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Autore Discussione: SOCIETA' - FAMIGLIA  (Letto 22878 volte)
Arlecchino
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 07, 2007, 03:43:06 pm »

Gli immigrati, due volte vittime

Marcella Lucidi


È ripreso con forza il dibattito sulla sicurezza dei cittadini. Un dibattito su un argomento serio che vive ormai da anni, tra alti e bassi, dentro l'agenda politica. Tema che non è - per quanto tempo ancora occorrerà ribadirlo? - appannaggio di una parte politica contro l'altra ma problema da affrontare con equilibrio e responsabilità, perché la criminalità provoca paura e alla paura occorre saper parlare. Prima di tutto riconoscendola.

Non c'è dubbio che sulla paura, sulla percezione delle persone stia incidendo, oggi, insieme ad altre voci - mai da trascurare, come la violenza tra le mura di casa - la presenza di tanti immigrati tra noi. Non c'è dubbio che anche tra gli immigrati ci siano i criminali, come anche le vittime però. Forse siamo più abituati a leggere gli immigrati tra i primi e meno tra le seconde. Forse c'è anche da domandarsi perché è passata poco osservata la notizia di una bimba polacca uccisa a Napoli casualmente da un clan camorristico. O da domandarsi chi è che commette reato «comprando» una prostituta minorenne, o sfruttando un clandestino. La questione è non voltare le spalle a nessuna di queste realtà perché tutti i reati ci devono essere intollerabili, quelli commessi per mano degli immigrati e quelli contro di loro, in uno stato di diritto che ha e deve migliorare la sua azione preventiva e repressiva verso chi vuole stare «fuori legge».

Il dato sul rapporto che esiste tra criminalità e immigrazione è complesso. L'aumento della presenza straniera in Italia è il prodotto di due dinamiche: l’immigrazione regolare e l'immigrazione irregolare. Non si può saltare a piè pari questa distinzione, perchè dire che 1 reato su 3 è commesso da un immigrato è un'affermazione vera solo in parte.

Sono gli immigrati irregolari a delinquere di più. Molti lo fanno per pagare il debito agli sfruttatori o per sopravvivere. E sono sotto il ricatto della criminalità che li usa, li arruola o li rende schiavi. Tra gli immigrati regolari la stima dei reati è pari al 2,11%. E non si tratta di reati predatori, quelli che determinano maggiore allarme. Perché è un dato sociale diffuso che una casa, il lavoro e la possibilità di integrazione aiuta di più a non perdere la bussola.

Sarebbe anche utile uscire da quell'indistinto che è ormai la parola «immigrato» per vedere che alcune comunità di stranieri che vivono tra noi hanno ben poco a che vedere con comportamenti illegali.

Le norme in vigore - è cambiato il Governo ma c'è ancora, purtroppo, la legge Bossi-Fini - non sono riuscite a fermare l'immigrazione irregolare. Anzi, aver pensato la regolarità come un percorso ad ostacoli dentro un sistema occupazionale flessibile, quando non precario, ha spinto anche molti immigrati a ritrovarsi irregolari di ritorno. Nel 2002 il Governo Berlusconi sanò le posizioni di 646.000 immigrati irregolari alla vigilia dell'entrata in vigore della Bossi-Fini. Tra marzo e luglio 2006 (4 anni dopo) oltre 500.000 datori di lavoro (a fronte di 170.000 quote) hanno fatto domanda per assumere immigrati, molti dei quali erano già loro dipendenti in posizione irregolare, e quindi, in nero. Ed è certo plausibile che, a quel momento, potesse esistere una quota ulteriore di immigrati irregolari senza un datore di lavoro disponibile a regolarizzarli.

Cambiare le regole sull'immigrazione serve, quindi, oggi, anche alla causa della sicurezza, serve a rendere fruibile, attraverso i flussi, il sistema di ingresso e di soggiorno regolare per gli immigrati che vogliono lavorare e integrarsi nel rispetto della legge. Non è una questione ideologica ma di buon senso perché, ad esempio, non c'è cedimento nel dare una possibilità concreta - che oggi non esiste - all'incontro tra domanda ed offerta di lavoro regolare.

Non è tutto. Esiste una gestione criminale dell'immigrazione clandestina attiva nei paesi di origine come nel nostro. Non si può fermare l'emorragia di persone verso l'Italia o verso l'Europa senza combattere questo nemico astuto che guadagna sulla loro pelle. E senza contrapporgli una azione di cooperazione tra i Governi. Da qui sono maturate e devono crescere le importanti azioni delle Forze di Polizia che stanno reprimendo i nuovi schiavisti.

Oggi proseguiranno al Senato le votazioni sul provvedimento contro lo sfruttamento del lavoro e contro il caporalato. Un voto importante contro una patologia del sistema produttivo che crea economie illegali, ostacola la concorrenza e falsa gli equilibri di mercato. Tra le vittime ci sono tanti immigrati senza permesso di soggiorno. Anche questo ci chiede la sicurezza: non giustificare quelle illegalità «di dettaglio» - il lavoro nero, gli affitti a nero, il bagarinaggio dei servizi - che trovano, a volte, consenzienti anche gli immigrati ma che non ci insegnano a convivere e lasciano sempre pensare che, in fondo, vivere «fuori legge» può tornare conveniente.

Pubblicato il: 07.06.07
Modificato il: 07.06.07 alle ore 8.29   
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 08, 2007, 10:59:17 pm »

CULTURA

A quarant'anni dalla morte del priore vige ancora la condanna della Chiesa contro le "Esperienze pastorali"

Il 26 giugno sarà commemorato dal cardinale di Firenze Ennio Antonelli quasi un risarcimento post mortem

"Ratzinger riabiliti Don Milani"

Appello degli ex allievi di Barbiana

Una Fondazione cura la salvaguardia della vecchia sede della scuola


dal nostro inviato ORAZIO LA ROCCA

 

BARBIANA - Un appello al Papa affinché cancelli la condanna del 1958 contro "Esperienze pastorali", il testo-base della missione sacerdotale di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana (Firenze), scomparso il 26 giugno 1967, a 44 anni, dopo una lunga malattia. Lo lanciano, per il quarantesimo anniversario della morte del priore, i suoi ex allievi aderenti alla Fondazione "Don Lorenzo Milani".

E per la ricorrenza pubblicano anche una sua lettera inedita scritta nel 1957 a uno dei suoi studenti. Quel giovane era Alberto, un ragazzo che ancora "non era riuscito ad apprendere l'arte della parola" anche a causa della sua povertà, e per questo don Milani gli confessa tutto il suo "dispiacere". E' un testo breve, molto intimo e problematico, nel quale il sacerdote scrive, tra l'altro: "Alberto, rispondi, sono 4 anni che ti frugo negli occhi, che guardo le tue labbra per vedere se si muovono, se buttano fuori qualche cosa della tua anima tormentata...". E si rammarica perché quel ragazzo ancora non ha avuto la "fortuna, la grazia, il privilegio" di "padroneggiare la parola".

A 40 anni dalla morte, torna, dunque, alla ribalta don Milani. Prete scomodo per antonomasia, punito dall'allora Sant'Uffizio per le sue idee pastorali, inventore della scuola per gli ultimi, anticipatore, per alcuni versi, del '68, il priore sarà commemorato il 26 giugno prossimo a Barbiana dal cardinale di Firenze Ennio Antonelli. Quasi un risarcimento post-mortem, perché il porporato - oltre a celebrare una Messa - parteciperà a un convegno dedicato ai libri di don Milani, tra i quali - molto atteso - "Esperienze pastorali", il testo che l'ex Sant'Uffizio giudicò "inopportuno", facendolo ritirare dal commercio.

"Dopo 40 anni, quella condanna suona come un evidente controsenso, va cancellata", lamenta Michele Gesualdi, uno dei primi 6 allievi di Barbiana, sindacalista Cisl, per 2 legislature presidente della Provincia di Firenze, ed ora presidente della Fondazione "Don Lorenzo Milani". "Sarebbe bello - confessa - che dal Vaticano, magari dal Papa o dal prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, venisse una parola definitiva per cancellare quella ingiustizia, anche perché è risaputo che don Milani non ha mai detto niente, nemmeno una sola parola, in contrasto con gli insegnamenti ecclesiali.

