Bruno UGOLINI. -

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Modello Marchionne

Bruno Ugolini


Certo è un bel giorno per la Fiat, con quel «Car of the Year», l’auto dell’anno 2008, ufficialmente decretato da 58 giornalisti specializzati di 22 Paesi europei. Un altro alloro nella corona appioppata al moderno manager in perenne maglione nero con triangolo tricolore, Sergio Marchionne. Osannato giustamente ancora l’altro giorno a Torino, per aver resuscitato la casa dell’auto e soprattutto per averlo fatto cercando di rivalutare il ruolo di quelle che chiamano «risorse umane» e che poi sono uomini e donne in carne ed ossa.

Non vorrei rovinare la festa, però, di fronte a questo motivato e persistente rilancio pubblicitario, suggerirei alcune altre proposte. Non si può che essere lieti se una delle poche industrie italiane rimaste riesce a ritrovare il successo e magari a espandersi. Gli italiani sarebbero entusiasti se, come auspica Marchionne, la Fiat diventasse l’Apple dell’auto, magari unendo all’eleganza e qualità dei MacPro, il fatturato di Bill Gates. E il tutto con la soddisfatta partecipazione di quei 180 mila tra operai, tecnici e impiegati che quel prodotto producono.

È qui che sarebbe necessario, però, un chiarimento. Vanno bene gli asili nido, lo spaccio (anzi il supermercato) aziendale, le pareti delle officine in colori pastello, le tute senza più l’antico blu. Vada anche per il Concorso riservato alle mamme Fiat. Oserei sostenere che non si tratta di novità eclatanti. Ricordo a Sesto San Giovanni, accanto alla Falck, persino le casette per gli operai. E così in altre aziende munite di asili nido e spacci: era il corredo del fordismo. Era un modo per tenere legati all’azienda gli operai, come membri di una grande famiglia. Oggi le famiglie sono in crisi e appena gli operai sono sui 50 anni, (capita anche alla Fiat), sono pre-pensionati. Non scandalizza nemmeno il piccolo giochetto dei 30 euro elargiti e che non sono trenta perché una buona fetta era «dovuta», sotto la voce «vacanza contrattuale». Non sono apparsi neanche, come qualcuno temeva, sotto forma di premio antisciopero visto che lo sciopero, l’altro giorno, è andato bene. E ha reso evidente che quei lavoratori Fiat, come i loro fratelli sparsi in tutta Italia, non vivono in un’isola colorata, soddisfatti e contenti. Perché qui veniamo al punto. Marchionne sostiene che la sua non è una politica aziendale dettata dagli antichi dettami del paternalismo ma posta in atto solo per far stare bene i dipendenti. Perché, ha detto «le performance di un’azienda dipendono in gran parte dalla qualità delle persone e dalla qualità della loro vita lavorativa».

Ma vede, caro Marchionne, la qualità del lavoro non si misura solo negli ambienti o nei servizi. C’è un nodo essenziale nel rapporto di lavoro, affrontato nei terribili anni 70, e che oggi a pochi interessa. È quello del rapporto tra chi esegue e chi comanda, tra l’individuo (l’individua) e la macchina. Io sono rimasto colpito da un particolare raccolto dalle cronache quando Epifani e gli altri segretari sindacali andarono a tenere un’assemblea a Mirafiori e le donne mostravano i polsi logorati.

Non chiedevano solo soldi, chiedevano il diritto di poter contrattare tempi e ritmi, l’organizzazione del proprio lavoro. Avere un ruolo, insomma, non subire passivamente imposizioni dall’alto. C’è stato un tempo in cui queste tematiche trovavano uno spazio. E si parlava degli esperimenti alla Volvo e in altre fabbriche. Qualcuno rievocava Adriano Olivetti. Qualcosa del genere, par di capire, è contenuto nelle richieste per il contratto nazionale dei metalmeccanici in questo 2008, ad esempio in materia d’informazione o a proposito degli operai precari da non sfruttare a vita. Perché anche loro sono «risorse umane» da resuscitare, come i prodotti. Ecco sarebbe bello se nel giorno della «500 auto dell’anno» Sergio Marchionne facesse un altro passo. Va bene rassicurare gli imprenditori del Nord Est dicendo che non li vuole dividere o augurarsi trattative rapide. Potrebbe però entrare nel merito delle richieste contrattuali. Magari per dire che sui diritti d’informazione, sui precari, su un inquadramento delle qualifiche che è vecchio come il cucù, si può non solo discutere ma dichiarare che sono cose utili e «moderne». Dei 117 Euro di aumento, chi scrive prova quasi vergogna a parlarne. Visto che proprio ieri l’Ires-Cgil, fatti i conti, ha dichiarato che in cinque anni, e cioè dal 2002 al 2007, ogni lavoratore - con un reddito pari a 24.890 euro - ha perso complessivamente 1.896 euro.

