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Autore Discussione: Lina Palmerini. Saggi «dimezzati»  (Letto 5991 volte)
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« inserito:: Aprile 01, 2013, 06:22:31 pm »

Saggi «dimezzati»

di Lina Palmerini

1 apr 2013


C'è chi dice che nascono ma quasi morti. Chi cerca toni più gentili parla di sabotaggio e di manovra per azzopparli subito e impedire un tentativo di accordo sulle cose da fare, ossia, provvedimenti economici e riforme istituzionali. E, dunque, se Pd e Pdl sparano contro quel minimo di embrione creato da Giorgio Napolitano per fare intese, vuol dire che scelgono l'altra via: lo scontro. Soprattutto il Pdl sembra si sia posizionato su questa strada visto che sin dal'inizio è stato cauto nell'appoggiare i due gruppi di lavoro mentre il Pd apriva. E la cautela del Cavaliere si è trasformata in gelo assoluto nel giro di poche ore, da quando sono cominciate le bordate contro i saggi lanciate da Renato Brunetta e Fabrizio Cicchitto.

A quel punto pure il Pd ha cominciato a prendere le distanze e ora siamo quasi al punto di prima, cioè senza una soluzione in campo se non quella di avviare le danze per la battaglia finale sull'elezione del prossimo presidente della Repubblica. Il fatto è che Napolitano aveva creato questi due gruppi di saggi proprio per dare ai partiti un luogo per avvicinare le posizioni e cercare un patto per il suo successore ma, a quanto pare, non è quello che vogliono nè Pd nè Pdl. È anche vero che potrebbero essere schermaglie negoziali, duelli apparenti per "ingannare" l'opinione pubblica allontanando l'idea di un inciucio sul capo dello Stato. Ma questo si vedrà presto - già a fine aprile - scoprendo il nome che verrà scelto e vedendo con quanti voti sarà eletto.

La corsa del Cavaliere verso le urne
L'altra ipotesi è che sia Silvio Berlusconi a fare tutte le mosse per spingere verso un'altra tornata elettorale. È partito con l'opzione secca del governo di larghe intese sapendo che Pierluigi Bersani non poteva accettare un esecutivo con il giaguaro, è passato a bocciare i saggi mostrando di non volere accordi sul capo dello Stato. Questo potrebbe voler dire che sta prendendo sempre più la rincorsa verso le urne sfruttando alcune condizioni che solo un voto tra fine giugno e il 7 luglio si possono verificare.

La prima è che non si riuscirà a cambiare il Porcellum e questo il Pdl lo considera un vantaggio visti i sondaggi che ormai lo danno in vantaggio alla Camera. Dunque, il Cavaliere vincerebbe sul Pd ma lo scenario sarebbe solo invertito perchè con Grillo "forte" resta il rischio di un Senato ingovernabile. L'altra condizione favorevole per il Cav. è che le urne subito spuntano l'unica arma del Pd che lui davvero teme: l'arrivo di Matteo Renzi e la sua candidatura a premier. È vero che il sindaco di Firenze non vuole le urne subito perché non lo favoriscono ma potrebbe anche essere forzato a rischiare, in questo caso il vantaggio per Berlusconi è che Renzi avrebbe dietro di sè un Pd dilaniato. Ultima condizione vantaggiosa è proprio lo scontro sul Colle.

Il rischio che il Quirinale sia trascinato in campagna elettorale
Vantaggiosa perchè? Se davvero non ci sarà un patto tra Pd e Pdl, come sembra dal clima politico di queste ore, allora l'elezione del nuovo capo dello Stato diventa uno scontro da trascinare fino alle urne. Nel senso che Berlusconi userebbe la scelta del centro-sinistra di eleggersi un presidente da soli come argomento principale della sua campagna per le urne. E cioè metterebbe sotto accusa una sinistra che occupa le istituzioni e che esclude da esse una larga fetta di italiani di centro-destra. Uno scenario possibile ma disastroso per la stessa istituzione della Presidenza della Repubblica.

Infatti, un voto popolare che premiasse una campagna elettorale contro il nuovo capo dello Stato lo indebolirebbe, per non dire delegittimerebbe, avvicinando sempre più il grande tema eluso di questi tempi: la riforma costituzionale in senso presidenziale o semi-presidenziale. È come se Berlusconi mettesse nei fatti una trasformazione del ruolo del capo dello Stato che il centro-sinistra non ha voglia di codificare con una riforma votata dal Parlamento.


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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-01/saggi-dimezzati-111938.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 27, 2014, 03:34:51 pm »

La vera partita dei dissidenti Pd

di Lina Palmerini
26 novembre 2014

La minoranza Pd ha scelto l'astensione e non si capisce perché. Se davvero – come dicevano – il Jobs act determina «l'arretramento di milioni di lavoratori» era più logico un no. Ma ieri l'obiettivo era più Renzi che la precarietà.

