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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 56613 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Aprile 02, 2011, 06:13:01 pm »

Le Istituzioni prima di tutto

La credibilità istituzionale dell'Italia è sotto esame - più come «spirito generale della Nazione» che come capacità di governo - del mondo intero, in ordine alle due forme che la libertà politica ha assunto dalla metà del Settecento: quella il cui referente è la costituzionale distinzione e separazione dei poteri e quella il cui referente è la civile sicurezza dei cittadini (Montesquieu: Lo spirito delle leggi, 1748). La prima forma di libertà politica riguarda la discussione in corso sulla riforma della Giustizia. La seconda, l'ondata immigratoria dalla quale siamo sommersi. Della disarmonia istituzionale si è fatto interprete il presidente della Repubblica, che ha convocato al Quirinale i capigruppo di Camera e Senato.

Se non ci fosse di mezzo Berlusconi - col suo carico di processi pendenti, di leggi ad personam per evitarli e di polemiche con i pubblici ministeri che lo vogliono processare dando, qualche volta, l'impressione più per tigna che per obbligatorietà dell'azione penale - quale sarebbe il giudizio delle opposizioni sul progetto del centrodestra di riforma della Giustizia? Quale sia il giudizio sul progetto di riforma - che è legittimo a seconda dell'idea che si ha del sistema giudiziario e dei suoi rapporti con gli altri poteri - rimane, però, un dubbio. Che in gioco non sia una giustizia giusta, ma la capacità della classe politica di essere classe di governo sia quando governa, sia quando, dall'opposizione, si propone come alternativa. Quella al governo, evitando di compromettere la credibilità della proposta di riforma con la contemporanea approvazione di altre leggi ad personam (come l'accorciamento dei tempi di prescrizione per gli incensurati); quella all'opposizione, evitando di dar mostra di volersi opporre a una riforma, condivisibile o modificabile, al solo scopo di liberarsi del Cavaliere.

Nel pensiero del Settecento e dell'Ottocento, la certezza del diritto coincideva col concetto di libertà del cittadino di non essere soggetto che alle leggi. La certezza del diritto era subordinata alla condizione che l'autorità preposta alla interpretazione delle leggi non godesse di una eccessiva discrezionalità. L'esistenza di una Legge fondante si concretava nella gerarchia delle leggi e prefigurava la separazione dei poteri. Oggi, i governi producono leggi variabili nel tempo e applicabili a singoli casi, lo Stato di diritto non è più il governo delle leggi, bensì di uomini dotati di largo potere discrezionale che le interpretano estensivamente; i magistrati partecipano al processo legislativo e esercitano una funzione significativa nell'interpretazione stessa delle leggi attraverso ciò che da noi è chiamato «diritto creativo». Tutto ciò - indipendentemente dalle vicende giudiziarie della Prima repubblica e, oggi, di Berlusconi - si è concretato nel conflitto fra potere politico e potere giudiziario.

Da una parte, c'è l'idea di democrazia (Secondo trattato sul Governo di Locke) che - in quanto espressione della sovranità popolare - non può essere limitata da un potere (quello giudiziario) che da essa non promana direttamente; è l'idea di democrazia plebiscitaria di Berlusconi dopo la trasformazione del sistema politico in senso maggioritario. Dall'altra, c'è l'idea di parità, teorizzata dal costituzionalismo di Montesquieu, fra i tre poteri; che, però, ponendo limiti al legislativo e all'esecutivo, da parte del giudiziario, entra in contraddizione con la sovranità popolare; è anche l'idea di autonomia, nel proprio ambito, ma non di distinzione e tanto meno di separazione, dei poteri maturata da una parte della magistratura che, in tal modo, si è ritagliata il ruolo di antagonista del potere politico, quale ne sia il colore, ed è percepita da Berlusconi come indebita opposizione al proprio governo. È, dunque, innanzitutto, dal riesame del rapporto fra Stato di diritto e democrazia rappresentativa che dovrebbe partire, da parte sia della maggioranza sia dell'opposizione, la discussione sul confronto fra poteri dello Stato e sulla riforma della Giustizia.

