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Autore Discussione: Roberto Cotroneo - Ettore Scola: «Sto con i rom brutti, sporchi e cattivi»  (Letto 4958 volte)
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« inserito:: Luglio 02, 2007, 04:56:52 pm »

S’ode a destra un lamento

Roberto Cotroneo


La questione è annosa. Nel senso vero del termine. Sono anni che discutiamo se la cultura di destra non abbia un complesso ancestrale di inferiorità verso la cultura di sinistra. E naturalmente sono anni che la cultura di destra si chiede se non sia stata fagocitante quella sorta di egemonia della cultura di sinistra sull'arte, sulla letteratura, sulla filosofia, sullo spettacolo, e anche naturalemente sulla televisione. Sono anni che ci si chiede dove è, se c'è, una cultura di destra. E decenni che si snocciolano nomi e correnti, filosofi e scrittori: Céline, certo. Heidegger ovviamente, il surrealismo, il futurismo. Ma anche quando i nomi sono di destra, è ovviamente la cultura di sinistra ad averli valorizzati e pubblicati come si deve. L’esempio di un editore come Adelphi, vale per tutti.

Negli ultimi anni le cose sembravano cambiate. Come se la destra avesse voluto riprendersi certi gioielli di famiglia e tenerseli per sé. Ma qualcosa non funziona ancora come dovrebbe. Ieri il Secolo d'Italia ha pubblicato un articolo sul fatto che Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale di destra, e raffinato scrittore, sta vendicando questa sensazione di inadeguatezza che la destra ha sempre avuto verso la cultura. Il titolo dell'articolo è: Ma la destra si è accorta di avere un talk show?. E l'articolo è una sorta di epica di Buttafuoco: dove si dice che ha il tono giusto, che finalmente sa come comportarsi in televisione, che quello è l'unico spazio su La7 «non occupato dai post-marxisti e post democristiani. Una vera novità nel panorama mediatico». E parla «di stile irridente, provocatorio, puntato sul confronto non conformista». C'è da strabuzzare gli occhi. Non tanto per Pietrangelo Buttafuoco, che è lo scrittore del valore che conosciamo, ed è un uomo intelligente. Ma che ancora queste ingenuità, di una destra che arranca su termini come post marxismo, come anticonformismo, possa uscire su un giornale, per altri aspetti di una destra moderna, come quello diretto da Flavia Perina. Tra l'altro il programma 8 e ½ senza Giuliano Ferrara (ma si sa, l'estate non è buona amica dell'audience) ha ascolti che sono circa la metà di quelli dell'edizione condotta dal direttore del Foglio.

E allora? Allora certi vizi sono duri a morire. Certe appartenenze sono difficili da estirpare. Siamo amici di Buttafuoco, e credo che non meriti di essere etichettato come intellettuale di destra, e basta. Dire che la destra ha finalmente un talk show, ricorda le lamentazioni di Marcello Veneziani quando sostiene di non essere recensito dalla cultura di sinistra, o certe proteste di Luca Barbareschi quando sostiene che il teatro (come il cinema d'altronde) è sotto il controllo della cultura di sinistra. La verità è che una cultura di destra che sia dello stesso livello di quello che la sinistra ha prodotto in questo dopoguerra non è mai esistita. E che questo non ha a che fare con egemonie, e complotti di qualche genere. Ma ha a che fare con la bravura. Non siamo così ingenui dal pensare che la cultura di destra non possa avere un suo spazio importante nel futuro. I presupposti ci sono. Siamo però convinti che la strada non è questa. Che non è facendo elogi ingenui e barricaderi che si risolve l'annosa questione. Siamo pronti a vedere film di registi di destra, spettacoli teatrali di attori di destra, libri di scrittori di destra, trattati di filosofi di destra. Ma vorremmo per prima cosa dimenticarci che «sono di destra», e occuparci soltanto di quello che fanno. Ma purtroppo la strada per arrivarci sembra ancora lunga.

roberto@robertocotroneo.it



Pubblicato il: 02.07.07
Modificato il: 02.07.07 alle ore 11.26   
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« Ultima modifica: Settembre 27, 2007, 06:01:23 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 09, 2007, 11:19:30 pm »

Ettore Scola: «Sto con i rom brutti, sporchi e cattivi»

Roberto Cotroneo


Ma che città è diventata Roma? La grande capitale che nei decenni ha accolto immigrazioni di ogni tipo. Oppure sta cambiando? La tollerante città che ha convissuto con le borgate e le periferie, trasformandole in argomenti e luoghi persino letterari e cinematografici, oppure una nuova città, tesa e con problemi di ordine pubblico e di sicurezza, come vuole la destra? Dopo la tragedia della donna assassinata sono in molti a chiedersi che luogo sia mai diventato. E forse sono anche troppi quelli che cominciano a dipingere la città del Vaticano e della Politica come un punto nevralgico, e in negativo, di tutte le contraddizioni dell’era globale.

