Riforme e parole
I compiti di Bruxelles e i nostri
Di Alberto Alesina
Matteo Renzi ha un modo diretto e schietto di affrontare le questioni, eva bene. Ma un conto è la schiettezza, altro parole che si tramutano in inutili e intempestivi attacchi all’Unione Europea. Le istituzioni di Bruxelles sicuramente hanno bisogno di un serio ripensamento: sono atrofizzate da regole fatte spesso rispettare in modi discutibili; sono lente nel rispondere alle crisi; hanno una divisione di ruoli e di poteri tra Paesi da rivedere; la burocrazia europea va snellita (cosa facciano i parlamentari europei non è chiarissimo ai cittadini);i problemi dei flussi migratori sono stati gestiti male e in modo iniquo. E questi sono solo alcuni esempi. C’è molto da fare e anche a Bruxelles lo sanno.
È vero che il premier si fa portavoce di sentimenti diffusi: i sondaggi dicono che in Italia vi è crescente antipatia nei confronti dell’Unione Europea, l’euro e la Bce. Nel 1973 l’80% degli italiani erano favorevoli alla Ue (la percentuale più alta tra i Paesi membri), oggi si è dimezzata: siamo al 40 per cento. Il 35 per cento degli italiani vuole uscire dall’euro e tutto questo ha trascinato persino la fiducia nella Bce, arrivata al 30per cento (dati tratti da Guiso, Sapienza e Zingales, 2015, Monnet’s Error? )
È importante interrogarsi su «quale Europa» vogliamo, se ne deve parlare ma dopo la tempesta sui mercati. La costruzione dell’Unione va rivista a bocce ferme, e, come i mercati dimostrano in queste settimane, le bocce sono tutt’altro che ferme. Anzi, sembrano impazzite.
Le bocce italiane, in particolare, è da tempo che sono in movimento. Nel novembre 2011 con uno spread sui Bund tedeschi che tendeva ai 600 punti stavamo per entrare in una crisi da debito sovrano che avrebbe potuto farci precipitare in un baratro e far saltare l’euro. Il governo Monti fu chiamato a evitare una possibile catastrofe. Queste colonne lo hanno criticato per come lo ha fatto, alzando tasse senza tagliare la spesa, ma in qualche modo lo ha fatto. L’intervento della Bce ha permesso la discesa degli spread e la riduzione del costo del debito. Da allora le cose sono migliorate in Italia, ma non abbastanza. La spesa non è scesa. La privatizzazione delle imprese municipalizzate non sembra più una priorità. Il debito pubblico era al 116% nel 2011 e per il 2016 è previsto al 130%.
Certo, ci vuole del tempo perché il debito cali soprattutto in un’economia che cresce poco: ma non siamo fuori dal guado. E le banche italiane, fra l’altro piene di debito pubblico nei loro attivi, hanno problemi seri, ovviamente non tutte. Ma perché lo si scopre solo ora? Si è stati troppo lenti. Mentre altri Paesi agivano sui loro istituti, grazie proprio a una maggiore salute dei loro conti pubblici e con interventi di risanamento nell’arco di tempo concesso dalle regole dell’Unione, noi abbiamo aspettato come se sperassimo che il problema dei crediti bancari in difficoltà si risolvesse da solo. Cosa non facile, vista la gravità della recessione che abbiamo attraversato.
Ora la crescita è positiva ma al di sotto della media europea. Va dato atto che il Jobs act funziona. In questa situazione, migliorata ma ancora fragile, Matteo Renzi dovrebbe parlare e muoversi con cautela. Non dovrebbe scagliarsi contro l’Unione Europea di cui volenti o nolenti siamo parte e dalle cui decisioni dipendiamo.
Con questa retorica il risultato è che i mercati si preoccupano ancora di più della situazione italiana, come se alzassimo la voce per nascondere indecisione e debolezza. E i mercati reagiscono di conseguenza come in Borsa nei giorni scorsi o sullo spread sul nostro debito che dà segni non tranquillizzanti. Per contrastare questi eventi potenzialmente pericolosi servono meno parole e più decisioni. Il consenso è decisivo per potere continuare a governare ma a volte il bene di un Paese richiede scelte, anche se nel breve periodo possono apparire impopolari.
22 gennaio 2016 (modifica il 22 gennaio 2016 | 07:13)
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