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Autore Discussione: Pdl, nuova Dc ma non più democristiana  (Letto 3488 volte)
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« inserito:: Maggio 07, 2008, 01:11:31 am »

6/5/2008
 
Pdl, nuova Dc ma non più democristiana
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
La coalizione guidata da Berlusconi nelle precedenti legislature aveva mantenuto la differenza tra il leader e i partiti. Questa volta il Popolo della libertà, che include in sé Alleanza Nazionale e Forza Italia e si associa alla Lega e al Movimento per le autonomie, è un partito. E le differenze tra le varie componenti sono composte. Bossi parla di fucili ma chiede il federalismo fiscale, non più la regionalizzazione dell’istruzione e la polizia regionale; accetta la Costituzione così com’è e si muove all’interno di essa. Fini ha scelto la via del Partito popolare europeo e entra quindi nella definizione di un partito moderato, cambia il suo riferimento di principio.

Ma la cosa più importante è che non vi sia più l’Udc: e questo non in riferimento al suo leader, ma perché è la memoria della Dc che viene abbandonata dal Popolo della libertà. Esso si autolegittima come partito moderato e come partito della maggioranza naturale degli italiani. L’Italia è un paese giacobino e la rivoluzione le è sempre stata imposta a forza, prima dai fascisti poi dai comunisti. Oggi il nuovo partito è la stessa cosa che era stata la Dc: ma in chiave laica e non confessionale. Il cattolicesimo politico è finito e i suoi frammenti si collocano da una parte e dall’altra degli schieramenti. Nasce il partito di maggioranza moderata non più democristiana ma laica, che accetta la Chiesa come tradizione del Paese ma non ne fa la sua struttura fondante.

Berlusconi è il federatore del partito: lui l’ha inventato dal predellino di piazza San Babila e ha realizzato quello che non poteva realizzare da solo. Oggi non esiste soltanto Berlusconi, ma esiste il Popolo della libertà e la Lega che ottengono voti nel Nord e nel Sud specialmente in quel crogiuolo della politica italiana che è la Sicilia, in cui l’alleato Turi Lombardo conquista la Regione con grande maggioranza. Il centrodestra è ormai un’identità politica con Berlusconi leader ma con un futuro proprio che dovrà costruire nell’attività di governo. Berlusconi conseguentemente ha iniziato a parlare linguaggi diversi, non quello dell’opposizione al sistema ma del mutamento del sistema. E questo è avvenuto e ha avuto consenso, perché l’elettorato italiano ha compreso che non si può fare lo Stato sociale di un solo paese né governare con la cultura storica della sinistra che non è maggioranza in Italia. Prodi, concentrando in sé tutte le sinistre, ha mostrato l’alterità della sinistra come concetto alla maggioranza del Paese. Si è aperta così in Italia una modifica della sinistra che non è diversa da quella accaduta in tutti gli altri paesi europei, a cominciare dall’Inghilterra di Tony Blair e dalla Spagna di Zapatero. Lo schieramento oggi incluso nel Partito democratico non può vincere che nel medesimo modo in cui si afferma, e qualche volta vincono gli altri partiti europei.

È stato proprio Veltroni, e quindi la maggioranza del Pd, a mettere in crisi il governo Prodi e le sue alleanze: dei cattolici di sinistra e degli antagonisti. Ed è venuta così meno l’idea storica del Pci: quella di risolvere la questione italiana nell’alleanza con i cattolici. Nella Chiesa la gerarchia è tornata protagonista al posto del laicato ed è la gerarchia a trattare i suoi rapporti con lo Stato italiano sui temi per essa eticamente sensibili e sui rapporti globali tra le due istituzioni. Anche nella Chiesa il partito cattolico è veramente finito.

Alla base di questo vi è la paura del declino del sistema Italia nel mercato mondiale. Ora è l’elettorato ad aver capito che la globalizzazione chiede cambiamenti. Il sistema paese è rappresentato dallo Stato nazione e quindi l’Italia è la nostra chiave d’ingresso nelle istituzioni internazionali e nell’economia mondiale. Berlusconi aveva indovinato la parola Italia, l’ha usata sempre in senso diverso dal nazionalismo storico, Bossi lo ha capito. Ambedue pensavano al sistema paese e Bossi ha inteso che il Nord come sistema non esiste nella società mondiale. Quali saranno i rapporti futuri tra governo e opposizione è un problema, ma non sarà più di scontro totale e di guerra civile. La grande antica faida si è chiusa.

bagetbozzo@ragionpolitica.it
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:51:39 pm »

Dietro le quinte

«I posti li ho decisi tutti io E ora svezzerò le bambine»