Il priore era un sacerdote attaccatissimo alla Chiesa e alla sua missione primaria, cioè il riscatto dei poveri attraverso l'insegnamento, la cultura, la parola viva". Nel 1992 la Cisl, ricorda Gesualdi, "lanciò un analogo appello, firmato anche dall'allora segretario Franco Marini, ora presidente del Senato. Ma il Vaticano disse che il problema era superato perché l'ex Sant'Uffizio non c'era più. E invece è ora che la Chiesa dica una parola di chiarezza su quella condanna per un atto di giustizia verso il priore".

La Fondazione presieduta da Gesualdi è nata nel 2004 per rilanciare l'insegnamento del priore e salvare la scuola da un inevitabile degrado. Oggi la struttura - 2 aule austere, un laboratorio con le strutture didattiche usate dal priore e i suoi allievi - "è meta costante di visite da parte di scolaresche e studiosi che intendono conoscere e approfondire il percorso didattico", racconta Giancarlo Carotti, ex allievo del priore al quale la Fondazione ha affidato il compito di accogliere e guidare i visitatori.

"Ma non sarà mai un museo", giura Gesualdi, che intende esportare "il modello Barbiana in quelle aree, periferie metropolitane, paesi poveri, dove oggi c'è tanto bisogno degli insegnamenti di don Milani". La prima meta sarà l'Albania, dove il 12 e il 13 giugno si terrà un convegno dedicato al priore in vista dell'apertura di una scuola per ragazzi poveri.

(8 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 05, 2007, 11:30:03 pm »

Boemi: «Massoni e politici al tavolo della ’ndrangheta»
Enrico Fierro


Cos’è la ‘ndrangheta oggi? A che punto è la lotta alla mafia italiana ritenuta all’unanimità la più ricca e potente. I dati sono allarmanti: 36 miliardi di euro l’anno è il suo bilancio, il 3,4% del pil italiano, il 18% della ricchezza prodotta in Calabria, l’assoluto monopolio mondiale del traffico di cocaina. E poi: 132 cosche, 10mila affiliati,almeno 5mila nella sola città di Reggio. Una potenza militare che ha caratteristiche di massa. I dati elaborati dalla Direzione nazionale antimafia parlano di una «densità criminale» pari al 27% della popolazione. Uno Stato nello Stato, che uccide uomini politici (Fortugno), condiziona istituzioni e penetra finanche negli apparati, minaccia magistrati, l’ultimo, in ordine di tempo, Francesco Mollace della procura di Reggio. Ne parliamo con Salvatore Boemi, il procuratore da pochi mesi ritornato al vertice della Dda. Lo incontriamo in una giornata di luglio nel suo ufficio in Procura. I condizionatori sono rotti e gli impiegati ansimano. È impossibile ricevere telefonate dall’esterno perché il «passante» del centralino è saltato. Piccoli segni di come lo Stato combatte la mafia più ricca.

Dottor Boemi, lei torna in questo ufficio dopo anni e trova una ‘ndrangheta più forte di prima.

«Le darò una risposta controcorrente. Certo, la ‘ndrangheta è molto forte, ma si sappia che tutto ciò che negli anni Ottanta e Novanta rendeva ingestibile la lotta alla sua potenza, oggi è superato. La forza della ‘ndrangheta è data oggi solo dalla ricchezza, è potente ma è più vulnerabile, giudiziariamente attaccabile perché ha perso le sue peculiarità. Oggi sappiamo tutto della sua organizzazione, la ‘Ndrangheta non è più segreta, non è più protetta dall’omertà dei suoi affiliati. E tutto ciò grazie al lavoro di quegli anni: più di 90 cosche portate alla sbarra, condanne definitive per almeno 64 di esse, oltre mille condannati per associazione mafiosa. Non è poco, mi creda, soprattutto in un clima che puntava a dividerci, a mettere i magistrati gli uni contro gli altri. C’erano campagne di stampa, manovre, un inferno. Ora è diverso, siamo uniti e possiamo lavorare in altre direzioni».

Quali?

«Indagare sulla borghesia mafiosa, quella interna alle cosche - il potere che si tramanda di padre in figlio -, e quella esterna dei colletti bianchi che favoriscono l’impresa ‘ndranghetista e agevolano il passaggio da una economia criminale ad una economia pulita».

Lei ha parlato del rischio di una nuova guerra di mafia.

«Il pericolo c’è e lo vedo soprattutto a Reggio. Qui i baronati mafiosi non stanno più rispettando i patti, non dividono la ricchezza. C’è molto malcontento tra la base della ‘ndrangheta, questo può provocare una nuova guerra».

La forza della ‘ndrangheta è nei rapporti con la massoneria deviata. Qual è la situazione di oggi?

«La massoneria deviata non è mai scomparsa, né si è autosciolta in Calabria. ‘Ndrangheta e massoneria deviata fanno parte di uno stesso, identico sistema criminale. Si tratta di un modello integrato di capacità criminali individuali e collettive, una sorta di tavolo di lavoro dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente mafiose. Questo “tavolo” ha sedute intense quando si tratta di decidere la spartizione di opere e fondi pubblici. E, come per il passato, il rapporto con politica e istituzioni dello Stato deviate costituisce la logica vincente per la ‘Ndrangheta. La mafia calabrese non avrebbe la quotazione che ha se non potesse presentare certe credenziali».

Mafia e politica: l’arresto del consigliere comunale di An Massimo Labate, l’ex poliziotto accusato di favorire la cosca Libri, è un punto di arrivo o è solo l’inizio?

«L’attenzione nostra sui rapporti tra mafia e politica è massima».

Omicidio Fortugno, il procuratore Scuderi dice che puntate ad un livello politico superiore.

«C’è una inchiesta Fortugno-bis che va in questa direzione».

Nell’operazione che ha portato ad importanti arresti di membri della cosca Labate dei 36 possibili arrestati, nove vi sono sfuggiti. Qualcuno li ha avvertiti in tempo, una talpa...

«Questo dimostra come la ‘ndrangheta riesca a penetrare dovunque. La talpa la stiamo cercando, non troveremo pace fino a quando non avremo dato un nome a chi ha tradito la fiducia dello Stato».

Dottor Boemi, la procura è unita?

«Sì, lavoriamo sodo e i risultati si stanno vedendo. Siamo uniti, speriamo che qualcuno non intenda dividerci. Farebbe solo il gioco della ‘ndrangheta».

Però si discute sulla composizione della Dda. Lei chi vorrebbe il dottor Francesco Mollace o il dottor Nicola Gratteri al suo fianco?

«Sono bravi entrambi, tutti e due possono dare un grande contributo di professionalità e di dedizione al nostro lavoro».

Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 9.09   
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:26:25 pm »

Luciano Gallino: «Ora vogliono ammazzare i sindacati»
Roberto Rossi


Attacco residuo premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. Adesso anche casta. Il sindacato in Italia è sottoposto a un pesante attacco come mai prima d’ora. E che ricorda quello che subì, negli anni 80, quello inglese. «È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.

Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?

«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».

Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?

«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».

Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?

«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».

Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?

«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».

Il piano inclinato è l’ideologia liberista?

«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».

Ha vinto il concetto di modernismo?

«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».

Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?

«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».

Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?

«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».

Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?

«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».

Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?

«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».

Pubblicato il: 06.08.07
Modificato il: 06.08.07 alle ore 8.51   
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:34:27 pm »

06-08-2007

Se i bilanci regionali non sono sani
Gilberto Turati


E’ uscito venerdì 20 luglio - commentato solo da qualche giornale - un rapporto di Moody’s sulle nuove regole introdotte nell’ambito delle gestioni sanitarie regionali, con alcuni giudizi sugli interventi di ripiano dei disavanzi pregressi che offrono lo spunto per un commento. Riassumo brevemente il contenuto del rapporto.