La scelta di non partecipare al voto finale è un equilibrismo politico perché se è vero che Renzi «incita alla sovversione» – come ha detto Fassina – e se è vero che il Jobs act è «lavoro sporco» – come ha detto Vendola – sono ragioni talmente forti da determinare un logico e conseguente voto contrario. Soprattutto quando in gioco c'è il tema che più di tutti identifica la sinistra e quell'area del Pd: il lavoro.

Non a caso nessun leader di centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma dell'articolo 18 e adesso che è fatta, che quell'argine si è rotto, sarebbe stato più coerente strappare davvero. E non riconoscersi più in un partito che quella «libertà di licenziare» l'ha approvata. E invece il limbo del non-voto fa pensare che i 30 – con il Jobs act – vogliano aprire un'altra partita che guarda al Quirinale.

Una tattica per negoziare altro, insomma. Non sul lavoro perché la riforma è ormai fatta ma per trattare su chi sarà il successore di Giorgio Napolitano e diventare gli altri interlocutori di Renzi oltre all'area bersaniana che invece ieri, con coerenza, ha votato sì al Jobs act. Un avvio di guerriglia parlamentare che si muoverà tra la piazza sindacale e il braccio di ferro con Renzi su tutti i prossimi tavoli: Colle, legge elettorale, legge di stabilità. Una navigazione a vista perché il progetto politico non c'è ancora.
 
C'è una via di mezzo. Un Aventino ma non ancora una opposizione politica di sinistra. Il risultato delle elezioni in Emilia Romagna non pesa solo per l'astensionismo che ha colpito il Pd ma anche per il calo di consensi per la sinistra «radicale», da Sel a Rifondazione alla Lista Tsipras. Nonostante Renzi, nonostante il Jobs act e gli scioperi Fiom-Cgil, le forze della sinistra – variamente distribuite – hanno complessivamente perso l'11% di consensi rispetto al voto europeo e il 13,6% sulle regionali del 2010. E l'Emilia è la seconda Regione per numero di tessere Cgil, più di 822mila, è la terra di Maurizio Landini e delle imprese tra le più sindacalizzate. Segno che non basta parlare di malessere sociale per trovare elettori e consensi.

Servirebbe quello che è accaduto alla Lega. Un leader riconosciuto che la sinistra finora non ha. E un programma declinato in tutte le sue conseguenze. Matteo Salvini è contro la riforma Fornero, contro la «macelleria sociale» del Jobs act – anche se il primo a tentare la riforma dell'articolo 18 fu Maroni da ministro del Welfare nel 2002 – ma è anche contro l'Europa e l'euro da cui queste riforme derivano. È una strada politica lineare, difficilmente realizzabile, ma senza contraddizioni.

Alla minoranza Pd di ieri tutti questi passaggi mancano. Dopo aver combattuto per portare il Pd nei socialisti europei ora sono pronti a voltare le spalle all'Europa? Il Jobs act arriva da lì, da Bruxelles e da Francoforte ma il gruppo del non-voto preferisce scaricare su Renzi e sull'altra minoranza la responsabilità della riforma che è invece uno dei tasselli per stare in Europa. Non in quella vagheggiata dall'area dei 30 che cancella il fiscal compact ma quella di oggi. Quella con cui l'Italia fa i conti. A meno che i dissidenti – da Cuperlo a Boccia – non firmino anche un altro documento: l'uscita cooperativa dall'euro di Fassina.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-11-26/la-vera-partita-dissidenti-pd-081901.shtml?uuid=AB8TqFIC
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:44:10 am »

Napolitano e Renzi, dalla freddezza degli inizi all'endorsement pro-riforme

Di Lina Palmerini | 14 gennaio 2015

Hanno cominciato nella diffidenza - reciproca - ed è finita con l'endorsement pieno di Napolitano verso Renzi. Una distanza politica e culturale che si è progressivamente ridotta fino quasi ad azzerarsi. In nome della realpolitik di Napolitano e di un obiettivo comune: portare avanti le riforme istituzionali ed economiche. Giorgio Napolitano e Matteo Renzi non potrebbero essere più diversi: non è solo l'anagrafe ad allontanarli ma l'ambiente culturale, le esperienze, il modo di fare politica e di comunicare, il comportamento istituzionale, l'uso dei media. Differenze che sono rimaste ma che il pragmatismo politico di entrambi ha reso secondarie rispetto a un traguardo che è stato totalmente condiviso: fare una nuova legge elettorale e la riforma del Senato. I motori sulle riforme erano invece rimasti spenti con i due precedenti premier scelti dal capo dello Stato: Mario Monti ed Enrico Letta.