Ma forse così non è, anche se l'emotività incontrollabile può generare fantasmi ed equivoci. Forse in fondo Roma non è molto cambiata dai tempi in cui Pier Paolo Pasolini girava Accattone e frequentava le borgate, o Ettore Scola firmava uno dei suoi film più celebri: Brutti, sporchi e cattivi.

Era il 1976, e il grande regista scrisse la sceneggiatura per un film interamente ambientato in una baraccopoli, a due passi dal Vaticano. La storia di un patriarca pugliese, impersonato da Nino Manfredi, immigrato in una borgata romana, che per far dispetto alla sua tribù familiare, si porta a casa una prostituta grassa e brutta imponendo la sua presenza agli altri della famiglia, moglie compresa, che cercano di avvelenarlo nella speranza di mettere le mani su un milione che lui ha ottenuto come indennizzo per un occhio perso.

Un film grottesco, antipopulista, che all’epoca suscitò forti polemiche, anche perché non dava un’immagine edulcorata e ideologica del sottoproletariato. Ma, anzi, semmai un’idea vera e cruda di un mondo di sommersi. Oggi i sommersi non sono più i sottoproletari italiani, ma gli stranieri.

Siamo andati a trovare Scola, per capire con lui, come è cambiata questa città. E se oggi è possibile scrivere un film sui nuovi mondi fatti da emarginati poverissimi e stranieri.

Scola, come le venne allora l’idea di "Brutti sporchi e cattivi"?

«Intanto già nel 1968 avevo voglia di fare un film sull’immigrazione dei ragazzi che dal sud andavano a lavorare alla Fiat di Torino. Era Trevico-Torino. Io sono nato a Trevico, un paese in provincia di Avellino. Le immigrazioni sono tutte diverse ma con cause ed effetti identici. La prima emigrazione fu quella degli italiani che andarono a lavorare in America o in Germania; la seconda quella che dal sud portò i meridionali nel triangolo industriale; e poi quella di Roma, delle borgate, di cui aveva parlato Pasolini».

Quella che Pasolini chiamava: il genocidio culturale.

«Infatti. La spinta è stata la stessa per i due film: per Trevico-Torino e poi Brutti, sporchi e cattivi. Ho sempre ho avuto un interesse per questi temi. Sarà che quando ero bambino e c’era la festa del paese, lo ricordo bene, veniva la banda, la gente dai paesi attorno, le bancarelle, le processioni, e venivano gli zingari, i rom. E mi ricordo che a noi bambini ci dicevano: non uscite, attenti. E una volta un pastorello fu trovato morto dietro un cascinale, e ci fu la convinzione che erano stati gli zingari».

Invece?

«Mio padre era il medico condotto del paese. E capì invece che il bambino era stato ucciso dal calcio di un mulo. Ma già era iniziata la caccia agli zingari».

Lei si è trasferito a Roma che aveva cinque anni. Come la ricorda quella Roma delle borgate?

«Quella tolleranza romana, di quegli anni, credo non esista più. Come non esiste più una tolleranza italiana. Noi italiani non abbiamo mai avuto un sentimento nazionale profondo. Non abbiamo mai avuto un’identità da difendere. Roma aveva una tolleranza che era poi anche figlia dell’indifferenza romana. Questo atteggiamento romano di chi guarda, e guarda passare chiunque. E quindi diventava anche una virtù, una garanzia, per lo straniero, di maggiore anonimato».

Com’erano le borgate nella Roma di Pasolini, che lei ha conosciuto bene?

«Molta percezione di Roma "centro" di quelle che erano le borgate era molto influenzata da Pasolini. Pasolini era un intellettuale molto influente, e fuori dal coro. Ed era molto seguito. Accattone fu un film bellissimo e illuminante. E dieci anni dopo pensai di riprenderlo e di continuarlo con Brutti, sporchi e cattivi».

Erano cambiate molte cose?

«Forse era ancora più disumana la mia borgata, rispetto a quella di Pasolini. Io feci leggere la sceneggiatura del film a Pasolini, e avevamo anche pensato a un prologo. Dove Pasolini appariva all’inizio del film e spiegava cosa era cambiato in dieci anni. Ma venne ucciso prima di girare quella scena. E il film uscì senza prologo».