Innanzitutto, Moody’s suggerisce che il Patto per la Salute introdotto con la Finanziaria 2007 ha previsto un quadro di regole più stringenti per le Regioni con elevati disavanzi per la sanità.


Ridurre i costi…

L’aspetto principale di questo nuovo quadro viene riscontrato nell’adozione di meccanismi sanzionatori automatici basati sull’incremento dell’imposizione locale (di fatto l’aumento delle aliquote d’imposizione dell’addizionale IRPEF e dell’IRAP). L’incremento dell’imposizione a livello locale va chiaramente a colpire i soli elettori regionali; e tutto ciò dovrebbe quindi rendere i politici locali più attenti nel raggiungimento degli equilibri di bilancio. Peraltro Moody’s "prende atto" che la maggior parte degli interventi "automatici" sarebbero riferiti all’IRAP, una soluzione "controproducente e insostenibile sul lungo periodo poiché sfavorisce la crescita economica". Un’altra innovazione positiva che il rapporto sottolinea è la necessità per le Regioni con deficit elevati (pari o superiori al 7% dei rispettivi fondi annuali in base ad un accordo del marzo 2005) di adottare dei "Piani di rientro" dettagliati che dovranno essere approvati dal Ministero dell’Economia e dal Ministero della Salute. Nel rapporto sono analizzati i piani di Campania, Lazio, Abruzzo, Molise e Liguria (alcune di queste Regioni presentano peraltro disavanzi strutturali da anni).

Le due strategie di fondo comuni a tutti i Piani (al fine di azzerare i deficit pregressi e raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2010) sono, da un lato la possibilità di accedere a fondi aggiuntivi erogati a tal proposito dallo Stato, dall’altro la realizzazione di risparmi di spesa significativi. Per quanto riguarda la prima strategia, Moody’s parla di "intervento sistemico a sostegno del merito creditizio delle Regioni italiane", di "fase ultima del meccanismo di finanziamento della sanità in Italia, nonché una soluzione per poter garantire la ripartizione di opportuni fondi a ogni regione per garantire i LEA", da non considerarsi interventi di salvataggio straordinario, nemmeno nel caso del Lazio che ha ricevuto un prestito garantito di 5 miliardi di euro. Per quanto riguarda la seconda strategia, i principali interventi prefigurati per il contenimento dei costi nei Piani sono individuati nella razionalizzazione dei costi del personale, nella riduzione della spesa farmaceutica e della mobilità interregionale, nel miglioramento delle procedure di acquisto di beni e servizi, nella riorganizzazione dell’offerta di servizi sanitari con l’intento di migliorarne efficienza ed efficacia, nell’introduzione di tetti di spesa e nella revisione delle tariffe. Per dare un’idea dei risparmi attesi da questi interventi, Moody’s sottolinea che le Regioni coinvolte dovrebbero limitare la crescita dei costi al 2% circa per il triennio 2007-2009, quando lo stesso aggregato è cresciuto tra il 2001 e il 2005 del 6-7% annuo, "un impegno gravoso e un’ardua sfida".

La valutazione delle regole introdotte con la Finanziaria 2007 come un passo avanti in termini di trasparenza e di "irrigidimento" dei vincoli di bilancio regionali è certamente da condividere. Si tratta di un meccanismo che va nella giusta direzione per le ragioni discusse anche sopra, perché soprattutto fa cadere la responsabilità dei dissesti sugli amministratori locali. Ma soffre del limite evidenziato anche nel rapporto di Moody’s: potrebbe non essere sostenibile a lungo; o addirittura essere insufficiente (o impraticabile) in alcune Regioni con limitata base imponibile (le aliquote non possono essere innalzate all’infinito). Il meccanismo sanzionatorio automatico dovrebbe quindi prevedere (accanto alla leva fiscale) altri incentivi al raggiungimento dell’equilibrio finanziario. Come già discusso in un altro intervento sarebbe estremamente utile l’introduzione di una legislazione per il dissesto finanziario delle Regioni, che preveda anche – nei casi più gravi – la perdita di sovranità e la rimozione degli amministratori. Oggi abbiamo una legislazione simile ma è limitata agli Enti Locali.


…e gli interventi dello Stato

Considerare tuttavia la possibilità di accedere a risorse aggiuntive messe a disposizione dello Stato non come un intervento straordinario, ma come un elemento implicito nel sistema di finanziamento ex post della sanità regionale italiana sembra francamente una valutazione non condivisibile (anche se apparentemente sempre più di moda). Due sono le interpretazioni: o si ritiene che comunque lo Stato interverrà a sostegno delle Regioni sempre e comunque, indipendentemente dalla dimensione del deficit realizzato e dalle responsabilità oggettive degli amministratori regionali; e allora coerentemente non ha senso parlare di rating delle emissioni regionali: se lo Stato onorerà comunque i debiti regionali, il rating di tali emissioni deve essere quello applicato alla carta della Repubblica, ma allora anche la gestione della sanità dovrebbe tornare in mano allo Stato (nel rapporto peraltro c’è una frase sibillina su questo punto: "Moody’s ritiene che il più alto livello di coinvolgimento del governo centrale nelle decisioni delle Regioni in campo sanitario rifletta l’intenzione di armonizzare i sistemi sanitari regionali").

Oppure si ritiene che lo Stato non interverrà sempre e comunque, ma solo in casi eccezionali per evitare crisi di fiducia sistemiche; e allora coerentemente ha senso parlare di rating regionali, perché sono le Regioni che con i loro fondi e le loro risorse debbono onorare i propri impegni finanziari (e con le loro capacità gestire la sanità). In un momento nel quale il paese sta di nuovo provando a discutere un provvedimento sul federalismo fiscale, la seconda interpretazione mi sembra quella corretta. E l’intervento di 5 miliardi di euro a favore del Lazio (una cifra enorme) è un intervento straordinario per tappare il buco ed evitare il dissesto. Al di là dell’aspetto definitorio, l’interpretazione alternativa degli interventi di ripiano dei disavanzi ha anche un altro problema: tende a perpetuare il finanziamento delle inefficienze e degli sprechi nelle gestioni, evitando invece di metterli in luce.

E che ci siano sprechi e inefficienze sembra ormai accettato da tutti. A sostegno di questo punto si vedano comunque la tabella 1: il Lazio ha una spesa pro-capite per la sanità non inferiore a quella di altre Regioni, ma non c’è alcun legame tra la spesa pro-capite e la composizione della popolazione per classi di età, una delle determinanti principali della domanda di servizi sanitari. Sono quindi le strutture di offerta ad influenzare la spesa, non i bisogni dei cittadini.
Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato: nella discussione di politica sanitaria (e anche nel rapporto) si parla spesso di riduzione attesa dei costi ma non si discute mai del livello dei servizi. Il problema da affrontare – se si vogliono davvero combattere le inefficienze e non fare un mero maquillage dei bilanci regionali – non è quello di ridurre i costi totali, ma di ridurre i costi medi di produzione e di fornitura del servizio. In altre parole, per fare un esempio, il problema non è quello di chiudere gli ospedali e ridurre i posti letto ma di riorganizzare le modalità di produzione dei servizi di assistenza ospedaliera in modo più razionale ed efficiente.

Questa è la vera sfida che attende gli amministratori regionali.

da lavoce.info/news
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:36:14 pm »

7 Agosto 2007

Obesità pubblicitaria



Non è buono ciò che è buono. Se ha un marchio è buono. Se non lo ha è insipido. Il contenuto è indifferente. Mangiamo il contenitore. Mangiamo la pubblicità del contenitore.

Una ricerca dell’Università di Stanford sulla scelta del cibo da parte dei bambini ha provato che McDonald è più buona. Stesse patatine fritte, scelta tra confezione con il marchio e senza. Il 77% dei bambini ha preferito la patatina McDonald.