Non era cominciato bene il rapporto tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Quando da Lisbona il presidente della Repubblica aveva dato il suo via libera al cambio con Letta con un laconico «mi pare che il Pd abbia deciso», non si vedeva ancora quali sarebbero state le frizioni tra i due. Che si sono presto manifestate nella stesura della lista dei ministri. Lunghe ore di colloquio serale, lunghe discussioni e anche tensioni lasciate riposare una notte prima di decidere caselle cruciali come l'Economia, gli Esteri e la Giustizia. Racconti di incomprensioni e gelo puntualmente smentiti dagli uffici stampa ma che puntualmente hanno portato a soluzioni di compromesso almeno sull'Economia con Pier Carlo Padoan.

Insomma, un inizio faticoso, fatto di diffidenza. Renzi non si fidava di un presidente che aveva visto in Enrico Letta il suo pupillo, Napolitano non aveva chiara la consistenza politica dell'attuale premier. La scelta di avallare la staffetta a Palazzo Chigi era stata anche quella all'insegna del realismo politico dopo aver preso atto di una decisione del partito di maggioranza relativa e anche di una debolezza del Governo Letta che non era riuscito a produrre accelerazioni sul percorso di riforme. Il vero momento di svolta con Renzi - però - è stato dopo le elezioni europee del maggio scorso. Quel 40,8% ha avuto un peso per il Quirinale che ha sommato due risultati positivi: la sconfitta - in casa - dell'euroscetticismo di Grillo e della Lega; la più ampia vittoria - fuori casa - del partito italiano tra i socialisti europei.

Da quelle elezioni c'è stato un cambio vero nei rapporti tra i due. Al Quirinale è maturata la convinzione che solo Renzi poteva portare avanti un programma di riforme che poi era lo stesso obiettivo che si era dato Napolitano accettando il suo bis al Colle. Insomma, gli interessi si sono incrociati e saldati nel nome della legge elettorale e della revisione del bicameralismo perfetto. Ma anche nel nome di riforme economiche come quella del lavoro, scritta nella lettera che la Bce inviò all'Italia poco prima che Napolitano prendesse atto delle dimissioni di Berlusconi e nominasse capo del Governo Mario Monti.

È vero che Renzi non ha portato il capo dello Stato allo scenario migliore per le sue dimissioni - quello di riforme completate - ma si è avvicinato molto. Più di quanto avesse fatto Bersani durante la sua segreteria nei mesi del Governo Monti. Mesi in cui prevalse l'idea che il Porcellum potesse regalare una straordinaria vittoria al Pd. Non andò così. E in fondo, il rapporto tra Renzi e Napolitano si può leggere anche attraverso quello che ci fu tra il presidente e Bersani. Non gli diede l'incarico nel 2011 quando scelse Monti e non glielo diede nel 2013 nonostante quella “quasi vittoria”. La prima volta la ragione fu la riforma delle pensioni: alla domanda di Napolitano, Bersani rispose che non se la sentiva di guidare un Governo che avesse al primo punto la previdenza. La seconda volta Napolitano non considerò consistente la strategia di Bersani che voleva cercarsi la maggioranza di volta in volta in Parlamento. Un percorso considerato dal Quirinale avventuroso.

Quello fu considerato un vero strappo tra Napolitano e il suo partito di provenienza, i Ds, che Bersani in quel momento rappresentava. Uno strappo che è diventato più forte proprio per la progressiva vicinanza con Renzi. E si racconta di lunghi e sempre più frequenti colloqui di ex leader diessini al Quirinale per convincere Napolitano a fare pressioni su Renzi su vari fronti: o per la decisione di caselle come Mr.Pesc, o arginare Italicum e riforma del Senato. Sfoghi senza esito. Il finale è stato un endorsement di Napolitano quel 16 dicembre scorso quando nei saluti di Natale alle alte cariche dello Stato, e in presenza di tutti i leader ed ex leader dei Ds, ha stigmatizzato la “spregiudicata” tattica emendativa della minoranza Pd sulle due riforme istituzionali. Non è possibile dire chi tra i due si sia più avvicinato all'altro. Sono gli obiettivi politici che hanno reso compatibili due personalità davvero molto distanti.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-01-14/napolitano-e-renzi-freddezza-inizi-endorsement-pro-riforme-073854.shtml?uuid=ABfnQedC
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 01, 2016, 04:59:59 pm »

La «reputazione» nell’urna

Di Lina Palmerini
1 Aprile 2016

Ma le dimissioni basteranno? Non dal punto di vista delle responsabilità di Federica Guidi - che ha fatto la giusta scelta di andarsene - ma per la reputazione del premier e del suo Esecutivo. Basterà, insomma, sostituire un ministro per recuperare l’ennesimo colpo di immagine? Perché quello che è accaduto avviene in un tempo fatale per Renzi tra le elezioni amministrative di giugno e il referendum costituzionale di ottobre. Un anno in cui le debolezze del Governo e quelle del partito saranno un tema di campagna elettorale per i suoi avversari esterni e anche interni. La questione “morale” torna e questa volta si somma agli altri grandi nodi: economia, immigrazione e terrorismo.