Lei andò con Pasolini a vedere le baraccopoli?

«Sì, e mi presentò molti suoi conoscenti che divennero attori del film. Ettore Garofalo, ad esempio, quello di Mamma Roma».

E come erano le borgate?

«Erano mondi a parte da cui i baraccati uscivano per arrivare al centro di Roma. Io ricordo orribili marce di protesta dei borghesi, dei benestanti, fatte nel centro di Roma, contro la metropolitana che portava la gente delle borgate al centro della città».

C’era una percezione di pericolo nella città?

«No, pericolo no. C’era una divisione strettamente sociale».

Quando lei girò il film cercò di raccontare il mondo dei baraccati nel modo più realistico e crudo possibile.

«Manfredi fu bravissimo. E il film fu accolto abbastanza male. Goffredo Fofi mi accusò di essere un regista razzista che giocava sul destino dei diseredati. Mi stupì, perché non capì il lato swiftiano del mio film».

Ma oggi si potrebbe fare un film sui rumeni e sui rom di Tor Bella Monaca?

«Certo, si dovrebbe fare. Credo che però ci sia un po’ di disaffezione per il nostro paese. Io ricordo l’amore che si aveva per il nostro paese. Gente come Elsa Morante, Zavattini, Rossellini, Pavese, De Sica aveva affetto e dunque attenzione per il nostro paese. Oggi non si fa altro che dire che va tutto male. Invece bisognerebbe cercare di stimolare quel meglio che c’è in ognuno di noi».

Vuole dire che per capire bisogna aderire alle cose. Avere attenzione per i mondi altri, anche quelli più lontani da noi. Amare anche le contraddizioni?

«Penso di sì. Ormai prevale la paura, e il più indifeso si rifugia nei luoghi comuni. È il modo più semplice per consolarsi».

Quando lei ha letto la storia della donna uccisa dal baraccato nel quartiere di Tor di Quinto a Roma, ha pensato al suo film?

«Ho pensato: questo cosa provocherà? Ho letto di leggi speciali, di rimpatri. Mi sono venuti in mente i treni blindati... La storia non insegna mai niente, purtroppo».

Voi del mondo dell’emarginazione sapevate tutto. Noi non sappiamo nulla.

«È vero, oggi non sappiamo niente. E poi credo una cosa. Quando si andava a vedere Ladri di bicicletta, la perdita del lavoro di quell’imbianchino, finiva per appartenermi, appassionarmi e coinvolgermi. Anche se appartenevo a un’altra classe sociale, diventava una cosa mia».

L’arte, il cinema, la letteratura, come forme empatiche, emozionali, che ci rendono più tolleranti. Intende questo?

«Sì, e senza la mediazione della cultura lo straniero diventa solo pericolo. Oggi invece c’è un trionfo dell’irrazionalità. Non abbiamo gli strumenti per capire i nuovi Brutti, sporchi e cattivi. Io credo che la colpa sia proprio nostra: dei cineasti, dei giornalisti, degli scrittori, dei poeti, degli intellettuali, che nel passato hanno svolto un ruolo di mediazione, riuscendo a far capire quella che possiamo chiamare la diversità. E poi oggi non c’è più amore per questo paese. Se tu non ami il tuo paese, non ami più nulla, e difendi solo i tuoi interessi. Poi cerchiamo di non confonderci. Tutto questo non ha a che fare con la richiesta di legalità. Quella è ovvia e sacrosanta».


roberto@robertocotroneo.it




Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 13.15   
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 01, 2008, 12:06:33 am »

Se ci fosse Sylos Labini

Roberto Cotroneo


Talvolta è dalle strade in cui si abita che capisci dei mondi. E che capisci una certa Italia. È da quelle vie, e poi da quelle case che si affacciano su quelle vie che hai le sensazione di un Paese che lentamente perde di identità, diventa qualcosa d’altro, e persino rischia di imbarbarirsi. Paolo Sylos Labini, economista, saggista, ma soprattutto appassionato testimone della civiltà di un Paese, scomparso nel dicembre del 2005, abitava in via Capodistria, a Roma. È una via stretta, di belle case degli anni Venti e Trenta, che si affaccia su via Nomentana e, dall’altra parte, su un dedalo di strade che trasformano quel quartiere in qualcosa di più di un quartiere residenziale. In una sorta di isola civile, discreta. Attorno case e abitazioni di professori e intellettuali come lui. Pochi negozi, qualche piccolo bar. Se torno a quel ricordo è perché negli ultimi tempi mi sono chiesto cosa avrebbe potuto dirci un uomo come lui di questa campagna elettorale, ma soprattutto di una prospettiva a cui non riusciamo proprio ad abituarci: l’idea che torni a governare Berlusconi, con le schiere leghiste, con quelli di An, e forse persino con l’estrema destra.