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Pubblicato il: 20.11.07
Modificato il: 20.11.07 alle ore 8.19   
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Scontri all´orizzonte, le divisioni indeboliscono

Bruno Ugolini


Non sarà una partita facile quella che si aprirà tra sindacati, Confindustria e Governo, su contratti da rinnovare prima (vedi pubblico impiego, trasporti, commercio, eccetera), e contratti da riformare poi. Per non parlare di fisco, salari e pensioni: tutti i temi della piattaforma presentata già al governo di centrosinistra da Cgil, Cisl e Uil. E potremmo aggiungere casi specifici, come quello drammatico dell´Alitalia o questioni impellenti come la realizzazione completa del protocollo sul welfare.

Sono all´orizzonte trattative difficili, sono da mettere in conto confronti e scontri. Tempi duri, dunque. E´ l´unica constatazione sulla quale è emersa una consonanza nell´assemblea dei metalmeccanici, tra Guglielmo Epifani e Gianni Rinaldini. E´ sulle conseguenze da trarre che emerge un divorzio apparentemente insanabile. Per Guglielmo Epifani la via maestra è quella dell´unità, dentro la Cgil innanzitutto e poi con Cisl e Uil. Facendo leva sugli accordi fatti anche in materia di nuovo modello contrattuale e che per la Cgil rappresentano un progetto innovativo di grande valore.

La maggioranza della Fiom di Rinaldini esprime un giudizio opposto. Considera quel progetto un modo per taglieggiare in sostanza le buste paga e snaturare per sempre il sindacato. Un giudizio isolato nel panorama sindacale. Nessun altra categoria nella Cgil, dal pubblico impiego, all´industria, ai servizi, segue un tale indirizzo. Ed è difficile sostenere che siano diventati tutti supini al diktat della segreteria confederale, incapaci di intravedere il pericolo di quel progetto.

C´è anche da considerare il fatto, a proposito di tempi duri, che dalla destra si stanno levando pressioni nei confronti della Confindustria, tese a sottolineare la non possibilità di accettare l´impostazione sindacale. Basta, per capire come stanno le cose, leggere l´editoriale apparso su "Economy", il settimanale collegato a "Panorama", la rivista diretta da Maurizio Belpietro. Qui si polemizza con l´ottimismo di Montezemolo, con le presunte svolte. Si attacca poi la pretesa di Cgil Cisl e Uil di parlare di "inflazione realisticamente prevedibile" per misurare un´equa crescita salariale. L´articolo spiega poi come soprattutto le imprese piccole e medie non potranno mai accettare nuovi diritti d´informazione sul quadro economico finanziario. Un editoriale, insomma, che è una spia di quanto potrebbe succedere e di che cosa bolle nella pentola imprenditoriale. Ecco perché appare sacrosanto l´appello di Epifani all´unità del sindacato per fronteggiare una situazione irta di ostacoli.

Oltretutto, una volta battute le resistenze di Confindustria, i possibili capovolgimenti del governo, una volta rinnovati i contratti già scaduti e portato a termine l´accordo che riforma i contratti, la Fiom che farà? Tutti, dai tessili, ai chimici, al pubblico impiego, ai braccianti, ai bancari, agli insegnanti, ai ministeriali avranno determinate regole contrattuali e anche regole di democrazia sindacale.

E´ impensabile supporre che i metalmeccanici, perlomeno quelli della maggioranza, non quelli della minoranza di Durante, non quelli di Fim e Uilm, possano rimanere con le regole stabilite nel 1993.

Pubblicato il: 16.05.08
Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.26   
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La scommessa del rinnovamento

Bruno Ugolini


La Cgil rialza la testa e punta con decisione al proprio rinnovamento, negli uomini e nelle strategie. È una scommessa, una sfida, non lanciata per corrispondere alle attese spesso strumentali di un mondo esterno che vorrebbe in sostanza un sindacato docile, bensì per condurre efficacemente le battaglie quanto mai urgenti per salari e diritti. Guglielmo Epifani è ricorso a un’oratoria appassionata per cercare di convincere i dissenzienti sulla posta in gioco e sulla bontà degli strumenti adottati. Non è però riuscito a convincere del tutto i metalmeccanici di Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi, nonché l’ala capeggiata da Nicola Nicolosi "Lavoro e Società". I due però hanno deciso di astenersi sul documento conclusivo lasciando solo Giorgio Cremaschi, segretario Fiom, chiuso nel suo "no" assoluto.