D'altra parte, la libertà che attiene alla Costituzione e quella che riguarda la sicurezza dei cittadini sono certe, convergono e si fondano solo se il governo è stabile, la giurisdizione è impersonale, la dialettica fra i poteri si concreta in un accordo su principi condivisi. Fra questi, la moderazione, secondo Montesquieu, non è tanto una «forma» istituzionale di governo, bensì il «modo» di governare; che, quindi, riguarda sia la maggioranza al governo, sia l'opposizione parlamentare che ne è l'alternativa. Ma non è così. Giovedì, riferiscono le agenzie, «la rissa nell'aula della Camera era ripresa esattamente dove era stata interrotta la sera prima». E continua. Rischiamo, così, di essere bocciati in cultura istituzionale dall'opinione pubblica mondiale, mentre l'emergenza immigrazione, i sacrifici che la nostra popolazione sta facendo, i costi che stiamo tutti pagando, la latitanza dell'Europa, i vergognosi egoismi della Francia, che respinge gli immigrati alle sue frontiere con noi, ci darebbero ragione.

Piero Ostellino

02 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #76 inserito:: Aprile 23, 2011, 06:24:52 pm »

CONTESE PERSONALI, NODI POLITICI

Il caso Tremonti non è chiuso

Il governo, per ora, è salvo, ma il problema rimane. Ed è politico. La solidarietà data da Berlusconi a Tremonti - che, altrimenti, si sarebbe dimesso, provocando la crisi di governo - consente all'esecutivo di sopravvivere. Ma le accuse di Galan a Tremonti di condizionare l'operato dei ministri, e di bloccare lo sviluppo del Paese, sono una lama a doppio taglio. Tremonti ha il merito, stringendo i cordoni della borsa, di aver salvato il Paese dalla speculazione internazionale sul debito pubblico e dal pericolo di bancarotta finanziaria. È anche verosimile che la stretta abbia finito col ridurre le capacità di ripresa della nostra economia - mentre altri Paesi si sono già rimessi in moto - di cui si è fatto interprete lo stesso mondo imprenditoriale. Interpretare, perciò, la crisi come un caso di litigiosità fra ministri sarebbe riduttivo.

Mettiamo pure che la sortita di Galan rifletta il malumore di molti di loro, e dello stesso Berlusconi, per un rigore che, bloccando la spesa pubblica, ha ridotto la disponibilità di risorse e la capacità di iniziativa dei singoli ministeri. Non è un paradosso dire che, oggi, i ministri sono «senza portafoglio»; che è, poi, la loro autonoma capacità di spesa una volta ripartite le risorse disponibili. Ma il ministro dei Beni culturali - per usare una metafora ciclistica - non è «un uomo in fuga» che, prima o poi, il «gruppone» riassorbirà, procedendo compatto verso il traguardo. Galan, dicendo che Tremonti ha «commissariato» il Consiglio dei ministri, ha sollevato il problema, tutto politico, della capacità di direzione del governo e, quindi, ancorché indirettamente, del presidente del Consiglio. Anche ammesso che la sua sortita sia stata, se non concordata, ispirata dagli umori di Berlusconi nei confronti di Tremonti - che egli percepisce come un suo possibile successore sostenuto dall'opposizione - è un fatto che essa non «azzoppa» un concorrente nella gara alla premiership, ma il capo del governo in carica.

