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Autore Discussione: Alberto ALESINA -  (Letto 43090 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:38:05 pm »

Educazione e finanza
La patente che tutela il risparmio

Di Alberto Alesina

La tutela del risparmio di cui tanto si parla ha bisogno di due cose. Da un lato sono necessari controlli e regole sul comportamento delle banche e dei gestori di fondi, comprese severe punizioni per chi viola quelle norme. Dall’altro serve una maggiore educazione finanziaria del risparmiatore e del cittadino. Gli importanti lavori di ricerca in merito di una economista italiana, Annamaria Lusardi, come ricordava Federico Fubini su questo giornale il 20 dicembre scorso, dimostrano che, non solo in Italia ma anche in molti altri Paesi europei, oltre che negli Stati Uniti, il livello di diseducazione finanziaria è strabiliante.

Molti risparmiatori italiani, anche con livelli di istruzione elevati, non sanno rispondere correttamente a domande semplicissime. Arrivano a sbagliare l’ordine di grandezza di quanto un investimento di 100 euro renderebbe in 20 anni a un tasso del due per cento. Spesso non capiscono l’importanza della diversificazione del rischio; non si rendono conto cioè che investire in una singola azione è molto più pericoloso che investire in un fondo comune. Non comprendono bene lo scambio tra rischio e rendimento. Vale a dire che se qualcuno promette loro rendimenti elevati senza rischi, ebbene sta mentendo. Infine pochi realizzano che investire in un prodotto del quale fanno fatica a comprendere la natura e la reale composizione non è mai una buona idea.

Non solo, molti cittadini (soprattutto gli uomini, meno le donne) pensano di avere una sufficiente conoscenza di economia e finanza, ovvero non si rendono conto di cosa non capiscono. Il sapere di non sapere è invece il primo passo verso l’apprendimento. La diseducazione finanziaria può avere effetti disastrosi per i risparmiatori e, se generalizzata, può avere conseguenze macroeconomiche gravi.

Che fare? Ecco un’idea. Chiunque apra un conto in banca (o ne abbia già uno) dovrebbe disporre anche di una «patente finanziaria». Dovrebbe cioè superare un esame tipo quello di teoria che si sostiene nel caso della patente auto. Un esame con una cinquantina di domande alle quali rispondere con esattezza. La licenza garantirebbe che chi è «idoneo» è a conoscenza di poche ma importanti cose: che un rendimento alto senza rischio non esiste, che il tasso di interesse reale è molto diverso da quello nominale, che mettere tutte le uova in un paniere è pericolosissimo, come pure decidere se indebitarsi a un tasso fisso o variabile quando si compra una casa richiede un’attenta valutazione della situazione economica propria e generale.

Questa sorta di «patente finanziaria» dovrebbe prevedere anche un rinnovo a distanza di una decina d’anni. In ogni caso si dovrebbe insegnare un minimo di economia e finanza di base nelle scuole superiori. Nei licei, che ambiscono a rappresentare il meglio dell’istruzione, accade invece che economia e finanza siano ignorate, quasi fossero materie «indegne» rispetto al latino o alla filosofia.

Ma nell’attesa che i programmi scolastici cambino e con questi l’istruzione delle generazioni future, la «patente finanziaria» è un primo passo, relativamente facile, verso la consapevolezza finanziaria. In fondo, per guidare un’auto e garantire la sicurezza di chi guida e degli altri cittadini, viene richiesta una patente. Ottenerla non significa diventare un pilota di Formula 1, bastano le basi. Lo stesso valga per l’educazione finanziaria: basterebbe sapere poche cose necessarie. Non aspettiamoci che tutti i risparmiatori siano dei Warren Buffett così come tutti gli automobilisti non sono Sebastian Vettel.