Il punto è che tutto ciò che ruota intorno a Renzi – e il suo ristretto circolo toscano – non funziona come dovrebbe. Non funziona il Pd che mostra lacerazioni quasi ovunque da Milano a Napoli e a Roma, dove il ritorno di Ignazio Marino è l’ennesima dimostrazione di un partito ancora sull’orlo di una crisi di nervi, non sicuro di sé, ancora in ansia per gli scandali passati e in allarme per quelli eventuali. E non funziona il Governo che viene rappresentato o troppo sbilanciato su un premier “pigliatutto” o sulle questioni “personali” di alcuni dei suoi ministri. Dopo le intercettazioni e l’abbandono di ieri della Guidi ritorna, proprio all’inizio di una difficile campagna elettorale, lo spettro della questione morale. E, in effetti, siamo al secondo ministro dimissionario dell’Esecutivo Renzi. Dopo Maurizio Lupi che lasciò nel marzo del 2015 ora è la volta di Federica Guidi. E due poltrone che saltano in un anno è un ritmo notevolmente alto. Questo vuol dire che anche Maria Elena Boschi - la fedelissima del premier, anche lei citata nelle intercettazioni - sarà sempre più sotto pressione dopo le accuse di bancarotta fraudolenta a suo padre. Dunque un assedio non facile di cui liberarsi.

Tanto più se tutto questo accade a due mesi da un voto comunale che avrà un suo peso politico nonostante il premier abbia concentrato tutta la sua scommessa a ottobre sul referendum costituzionale. Il fatto è che sarà sempre più difficile liberarsi dall’analisi del voto amministrativo se fatti come quelli di ieri arrivano a ridosso delle urne. Perché il voto diventa tanto più il termometro di un gradimento quanto più i fatti che accadono hanno un senso politico. E le intercettazioni della Guidi prestano il fianco alle critiche - se non sulla legalità in senso stretto – certamente sulla correttezza istituzionale dei componenti della squadra di Governo. Una vicenda che si somma a quella di Lupi e a quella della Boschi: nessuna rilevanza giudiziale ma un danno di reputazione.

È così che quest’anno così fatale per il destino politico di Renzi si sta complicando. E l’errore è che il premier lo affronta come se fosse nel 2014, magari mettendo in cantiere un taglio delle tasse ma senza mettere a fuoco il tema dell’immagine della squadra di Governo e di partito.

È possibile affrontare un voto amministrativo così denso – votano Milano, Roma e Napoli ma anche Torino e Bologna – solo sostituendo un ministro? E sarà possibile saltare l’ostacolo delle comunali e impegnarsi nel referendum costituzionale senza curarsi delle ferite del partito e dell’Esecutivo? In questo senso non basterà solo sostituire la Guidi ma affrontare la complessità dei due fronti aperti del leader/premier. È facile prevedere che la scelta su chi guiderà lo Sviluppo economico sarà fatta con maggiore attenzione e rapidità di quanto accadde con le dimissioni di Lupi. Stavolta è tempo di campagna elettorale e bisogna correre. E di certo anche su questa scelta, così come sono state le nomine, sarà verificato se il criterio è stato quello della vicinanza – anche geografica - al premier. Ma non sarà solo un nome, per quanto brillante, a cambiare l’immagine del Governo Renzi. E del suo modo di gestire la leadership.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-04-01/la-reputazione-nell-urna-071751.shtml?uuid=ACanIPyC
« Ultima modifica: Luglio 05, 2016, 12:12:09 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 05, 2016, 12:10:20 pm »

POLITICA 2.0
Il messaggio che il Pd manda al Paese

 Di Lina Palmerini 05 luglio 2016

Più che una direzione è stato un ring. Renzi all’attacco evoca le elezioni se perderà il referendum, la minoranza che non arretra e rilancia. Il messaggio che il Pd manda al Paese nei giorni della crisi bancaria, e del Monte dei Paschi, è di un duello in cui il resto conta poco.