Con questo finale la Conferenza nazionale di organizzazione è apparsa un po’ un’appendice, due anni dopo, del congresso di Rimini del 2006. Quel congresso aveva sancito un’inedita unità di tutte le anime della Cgil attorno a Guglielmo Epifani. E, nello stesso tempo, era stata dichiarata una "sintonia", sia pur da verificare, con l’avvento del nuovo governo di centro-sinistra. Con un programma, "riprogettare il Paese", che avrebbe dovuto servire a iniettare nell’azione del nuovo governo le proposte del mondo del lavoro. È andata come è andata. Il governo di Romano Prodi si è frantumato per il venir meno di Clemente Mastella e Lamberto Dini ma anche per le continue bastonate inferte dai rappresentanti della sinistra più a sinistra. Subito dopo ecco il terremoto elettorale, con la larga rivincita della destra, la sconfitta del nuovo Partito Democratico, l’affossamento dell’Arcobaleno.

Ora questo susseguirsi di eventi si è riflesso nella Confederazione generale del lavoro, suscitando umori diversi, anche se la conclusione ha ricucito in parte le ferite. Del resto già nel corso della defunta legislatura c’erano stati preannunci di divisioni interne. Così quando una parte del sindacato aveva votato contro un protocollo sul welfare che assicurava alcuni risultati per lavoratori e pensionati. E che era il frutto di un negoziato duro al quale avevano partecipato esponenti di rilievo di tutta la Cgil.

Un protocollo approvato poi da cinque milioni di lavoratori. Così quando la proposta di nuovo modello contrattuale faticosamente concordata con Cisl e Uil suscitava analisi opposte: un importante passo avanti per la maggioranza di Epifani, una trappola disastrosa per la maggioranza della Fiom (non per la Fiom di Durante).

Ora il confronto, anche con accenti aspri, è venuto allo scoperto. Epifani non ha certo blandito gli oppositori, invitandoli a non proseguire in un congresso permanente. Ha reso evidente la necessità di uscire dai fortini del passato, spesso gusci vuoti, di non giocare in difesa, di rischiare avanzando proposte.

Questo è il senso della proposta sull’autoriforma organizzativa e sul modello contrattuale. Una proposta che non può essere affidata alle interpretazioni di comodo confindustriali. Mentre il rapporto col governo deve poter far leva sulle contraddizioni del centro destra, senza ignorare se sarà necessaria, la mobilitazione opportuna.

È aperta così una nuova fase per il maggior sindacato italiano che non rinuncia ad ipotesi di lotta ma non intende andare allo sbaraglio. Saranno ardue le prove per affrontare la partita politica e le scelte capaci di riportare "in basso", nei luoghi di lavoro (noti e troppo spesso ignoti), l’esercito dei funzionari. Senza contare "l’alto", quei luoghi del mondo, dove viaggia la globalizzazione che si ripercuote su tutti noi.

Una fase che avrebbe bisogno di una più salda unità, di un gruppo dirigente coeso. E anche di un progetto più complessivo come molti hanno chiesto nel dibattito. Epifani ha accolto la sollecitazione parlando dell’eventualità di una rivisitazione del "programma fondamentale" che guida l’opera e l’azione della Cgil.

Era stato l’assillo di Bruno Trentin, solennemente ricordato l’altro giorno. Quel Trentin che sosteneva come "il rinnovamento degli uomini non può essere separato dal rinnovamento delle politiche". E che a proposito dei rischi sempre presenti di burocraticismo raccontava come "lavorare nella Cgi non è un mestiere, può diventare una ragione di vita".