La pubblicità televisiva fa la differenza. La pubblicità dei cibi per i bambini, in cui i bambini sono l’oggetto, il target, l’ascoltatore plagiato. Trasformati in apprendisti consumatori. La merendina, le patatine, i biscotti, i wurstel, le bevande e tutto il resto. Questa pubblicità va vietata.

L’obesità infantile in Italia non esisteva, oggi è la norma. E’ un’obesità pubblicitaria. Il virus ingrassante è lo spot.

La pubblicità è pericolosa per gli adulti, ma per i bambini può essere letale. E’ pedofilia commerciale, abuso di menti in formazione. I bambini devono abituarsi a mangiare cibi, non brand. E se possibile senza contenitore. Il latte, ad esempio, deve tornare ad essere solo latte. Mucca, latte, bottiglia, bambino. Semplice. In alcuni paesi è possibile comprare il latte, solo latte e niente brand, da distributori automatici. Si arriva con una bottiglia e si fa il pieno. E il latte è locale e costa meno. Chiedetelo anche al vostro comune.

Secondo il libro bianco della Comunità Europea sull’obesità del 2007: “Negli ultimi trent’anni il numero degli obesi in Europa è cresciuto in modo drammatico, in particolare tra i bambini, dove il numero di obesi è stato stimato nel 30% nel 2006”. Dalla cucina mediterranea ai sofficini e alla carne in scatola. Mamme italiane dove siete? I vostri figli non devono ingrassare come me.

da beppegrillo.it
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:38:14 pm »

Scherzi della Rete Inglese maccheronico, ironie su Di Pietro

Scalfarotto spara a zero sull'ex pm che sul suo sito scivola sulla traduzione e diventa l'uomo delle «eggs in the basket» 

 
Ora c'è il rischio è che passi alla storia dei blogger come l'uomo delle «eggs in the basket».

Traduzione dall'inglese maccheronico: l'uomo che ha rotto le uova nel paniere, dove il paniere è inteso come il nascente Partito democratico e l'uomo in questione altri non è che Antonio Di Pietro, ministro e leader dell'Italia dei Valori. La storia è semplice: l'ex pm tiene un blog, universalmente riconosciuto come ben aggiornato, che viene tradotto anche in inglese. E fin qui nulla di male, anzi. Peccato però che un suo messaggio, postato nei giorni della sua esclusione dalle primarie del 14 ottobre, stia facendo il giro della Rete, scatenando ironie e sorrisetti di tutti i tipi.

A sollevare il caso è stato Ivan Scalfarotto, che on line ha sparato a zero sul sito dell'ex pm sottolineandone impietosamente gli errori di traduzione.

«Meno male che abbiamo un politico attento al futuro, uno che sta su YouTube e su Second Life, uno internazionale, uno che vive in Europa» ha intinto la tastiera nel veleno il manager, candidato alle primarie dell'Ulivo nel 2005. Che, avendo vissuto per anni a Londra, è sobbalzato dalla sedia quando alla sesta riga del post dipietrese intitolato «the Democratic Party has missed an opportunity» ha scoperto che Di Pietro è stato fatto fuori dai papaveri del Pd in quanto: «a true real competitor who would have broken the eggs in the basket». Appunto l'uomo che ha rotto le uova nel paniere.

Neoligismi a parte, Scalfarotto ha annotato altre stranezze linguistiche del post, nel quale "non esiste" diventa It does not exist, "formare un partito" si trasforma in To form a party e "riflettere" to reflect". Da qui l'invito finale che pesca nel puro dipietrese e sa di sberleffo: «Tonino, sorry, but all this really non c'azzecca. How would you say that? It doesn't stick, it really doesn't».


Luca Gelmini
07 agosto 2007
 
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:39:32 pm »

IL PADRE , I QUATTRO FIGLI, IL NIPOTE CAMPIONE DI NUOTO STORIA DI UNA FAMIGLIA CHE HA SEGNATO LA DOLCE VITA

La dinastia Rosolino

E lo "Shaker" era una trappola d´amore

Mimmo Carratelli


I luoghi Da "La Conchiglia" al "Putipù" oltre mezzo secolo di iniziative coronate da successo
 
L´esordio
Nel locale di via Partenope esordì nel 1948 Renato Carosone

Incendio
Il night andò in fumo negli anni Settanta per un corto circuito

L´attore
Ingrid Bergman lo chiamava "il mio barman sorridente" e gli diede una parte  Il padre Angelo li sovrastava i suoi figli, Antonio, Salvatore, Giorgio ed Enzo, i quattro moschettieri della dinastia dei Rosolino, e a ciascuno ha trasmesso uno dei suoi geni dell´ospitalità, tra night, ristoranti e alberghi, ma ha dovuto attendere la nascita del nipote Massimiliano, il ragazzo-pesce, perché nella dinastia qualcuno lo eguagliasse in altezza, un metro e 90; 47 di piede, come pinne olimpioniche.

Antonio Rosolino, col ristorante "Il posto accanto" di via Nazario Sauro, ha assorbito dal padre il gene della ristorazione e il gusto dello spettacolo proponendo artisti musicali e di cabaret nel salone del ristorante. Salvatore ha assorbito lo stesso gene (rivalutando, tempo fa, la ristorazione del Circolo Canottieri Napoli) fino al giorno in cui si è scoperto padre del più forte nuotatore italiano facendone il suo mestiere preferito. Giorgio, oltre a quello della ristorazione, patron de "La Cantinella", che ebbe il suo massimo fulgore al tempo dei tre viceré di Napoli, ha assorbito dal padre Angelo il gene del night aprendo il "Club della Cantinella" in via Cuma. Enzo è il proprietario del "Miramare", l´albergo alla sommità di via Nazario Sauro che resta legato ai fasti dello "Shaker", il locale notturno che fece epoca negli anni Cinquanta e Sessanta.

Per non disperdere l´eredità paterna, Antonio Rosolino ha costretto ultimamente le figlie Astrid, 29 anni, splendida bruna con riflessi di rame, e Monica, 24 anni, bionda con un appeal da fotomodella, ad aprire e gestire in via Lucilio il "Putipù", locale trendy e giovanile, alti sgabelli, drink e menù particolari in una elegante atmosfera bianco-avorio, luminosa e calda, col sottofondo di trentamila "pezzi" musicali computerizzati, da Frank Sinatra a Pino Daniele. Antonio avrebbe voluto imporre al locale la lunga denominazione di "Il posto accanto al posto accanto", bocciato dalle figlie che, scartato anche la troppa fascinosa denominazione di "Sherazade", hanno prevalso col veloce e sonoro nome del più allegro strumento musicale napoletano.

Il più scanzonato dei quattro moschettieri Rosolino è sicuramente Salvatore, corteggiatore impenitente che però, nel corso di una crociera sulla "Achille Lauro", si bloccò davanti ai capelli biondi, al sorriso luminoso e all´ironia di Carolyne, australiana di Montrose, che lo imprigionò in un felice matrimonio e lo rese padre di un bimbo quasi obeso che cominciò a nuotare nelle acque di Villa Beck prima di diventare Massimiliano Rosolino, il primo napoletano a vincere una medaglia d´oro nelle piscine olimpiche. Massimiliano ha la rispettabile altezza del nonno, la magrezza scattante della madre e il gene di Casanova del padre, catturando bellezze al bagno e showgirl con la stessa facilità con cui tocca e conquista i "blocchi" del nuoto. Uno splendore di ragazzo biondo, con le facili definizioni di "australiano di Napoli" e "napoletano di Melbourne", che si ritiene più bello di Weissmuller, il leggendario tritone della Pennsylvania, "nuotatore del XX secolo" e Tarzan sullo schermo, se non fosse che, nella famiglia di Max, la bellezza si chiama Vanessa, sua sorella, un vertiginoso schianto di ragazza, irraggiungibile con i tacchi.

