Antimafia, le lettere a Scarpinato che ricordano l’Addaura
di Nando dalla Chiesa | 12 ottobre 2014
Come vede, sappiamo prenderci cura di Lei. Questo il senso, sconvolgente, del messaggio anonimo lasciato sulla scrivania del procuratore generale di Palermo Scarpinato alcune settimane fa, seguito da altri avvertimenti. Chi ha esperienza e memoria di queste cose capisce al volo che in questo messaggio c’è qualcosa di profondamente diverso da tanti altri generi letterari e pratici dell’intimidazione mafiosa.
Il destinatario, anzitutto: il massimo responsabile dell’attività investigativa giudiziaria palermitana, una delle maggiori memorie antimafia, notoriamente capace di connettere le singole vicende in quadri ampi e dotati di senso storico.
Il luogo: il suo ufficio, riservatissimo, a cui dovrebbe avere accesso diretto solo il titolare, anche se poi si è scoperto che per ragioni inspiegabili non era così. Più esattamente la sua scrivania. Una visita a domicilio, una vicinanza incombente, un fiato che si fa grilletto. Il messaggio: un invito ampolloso e letterario, di un emulo di Sciascia si direbbe, a non superare i confini che altri, ovvero poteri superiori e impersonali, hanno fissato a un magistrato già andato troppo oltre rispetto a ciò che è normalmente consentito. Non l’immagine del sangue ce ne arriva. Ma quella dei corridoi oscuri che avvolgono e si compiacciono di dare consigli affettuosi alla vittima, per risparmiarle gli esiti che “altri” stanno scalpitando per ottenere.
La data, forse non casuale, visto che ha segnato una svolta nei rapporti tra mafia e Stato, pesando sulla stessa attività professionale di Scarpinato: il 3 settembre, anniversario dell’assassinio del prefetto dalla Chiesa. Le circostanze logistiche: un ingresso furtivo ripreso dalle telecamere esterne, la cui memoria, però, è stata poi cancellata proprio nei punti interessati, verosimilmente da persona diversa da chi ha scritto la lettera.
E il contesto recente: il “protocollo Farfalla”, che ha messo in luce lo scenario di servizi segreti che entrano ed escono dalle carceri per avvicinare detenuti al 41 bis, senza lasciare tracce, all’insaputa della magistratura. L’intenzione del procuratore di vederci chiaro, poiché sa bene che la storia maledetta dei rapporti tra mafia e Stato è zeppa di inquinamenti, di verità giudiziarie manipolate, da Portella della Ginestra a via D’Amelio.
I servizi che escono ed entrano nelle carceri senza lasciar tracce ricordano Raffaele Cutolo che si fa Stato e la liberazione di Ciro Cirillo. Ricordano il tentativo (per fortuna non riuscito) di mettere in contatto Patrizio Peci, primo capo Br pentito, con l’allora Sisde prima che con i carabinieri e la magistratura.
E certo se c’è qualcuno che per definizione non può avere frequentazioni “segrete” è ogni singolo mafioso al 41 bis, a cui il carcere duro viene comminato proprio per impedirgli di avere contatti con il mondo esterno. Si intuiscono dunque i soliti intrecci “inquietanti”.
Che stavolta hanno scelto di materializzarsi sulla scrivania del procuratore colpevole di aver capito troppo. Avrebbero potuto raggiungerlo in altro modo, con le sembianze di un collega o di un alto grado ministeriale capace di dargli un consiglio “nel suo esclusivo interesse”, se solo Scarpinato fosse incluso nella lista degli “avvicinabili”. Ma Scarpinato non vi figura. Quella lettera manda dunque i bagliori del pericolo, piena fra l’altro com’è di riferimenti alla sfera privata. Non è una pallottola in busta, che quasi chiunque può mandare. Non è una telefonata minatoria. Non è una voce di attentato o una maledizione di Totò Riina. C’è un salto di qualità.
Per questo sorprende, ancora oggi, l’imbarazzato silenzio di tanti Palazzi. O la sottovalutazione di ambienti anche assai reattivi, come fossimo davanti a una delle tante minacce a chi combatte la mafia. Perché nemmeno le celebri lettere del Corvo del Palazzo di Giustizia di Palermo contro Falcone bastano a rendere l’idea. Quelle andavano in giro, non apparivano impunite e melliflue sulla scrivania del giudice; tendevano a delegittimare, a colpire nel prestigio un magistrato circondato da invidie e gelosie inestinguibili.
Qui, per certi aspetti per fortuna, non è così, perché la magistratura è cambiata e Scarpinato non è isolato in quello che fu il Palazzo dei veleni. Se vogliamo rimanere alla parabola purtroppo esemplare di Falcone, la lettera assomiglia piuttosto alle borse di tritolo dell’Addaura. Lì stavano “il gioco grande” e “le menti raffinatissime” di allora.
Perciò occorre la massima attenzione. La testimonianza di Napolitano al processo sulla trattativa, questione mediaticamente assai più ghiotta, rischia di monopolizzare lo sguardo del paese che “dalla politica arriva alla mafia”. Chi invece “dalla mafia arriva alla politica” (che è poi il percorso intellettuale dello stesso Scarpinato) colga la gravità dei segnali attuali.
Governo e istituzioni, cittadini e associazioni, stampa libera e scuole, sappiano fare diga intorno al procuratore. Leggendo con intelligenza l’agenda della mafia e dei suoi complici. Alzando la partecipazione e la vigilanza civile. Senza accontentarsi dei facili “mi piace”. Questo, purtroppo, non è un mondo virtuale.
Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014
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