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.55   
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Alitalia: Quando il sindacato è chiamato a firmare accordi «impossibili»

Bruno Ugolini


Tornano alla memoria, in queste ore, leggendo i dispacci d´agenzia sull´Alitalia, ascoltando nei telegiornali le parole sommesse o gridate di piloti o hostess o meccanici, altre storie. Storie di altre sconfitte che rappresentarono in qualche modo la fine di un´epoca. Ero stato come cronista, nell´autunno del 1980 per 35 giorni e 35 notti alla Fiat, a Torino. Avevo visto e vissuto quella vicenda sindacale, culminata in una sconfitta. Scrivevo ogni giorno per questo stesso giornale, allora diretto da Alfredo Reichlin, le mie lunghe cronache. Ascoltavo le voci degli operai e quelle dei dirigenti di allora, politici e sindacali: Luciano Lama, Pierre Carniti, Sergio Garavini, Claudio Sabattini, Fausto Bertinotti, Giorgio Benvenuto, Piero Fassino, Diego Novelli, Giuliano Ferrara... Tanti nomi che si accavallano nella memoria, fino alla visita di Enrico Berlinguer, oggetto di tante strumentalizzazioni. Ho rivisto, tempo fa, nel bel film di Francesca Comencini, Fabbrica, Bruno Trentin davanti ai cancelli di Mirafiori che inascoltato, con la sua foga razionale, sosteneva la necessità di abbandonare la perdente lotta ad oltranza per abbracciare forme di lotta articolate, capaci di durare.

Tempi lontani. Oggi quella storia si ripete? I nuovi Cipputi, senza tuta, sono le donne e gli uomini di Fiumicino, di Linate, della Malpensa? C´è chi in questi giorni sostiene che per l´Alitalia ci vorrebbe una nuova marcia dei quarantamila. Il riferimento è a quella manifestazione di massa, non certo spontanea, voluta e organizzata dalla Fiat, che mise in moto il 14 ottobre del 1980, quarantamila tra impiegati, capireparto, capo-officina. Fu l´avvenimento che precipitò le cose, convinse i sindacati a firmare precipitosamente l´accordo, pose fine al blocco dei cancelli della grande fabbrica. Tutto tornò alla normalità ma con migliaia di lavoratori in cassa integrazione e con decimate le rappresentanze sindacali. Il segnale della sconfitta.

L´equazione Alitalia-Fiat sta però poco in piedi. Non so, infatti, che caratteristiche avrebbe una manifestazione di massa sul caso Alitalia oggi. Ho il sospetto che sotto accusa potrebbero e dovrebbero finire innanzitutto quelli che per vincere l´ultima campagna elettorale avevano promesso un futuro radioso alla Compagnia di bandiera. Aveva dichiarato, proprio un anno fa, Silvio Berlusconi: «La risposta ad Air France la darà il prossimo presidente del Consiglio e sarà un chiaro e secco no. Comincio ad operare perché questa operazione possa riuscire e in previsione di avere la responsabilità di governo sono sicuro che arriveremo ad un risultato positivo. Dopo l´annuncio della mia contrarietà, Air France rinuncerà alla partita. Rinuncerà, perché, se sa che il futuro presidente del Consiglio è contrario, farà un passo indietro». E ancora: «Air France rinuncerà alla partita su Alitalia lasciando spazio all´ingresso di Air One, la cui regia nell´operazione considero indispensabile».

Ecco chi ha davvero mandato a monte l´accordo con la Compagnia francese che un anno fa avrebbe potuto rappresentare un salvataggio assai meno drammatico. Ed ecco perché un bis della marcia dei quarantamila potrebbe dirigere i suoi strali più che verso hostess e piloti, verso i saloni di Palazzo Chigi. Se non altro perché tutti capiscono come negli aeroporti non sia in corso una lotta a oltranza, guidata dalle tre Confederazioni. Assistiamo solo a sporadiche e un po´ disperate proteste. Certo c´è attesa e tensione. È del resto tutta gente che ha vissuto sulla propria pelle, in questi lunghi anni, una serie infinita di ristrutturazioni, con cacciata degli «esuberi» e dilagare dei precari, con persino esperienze di quasi cogestione. Hanno visto passare sotto gli hangar decine di manager, spesso promossi non per le loro specifiche competenze in campo aereonautico ma solo per le loro strette parentele politiche. Uomini di fiducia, come si dice. Che per quella stessa salda fiducia sono usciti da quelli stessi hangar con magnifiche liquidazioni ma lasciando strascichi fallimentari. Non hanno pagato nulla, non pagheranno nulla. Pagheranno i nuovi Cipputi dei cieli. Con la consapevolezza che la loro Alitalia non rischia di fallire oggi, è fallita nel corso di tutti questi anni.

Pubblicato il: 15.09.08
Modificato il: 15.09.08 alle ore 10.43   
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