Renzi torna a fare Renzi. Tutto all’attacco, nessuna concessione su Pd, Governo, referendum. E l’offensiva della minoranza Pd ieri è stata molto dura. Anche se Roberto Speranza dice che non vuole le dimissioni di Renzi di certo critiche così aspre sono il punto più maturo di un’azione di logoramento partita ormai da mesi. Ma adesso non c’è più scampo perché il bivio è arrivato: o si aiuta il premier a far vincere i “sì” - e si rinviano i conti al congresso – oppure si trasforma l’appuntamento referendario nel ring della disfatta del terzo segretario Pd in tre anni e del secondo premier. Una media alta, davvero.

 La direzione del partito 4 luglio 2016

Italicum, Alfano: meglio premio coalizione, ma Ncd non ricatta

Non che la discussione di ieri fosse pretestuosa, non lo era affatto. I dubbi che Renzi abbia mal interpretato le sofferenze degli italiani e proposto ricette che non hanno riscosso consenso sono più che legittimi. Anzi, sono riscontrabili nella realtà con alcune sconfitte nelle ultime elezioni amministrative. Ma il punto chiave è un altro: cosa si sta comunicando al Paese in una fase così delicata? In giorni in cui riesplode la crisi bancaria e torna in ballo la crisi sul Monte dei Paschi con un potenziale messaggio distruttivo sul risparmio degli italiani, il rapporto con il Governo e con la stabilità politica va maneggiato con molta cura. Soprattutto se a creare l’effetto destabilizzante è lo stesso Pd che nell’opinione pubblica consolidata ha molto a che fare con il dissesto della banca di Siena.

Ieri insomma la sensazione è stata che nessuno dei duellanti trattasse con cura le ansie degli italiani che pure sono l’oggetto della contesa politica. Ansie oggettive che riguardano i nuovi timori di frenata dell’economia o legate alla stabilità di un quadro nazionale ed europeo entrato in crisi dopo Brexit. Ecco davanti a uno scenario diventato più precario, assistere a minacce di voto da parte del premier e della richiesta della minoranza di un ticket nel partito è sembrato lunare. Come vedere su un maxi schermo quello che è accaduto al Pd romano.
    Alla direzione del pd 4 luglio 2016

Renzi, referendum cruciale per credibilità della politica. Se vince no presa d’atto anche per le Camere

Ecco perché questo bivio del referendum è piuttosto rischioso per tutto il partito. Renzi perde, è vero, ma dopo la sconfitta alle elezioni del 2013 il Pd - tutto - potrà sopportare anche una batosta sul referendum? Sarebbe una doppia sconfessione popolare. Anche se la fine della legislatura non la decide il premier - come ieri faceva pensare - ma il partito di maggioranza relativa e il capo dello Stato, è difficile immaginare una nuova guida al Governo targata Pd. Sarebbe come sfidare la volontà popolare. E chi immagina di poter fare una sostituzione pescando nella stessa squadra forse sbaglia i conti con l’opinione pubblica.

Ecco perché sul referendum rischiano tutte le correnti, non solo Renzi e i renziani. E sbagliare il messaggio in questo momento della vita economica e sociale italiana metterebbe il Pd in un crinale simile a quello dei socialisti francesi.

Ieri sentire parlare di modifiche elettorali nelle ore dei crolli dei titoli bancari è sembrata la premessa di un declino. Non sarebbe il primo in Europa per un partito tradizionale o per un partito di centro-sinistra.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-07-05/il-messaggio-che-pd-manda-paese-071450.shtml?uuid=AD3s6yn
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 10, 2016, 10:47:15 pm »

Pensioni, contratti pubblici e Italicum: il «ritorno» di Renzi a sinistra

di Lina Palmerini 07 settembre 2016

Inoltre ha aperto sui cambiamenti all’Italicum. Un tentativo di ricompattare il consenso a sinistra in vista del referendum. Difficile non vedere nell’annuncio di Renzi un ritorno a “casa”. La nuova legge di Bilancio, sulla base delle parole dette ieri dal premier a Porta a Porta, appare come un tentativo di ritrovare una connessione non solo con l’elettorato di centro-sinistra ma con i suoi punti di riferimento classici. I sindacati, per esempio. Ma anche la minoranza del partito alla quale il leader del Pd promette la disponibilità a cambiare l’Italicum in ogni caso, anche con una pronuncia favorevole della Consulta. Insomma, dopo l’inversione a U sulla personalizzazione del referendum, prova a fare un passo più avanti piegando la linea politica del Governo verso il perimetro tradizionale di sinistra.