Viene, così, in primo piano - per usare l'antica espressione di Enrico Berlinguer per denunciare l'involuzione dell'Unione sovietica - la crisi di quella «spinta propulsiva» del centrodestra che passa sotto il nome di «rivoluzione liberale». L'interprete, e «propulsore», di tale rivoluzione era stato Berlusconi che, nel 1994, aveva raccolto attorno a sé un certo numero di entusiasti intellettuali liberali. Non è, però, un caso che di quegli stessi intellettuali si siano perse le tracce e alcuni di loro non nascondano neppure il proprio scontento per l'involuzione conservatrice di Forza Italia, prima, e del Popolo della libertà, infine. Berlusconi ne ha attribuito la responsabilità, via via, a Casini, poi a Fini - che avrebbero boicottato le riforme - e, ora, sordamente, anche dopo il formale sostegno che è stato costretto a confermargli in questa circostanza, a Tremonti. Forse, dovrebbe chiedersi se il principale responsabile dello stallo non sia lui stesso. Per aver concentrato, ancorché per ragioni umanamente comprensibili, pressoché tutta la propria capacità di iniziativa parlamentare sulla soluzione dei propri problemi giudiziari, invece che su quelli del Paese.

Piero Ostellino

23 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_23/
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 01, 2011, 12:57:01 pm »

MILANO E LE IDEE DEGLI SFIDANTI

Il commento

Una città, due borghesie

Letizia Moratti e Giuliano Pisapia hanno come «grandi elettori» le due borghesie nelle quali è (apparentemente) divisa la upper class nazionale. L'una, di (centro)destra, si dichiara «moderata»; l'altra, di (centro)sinistra, «progressista». Ma i due aggettivi sono troppo generici, e logori, per significare qualcosa anche per chi se ne fregia. Il diavolo sta nei particolari.

La borghesia progressista è per «la difesa della Costituzione»; quella moderata per la sua «riforma». Ma non sono molti quelli, da una parte e dall'altra, che l'hanno letta, l'hanno capita e sanno perché sono pro ovvero contro. La borghesia moderata è per il mercato; quella progressista per lo Stato sociale. Ma sono una esigua minoranza quelli che, a destra, sanno che cosa sia il mercato e che cosa ne abbiano scritto i classici del liberalismo e, a sinistra, sanno chi era Beveridge e che l'economia sociale di mercato non è una forma di socialismo, ma il mercato i cui esiti sono temperati, ex post, dall'intervento pubblico, là dove producano effetti «collaterali» dannosi per gli individui. In definitiva, non ci sono due borghesie, distinte per metodologia della conoscenza - empirica ovvero filosofica, non ne parliamo neppure - per cultura politica, individualistica ovvero collettivistica. Ce n'è una sola. Conservatrice.

Questa sola constatazione dovrebbe rassicurarci circa gli allarmismi dei rappresentanti di quella di (centro)destra e i propositi multiculturali dei rappresentanti di quella di (centro)sinistra. Non sarà la costruzione di una moschea ad alterare il profilo sociale di Milano. Saranno gli interessi organizzati - i «poteri forti» - che fanno capo alla borghesia detta «progressista» ovvero a quella detta «moderata», a seconda che vinca Pisapia o la Moratti. Le due borghesie non contano molto ai fini del risultato elettorale. Contano parecchio «dopo», quando si tratta di governare le risorse cittadine. Marx chiamava i governi delle democrazie liberali il «Comitato esecutivo della borghesia». Sarà tale Comitato - sulla base degli interessi dei suoi componenti - a disegnare il profilo di Milano. Chiunque vinca, i due pallidi candidati sono stati - per dirla ancora con Marx - la «falsa coscienza» di tali interessi.

Gli interessi - che da noi sono chiamati con pudico sociologismo «blocco sociale» - non sono una cosa sporca. Ma non devono essere occulti, bensì palesarsi. Il cittadino ha il diritto di sapere cosa guadagnerebbe o cosa perderebbe - più o meno tasse, più o meno servizi pubblici, più o meno mercato, più o meno verde, più o meno smog, più o meno traffico, marciapiedi e strade più o meno puliti, eccetera - a seconda che voti per l'uno o per l'altro dei candidati.