7 gennaio 2016 (modifica il 7 gennaio 2016 | 07:34)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_07/patente-finanziaria-risparmiatori-editoriale-alesina-1bcc1708-b507-11e5-8efc-b58ffc8363b9.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 22, 2016, 08:50:44 pm »

Riforme e parole
I compiti di Bruxelles e i nostri

Di Alberto Alesina

Matteo Renzi ha un modo diretto e schietto di affrontare le questioni, eva bene. Ma un conto è la schiettezza, altro parole che si tramutano in inutili e intempestivi attacchi all’Unione Europea. Le istituzioni di Bruxelles sicuramente hanno bisogno di un serio ripensamento: sono atrofizzate da regole fatte spesso rispettare in modi discutibili; sono lente nel rispondere alle crisi; hanno una divisione di ruoli e di poteri tra Paesi da rivedere; la burocrazia europea va snellita (cosa facciano i parlamentari europei non è chiarissimo ai cittadini);i problemi dei flussi migratori sono stati gestiti male e in modo iniquo. E questi sono solo alcuni esempi. C’è molto da fare e anche a Bruxelles lo sanno.

È vero che il premier si fa portavoce di sentimenti diffusi: i sondaggi dicono che in Italia vi è crescente antipatia nei confronti dell’Unione Europea, l’euro e la Bce. Nel 1973 l’80% degli italiani erano favorevoli alla Ue (la percentuale più alta tra i Paesi membri), oggi si è dimezzata: siamo al 40 per cento. Il 35 per cento degli italiani vuole uscire dall’euro e tutto questo ha trascinato persino la fiducia nella Bce, arrivata al 30per cento (dati tratti da Guiso, Sapienza e Zingales, 2015, Monnet’s Error? )

È importante interrogarsi su «quale Europa» vogliamo, se ne deve parlare ma dopo la tempesta sui mercati. La costruzione dell’Unione va rivista a bocce ferme, e, come i mercati dimostrano in queste settimane, le bocce sono tutt’altro che ferme. Anzi, sembrano impazzite.

Le bocce italiane, in particolare, è da tempo che sono in movimento. Nel novembre 2011 con uno spread sui Bund tedeschi che tendeva ai 600 punti stavamo per entrare in una crisi da debito sovrano che avrebbe potuto farci precipitare in un baratro e far saltare l’euro. Il governo Monti fu chiamato a evitare una possibile catastrofe. Queste colonne lo hanno criticato per come lo ha fatto, alzando tasse senza tagliare la spesa, ma in qualche modo lo ha fatto. L’intervento della Bce ha permesso la discesa degli spread e la riduzione del costo del debito. Da allora le cose sono migliorate in Italia, ma non abbastanza. La spesa non è scesa. La privatizzazione delle imprese municipalizzate non sembra più una priorità. Il debito pubblico era al 116% nel 2011 e per il 2016 è previsto al 130%.

Certo, ci vuole del tempo perché il debito cali soprattutto in un’economia che cresce poco: ma non siamo fuori dal guado. E le banche italiane, fra l’altro piene di debito pubblico nei loro attivi, hanno problemi seri, ovviamente non tutte. Ma perché lo si scopre solo ora? Si è stati troppo lenti. Mentre altri Paesi agivano sui loro istituti, grazie proprio a una maggiore salute dei loro conti pubblici e con interventi di risanamento nell’arco di tempo concesso dalle regole dell’Unione, noi abbiamo aspettato come se sperassimo che il problema dei crediti bancari in difficoltà si risolvesse da solo. Cosa non facile, vista la gravità della recessione che abbiamo attraversato.

Ora la crescita è positiva ma al di sotto della media europea. Va dato atto che il Jobs act funziona. In questa situazione, migliorata ma ancora fragile, Matteo Renzi dovrebbe parlare e muoversi con cautela. Non dovrebbe scagliarsi contro l’Unione Europea di cui volenti o nolenti siamo parte e dalle cui decisioni dipendiamo.

Con questa retorica il risultato è che i mercati si preoccupano ancora di più della situazione italiana, come se alzassimo la voce per nascondere indecisione e debolezza. E i mercati reagiscono di conseguenza come in Borsa nei giorni scorsi o sullo spread sul nostro debito che dà segni non tranquillizzanti. Per contrastare questi eventi potenzialmente pericolosi servono meno parole e più decisioni. Il consenso è decisivo per potere continuare a governare ma a volte il bene di un Paese richiede scelte, anche se nel breve periodo possono apparire impopolari.
22 gennaio 2016 (modifica il 22 gennaio 2016 | 07:13)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_22/i-compiti-bruxelles-nostri-66578e56-c0ce-11e5-a43f-521a1c10f2a7.shtml
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