il dovere di riferire non appena emerga un indizio di reità a carico di qualcuno.

Ecco perché, anche in questo caso, una condivisione delle idee della maggioranza da parte dell’opposizione non sarebbe auspicabile. Davvero, tuttavia, l’intera opposizione saprà sfuggire alla prospettiva, seducente per il mondo dei partiti, di riuscire, finalmente, a tagliare in qualche modo le unghie alle Procure, indebolire il loro potere, restituire alla politica la possibilità di aprire qualche ombrello, di salvare qualche suo esponente autore di reati?
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 19, 2009, 03:08:44 pm »

19/1/2009
 
Eluana, qui si rompe il principio di legalità
 
 CARLO FEDERICO GROSSO
 

Una nuova rottura della legalità, un’ulteriore ferita inferta allo Stato di diritto. L’ultimo atto della vicenda Englaro indigna chi ritiene che l’osservanza delle regole costituisca il fondamento della convivenza civile. Vittima, ancora una volta, Eluana Englaro, alla quale una sorta di «prepotenza governativa» rifiuta il diritto di morire che le era stato riconosciuto da una sentenza definitiva della Cassazione.

All’origine della nuova questione si pone un nebuloso provvedimento amministrativo «di indirizzo» assunto, in tutta fretta, dal ministro Sacconi quando pareva che, dopo l’ultima sentenza, la vicenda si stesse avviando al suo epilogo logico e naturale. Abbiamo letto tutti il comunicato con il quale la clinica «Città di Udine» ha reso pubbliche le ragioni della sua decisione: ciò che era stato ormai organizzato, e cioè il ricovero di Eluana e il suo accompagnamento a una morte dignitosa, è stato bloccato per il timore che, infrangendo l’atto di indirizzo ministeriale, alla struttura ospedaliera fosse revocata la convenzione regionale e venissero pertanto a mancare i denari che le consentivano di lavorare.

La vicenda solleva, immagino, complessi problemi giuridici di natura amministrativa, coinvolge delicati rapporti di competenza fra Stato e Regioni in materia di sanità, decine di giuristi si interrogheranno sui poteri ministeriali nell’imporre direttive in materia e sui doveri delle Regioni di ottemperarle. Si discuterà, soprattutto, fino a che punto gli elementi di diritto richiamati a sostegno del menzionato atto di indirizzo (un parere del Comitato nazionale di bioetica privo, in realtà, di qualsiasi rilevanza giuridica e una convenzione Onu sui diritti dei disabili non ancora del tutto operativa in Italia e che, comunque, non riguarda specificamente il caso Englaro) siano davvero in grado di giustificare, in qualche modo, il provvedimento ministeriale.

Al di là dei possibili cavilli, delle possibili interpretazioni più o meno interessate, c’è peraltro un profilo giuridico, chiarissimo, sul quale non è consentito neppure discutere: che di fronte a una sentenza irrevocabile della Cassazione che, tenendo conto delle leggi operanti in Italia, ha stabilito determinati principi (ad esempio, che Eluana si trova in una condizione giuridica di coma persistente, che un intervento di idratazione e di nutrizione artificiale mediante sondino ipogastrico non costituisce semplice alimentazione, bensì intervento medico) e ha conseguentemente riconosciuto a Eluana, o a chi per lei, il diritto di staccare quel sondino, nulla, sul terreno giuridico, è più consentito obiettare. La sentenza deve essere eseguita, punto e basta. Nessuno è più legittimato a vietare, bloccare, frapporre ostacoli, ritardare.

Al di là delle convinzioni personali di ciascuno di noi sul merito complessivo della dolorosissima vicenda e, conseguentemente, sulla bontà, o meno, della decisione giudiziale assunta dalla Corte Suprema, oggi ci troviamo pertanto, a valle del problema principale, di fronte a una importante questione di principio sulla quale occorre essere chiari, determinati, inflessibili: che le sentenze irrevocabili della Cassazione, piacciano o non piacciano, siano condivise o non siano condivise, devono essere, in ogni caso, applicate, adempiute, eseguite. Infrangere tale regola significherebbe innescare una rottura gravissima del principio di legalità attorno al quale ruota l’intero nostro sistema giuridico. In certo senso, addirittura, fare saltare lo stesso sistema, basato, come sappiamo, sui principi fondamentali secondo i quali il Parlamento legifera, la magistratura interpreta e applica le leggi, l’esecutivo governa rispettando leggi e sentenze.