E con le quattro misure anticipate ieri, che saranno – dice – il cuore della nuova legge di Bilancio, ridefinisce i confini del suo consenso. Meno partito della nazione, più nocciolo duro di sinistra. E dunque pensionati, dipendenti pubblici, insegnanti e quella parte di partite Iva delle gestioni separate di cui fanno parte i lavoratori freelance e i collaboratori che non hanno una cassa di previdenza. Un po’ di tempo fa veniva definito il partito della spesa pubblica e si imputava al Pd la responsabilità di alimentare un mondo che spingeva verso il deficit più che verso il taglio e la riqualificazione della spesa corrente fatta, appunto, di stipendi e pensioni.

Ieri Renzi ha promesso un ritocco alle pensioni minime, citando non a caso precedenti misure del Governo Prodi, la possibilità di uscite anticipate verso la pensione, lo sblocco dei contratti pubblici, un bonus agli insegnanti oltre che un intervento mirato sulle partite Iva. È chiaro che in ballo c’è un consenso da riconquistare, ci sono elettori e voti utili per l’appuntamento referendario. E c’è anche il ramoscello d’ulivo teso ai sindacati. I primi destinatari di queste misure sono loro che per anni hanno visto il blocco dei contratti nella pubblica amministrazione e hanno chiesto misure sulle pensioni. Misure che insomma parlano alla maggior parte degli iscritti Cgil, Cisl e Uil e che rimettono in gioco il ruolo e la funzione sindacale. Sarà interessante, anche su questo versante, vedere quale sarà l’impegno delle confederazioni sul referendum.

Se lo scorso anno Renzi voleva parlare all’elettorato moderato con l’abolizione della tassa sulla casa o con l’innalzamento del tetto sui contanti, misure targate Berlusconi, ora il solco ricorda di più i passati governi di centro-sinistra. Una sorta di “rammendo” dopo le lacerazioni degli ultimi anni, anche con la minoranza del suo partito. Alla quale offre non solo una manovra meno berlusconiana ma anche un’apertura più convinta sulle modifiche all’Italicum. Un’apertura che promette anche a fronte di una valutazione positiva della Consulta affidando al Parlamento l’ultima scelta.

Sullo sfondo c’è il referendum e la scelta di compattare il centro-sinistra sul “sì”, visto che c’è solo il Pd (e nemmeno tutto) sul via libera al quesito mentre tutto il resto dei partiti ha organizzato la campagna per il “no”. Ecco, la nuova manovra prova a mobilitare l’elettorato Democratico visto che il rischio più grande – come si è visto anche alle ultime elezioni – è l’astensione.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-09-07/pensioni-contratti-pubblici-e-italicum-ritorno-renzi-sinistra-090240.shtml?uuid=ADz7Y9FB
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 06, 2016, 04:29:00 pm »

La disfatta di Renzi, il dilemma del Pd, l’avanzata di Grillo

    di Lina Palmerini 5 dicembre 2016

È la sconfitta di Renzi e dell’uno contro tutti. Cade la riforma costituzionale ma viene respinto soprattutto uno stile di leadership. Il premier lascia dopo aver cercato un’investitura popolare che gli mancava e che ieri non ha trovato. Ha vinto l’accozzaglia - come la chiamava in campagna elettorale - ma quel “marchio” non è stato sufficiente a convincere gli italiani a scegliere il Sì. Il fronte del No era un mondo variegato – è vero - ma c’è chi vince più degli altri: i 5 Stelle, la forza più corposa, più trasversale anche geograficamente. Dopo Roma non si arresta la marcia di Grillo e si proietta già alle prossime elezioni nazionali. Ed è a loro che Renzi lancia la sfida del giorno dopo, quella di trovare una soluzione. Anche se il dilemma è tutto nel Pd.

Renzi ha tentato l’azzardo e come Cameron è stato battuto. Cade la “sua” Costituzione ma viene travolta l’idea di cambiamento che c’era dietro la sfida referendaria. La riforma era il “cuore” del suo Governo, quella che ha giustificato il suo arrivo a Palazzo Chigi, gli italiani – però - non hanno creduto al cambio di passo. All’appello è mancata quella maggioranza silenziosa su cui il premier contava, quella che ha sempre premiato la stabilità e che questa volta è rimasta indifferente alle conseguenze di un No. Anzi le ha cercate, dopo che il leader del Pd aveva messo in palio Palazzo Chigi.

A questo punto le dimissioni di Renzi non mettono al centro solo le sue mosse ma soprattutto quelle del suo partito. A parlare adesso sarà il Pd, partito di maggioranza in Parlamento, da cui dipendono le prossime scelte da portare al capo dello Stato. Il grande punto di domanda è cosa succederà dopo la disfatta renziana, se la maggioranza resterà con lui o se ci sarà un nuovo equilibrio tra le correnti di partito che hanno già alle spalle il tradimento dei 101, il Governo Letta poi scaricato, e ora questa nuova prova.