Angelo, il capostipite, è stato un mito. Ci siamo persi più volte nel suo disordinato archivio di fotografie e ritagli di giornali, un lungo racconto che comincia negli anni Venti quando aprì il suo primo locale, una latteria-bar-biliardo al numero 21 di via Santa Teresa al Museo. Negli ultimi tempi della sua vita, sempre imponente e dritto nella persona, ci raccontava senza malinconia il suo lungo regno di seducente inventore di locali, dal lungomare alla collina di Posillipo, un impero di night e ristoranti entrati nella storia di Napoli. Il primo night lo aprì in via Morelli, dov´è oggi un negozio di antiquariato. Si chiamava "La Conchiglia", progettato dall´architetto Gino Avena, colonne bianche, un acquario e un´enorme conchiglia di gesso all´interno, la tana musicale del dopoguerra degli aristocratici e degli snob napoletani, belle donne e uomini di seduzione, ma anche ospiti che giungevano da ogni parte d´Italia.

Lo "Shaker", annesso all´Hotel Miramare, fu il suo trionfo e accompagnò la nostra giovinezza nella felice Napoli degli anni Sessanta quando il lungomare era punteggiato di locali famosi, il "Trocadero" della principessa Maria Pignatelli che, un po´ miope, riconosceva le ospiti dal profumo che usavano, e il "Rosso e nero" per l´aperitivo elegante. Lo "Shaker" aveva panchette di legno e puff arancione disseminati sul pavimento. Lì esordì Renato Carosone, nel 1948. Angelo Rosolino gli fece firmare un contratto di 14 mila lire a sera su un pezzo di cartaccia buastra che si usava per avvolgere il pane e la pasta. Quando Carosone se ne scappò a Roma, Rosolino trattenne il chitarrista olandese Peter Van Wood che spopolò con "Butta la chiave" e "Tre numeri al lotto". Per la cronaca erano il 24, il 60 e il 38. Lo "Shaker" fu una trappola d´amore. Vi nascevano fidanzamenti e matrimoni. Vi debuttò Peppino di Capri. Vi cominciarono la loro carriera Sergio Endrigo e Fred Bongusto, Ettore e Guido Lombardi, due voci, una chitarra e tanta luna. Marino Barreto vi spopolò con la sua voce nasale cantando "A-a-arriverci". George Moustachi vi tenne un memorabile concerto.

Era un mondo di belle ragazze e affascinanti entraineuses. Una, spagnola, se la sposò Mario Gherarducci, amico carissimo con cui dividevamo le serate e il lavoro di giornalisti sportivi. I giornalisti erano di casa allo "Shaker": Giacomo Lombardi, Gianni Nicolini con i suoi capelli rossi, quello spilungone di Bruno Lucisano, Umberto Borsacchi, un´altra pertica di giovane uomo che lavorava all´Ansa. Allo "Shaker" incontravamo le più belle ragazze di Napoli, la rosseggiante Adriana Battaglia, Gigliola Fragola, Annamaria Volpe, Carlottina del Pezzo, le due sorelle Gregoretti, Maria Parisio Perrotti, Elena e Loretta Calvanese, Lucia Ummarino, Malì Morelli, Patrizia Mannaiuolo, Jole La Stella. Di loro scrivevano nei "Mosconi" Etta Comito, giornalista de "Il Mattino" che intervistò Margaret d´Inghilterra ed Evita Peron, e Settimia Cicinnati, dalla chioma fulva, che sul "Roma" si firmava "Cicin".

Allo "Shaker" passavano l´imprescindibile Pupetto Sirignano, Lucio d´Aquara, Livio De Simone, Augusto Cesareo e la sua "Luna caprese", Maurizio Barracco, Luigi e Peppino Leonetti, Fofò Buonocore, i pallanuotisti della Rari Nantes e tutti i boys e le girls di via dei Mille. Quando, negli anni Settanta, lo "Shaker" bruciò per un corto circuito finì un´epoca. Era la vigilia di Natale e furono fatali le scintille dell´intreccio di luci su un abete che prese fuoco.

Fu all´Hotel Miramare che intervistammo Coccinelle, il primo transessuale d´Europa. Era la primavera del 1959. Lei era una soubrette parigina che sul passaporto risultava di sesso maschile col nome di Jacques-Charles Dufresnoy. Era esile, capelli di seta di un biondo chiarissimo, pelle candida. Il chirurgo francese Georges Borou l´aveva "fatta" donna a Casablanca. Tre anni dopo, sposò un giornalista. Allo "Shaker" si fece palpare il seno e le natiche. Ed eravamo al "Miramare" quando a mezzanotte arrivò Aristotile Onassis, uno dei clienti più affezionati di Angelo Rosolino. Era affamato e divorò un piatto di pasta e fagioli di cui era ghiotto. Ad Angelo voleva un gran bene Ingrid Bergman che lo chiamava "il mio barman sorridente" e voleva farne un attore. Gli assegnò una particina nel film "Viaggio in Italia" con George Sanders.

Angelo Rosolino è stato un vulcano di idee. Ovunque organizzava locali alla moda. Alle "Axidie" di Vico Equense portò don Jaime de Mora y Aragon, famoso con l´appellativo di Fabiolo. Era il fratello della regina Fabiola del Belgio. Rosolino lo costrinse a suonare il piano che divenne poi un suo hobby. Dovunque c´era la "mano" di Angelo Rosolino. Al "Castello" di Ischia, al "Lido Azzurro" di Torre Annunziata nel suo periodo d´oro. Al "Giardino degli aranci", sulla collina di Posillipo, suonava Armando Trovajoli. Angelo ci diceva: «Non so quanti locali ho aperto a Napoli. Quando Xavier Cugat venne a suonare al Metropolitan con Abbe Lane, allestii un dopo-teatro con diciotto tavoli e a ognuno di essi suonava un violinista ungherese».
Il tempo è passato e ha cancellato la dolce vita napoletana. Ma la dinastia dei Rosolino continua con i quattro moschettieri Antonio, Salvatore, Giorgio ed Enzo. Il mondo è cambiato, il ballo sulla mattonella è finito, e su Napoli le stelle stanno a guardare. Meglio non sapere che cosa dicono.

(07 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 05, 2007, 11:57:52 pm »

5/9/2007
 
I legami sociali antidoto all’insicurezza
 
PAOLO FERRERO

 
Il dibattito sulla sicurezza che si è aperto nel nostro paese all'indomani dell'ordinanza del Comune di Firenze sui lavavetri si accompagna nelle pagine dei giornali alla cronaca di una lunga serie di violenze scoppiate tra vicini di casa spesso per futili motivi. Si tratta di due elementi a prima vista privi di relazione. Ma possiamo esserne così sicuri? Quando parliamo di «sicurezza» prima ancora della minaccia che pensiamo possa incombere su di noi, facciamo riferimento al modo in cui ciascuno percepisce lo spazio circostante. Mi spiego, a casa nostra ci sentiamo forti e sicuri ma come varchiamo il portone cominciano a preoccuparci, la città, in particolare, ci può apparire come un luogo estraneo, in cui si è soli, privi di sostegno o di difese. Ecco che l'insicurezza comincia a farsi strada dentro di noi, che l'inquietudine o la paura acquistano un profilo concreto: cosa vorrà quel mendicante o il lavavetri di turno? Non voglio certo sottovalutare gli effetti della criminalità, o sottostimare i timori delle persone, ma credo si possa convenire sul fatto che la paura inizia dall'incontro con chi ci è estraneo, prima ancora che ci tocchi di subire un qualche torto, per usare un eufemismo.

Detto altrimenti, il senso di insicurezza ci accompagna, diventa una sorta di lente con cui percepiamo il mondo circostante. Una percezione che si forma attraverso una serie di cerchi concentrici, passa al vaglio di reti di relazioni sempre più strette e esili, fino a trovarci completamente da soli. Se fuori dal nostro ambito ristretto di affetti tutto ci fa paura, ciascuno rappresenta un possibile pericolo, ecco che perfino il dirimpettaio può diventare un nemico irriducibile. Si tratta di comportamenti individuali, certo, di un cortocircuito della ragione in cui trova spazio l'odio più feroce. Ma come non interrogarsi sul fatto che nel nostro Paese questa paura e spesso il risentimento individuale sono stati anche coltivati, eletti a comportamenti socialmente stimati da chi ha fatto della xenofobia e della ricerca del capro espiatorio il proprio fondo di commercio politico? E giù insulti ai soliti stranieri, immigrati, zingari - anche se recentemente c'è anche chi ha riesumato perfino il «complotto ebraico-massonico» - indicati come responsabili di ogni male. Sparare sui gommoni, disinfettare i sedili su cui si sono seduti gli stranieri o addirittura ripristinare la pena di morte: il catalogo di questa piccola barbarie nostrana è noto. La demagogia populista non ha più smesso di fabbricare nuovi «nemici pubblici».