La Moratti ha affidato al capo del governo la sua campagna elettorale. È stato un errore. Avrebbe dovuto valorizzare quello che ha fatto - welfare, Expo, estensione della rete dei trasporti con le nuove linee del metrò - e spiegare meglio ciò che intende fare se fosse rieletta. Col «Piano di Governo del Territorio», si propone di proseguire sulla stessa linea, supplendo alla mancanza di risorse del Comune con il coinvolgimento dei privati, anche nella costruzione di alloggi a costi e affitti bassi: il mercato fa capolino con il principio di sussidiarietà.

Pisapia vorrebbe trasformare l'A2A, la società per azioni, costituita dalla fusione fra le ex municipalizzate di Milano (Aem) e di Brescia (Asm), in «una protagonista dello sviluppo della green economy (...) attraverso interventi di efficienza nella produzione e nella distribuzione dell'energia e del calore». Qui, siamo in piena «politica industriale» - coerentemente con la cultura del candidato di (centro)sinistra - cioè all'indirizzo e alla gestione dello sviluppo da parte del Pubblico con finalità da esso stesso programmate (la green economy).

Resta una domanda da fare al candidato di (centro)sinistra: come intende finanziare i suoi interventi di welfare comunale? Nuove tasse non sarebbero una manifestazione di socialità, ma il trasferimento forzoso di reddito da una parte della popolazionme all'altra.

I due programmi restano buone quanto generiche intenzioni (anche se sarebbe stato meglio conoscere prima nome e capacità delle persone in giunta) condannate a essere condizionate dal «dopo elezioni», quando chi vincerà farà inevitabilmente i conti con la propria borghesia di riferimento. Conservatrice dei propri privilegi; come la controparte.

Piero Ostellino

26 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 09, 2011, 04:58:46 pm »

SPESA PUBBLICA, VA RIDOTTA DI PIÙ

La dilatazione dello Stato


Tutti i governi - sia di centrodestra, sia di centrosinistra - sono condannati a fare la stessa politica finanziaria: spesa pubblica elevata; pressione fiscale elevata per farvi fronte. I costi dello Stato hanno cancellato la storica distinzione fra destra e sinistra. La mancata rivoluzione liberale del Popolo della libertà di Berlusconi fa il paio con l'ambiguo riformismo del Partito democratico di Bersani. Se si inverte l'ordine dei fattori - Tremonti e Visco - il prodotto (fiscale) non cambia.

Il centrodestra giustifica la pochezza della sua riforma fiscale - che prevede tre nuove aliquote Irpef al 20, 30, 40% - con l'enorme debito pubblico e l'esigenza di ridurlo. Ma l'alibi del debito è guardare il dito invece della luna. Ha ragione Tremonti quando dice che gli Stati producono più deficit che Pil. Bisognerebbe, allora, smetterla di guardare il dito e incominciare a guardare la luna. Che è lo Stato come si è sviluppato dal secondo dopoguerra ad oggi. Un esempio delle ragioni per cui gli si chiede troppo, rispetto a ciò che può socialmente dare, e, di conseguenza, per cui finisce col togliere fiscalmente più di quanto dovrebbe, sta nell'articolo 3 della Costituzione: «...È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

In sintesi, si passa dalla constatazione di un dato di fatto - l'esistenza di diseguaglianze economiche e sociali fra i cittadini - all'impegno, da parte dello Stato, a realizzare eguaglianze dello stesso ordine. Ma la contraddizione è sanabile solo imponendo l'eguaglianza con la forza, in violazione delle libertà individuali, come hanno fatto i regimi di «socialismo reale»; ovvero producendo un eccesso di spesa pubblica e di pressione fiscale che mortificano lo sviluppo, come accade in molte democrazie liberali. La prima eguaglianza, per via totalitaria, era «l'eguaglianza nella povertà» del comunismo, della quale, sotto il profilo economico e sociale, parlava Churchill; la seconda eguaglianza, per via democratica, è, comunque, irraggiungibile perché gli uomini, ancorché uguali di fronte alla legge, restano, in regime di libertà, diversi per capacità, merito, fortuna. Auspicare che gli uomini siano eguali sul piano economico e sociale equivale a dire: piove, ma non dovrebbe piovere. Lo Stato, dilatato oltre ogni ragionevole misura, è l'irrazionale deduzione di un giudizio di valore (staremmo meglio se non piovesse) da un giudizio di fatto (piove). In una democrazia liberale, si usa l'ombrello (le provvidenze dello Stato sociale), ma non si può pretendere che non si bagni nessuno (eliminare le diseguaglianze).