Il bivio non è semplice, per il Pd si tratta di scegliere ancora una soluzione senza un’investitura popolare e questo comporta notevoli rischi. Il ricordo recente dell’appoggio al Governo Monti e di come se ne sia pagato il prezzo con le elezioni 2013 peserà nella decisione dei prossimi passi. Ma peserà anche il senso di responsabilità di cui necessariamente si dovrà fare carico il partito di maggioranza. Contano i calcoli elettorali ma conta soprattutto quello che accadrà oggi sui mercati, sui titoli bancari. Questioni rimaste in sospeso proprio in attesa dell’esito referendario che ormai è scritto.

Il dilemma per il Pd sarà lacerante. Soprattutto per la pressione delle opposizioni che su un nuovo Esecutivo non eletto faranno una campagna elettorale perenne. Quanto costerà ai Democratici in termini di consensi? Quanto gonfierà le vele al populismo? E soprattutto chi si assumerà l’onere – continuando la legislatura – di fare la prossima legge di Stabilità, quella che guarda alla scadenza elettorale del 2018? Questo sarà il rovello.

Prima ancora di fare una scelta sul segretario e sul congresso, c’è quindi una decisione più profonda sulla strategia politica del partito. Dare fiducia a un nuovo Governo che arrivi fino alla fine della legislatura comporta rischi altissimi, dovrà navigare anche tra le turbolenze dell’Europa e dei nuovi assetti internazionali con la vittoria di Trump. Un’impresa complicata che servirà motivare con una ragione politica forte e con una leadership altrettanto forte, in grado di competere con Grillo e Salvini. Più semplice sarà imboccare la strada più corta, quella di indicare un Esecutivo a termine, che faccia la legge elettorale e porti il Paese al voto prima dell’estate.

Ieri Renzi ha passato la palla ai vincenti del No - a loro l’onere del dopo, diceva - mentre c’era già chi invocava il voto subito. Questo sarà il bivio. Se affrontare le urne o dotarsi di una corazza politica così forte da proseguire la legislatura fino alla fine.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-12-05/la-disfatta-renzi-dilemma-pd-l-avanzata-grillo--032251.shtml?uuid=AD48xM7B
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:40:34 pm »

DOPO REFERENDUM
Mattarella «congela» le dimissioni di Renzi fino al varo della manovra

  di Lina Palmerini 06 dicembre 2016

Non ci sono state le temute reazioni dei mercati sullo spread e sui titoli bancari ma Sergio Mattarella ha ritenuto comunque più opportuno muoversi con prudenza. Molti sono stati i contatti e le valutazioni che ha scambiato ai massimi livelli – anche con Mario Draghi – e alla fine ha maturato la convinzione che senza un varo definitivo della legge di stabilità non ci sono le condizioni per aprire la crisi e le consultazioni. Tra l’altro nel fine settimana è atteso anche il decreto sul Monte dei Paschi e dunque superare il giro di boa della settimana – o al massimo lunedì – è lo scenario temporale di maggior tutela per il Paese.

È sulla base di queste conclusioni - condivise con Matteo Renzi – che nel colloquio di ieri mattina gli ha chiesto di congelare le dimissioni e presentarle formalmente solo alla fine dell’iter parlamentare della manovra che dovrebbe concludersi al Senato venerdi. Questo comporterà un allungamento del Governo di qualche giorno, lunedì al massimo.

Nel faccia a faccia della mattinata l’ipotesi della “sospensione” era stata accolta da Renzi che però ha voluto aspettare di riunire il Consiglio dei ministri prima di comunicare formalmente al capo dello Stato la sua scelta. E dunque in serata è tornato al Quirinale, si è impegnato ad andare avanti ancora per qualche giorno e ha scambiato qualche idea con il Colle sul dopo.

Certo è che con un suo addio repentino, l’ipotesi più forte sarebbe stata quella di un Governo Padoan proprio per seguire il percorso della legge di stabilità e i provvedimenti relativi alle banche ma – ora – si possono aprire anche nuove ipotesi tra cui quella di Pietro Grasso. O anche nomi più vicini al premier. Insomma, le caratteristiche del nuovo presidente del Consiglio potrebbero essere anche più “politiche” e meno tecniche per accompagnare un lavoro non facile che è quello di trovare un accordo per cambiare l’Italicum.

Come si sa, al Quirinale si dà priorità alle scelte del partito di maggioranza relativa e del suo segretario che avrà il compito di indicare quale soluzione per il dopo. Dunque si attende la direzione inizialmente programmata per oggi ma poi slittata per dare tempo di costruire un quadro “fermo” da portare al Colle. Su un punto il premier e il capo dello Stato sono d’accordo: procedere con ordine, senza strappi e senza mettere in circolo incertezze dannose alla reputazione italiana già alle prese con l’ennesima crisi nell’arco di tre anni.