Ieri il sindaco di Milano Letizia Moratti, proprio dalle colonne di questo giornale, se la prendeva con la visione «buonista» dell'immigrazione che accompagnerebbe a suo dire il Ddl che porta la mia firma e quella del Ministro dell'Interno Amato che intende invece riportare a legalità e regolarità il fenomeno. Questo dopo che la «faccia truce» mostrata dalla destra sul tema attraverso la Bossi-Fini ha prodotto un aumento vertiginoso della clandestinità, rendendo pressoché impossibile l'ingresso regolare degli immigrati in questo paese.

Ma ora il cerchio sembra chiudersi. Non sarà che forse tra le tante risposte che vengono oggi offerte al bisogno di sicurezza dei cittadini nessuna sembra parlare davvero in termini di «vicinanza», di ascolto, di creazione di nuovi legami sociali, di legami tra le persone, tra le troppe individualità e solitudini che compongono spesso le nostre città? Come si può sentirsi sicuri se ci si sente soli, isolati, vulnerabili perché privi di legami con chi ci sta intorno? E' su questo terreno che credo si possa fare qualcosa per spezzare la spirale dell'odio, il risentimento e la paura. Facendo in modo che le persone si conoscano, si incontrino, escano di casa per «buttare l'occhio sul cortile di fianco» - come suggeriva ieri Elena Loewenthal su queste pagine. Penso alle mille esperienze del volontariato e ai tanti laboratori di solidarietà che esistono nelle nostre città, a tutte le forme dello stare insieme, dai circoli degli anziani ai centri giovanili che hanno cercato in questi anni di resistere alla disgregazione sociale, alla perdita di legami tra le persone, al venir meno della solidarietà nei quartieri, nelle città. Reprimere il crimine è sacrosanto, ma pensare che poi ci si sentirà più sicuri se non si fa qualcosa anche per ricreare dei veri legami sociali nelle nostre città è una pericolosa illusione.

Ministro della Solidarietà sociale
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 06, 2007, 12:00:06 am »

POLITICA

Il titolate del Viminale torna sul pacchetto sicurezza allo studio del governo

E agli attacchi della sinistra radicale replica: "Dividerci è sbagliato e assurdo"

Amato "Garantire la sicurezza rischiamo una svolta fascista"


VIETRI SUL MARE (SALERNO) - "Se fossimo così incoscienti da ritenere che la sicurezza non è un problema creeremmo le condizioni per una svolta reazionaria e fascista nel paese. Se c'è una cosa che il democratico deve sapere fare è non svegliare la tigre della reazione". Lo ha detto il ministro dell'Interno Giuliano Amato, durante un dibattito alla Festa della Margherita.

Amato ha difeso con forza il pacchetto sicurezza che il governo sta approntando e, di fatto, ha ribadito la linea dura già illustrata nella sua intervista a Repubblica. "Sono il primo - ha sottolineato - a sapere che uno dei miei problemi è, per esempio, scoprire il racket ma so anche che ci sono devianze e comportamenti trasgressivi che non dipendono da nessun racket. Se mia moglie al semaforo viene messa nelle condizioni che o si fa lavare il vetro o viene aggredita che faccio, non la devo proteggere? La devo far diventare fascista? La sicurezza - ha spiegato il ministro - è il fondamento della libertà, noi stiamo facendo un test di tutto questo".

Amato, indirettamente, ha anche risposto alle accuse che gli vengono rivolte dalla sinistra radicale. Secondo il ministro è naturale che al varo di un pacchetto sulla sicurezza ci possano essere reazioni diverse dal centrodestra e dal centrosinistra, ma "che ci si divida all'interno del centrosinistra è sbagliato e assurdo".

Per il titolare del Viminale è necessario evitare di "scavare un fossato tra i miei indigeni e quelli che sono arrivati, perché significherebbe non distinguere più tra chi è venuto a lavorare onestamente, e questo lo dobbiamo accettare, e chi invece viene a delinquere". Citando i libri di diritto, il ministro dell'Interno ha aggiunto che "la sicurezza è fondamento della libertà. Questa è una grandissima verità".

Dopo aver ribadito che è necessario far marciare insieme politiche dell'integrazione e garanzia della legalità, Amato ha concluso con un ammonimento: "Se l'opinione pubblica dovesse pensare che noi ci disinteressiamo della sicurezza, allora avremmo scavato lo scivolo per portare l'opinione pubblica lontana da noi e dai valori democratici".

(5 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 22, 2007, 10:12:01 pm »

Sputa nel piatto dove anche lui ha mangiato 

di Roberto Pugliese
 
Molti anni fa durante un programma televisivo un ammiratore si rivolse a Carmelo Bene con queste parole: «Maestro, lei è un genio».
Il regista e attore gli rivolse il suo sguardo a sonagli.

Anche Veltroni

C'è da supporre che oltre a Silvio Berlusconi, un altro super-leader cominci ad essere seriamente interessato all'eutanasia della legislatura. Walter Veltroni, quando alla fine di giugno, pronunciò al Lingotto il suo discorso di investitura, aveva certamente bisogno di tempo. La sua missione era quella di far sbiadire l'impopolarità di Prodi e di ridare un profilo e una prospettiva al centrosinistra. Due o tre anni sarebbero stati la misura giusta per ridisegnare e stabilizzare la sua coalizione. L'estate ha cambiato lo scenario, il Partito democratico continua ad essere un "oggetto misterioso", incapace di rispondere alle attese deluse e recuperare i consensi persi. E, soprattutto, la frana dell'immagine sembra inarrestabile. L'ultimo colpo è quello inflitto da Beppe Grilo, che ha ridimensionato l'illusione che, da solo, il sindaco di Roma fosse capace di sanare il primo male di cui soffre la sinistra, cioè la sfiducia verso la "casta".

Veltroni non può certo tornare indietro, la sua elezione diretta del 14 ottobre è alle porte, il suo problema maggiore consiste oggi nell'evitare di essere coinvolto in prima persona nel generale fallimento del governo. Un'attesa di uno o due anni lo porterebbe a fondo. Potrebbe salvarsi solo se fosse possibile la costituzione di un esecutivo di larghe intesa o se si arrivasse ad una riforma elettorale proporzionale, come quella ispirata dal "modello tesdesco", che offrirebbero agli italiani l'immagine di una svolta. I due scenari, però, non sembrano possibili.

L'unica strada che può convenire al leader del Pd è a questo punto la scorciatoia elettorale. L'atto di morte del governo Prodi sarà vidimato nel momento in cui questa convenienza diventerà esplicita e renderà Veltroni libero di presentarsi con uno suo programma di svolta - certamente sarkozysta, benché edulcorato dai buoni sentimenti - e con un'immagine ancora forte. Libero, in altri termini, di scommettere sulla sua campagna elettorale, sul confronto diretto con Berlusconi e sugli handicap di cui soffre il centrodestra, ovvero la frammentazione politica, l'incognita sulla coerenza del programma rispetto alle attese del suo blocco sociale e la credibilità complessiva di una coalizione che tutti sanno capace di vincere nelle urne, ma che potrebbe aver difficoltà poi a governare.