Perché per ora i sondaggi, per quanto in progress, e sempre più ottimistici per la sinistra, dicono ancora questo.

Perché proprio Paolo Sylos Labini? Perché Sylos Labini, economista, che aveva studiato a Cambridge e ad Harvard, che aveva insegnato in tutte le più importanti università del mondo, che era stato allievo di Schumpeter, che non era mai stato un uomo di «sinistra», come viene intesa la sinistra in Italia, ma a sinistra votava, ci avrebbe potuto dire molto di come è cambiato davvero questo paese, e senza i luoghi comuni dei sociologi e dei giornali. Lo aveva già fatto nel lontano 1974, quando pubblicò un saggio che ha fatto storia. Il Saggio sulle classi sociali, edito da Laterza, ristampato in dieci edizioni, forse il primo e unico best seller di argomento economico di questo dopoguerra in Italia. Ma soprattutto uno degli studi più lucidi sulla società italiana, scritto utilizzando metodi quantitativi. Con una riflessione sulla composizione del reddito e delle classi e sottoclassi sociali nel nostro paese. Quel saggio fu la rottura di un tabù. In pieni e ideologici anni Settanta, un economista di sinistra diceva che Marx aveva torto «e il proletariato non sarebbe mai diventato l’immensa maggioranza della popolazione». E che sarebbero enormemente cresciuti i ceti medi. Ma soprattutto scopriva che allora i voti operai del Pci erano sì e no il 50 per cento del totale.

L’uomo di rottura, Sylos Labini lo aveva continuato a fare fino agli ultimi anni di vita; lui che era della classe 1920, ma era attivissimo: prima appoggiando la lista Occhetto-Di Pietro, e poi continuando a pensare liberamente e fuori dagli schemi.

Cosa ne sarà di noi se tornasse al governo il cavalier Berlusconi? Sylos Labini ripeteva spesso che tutti avevano sottovalutato il pericolo Berlusconi, e non lo diceva da pericoloso bolscevico, ma con una lucidità di analisi ineccepibile. Ma non si fermava a questo, sapeva bene quali erano le cause della degenerazione del paese. Perché aveva metodo, ed era un vero «corridore tignoso», come lui stesso amava definirsi. Sarà stato merito dell’incontro della sua vita, che fece quando era in America, l’incontro con Gaetano Salvemini. Sarà stato che Sylos Labini era uno di quelli che aveva sempre guardato con diffidenza e sana antipatia ai due miti e modelli della politica e dell’utopia del nostro paese: Karl Marx da una parte e il solito Niccolò Machiavelli dall’altra. Sarà stato che era un economista, certo, ma con una passione per la storia, e per le storie nazionali, e mai un freddo analista di dati macroeconimici. Sarà stato che era un polemista nato, persino un «attabrighe», altro termine che amava usare con ironia per definirsi e raccontarsi.

A quasi tre anni dalla sua scomparsa i figli Francesco e Stefano stanno riordinando le sue carte e hanno fondato un’associazione culturale intitolata al padre Paolo. Esiste un sito internet anche se non ancora funzionante a pieno regime www.syloslabini.info, anche se le carte sono moltissime e ci vorrà tempo perché venga messo tutto a posto. Anche perché Sylos Labini ha scritto molto, insegnato molto, e come amava ripetere lui stesso: «Io non mi sono mai seduto in nessun consiglio di amministrazione, di enti o di banche, non ho mai cercato il potere, e neppure ho cercato di diventare ricco. A me bastava scrivere i miei saggi e insegnare ai miei studenti».