Giulio Tremonti, che è il ministro socialista di un governo che si vuole liberale, ha disegnato una riforma fiscale che fa in modo che non si bagni nessuno; ma che non ubbidisce all'imperativo liberale dello sviluppo: rassegniamoci che le diseguaglianze permangano, ma cerchiamo di stare meglio tutti. La riforma si propone di perequare i redditi, riducendone le aliquote in modo pressoché uguale. Così, finisce col mancare i suoi obiettivi: 1) di elevare in modo consistente le condizioni dei ceti meno fortunati, cui i pochi euro in più non cambieranno la vita; 2) di produrre la ripresa economica, grazie all'aumento dei consumi, abbassando radicalmente quelli medio alti, che hanno una maggiore capacità di spesa.

Reagan s'era trovato davanti allo stesso dilemma. Ma Laffer - l'economista della «curva» omonima secondo la quale una elevata pressione fiscale provoca una forte evasione e una diminuzione del gettito, mentre una bassa pressione accresce il gettito perché (quasi) tutti pagano le tasse - lo aveva consigliato di ridurre in misura maggiore le tasse sui redditi medio-alti. E l'economia degli Stati Uniti era ripartita.Se, anche da noi, non si prende atto che il problema è, innanzi tutto culturale, cioè etico-politico - le abnormi dimensioni dello Stato, l'eccesso di spesa pubblica e di pressione fiscale; la necessità conseguente di ridurre le dimensioni dello Stato e di diminuire l'una e l'altra - non ne usciremo mai.

Piero Ostellino

07 luglio 2011(ultima modifica: 08 luglio 2011 19:32)
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da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_07/ostellino_dilatazione-dello-stato_0434fd1a-a857-11e0-ad5c-15112913e24f.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 26, 2011, 11:21:39 am »

PESO DELLO STATO E SOCIETA’ CIVILE

L’ingombrante mano pubblica


Sono più di un milione e 300 mila le persone, in Italia, che vivono «di» politica, nel senso che la loro fonte di sostentamento è la politica, esattamente come la metalmeccanica lo è dei metalmeccanici e il giornalismo dei giornalisti. Poiché, però, i conti pubblici del Paese corrono qualche rischio, la stessa politica ha tratto la conclusione che costoro sono tanti, costano troppo e quindi vanno ridotti.

A me pare una risposta sbagliata, se non demagogica, più per far fronte alla marea dell’antipolitica che sale dall’opinione pubblica che per razionalizzare il sistema. La domanda corretta dovrebbe essere che cosa faccia tutta questa gente «per» la politica, per facilitare il buon funzionamento delle istituzioni e migliorare la vita ai cittadini.

Poiché, d’altra parte, i cittadini sono sempre più oppressi dall’eccessiva pressione fiscale, che serve a finanziare una spesa pubblica straripante; poiché lamentano difficoltà a orientarsi nella giungla di leggi e di regolamenti, che penalizzano investimenti e produzione; poiché sono scandalizzati dagli sprechi e dalla corruzione, che distruggono risorse; poiché hanno, in altre parole, la sensazione che quel milione e 300 mila che vive «di» politica faccia più danni che altro, ecco allora che il problema non è (solo) contabile, bensì (soprattutto) politico.