Questo è lo spiraglio aperto tra il pantano prodiano e la scommessa di Veltroni. Nessuno si stupisca il giorno in cui la maggioranza finirà per un voto di Mastella o di Dini o di qualcun altro e in cui si scoprirà che la pistola fumante è in realtà nella mano del segretario del Partito democratico.Renzo Foa

Sputa nel piatto

Poi sibilò: «Ad essere un genio, in questo paese, ci vuol niente. Il vero genio consiste nell'essere imbecilli».

"L'imbecille di genio" Beppe Grillo, icona desolante di un paese dove la politica fa ridere e far ridere diventa politica, discende da lombi illustri: risale quanto meno al "fool" elisabettiano, il buffone di corte che insulta il re facendolo sganasciare; ma ha molto soprattutto dello juródivyi russo, l'Innocente eternato nel "Boris Godunov" di Pukin e poi di Mussorgski, il povero scemo del villaggio che con la scusa di essere tale può permettersi di accusare pubblicamente lo zar di regicidio e infanticidio senza essere toccato.

Insomma, è una figura e uno stereotipo culturale prima che politico. E in quanto tale non dice, né potrebbe, alcunché di nuovo. Se diviene un fenomeno di massa, importante, mediatico, ciò è dovuto all'accavallarsi con un'altra mutazione sociologica, ossia la trasformazione del nostro paese - ormai da molti anni - in pura e totalizzante "pancia".

Il termine è da tempo nel gergo dei politologi: "mal di pancia" è la metafora con cui si indicano i fastidi e gli imbarazzi di questa o quella forza politica nei confronti di atteggiamenti della propria stessa parte ma non condivisi; parlare "alla pancia" del paese (quello che fa Grillo, probabilmente spostandosi anche verso zone più inferiori) significa solleticarne istinti, rancori, voglie, insomma quel patrimonio di irrazionalità e emotività che, qualora non controllate, costituiscono la peste, l'epidemia capace di affossare democrazie ben più antiche e consolidate di quella italiana.

Una società civile ed evoluta, soprattutto in possesso delle proprie facoltà di responsabilità e autoanalisi, avrebbe già fatto tesoro - e da tempo - delle sconcertanti banalità enunciate dal signor Grillo, magari scremandole di quella volgarità e aggressività verbali, entrambe semplicemente teppistiche e squadristiche, che sembrano ormai ritenute indispensabili per "bucare" il muro della comunicazione e delle quali non sentiamo alcuna necessità d'incremento. Su questo Grillo non è maestro ma allievo, e i suoi docenti risiedono spesso e volentieri in Parlamento o alla guida di importanti mezzi di comunicazione. Viceversa, siccome l'Italia vive in questo momento una fase allarmante di eclissi di lucidità e di decomposizione del pensiero, Grillo è il "detonatore" (brutta parola: la usavano anche gli artificieri delle Br) del malessere collettivo, la "miccia" (ancora un lessico balistico che fa intravedere bombaroli e nitroglicerine) destinata a far implodere il fragile e autolesionistico sistema politico italiano. Pochi, e subito zittiti, quello che hanno sommessamente osservato quanto sia idiota, o in alternativa appropriato per un personaggio della serie Ai confini della realtà, dire che "dall'8 settembre '43 a oggi in Italia non è cambiato niente"; ancora meno quelli che, all'invocazione "io i partiti li voglio eliminare!" (nemmeno Mussolini si era spinto programmaticamente così avanti!), abbiano affettuosamente invocato un periodo di riposo per l'interessato, magari con il supporto farmacologico di qualche ansiolitico.

Forse hanno fatto bene. Se non tutto il male vien per nuocere, anche il cabarettista Grillo Giuseppe, foraggiato per decenni dalla Rai di Pippo Baudo, quindi fulgido esempio di italiano che sputa nel piatto dove ha mangiato a lungo, può tornare utile; purché si filtrino le poche - e lapalissiane - verità che enuncia dalla mole delle sciocchezze demagogiche urlate nelle piazze. Senza pensare di trarne - ahi, ancora un vizio italianissimo - qualche vantaggio di parte, ma consapevoli che se il re si mette ad inseguire il buffone sul suo terreno, presto troverà il buffone insediato sul trono. E, a quel punto, non ci sarà più niente da ridere per nessuno.

Roberto Pugliese

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Lo demonizzano perché hanno paura 
di Massimo Fini

 
Più impressionante e significativa della stessa manifestazione di Beppe Grillo è stata la reazione del mondo politico e di quella sua dependance che è il sistema televisivo.

Prima si è cercato di ignorare il fenomeno, di nasconderlo, di oscurarlo. il TG1 ha dato una brevissima notizia, senza immagini, del "V-Day", il TG5 è riuscito nell'impresa di far apparire semivuota una piazza che era invece gremita e debordava nelle vie circostanti. Poi, di fronte alll'evidenza, si è passati alla demonizzazione del comico genovese. Un po' la stessa tattica seguita con la Lega Nord che era anch'essa, almeno ai suoi inizi, un movimento antipartiti. Anche se questa volta le cose, data l'accelerazione stratosferica che sta avendo il nostro tempo, sono andate molto più velocemente. Grillo è stato bollato, in modo bipartisan, come fenomeno da baraccone, populista, qualunquista, fautore di una "deriva fascista". Prodi, definito scherzosamente dal comico "Valium" o "Alzheimer", ha ricevuto la solidarietà di tutti i partiti, e il suo linguaggio è stato definito di "sconcertante immoralità" (Sandro Bondi), come se gli uomini politici in questi ultimi anni non ci avessero abituati a ben di peggio, fuori e dentro il Parlamento tanto da subire, proprio recentemente, un duro richiamo dalla Corte di Cassazione nell'ambito di una sentanza che si occupava del turpiloquio politico. Anche il presidente Napolitano ha sentito il bisogno di scendere in campo (definendo "pericoloso un clima in cui i partiti vengono messi indiscriminatamente sotto accusa"), in una contesa che non lo riguarda per nulla, se non per il fatto di essere, come Capo dello Stato, non solo il principe dei privilegiati ma perchè gode di questi privilegi da epoca immemorabile non avendo mai fatto altro che il parlamentare e non avendo lavorato un solo giorno in vita sua. Ma l'intervento più grave è stato quello del direttore del TG2, Mazza, che con un linguaggio circonvoluto e allusivo nella forma ma chiaro nella sostanza ha sostenuto che Grillo eccita il terrorismo e che se domani qualcuno attenterà a uno dei suoi bersagli polemici la responsabilità morale ricadrà su di lui. E' una minaccia inaccettabile, squadrista, perchè tende a rendere criminale e impossibile ogni critica al sistema dei partiti che, esca dal più scontato, banale e innocuo "politically correct". Inoltre innesca un circolo vizioso e perverso perchè se domani dovesse accadere qualcosa a Grillo potrebbe essere addebitato a Mazza.

Queste reazioni scomposte dicono una cosa sola: che la classe politica si sente tremare la terra sotto i piedi e sa di avere la coda di paglia. E ne ha ben donde. In questi anni gli avvertimenti ci sono stati, ma li ha sistematicamente ignorati. Nel 1992-94 le inchieste di Mani Pulite ottennero un grande consenso popolare perchè i cittadini erano stufi di essere taglieggiati, angariati, umiliati dai partiti e dai loro apparati. Anche se ci furono delle strumentalizzazioni quelli che gettarono le monetine a Craxi o che inseguirono Gianni De Michelis per le calli di Venezia non erano solo "comunisti", era anche gente che non ne poteva più in particolare dell'arroganza dei socialisti che erano arrivati a prepotenze da Don Rodrigo, a "torre le donne altrui".