La road map per il momento prevede che nel fine settimana - lunedì al massimo - Renzi dia ufficialmente le dimissioni e che si apra subito il percorso della crisi con le consultazioni. Compito di Mattarella sarà verificare l’esistenza di una maggioranza, e se sussista quella attuale, per affidargli innanzitutto il compito di riscrivere la legge elettorale che attende anche il responso della Consulta. Perfino al Colle non scommettono che si possa arrivare alla scadenza naturale della legislatura anche se nel comunicato di ieri alcune indicazioni sono molto precise. «Vi sono di fronte a noi impegni e scadenze di cui le istituzioni dovranno assicurare in ogni caso il rispetto, garantendo risposte all’altezza dei problemi del momento».

Il riferimento è alla legge di stabilità ma Mattarella tiene molto anche a due appuntamenti internazionali – a marzo le celebrazioni dei 60 anni dei Trattati di Roma che fecero nascere l’Europa e a fine maggio il G7 a Taormina. È anche tenendo conto di queste due date che in Parlamento già si fanno i conti sulla scadenza del voto anticipato. A giugno o a settembre?

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-12-05/mattarella-congela-dimissioni-renzi-234401.shtml?uuid=ADjgm77B
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:30:38 pm »

Politica 2.0
La partita a scacchi di Renzi sul voto e il ruolo del Colle per tenere unito il Pd

Di Lina Palmerini 8 dicembre 2016

La prima giornata di consultazioni al Quirinale si aprirà con una serie di posizioni più tattiche che sostanziali. Alla direzione del Pd di ieri ha parlato solo Renzi e ha messo sul tavolo la posizione di “ingresso” del partito: un nuovo Governo istituzionale con tutti oppure il voto dopo che la Consulta si sarà pronunciata sull’Italicum. È chiaro che è solo l’inizio della partita. Un modo per mostrare che le opposizioni vogliono le elezioni e che nessuno accetterà di sostenere un Esecutivo allargato. I 5 Stelle, la Lega, hanno già chiamato la piazza, puntano l’indice sui parlamentari che aspettano settembre per incassare la pensione che si matura solo dopo 4 anni e sei mesi di legislatura. Insomma, la pressione esterna ed interna per andare a votare è già molto forte. E questa forza Renzi la vuole usare a suo vantaggio per non perdere il pallino della crisi. E soprattutto per poter determinare la data del voto che lui vuole sia in primavera.

Il suo istinto gli dice che se perde il treno e se la legislatura arriva al 2018, con un Governo politico senza di lui, la sua battaglia è finita. A quel punto il Pd si riorganizzerà contando sul fatto che un nuovo sistema elettorale proporzionale non necessita più di leadership competitive. Questo scenario è quello che teme, è il suo nemico. E dunque lo combatte. Ma per sostenere la battaglia ha bisogno che il partito sia unito con lui. E la condizione imprescindibile è il rapporto con il Colle.

In poche parole, Renzi non si può permettere le frizioni avute nei giorni scorsi con il Quirinale. Non può fare forzature perché nella scelta tra lui e Mattarella, nel Pd, prevale il richiamo verso un profilo istituzionale e verso soluzioni più ponderate e non le avventure di un voto a febbraio di cui aveva parlato nelle prime ore della crisi. E infatti, ieri, c’è stata una sua parziale marcia indietro. Al Colle ha ritrovato un clima disteso con il capo dello Stato, ha sanato gli equivoci, si è mostrato più aperto all’ipotesi di un governo di scopo per fare una nuova legge elettorale e guidato da un nome di suo gradimento.

Fin qui siamo ai suoi calcoli di leader che, tra tutti gli scenari, continua a preferire quello di restare in sella ed essere lui a gestire il Governo dimissionario fino alla legge elettorale. Si vedrà. Le carte ancora coperte sono - però - quelle delle correnti del Pd. Ma man mano che le consultazioni andranno avanti saranno svelate ma più Renzi terrà forte l’interlocuzione con il Colle più eserciterà la sua leadership nel partito. Tra l’altro ieri nel suo discorso in direzione ha sostenuto l’alleanza lanciata da Giuliano Pisapia: un passaggio voluto per indicare uno schema politico che parla a quell’area di sinistra del Pd. E soprattutto un avvertimento alla minoranza per dire che una sinistra alternativa a quella di Bersani c’è: è la sinistra del “sì” di Pisapia e Zedda. La partita è appena cominciata.

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