E se il problema è politico, ci si deve chiedere quanto spazio, nella nostra vita, debba occupare la sfera pubblica a ogni livello, e quanto di tale spazio dovrebbe essere lasciato a noi stessi, alla società civile. Rispondere semplicisticamente con lo slogan «meno Stato, più mercato», invece di facilitare la soluzione del problema, ha complicato però le cose e ridotto la questione a un conflitto ideologico fra liberali e socialisti. La risposta corretta, dalla quale partire, è, pertanto, «più Stato, dove è necessario; più società civile, dove è possibile». È anche la tesi del liberalismo di Adam Smith, Friedrich von Hayek, Luigi Einaudi, che è per lo Stato giuridico, non per lo Stato etico; è sociale, non assistenziale. I suoi nemici hanno ridotto il liberalismo a un «fantoccio polemico» contro il quale sparare in favore della spesa pubblica, e delle tasse, della carità di Stato, a detrimento della vera socialità. Munizioni di chi vive «di» politica e poco «per» la politica.

Il centrodestra di Antonio Martino, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Alfredo Biondi—quello, per intenderci, della «rivoluzione liberale » che aveva connotato la discesa in campo di Berlusconi — pareva averlo capito e, con la promessa riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale, aveva progettato anche una radicale semplificazione normativa e amministrativa, le privatizzazioni di alcuni servizi pubblici degli enti locali (poi malaccortamente fatte dal centrosinistra, e che hanno accresciuto clientelismi e corruzione periferici). Tali riforme erano la condizione per sanzionare, se non la fine dello statalismo, degli sprechi e persino della corruzione, almeno il loro contenimento. Non se ne è fatto nulla e, ora, quel che è peggio, c’è culturalmente e politicamente l’orientamento a identificare il crepuscolo del berlusconismo — che liberale lo è stato molto a parole, poco nei fatti—con la crisi del liberalismo, del capitalismo e del mercato, che delle libertà e del benessere di cui gode l’Occidente sono stati storicamente la pre-condizione, e ad auspicare il ritorno allo statalismo.

In tale contesto, il mondo della cultura e il sistema informativo devono esercitare una duplice funzione. Prima: chiedersi «come» stanno le cose, il che è verificabile nella realtà, piuttosto che dire «perché» dovrebbero stare diversamente, che implica una risposta ideologica non verificabile. Seconda: invece di assecondare la protesta populista e la demagogica illusione di ridurre i costi della politica, pur necessaria, senza ridurre gli ambiti di intervento dello Stato, intellettuali e media dovrebbero chiedersi quanto accrescano i diritti, le libertà individuali, il benessere generale e lo sviluppo del Paese ogni provvedimento del governo e ogni proposta dell’opposizione, e informarne correttamente l’opinione pubblica. A fondamento della democrazia ci sono due pilastri: un sistema informativo attento e un’opinione pubblica bene informata.

Piero Ostellino

26 luglio 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_26/ostellino-ingombrante-mano-pubblica-editoriale_602a0a18-b746-11e0-bc88-662787a705c0.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Agosto 08, 2011, 10:10:01 am »

Proposte liberali

Se lo Stato non cambia l'economia non riparte


Qualsiasi misura di breve periodo (congiunturale), ancorché necessaria, urgente e utile, rischia di essere il dito nella falla della diga se non è accompagnata da una realistica analisi della crisi e da misure di medio-lungo periodo (strutturali). La chiave di lettura della crisi attuale sta in un articolo di Luigi Einaudi del 1933, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana .

Nell'articolo denunciava, di fronte alla situazione di allora, «l'incapacità dell'Italia a superare, entro gli schemi tradizionali della sua costituzione politica, la crisi del dopoguerra».
La svolta era avvenuta nel 1876 - con la caduta della Destra storica e l'avvento della Sinistra - a seguito della quale banchieri, industriali, corporazioni, erano stati indotti, dall'eccesso di interessi protetti dallo Stato, ad «accaparrarsi il favore dell'opinione pubblica colla stampa e il voto del Parlamento». È ciò che è avvenuto, in Italia, dagli anni Settanta del secondo dopoguerra ad oggi e ancora sta accadendo; è quanto è accaduto, in Europa, per vocazione «costruttivista» (l'Ue come prodotto della Ragione, non dei conti con la Realtà); è accaduto persino negli Stati Uniti, e in altre parti del mondo, dove il liberalismo ha ceduto il passo allo statalismo. Quello che non avevano capito, allora, e sembrano non capire, adesso, sia la classe politica, sia molti osservatori è che nel confronto fra socialisti, fautori del modello prussiano di controllo pubblico dell'economia, del «collettivismo burocratico» e mercantilisti, da un lato, e liberali, dall'altro, in gioco era, è, la natura dello Stato, non una linea di politica economica.