Ma non gli bastava questo paese. E non solo per una vera e propria vocazione internazionale. E non solo per il suo amore verso gli Stati Uniti, che guardava con spirito critico, ma anche con sincera adesione. Ma anche perché aveva ben chiaro il livello di imbarbarimento in cui eravamo caduti. Ne parlava con i suoi amici accademici, delle università dove teneva conferenze e lezioni, e sapeva di essere ascoltato con assoluta autorevolezza. Scriveva articoli polemici su questo giornale, uno dei quali, ispirato all’urlo di Munch, era forse quanto di più aderente al suo modo di pensare le cose, e l’Italia di allora, potesse scrivere. «L’appello, che faccio mio insieme con l’urlo di Munch - diceva Sylos Labini - ricordava che su tutti incombe il giudizio delle nuove generazioni; l’appello vale anche oggi sia per gli oppositori che non fanno opposizione sia, e ancora di più, per coloro nella Casa delle libertà che, con qualche temporanea ribellione puramente verbale, pensano di salvarsi l’anima, ossia l’immagine e la reputazione. No, v’ingannate. La politica voluta da Berlusconi sta dando colpi di piccone a due pilastri della nostra società, costati lagrime e sangue a intere generazioni, l’Unità d’Italia e la Costituzione. Ai Parlamentari della Casa delle “libertà” che, nonostante tutto, hanno conservato un qualche rispetto di se stessi dico: dimostrate sul serio, coi fatti, di essere al servizio non di Berlusconi ma del paese. Agli oppositori dico, accoratamente: abbandonate una volta per sempre gli zig zag, come quelli sull’Iraq e sul “Senato federale”. Altrimenti l’astensionismo dilagherà e subirete una nuova sconfitta elettorale, definitivamente catastrofica per tutti».

Non fu una sconfitta, ma oggi sappiamo come poi è andata, e come quella vittoria, di misura, e con mille contraddizioni non è servita a evitarci una nuova offensiva del cavaliere, con il solito populismo, con gli eterni conflitti di interessi, con la solita politica, ogni volta un po’ più vecchia, ogni volta un po’ più stanca.

La verità è che mancano oggi voci lucide e fuori dagli schemi, come la sua. Manca quella capacità di analisi spiazzante, che veniva da lontano, ma soprattutto da una visione del nostro paese per nulla provinciale, distaccata. Diceva che Berlusconi era ineleggibile. Che si era trovato un escamotage per aggirare la legge del 1957. Diceva che non eravamo riusciti negli anni a trasformarci in un paese diverso. Non amava i luoghi comuni, parlava come un professore di Harvard, in un modo semplicissimo, diretto, limpido. Il mondo accademico lo guardava come un marziano: non era per niente baronale, non aveva quei tecnicismi finti su cui gli economisti hanno campato per decenni. Il mondo politico lo temeva e lo omaggiava. Prodi ha sempre detto che per lui Paolo Sylos Labini era stato un maestro, e che la sua carriera universitaria si era mossa proprio dai suoi studi sugli oligopoli.

Nella seconda metà degli anni Settanta il partito comunista, lo guardava con diffidenza: si era permesso di scrivere nel saggio sulle classi sociali che la classe operaia si sarebbe dissolta. E che i ceti medi avrebbero avuto la meglio. Si era permesso di dire che il Pci, soprattutto, era un partito della media borghesia. Senza retoriche e senza falsi miti. Troppo americano per la sinistra, troppo di sinistra per quel mondo di oltranzisti atlantici, che dagli Stati Uniti avevano sempre chiesto il peggio, il ruolo di carabiniere occulto dell’anticomunismo.

Oggi cosa direbbe Sylos Labini vedendo il cavaliere che straccia il programma del Partito Democratico, vedendolo in televisione che consiglia alle giovani precarie di sposare suo figlio, o un figlio di Berlusconi? Cosa avrebbe potuto dire di fronte a tutta questa approssimazione? Mentre l’Associazione culturale Paolo Sylos Labini, continua il suo lavoro perché l’archivio di questo grande intellettuale italiano sia accessibile a tutti, a me torna in mente l’ultimo pomeriggio in cui l’ho incontrato. In quella strada di un’Italia che non c’è più. In quell’isola di Roma pacata e rilassante. Mi accompagnò alla porta di casa. Poi quasi tra sé e sé mi disse una frase che non mi sono dimenticato. Una frase sul potere. «Il potere è una tentazione forte per chiunque. Mi viene in mente una frase di Thomas Paine, inglese, che fu amico a Parigi di Condorcet e in seguito in America fu consigliere del grande Presidente Jefferson: “These are the times which try men’s souls”. Questi sono tempi che mettono a dura prova l’animo delle persone. Specialmente oggi in Italia». Era di maggio, maggio del 2005. Gli chiesi come sarebbe andata a finire, allora: «Spero che, anche se con ritardo, possa andare a finire bene. Sarebbe un mio motivo di consolazione umana e civile, ancora prima che politica». Umana e civile. Ancor prima che politica. Questa era la sua forza, e questa era la sua civiltà.

roberto@robertocotroneo.it



Pubblicato il: 31.03.08
Modificato il: 31.03.08 alle ore 9.22   
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