Peter GOMEZ.

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Arlecchino:
Giustizia & Impunità
Marino, l’uomo ladro lo fa l’occasione? Togliamogliela

Di Peter Gomez | 10 ottobre 2015

Visto che da sempre è l’occasione a fare l’uomo ladro è venuto il momento di ridurre drasticamente le occasioni. E se in molti giudicano buona l’idea di quei sindaci che, come Giuliano Pisapia a Milano e Dario Nardella a Firenze, hanno detto no alla carta di credito comunale per evitare alla radice di cadere in tentazione, noi dopo il caso di Ignazio Marino pensiamo invece che la strada maestra sia quella della tracciabilità e della trasparenza.

In Inghilterra lo hanno capito nel 2009, quando i sudditi di sua Maestà scoprirono che 392 deputati inglesi nelle loro note spese ci avevano messo di tutto: dvd a noleggio, attrezzi da giardino, colf, baby sitter, ma anche mutui e tasse di proprietà sulla casa. Risultato: ciascuno di loro fu costretto a restituire il maltolto. L’attuale premier David Cameron tirò fuori dal portafoglio 965 sterline.

L’allora primo ministro Gordon Brown staccò un assegno a tre zeri per rifondere quanto speso in pulizie e giardinaggio. Chi invece aveva fatto ricorso alle fatture false (per esempio David Chayrlor un deputato laburista che aveva stipulato un contratto d’affitto fasullo con la propria figlia) venne condannato a molti mesi di prigione perché, disse il giudice, quello era “l’unico modo per ristabilire la fiducia dei cittadini nel sistema parlamentare” dato che “i nostri rappresentanti svolgono un ruolo importante nella società ed è necessario che il loro comportamento sia sempre onesto”. Ma la vera svolta fu la pubblicazione on line dei dettagli di tutte le spese sostenute dai parlamentari mese per mese.

Cittadini e giornalisti da allora possono rendersi conto esattamente, e in tempo reale, di come viene impiegato il denaro dei contribuenti. In questo modo si è poi scoperto che c’era chi continuava a fare il furbo chiedendo il rimborso di biglietti di treno in prima classe (per i parlamentari inglesi è obbligatoria la seconda) o di camere di albergo a Londra, città dove possedeva la sua prima casa. I nuovi scandali, e la facilità con cui si viene smascherati, stanno così lentamente migliorando i comportamenti della classe dirigente britannica.

Anche in Italia tutte le spese dei sindaci, dovrebbero essere pubblicate. Ma la spazio di manovra lasciato ai primi cittadini dalla legge del 2013 è grande. Ogni giunta sceglie da sola il proprio grado di trasparenza. E a volte finge addirittura di esserlo. Così, come racconta oggi ilfattoquotidiano.it, su internet si trovano rendiconti di missione ultra-dettagliati come a Livorno, dove il sindaco Filippo Nogarin, segnala persino i 90 centesimi spesi per un caffè e lascia liberi i cittadini di stabilire se l’esborso sia stato opportuno o meno. Ce ne sono altri che riportano solo il dato aggregato come succede a Milano, Verona e Firenze. In certi casi i dati vengono aggiornati una volta al mese, in altri (Venezia) vengono pubblicati solo a fine anno. Peggio ancora va con le spese di rappresentanza. Una legge del 2011 obbliga solo a un rendiconto finale. Ma non stabilisce se si debba riportare pure il nome del fornitore e la data dell’evento.

Per questo, se si legge quello di Milano si capisce tutto o quasi, se si scorre quello di Napoli restano invece molte curiosità. In ogni caso nessuno batte la via suggerita dal buon senso. Pubblicare on line gli scontrini e le ricevute di tutte le spese rimborsate con le loro causali. E farlo con al massimo con 30 giorni di ritardo. Una soluzione semplice per ridurre di molto il diabolico impulso a pagare con carta di credito comunale un pranzo di famiglia, poi fatto passare per un incontro con una comunità di religiosi. Ma, come è noto, la semplicità in Italia è da sempre molto complicata da raggiungere.