La rottura della legalità appare d’altronde, nel caso di specie, tanto più grave ove si consideri che a impedire l’esecuzione di una sentenza della Cassazione è, addirittura, e ufficialmente, il governo, che frappone un suo atto di indirizzo alla normale, logica e ormai doverosa sequenza di atti e fatti che dovrebbero, ragionevolmente, seguire alle decisioni assunte dai giudici che si sono pronunciati sulla vicenda. E appare ancora più grave ove si rammenti che, in precedenza, vi era già stato il tentativo dell’attuale maggioranza parlamentare di bloccare l’esecuzione della sentenza, sollevando un peregrino conflitto di attribuzione tra il Parlamento e la Magistratura che, per la sua palese inconsistenza, era stato respinto in tempi brevissimi, e con durezza, dalla Corte Costituzionale. Ieri i giornali hanno pubblicato la notizia che, a seguito di una denuncia presentata dai radicali, la Procura di Roma ha iscritto il ministro Sacconi nel registro degli indagati per violenza privata e che gli atti sono stati trasmessi al competente Tribunale dei Ministri. Non so francamente dire se il ministro abbia, o non abbia, commesso il reato contestato, e se impedendo l’esecuzione della sentenza Englaro abbia addirittura commesso ulteriori reati. Confesso che tali circostanze non mi interessano neppure più di tanto.

Mi preoccupa invece, moltissimo, la questione di carattere generale, a un tempo giuridica e politica: la rottura del principio di legalità, l’alterazione degli equilibri fra i poteri dello Stato, l’impressione, soprattutto, che la semplice legittimazione politica ottenuta dal voto popolare si stia trasformando ormai, nei fatti, in strumento di prevaricazione, di sopraffazione, di cancellazione di diritti e garanzie riconosciute dalla legge e dichiarate dai giudici. Se ciò stesse davvero accadendo, se, in particolare, dovesse diventare prassi di governo, sarebbe la fine dello Stato di diritto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 21, 2009, 12:49:25 pm »

21/1/2009
 
Coraggiosa scelta
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 

L’altro ieri ho scritto su questo giornale che una sentenza passata in giudicato della Cassazione è costitutiva di diritti e non può essere disattesa da nessuno. Nessuno è legittimato a vietare, bloccare, frapporre ostacoli, ritardare. Che, pertanto, l’ultimo atto della vicenda Englaro, il provvedimento «di indirizzo» con il quale il ministro Sacconi ha cercato di interferire, finora con successo, sull’esecuzione di una decisione legittimamente assunta dalla suprema magistratura di legittimità del Paese, non poteva che indignare. Certo, ho soggiunto, la vicenda solleverà complessi problemi giuridici di natura amministrativa, coinvolgerà difficili rapporti di competenza fra Stato e Regioni in materia di sanità.
Si discuterà sulla bontà, o sull’evanescenza, dei principi giuridici ai quali il ministro ha creduto di potere affidare la sua decisione.

Al di là dei possibili cavilli, delle interpretazioni più o meno interessate di questa o di quella norma amministrativa, ho soggiunto, c’è comunque un principio giuridico fondamentale, chiarissimo, sul quale non è possibile nemmeno abbozzare una discussione: che di fronte a una sentenza passata in giudicato della Cassazione che ha riconosciuto determinati diritti, nulla è più possibile eccepire. Occorre ottemperare, e basta. Non farlo significa infrangere un principio fondamentale dello Stato di diritto, spezzare il principio di legalità, disarticolare la regola elementare secondo la quale in un Paese democratico, correttamente organizzato, il Parlamento legifera, la magistratura interpreta ed applica le leggi, l’esecutivo governa rispettando le leggi e le sentenze dei giudici. Ho soggiunto, ulteriormente, che nel caso di Eluana Englaro la rottura della legalità mi pareva tanto più grave considerando che a frapporre ostacoli all’esecuzione di una sentenza della Cassazione era, addirittura, un atto ufficiale del governo.

Ieri Mercedes Bresso ha dichiarato che la Regione Piemonte è pronta ad aprire le sue strutture pubbliche perché la vicenda, dolorosissima, di Eluana possa avviarsi verso il suo epilogo ormai logico e naturale. Non so quali sono state le valutazioni giuridiche del Presidente della Regione: se ha considerato con attenzione le competenze dello Stato e della Regione in materia di sanità, se ha valutato nei dettagli i rapporti fra direttive ministeriali e determinazioni regionali, se ha tenuto conto dell’eventuale specificità della legislazione regionale piemontese in materia, se si è limitata a prendere atto del principio generale secondo il quale le sentenze definitive della Cassazione devono essere eseguite. Non so neppure se, per avventura, non si è posta neppure il problema giuridico, ma ha agito d’impulso, giudicando, semplicemente, giusto, come è sicuramente, ciò che stava facendo, perché è comunque giusto fornire finalmente al padre di Eluana la possibilità di assolvere all’ultimo atto del dramma che ha sconvolto la sua esistenza e che ha costituito, negli anni, la ragione della sua vita.

Brava Mercedes. Non possiamo che ammirare e condividere il tuo coraggio. Perché si tratta sicuramente di coraggio. La legge è dalla tua parte.
Consentire che una sentenza passata in giudicato della Cassazione abbia esecuzione costituisce riaffermazione di legalità. Mettere a disposizione le strutture sanitarie pubbliche regionali per consentire che quanto hanno deciso i giudici possa avere attuazione significa garantire l’osservanza delle regole. Di fronte a un ministro che, con un preteso atto generale d’indirizzo, ritiene di potere sovvertire gli equilibri fra i poteri dello Stato, opporsi, ancorché legalmente, non è, sicuramente, atto di ordinaria gestione dei poteri regionali.
 
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