Ma bastò poco alla partitocrazia per riprendere in mano la situazione. Scese in campo, presentandosi come "uomo nuovo", uno dei principali sodali di Craxi, Silvio Berlusconi, la Lega fu inglobata e innocuizzata, i cittadini vennero convinti che i veri colpevoli erano i giudici e i ladri di regime le loro vittime. Più tardi vennero i girotondi. Cosa chiedevano i "girotondini" (un milione di persone a piazza San Giovanni a Roma)? Protestando contro le leggi "ad personam" chiedevano che fosse rispettato almeno il principio elementare dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza la quale la liberaldemocrazia, che già rinuncia all'uguaglianza sociale, non si giustifica più. Ma anche i "girotondini", le cui manifestazioni erano assolutamente pacifiche, furono irrisi e sbeffeggiati, da destra e da sinistra. Ma intanto la rabbia, benchè repressa, o forse proprio perchè repressa, montava in modo sordo e sotterraneo. Nel 2004 pubblicai un libro, "Sudditi-Manifesto contro la democrazia", in cui denunciavo, argomentando, che la liberaldemocrazia, la "democrazia reale", quella che concretamente viviamo, non è la democrazia ma un regime di oligarchie. Vendette più di 100 mila copie, non poche per un saggio teorico. Ma tre anni dopo "La Casta" di quel grande cronista che è Gian Antonio Stella, che puntualizza con casi concreti ciò che io avevo denunciato teoricamente, ha venduto un milione di copie. Adesso è arrivato il "grillismo". È probabile che il sistema, che ha molti mezzi per farlo, riuscirà ad inglobare e ammortizzare anche questo fenomeno. Ma se il sistema politico non cambierà strada - e non la cambierà, perchè non può farlo dato che la democrazia rappresentativa non è che l'involucro legittimante del vero nocciolo della questione: un modello di sviluppo paranoico che ci stressa tutti e che è la vera, anche se spesso inconscia, origine della rabbia popolare - un giorno o l'altro salterà per aria come il coperchio di una pentola tenuto troppo a lungo sotto pressione.

Massimo Fini

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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 16, 2007, 11:48:00 pm »

Se Fioroni fa il duro coi bulli

Marina Boscaino


Lo schema di regolamento proposto dal ministro Fioroni qualche giorno fa in Consiglio dei Ministri - che ha dato parere favorevole - modifica gli articoli 4 e 5 dello Statuto degli Studenti riguardanti le sanzioni disciplinari. La boccata di ossigeno rappresentata dalle parole di Benedetto Vertecchi, che sul Manifesto di qualche giorno fa invitava a ragionare di scuola da punti di vista e prospettive che sembrano lontane anni luce dalle attuali - eppure ci fanno sognare, e sperare che una voce illuminata riesca, miracolosamente, a squarciare il velo della pericolosa sottovalutazione della scuola pubblica - è stata prontamente repressa e ricondotta al triste principio di realtà da questa ulteriore «prova di forza»: il motivo dominante all’insegna del quale Fioroni ha deciso di far cominciare l’anno scolastico.

Perché, ancora una volta, la scuola non viene individuata come luogo di condivisione delle regole, di negoziazione in cui insegnanti, studenti e genitori concretizzino un patto di corresponsabilità educativa. Ma si risponde in maniera esclusivamente punitiva a un’emergenza sociale, limitata in termini numerici, e tuttavia estremamente allarmante. Sia chiaro: il problema del bullismo è concreto e urgente e non è intenzione di nessuno archiviarlo o sottovalutarne la portata in termini di segnale di inquietanti marginalità socio-culturali. Ma le procedure individuate non sono adatte, non solo ad affrontare, ma neppure semplicemente a lanciare segnali costruttivi affinché il fenomeno possa essere non dico debellato, ma almeno limitato nella sua inquietante portata; ormai scrupolosamente documentata e registrata nella logica voyeristica e perversa di ragazzi che cercano - in quei filmati - il proprio momento di visibilità; che rivendicano - indottrinati dalle pratiche televisive più perverse - un protagonismo che, ormai, non si nega davvero a nessuno.

Dunque, il problema non è se il bullismo sia un fenomeno concreto o no, né la sua più o meno amplificata diffusione. Il problema è che «mostrare i muscoli», specialmente nella scuola, spesso non significa avere a disposizione le armi che possano incidere realmente sul trattamento di una situazione così complessa, che marchia letteralmente la condizione di totale mancanza di autorevolezza della scuola in questo difficile passaggio. Il ministro Fioroni ha la pericolosa tendenza - o meglio, la consapevole propensione - a proporre soluzioni «muscolari» - di sicuro effetto mediatico - a problemi che affondano in anni di incuria nei confronti della scuola pubblica; e in contraddizioni drammatiche della società, ispirate a una tensione aggressiva che chiede rivincita, riscatto nelle maniere più pericolose e mortificanti. Apro e chiudo una parentesi, per non infierire; ricordando appena la campagna (dal titolo raccapricciante - «Smonta il bullo» - a sottolineare l’affetto personale del ministro per quello strumento un po’ spuntato che è il cacciavite) che lo scorso anno - tra conferenze stampa, sbandieramento da parte dei media, creazioni di linee dedicate, stampa di opuscoli, manifesti ecc. - è costata alle tasche del contribuente, ma che, a quanto pare, non ha sortito poi l’effetto desiderato.

Il problema è proprio qua: non è questo il tipo di investimento di cui la scuola italiana ha bisogno oggi. Né di diventare luogo di repressione; o, peggio ancora, di esclusione, contravvenendo alla propria stessa natura. Occorre stanziare i fondi per una prevenzione effettiva del fenomeno. Una prevenzione a misura di scuola e fatta nella scuola. Che - ricordiamolo - è luogo di accoglienza e non di esclusione: è luogo (o, almeno, dovrebbe esserlo) di autorevolezza e non di autoritarismo. Cominciamo a pensare al problema dalla radice: la generalizzazione della scuola materna, da tutti citata, promessa, ma mai configurata realmente come investimento concreto sul destino migliore di futuri cittadini. E poi gli insegnanti. Chi «sarà pescato in atteggiamenti lesivi della dignità dei compagni e degli stessi insegnanti» - recita il regolamento - potrà essere espulso dalla scuola fino alla fine dell’anno. L’insegnante più accondiscendente, più debole è - come lo studente più debole - vittima potenziale dei bulli.

Eppure tra insegnante e studente deve stabilirsi - per la natura stessa del rapporto educativo, inefficace se non improntata a una «legge del padre» - una vera e propria «relazione di potere», che abbia come finalità l’emancipazione del discente. Occorre quindi rafforzare, incentivare (o scoraggiare?) coloro che credono di poter fare gli insegnanti senza prevedere che alcune tendenze sortiscono un effetto moltiplicativo sul diffondersi del fenomeno: lo stato di progressiva perdita di autorevolezza da parte dei docenti, la demotivazione di molti, un’ipocrita interpretazione accuditiva, complice, maternale che per temperamento o per comodità viene assunta da molti, una generazionale tendenza al protrarsi indefinito dell’adolescenza. Con conseguenze negative per quanto riguarda sia la vigilanza sugli alunni più deboli fatti oggetto di episodi di bullismo, sia l’esser fatti gli insegnanti stessi bersagli.

Saranno, secondo la nuova normativa, le scuole a stabilire nel proprio regolamento quali siano i comportamenti da stigmatizzare, quali le sanzioni, gli organi competenti e la procedura da seguire. Come nei provvedimenti previsti contro gli insegnanti - delegati all’arbitrio del singolo dirigente di istituto - anche in questo caso la certezza della norma scompare come principio di garanzia: le stesse violazioni potrebbero essere punite e non punite da scuole diverse o punite in maniere differenti. È chiaro che l’allontanamento dalla scuola per l’intero anno scolastico di alunni che dimostrino comportamenti gravemente inadeguati coglie nel segno un’insofferenza diffusa e un bisogno di normalità che la nostra società continua a manifestare. Ma bisogna interrogarsi se - didatticamente ed educativamente - gli elementi possano essere considerati equipollenti all’interno della scuola. Ho i miei dubbi. Perché non mi risulta, lo sottolineo ancora, che la proibizione abbia mai sortito effetti più incisivi di quelli convogliati da una buona educazione e da un reale investimento culturale sulla scuola. Prova ne sia il fatto che i filmati che proliferano sul web sono proprio immortalati da quei telefonini che una direttiva del ministro Fioroni vietava tassativamente all’interno degli istituti scolastici.

Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.58   
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