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Autore Discussione: Né di destra, né di sinistra  (Letto 2665 volte)
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« inserito:: Ottobre 06, 2007, 10:44:44 pm »

Né di destra, né di sinistra

Angelo De Mattia


«È un tema né di destra né di sinistra»: è un’espressione il ricorso alla quale, nel dibattito e nei commenti politici, si diffonde a vista d’occhio.

Ultimo in ordine di tempo a farvi riferimento in una intervista al Corriere della Sera è stato Matteo Colaninno, il presidente dei giovani industriali, che, sulla scia del recente libro di Giavazzi e Alesina, ha affermato essere il liberismo né di destra né di sinistra. La stessa indifferenza viene sottolineata da altri a proposito della lotta all’evasione.

Ma anche per le politiche relative alla sicurezza, alla salute, alla scuola, alla ricerca, alla crescita economica, alla finanza pubblica, alle relazioni internazionali. Sembra di assistere ad un processo di neutralizzazione delle storiche identità. Ma è proprio così? Siamo, cioè, in presenza di una lenta, carsica (perché di destra e sinistra come formule superate si è parlato anche nello scorso decennio) individuazione di nuovi riferimenti?

Sottratta da questo tema una dosa di strumentalità perché la formula «né... né» fa tendenza e può agevolare il confronto dialettico, ciò che sta avvenendo, nella misura in cui riguarda le politiche, non può non fare riflettere. Indubbiamente, si avverte il bisogno di deideologizzare argomenti e obiettivi eccessivamente caricati di significati, a volte proprio con lo scopo di creare separatezze. Così come l’antipolitica e il populismo egualitario possono creare di fatto una sorta di transpartito, che non ha bisogno di caratterizzarsi, potendo affastellare rivendicazioni per legittimare le quali non deve risalire a categorie generali e a valori. Ma se il «né... né» fosse del tutto fondato, allora occorrerebbe chiedersi perché su molti di quei temi non si registrano ancora progressi significativi nella politica attiva, perché non si realizzano le supposte ampie convergenze nella società civile e in quella politica.

Molti degli argomenti del «né... né» (salute, sicurezza, persona ecc.) trovano una loro traduzione nel diritto vivente, in particolare con la loro consacrazione nella Carta Costituzionale. Sono, dunque, norme programmatiche, o direttamente precettive, principi organizzativi della nostra società (G. Zagrebelsky) ai quali tutti debbono, per le rispettive competenze, dare adesione.

Allora si può essere d’accordo che vi sono obiettivi che non dovrebbero suscitare divisioni solo nei limiti in cui si tratta appunto di obiettivi generali o di principi introdotti nel diritto codificato. Con la conseguenza, però, che le differenziazioni si presentano poi con nettezza a livello di strumenti e di modi per perseguire tali obiettivi. Il rapporto con la globalizzazione, il rientro del debito pubblico, la promozione della crescita economica, per citare qualcuna delle materie interessate, sono affrontabili in modo diversi dai partiti politici e dalle organizzazioni sociali. A seconda di essi, la distinzione tra destra e sinistra, tra progresso e conservazione non può non presentarsi. Sarebbe assurdo, ad esempio, se non si potesse parlare di una politica economica propria di una visione di sinistra. Insomma, nel riproporsi della suddetta distinzione emergeranno quei temi - solidarietà, giustizia sociale, lotta alla povertà, equità, modo di concepire il rapporto con le future generazioni ecc. - caratteristici di una linea definita di sinistra. E lo stesso si dica, mutatis mutandis, per la destra. Alla fin fine, dalla distinzione sui mezzi si risalirà ai valori. Dunque, i rami alti - gli ideali, i valori, la Weltanschauung - ma anche quelli bassi - i mezzi, le strategie - possono differenziare eccome, a meno che non sia dia vita ad uno straordinario eclettismo, a una notte nella quale tutte le vacche sono grigie.

Queste differenze, che sono strutturali, sono in definitiva riconducibili alle due storiche categorie, destra e sinistra. Su di esse sono state versate quantità enormi di inchiostro, sollevata una infinità di interrogativi, alimentate speranze, condotte battaglie. Sia chiaro: così dicendo non si intende, in ultima analisi, riproporre l’attualità di una scelta, sul terreno più adeguato per definire le identità, tra capitalismo e socialismo. Da Spartaco in poi, come nota Besset, la necessità di giustizia è stata costantemente reclamata dai diseredati. Ma nel confronto tra Smith e Marx, è il primo ad aver avuto ragione. Non è accaduto che il capitalismo entrasse in una insostenibile contraddizione con i desideri e le aspettative degli uomini, così da arrivare al suo superamento.

Tuttavia resta il tema dei limiti del capitalismo; nel contesto della globalizzazione è un tema di grande attualità: si pensi al recente discorso di Benedetto XVI. Si è parlato di «capitalismo temperato», di «liberalismo illuminato» e di formule similari. La ricerca è aperta e su di essa non possono non radicarsi differenze con ricadute sugli stessi problemi della quotidianità.

Ai suddetti limiti fa da pendant la riflessione sul «pubblico» e sul «privato» di utilità sociale, sulla redistribuzione, sul rapporto tra stato e mercato. Non è un desiderio di differenze a tutti i costi ma è proprio in funzione degli interessi generali che le impostazioni programmatiche, a cominciare da quelle della sinistra, dovrebbero essere obbedienti a chiare opzioni di fondo. Il «né... né» dovrebbe essere seguito dalla indicazione precisa della strada per raggiungere gli obiettivi assunti. Un diffuso consociativismo o ipotesi di trasversalismo anche sui mezzi rischierebbero di aprire la strada ai partiti sensali.

Ciò è cosa diversa dalla mediazione, che è un’arte necessaria e presuppone identità consolidate innanzitutto sotto il profilo programmatico. Al «né... nè», comunque, proprio per evitare ambiguità, sarebbe bene opporre il «distingue frequenter».

Pubblicato il: 06.10.07
Modificato il: 06.10.07 alle ore 9.50   
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