30/8/2011
Un battito d'ali placa Irene
Dietro le polemiche per l'uragano di New York la vecchia pretesa della previsione assoluta
PIERO BIANUCCI
Dopo la tempesta reale Barack Obama e il sindaco di New York Bloomberg affrontano quella metaforica. Adesso nell’occhio del ciclone ci sono loro. I giornali sembrano delusi per la tragedia mancata (se 25 morti vi sembrano pochi). Gli sfollati tornano a casa con uno stato d’animo che oscilla tra il sollievo per la fine dell’incubo e la rabbia per il weekend rovinato. Il partito conservatore carica a testa bassa: Obama ha sopravvalutato il pericolo, le misure preventive sono state uno spreco di denaro pubblico, tanta paura per un po’ di vento e qualche secchio d’acqua.
Ma se chi ha fatto le scelte politiche è in prima linea, subito dopo ci sono gli scienziati. Come, con tutti i loro supercomputer non riescono a prevedere il percorso di un ciclone?
Speculazioni politiche a parte, qui c’è un problema vero e tipico del nostro tempo: come gestire le grandi emergenze partendo da informazioni scientifiche.
Per molti la scienza si scrive con la S maiuscola. È un totem, un oracolo. Per altri (non pochi) è una manifestazione di arroganza intellettuale.
Il difficile è far capire a una intera popolazione, decine di milioni di persone, che invece la scienza non è né l’una né l’altra cosa. La scienza è un metodo, non un repertorio di soluzioni. Le sue risposte sono sempre provvisorie, e il più delle volte sono semplicemente nuove domande formulate meglio. In ogni caso le risposte scientifiche per essere tali devono portare con sé una stima della loro probabilità. Non ci sono risposte giuste e risposte sbagliate. Ci sono risposte con un più o meno alto grado di attendibilità.
Ora, quando parliamo di come cadono le mele (per fermarci a Newton) le risposte sfiorano la certezza. Quando parliamo di nuvole, sole e pioggia, e quindi di uragani come Katrina e Irene, le risposte sono sotto il dominio del caos, usando la parola non in senso figurato o letterario, ma nel senso propriamente matematico.
Edward Lorenz, dopo aver fatto le previsioni del tempo per l’esercito americano durante la seconda guerra mondiale, nel 1963 provò a costruire un modello dell’atmosfera terrestre estremamente semplificato e lo fece girare su un computer del Mit. Per un po’ l’evoluzione fu rappresentata da una spirale che si avvolgeva su se stessa, segno di un tempo meteorologico abbastanza stabile. Poi, all’improvviso, la linea divergeva dalla vecchia spirale e andava a disegnarne un’altra, opposta alla prima. Quella svolta brusca è il segno del caos, dell’imprevedibile.
Il modello dell’atmosfera di Lorenz aveva solo tre variabili. Nella realtà sono milioni. Le due spirali disegnano una farfalla. Curiosamente, chi titolò l’articolo scientifico di Lorenz usò l’espressione «effetto farfalla» con riferimento all’idea che una piccola causa, come un battito d’ali, in meteorologia può portare conseguenze enormi come un uragano.
Obama e Bloomberg stanno provando sulla loro pelle l’effetto farfalla. Forse hanno esagerato nel lanciare il grido di allarme. Ma è meglio eccedere in prudenza che in superficialità, come fece l’amministrazione Bush con l’uragano Katrina (1836 morti e danni per 82 miliardi di dollari). E poi c’è un aspetto didattico da non sottovalutare: il piano anti-Irene deve essere visto anche come una prova generale di fronte a una qualsiasi emergenza, attacchi terroristici inclusi. La protezione civile è prima di tutto una cultura diffusa nella popolazione, non il miracolo di un demiurgo alla Bertolaso.
L’altro punto cruciale è la nostra aspettativa verso la scienza. Scientisti e antiscientisti hanno una cosa in comune: entrambi sottintendono che la scienza sia onnipotente, i primi nel produrre benefici, i secondi nel generare disastri. Prigioniero di questa dicotomia, l’uomo occidentale contemporaneo non è più capace di accettare i margini di incertezza. Come cade la mela lo sappiamo al 99,99 per cento, che cosa farà l’uragano Irene si può prevedere con una probabilità del 60-70 per cento. Troppo poco? Beh, non si può fare meglio, non è questione di supercomputer, dipende dal fatto che l’atmosfera è caotica.
La pretesa di certezza assoluta è per sua natura antiscientifica perché le certezze coincidono con i dogmi. Altrettanto antiscientifica è la pretesa del rischio zero che coltivano i teorici del «principio di precauzione». Il rischio zero, oltre ad essere irraggiungibile, è un’astrazione paralizzante. Bruno de Finetti, il più brillante matematico della probabilità del secolo scorso, metteva in guardia contro la «prudenza infinita». E lui se ne intendeva: prima di andare in cattedra all’Università di Roma era stato per quindici anni alle Assicurazioni Generali, una potenza finanziaria fondata sulla percezione del rischio e della sua probabilità. Obama ha cercato il punto di equilibrio tra incertezza della previsione e ragionevole prudenza. Potremmo parlare, più bonariamente, di buon senso.
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