Dalla rubrica ‘Fatti chiari’, il Fatto Quotidiano 10 ottobre 2015
Di Peter Gomez | 10 ottobre 2015

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Arlecchino:
Il vero giornalista? Per molti lettori quello che scrive solo ciò che piace

Di Peter Gomez | 10 settembre 2016

Quando lavoravo a Il Giornale di Montanelli capitava spesso che mi dessero del fascista. Tra i miei primi servizi vi fu un viaggio in incognito su un autobus di leoncavallini diretto a Montalto di Castro dove si sarebbe dovuta costruire una centrale atomica. Rientrato in redazione scrissi un pezzo di cronaca che nei fatti era per loro lusinghiero: stando a quello che avevo visto, i miei compagni di viaggio erano dei giovani idealisti, molti dei quali minorenni, animati da sentimenti di sincero ambientalismo. Ragazzi che all’insaputa dei genitori (e preoccupati della loro possibile reazione) avevano deciso di tentare il blocco della centrale. La reazione degli autonomi milanesi non fu però tenera: per un paio d’anni il fascista Gomez si beccò insulti, monetine (e persino un ceffone in piena faccia) in occasione di ogni manifestazione della sinistra.

Quando poi Silvio Berlusconi entrò in politica e mi dimisi, con altri colleghi, da Il Giornale, i miei ex lettori cominciarono a darmi del comunista. Non piacevano le inchieste sul leader di Forza Italia, il fatto che ricordassi le sue bugie e che mi appassionasse la storia dei rapporti con Cosa Nostra. Gli articoli sulle tangenti rosse che pure pubblicavo su L’Espresso venivano invece ignorati. Il refrain sul comunista Gomez era un patrimonio comune di molti politici del centrodestra e di centinaia di migliaia di suoi elettori. Arrivavano telefonate e lettere anonime. Durante i comizi dell’ex Cavaliere c’era anche gente che, in favore di telecamere, diceva: “Io a Gomez e Travaglio mangio il cuore”. Una parte della sinistra guardava però l’ormai ex fascista Gomez con simpatia, anche se in virtù della mia passione per la cronaca giudiziaria venivo catalogato come dipietrista.

Poi sono nati i 5Stelle. Molti dei loro militanti si sono formati leggendo le mie inchieste e i libri che scrivevo con Travaglio. Nel centrosinistra scandali e ruberie si susseguivano e io tentavo di raccontare tutto puntualmente, animato dalla convinzione che corruzione e malaffare fossero uno dei nostri problemi principali. Così in molti iniziarono a darmi del pentastellato e pure i 5Stelle mi consideravano dei loro. Prima di definirmi (per qualche settimana) renziano, quando l’attuale premier, durante le primarie prometteva di voler trasformare la Rai nella Bbc o di voler rottamare la vecchia classe dirigente italiana. Bastava riferire con puntualità, sul sito che dirigo, i suoi interventi per ricevere elogi dai fan del giovane Matteo.

Durò poco. Giusto il tempo perché lui si dimostrasse quello che era: il solito politico a caccia di consenso. Far notare le sue bugie e contraddizioni, evitando di attaccare per partito preso il M5S, era la prova che fossi un grillino. Poi è arrivato il caso Virginia Raggi. Una mia considerazione (scontata) ha di nuovo ribaltato la scena: tra i principi fondanti del Movimento c’è la trasparenza. Negare, o giocare sulle parole, per non dire ai cittadini che un assessore è sotto inchiesta significa violare quel principio. Per coerenza chi lo ha fatto o si scusa e ammette l’errore oppure è meglio che se ne vada.

Risultato: sms di lodi dal Pd, un mio pezzo pubblicato su ilfattoquotidiano.it ripreso in prima pagina da Il Tempo (giornale di centrodestra) e molte proteste di militanti M5S (ma solo da una parte di loro). Non me ne lamento: se avessi voluto vivere tra gli applausi avrei fatto un altro mestiere. Ripensando però al mio piccolo caso personale, mi convinco sempre più che la strada italiana verso il cambiamento sia ancora molto lunga da percorrere.
Di Peter Gomez | 10 settembre 2016

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