La strategia di Silvio con gli alleati


ROMA — A Umberto Bossi e Gianfranco Fini, a un certo punto della formazione del governo, ha fatto un discorsetto che è risuonato così, e che non ammetteva repliche: «Non ho nessuna voglia di fare delle mediazioni o delle trattative con voi. Fatemi dei nomi, vi accontenterò, ma dove vanno le persone lo decido io. Voi potete anche indicare Tizio e Caio. Le destinazioni, i portafogli dei dicasteri, li decide il sottoscritto». Silvio Berlusconi ha ansia di decidere, e di governare. L'ansia che gli deriva dalla forza dei numeri, dalle esperienze del passato (che lo hanno costretto spesso a rinunciare, o a non decidere nulla, se non dopo infinite ed estenuanti mediazioni), forse anche dall'età. L'ansia è anche farlo in solitudine, a costo di scontentare tutti, anche i suoi più stretti collaboratori. Le ultime tre settimane di trattative sul governo dimostrano questo: il Cavaliere ascolta sempre i consigli, ma ha preso il gusto di decidere da solo. È consapevole della sua forza.

Se un tempo gli veniva l'orticaria per i dettagli della «politica politicante», come la chiama lui, oggi, apparentemente, sta benissimo: a quei dettagli ha rinunciato. L'accelerazione sulla formazione del governo, ieri sera, ne è un segno. La parola «decisionismo» fa capolino a Palazzo Grazioli, nello staff del presidente, poche ore prima della salita al Quirinale. «Sarà uno dei tratti distintivi del nuovo esecutivo», riferisce il presidente del Senato, Renato Schifani, che negli ultimi giorni dal portone di Palazzo Grazioli ha fatto entra ed esci. Le cronache hanno raccontato, esaltando dettagli, di presunti scontri fra Berlusconi e An, o ancora con la Lega; di infinite resistenze degli alleati su questo o quel nome. Peccato che Berlusconi durante il weekend abbia dedicato alle caselle del totogoverno lo stesso tempo che ha dedicato ai suoi affari privati, deciso che il Welfare non sarebbe andato ad An un minuto dopo la vittoria di Alemanno a Roma. «Ora ho 100 giorni per non deludere le aspettative degli italiani e cinque anni per cambiare il Paese», questo è lo stato d'animo con cui si predispone a varcare per la quarta volta la soglia di Palazzo Chigi e lo fa pensando alla Thatcher o a Schröder, a quegli statisti che hanno governato per almeno due legislature e che solo nella seconda hanno lasciato il segno, attuato le riforme che avevano in testa. E quando si pensa da statista è difficile che si possano replicare alcune incertezze, le indecisioni del neofita della politica, persino i complessi che il Cavaliere ha portato con sé, e subìto, dal giorno della sua discesa in campo.

La cifra della metamorfosi di Berlusconi, che piaccia o meno, reale o apparenza di queste prime settimane, sta persino nei dettagli: Gianni Letta resta insostituibile, è il suo primo collaboratore, sarà il motore del governo; eppure Berlusconi lo segue al Quirinale, per due volte in pochi giorni, quasi accontentandolo, con la consapevolezza che le parole del presidente della Repubblica sono talvolta anche i pensieri di Letta e che si può trascorrere qualche ora ad ascoltare questa e quella esigenza, «tanto poi decido io». È accaduto con Angelino Alfano, neo ministro della Giustizia, una laurea in Legge, senza esperienze di governo, fedelissimo del Cavaliere. Fosse stato per altri il Guardasigilli sarebbe stato il molto più «istituzionale» Marcello Pera. È accaduto con «le bambine», come affettuosamente, quasi da padre, il Cavaliere chiama talvolta Mara Carfagna, o Stefania Prestigiacomo. Donne giovani, fin troppo per alcuni, che lui ha voluto fortissimamente non solo nell'esecutivo, ma anche in Consiglio dei ministri, persino con tanto di portafoglio nel caso della bionda siciliana.

«Le bambine da svezzare, da proteggere », come ha raccomandato a chi lavorerà con loro, dimostrano che l'estetica può contare più delle competenze (comprese quelle dei tecnici «sacrificati» all'ultimo momen-to), ma anche che la testa di Berlusconi ascolta tutti, ma decide in solitudine. Può sembrare un'ovvietà, ma non lo è stato sino a ieri, non lo è stato nel corso della penultima legislatura. E uno dei tratti di questo decisionismo è fare crescere una nuova generazione di politici, anche contro ogni logica della politica romana, delle triangolazioni dei Palazzi, dei suggerimenti dei consiglieri più anziani. «Non è mai accaduto che il presidente del Consiglio ricevesse il mandato con la lista dei ministri in mano », osservano nello staff del Cavaliere. La velocità, rimarcata anche dal capo dello Stato, fa coppia con l'ansia di decidere. E di governare.

Marco Galluzzo
08 maggio 2008

da corriere.it
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