Allora, i liberali italiani, Einaudi, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Antonio de Viti de Marco e persino due democratici, come Gaetano Salvemini e Piero Gobetti, avevano capito che il protezionismo economico bismarckiano era il cavallo di Troia che avrebbe (aveva) introdotto nella politica il virus del nazionalismo e del militarismo, cioè una concezione dello Stato «come potere assoluto» che - a differenza del liberalismo inglese di Gladstone, liberoscambista e pacifista - individuava nella politica di potenza e, infine, nella guerra lo strumento della propria affermazione (Roberto Vivarelli: Liberismo, protezionismo, fascismo - Un giudizio di Luigi Einaudi , Rubbettino). Oggi, solo i liberali paiono aver capito che il socialismo, il controllo pubblico dell'economia, il «collettivismo burocratico», il mercantilismo hanno prodotto, nel recente passato, oltre alla stagnazione economica, quell'arrembaggio ai conti pubblici di cui parlava Einaudi nel 1933 e che, se assecondato, aggraverebbe, invece di risolvere, la crisi attuale. Confondere l'intervento (contingente) dello Stato nell'economia, nei casi di crisi, con «la morte del liberalismo economico» (come metodo di produzione della ricchezza) è consegnare le nostre libertà, non solo quelle economiche, ma anche e soprattutto quelle civili, all'arbitrio della classe politica e delle sue dissennate spese.

Che fare, allora? Se il problema è politico, non economico, la soluzione non può che essere politica. È la natura dello Stato che deve cambiare. Come? Proviamo a proporre qualche soluzione.

Primo: mettendo in vendita il patrimonio dello Stato (caserme, edifici, aree non utilizzate) e privatizzando alcuni servizi pubblici (come le Poste) per reperire risorse sul mercato e dare subito una gran spallata al debito.

Secondo: deregolamentando la Pubblica amministrazione e liberalizzando il mercato (dagli Ordini professionali, al diritto societario, alle relazioni industriali), per consentire alla società civile - invece di ingegnarsi per ottenere i favori del governo - di operare in un quadro normativo che riduca le occasioni di corruzione, contenga il familismo amorale e il clientelismo, impedisca gli abusi, massimizzi, al tempo stesso, le libertà individuali, il merito, la propensione a scommettere e a intraprendere.

Terzo: riformando le procedure e accelerando i tempi di attuazione della giustizia civile, per trasformarla, da un «disservizio» quale è ora, in un «servizio» sia nelle controversie di parte, sia nella riscossione dei crediti (disservizio che, oggi, scoraggia gli investimenti esteri); razionalizzando i compiti della giustizia penale la cui tendenza è stata, a volte, persino quella di condizionare le libere transazioni di mercato in base a considerazioni politiche, se non addirittura clientelari.

Quarto: eliminando quelle normative illiberali, anche recentissime - da Antico regime o da Paese di «socialismo reale» - che appesantiscono i rapporti del cittadino con lo Stato e gli rendono difficile la vita.

Si tratta di ridurre l'eccesso di intermediazione pubblica che, oggi, accresce i costi delle stesse transazioni private; di contenere entro limiti di ragionevolezza (anche sociale) i costi dello Stato; infine, di portare la pressione fiscale a un livello che persino la Dottrina sociale della Chiesa suggerisce di non superare. La crescita c'è se c'è più Stato dove è necessario, se c'è più società civile dove è possibile; se ci sono maggiori libertà per tutti, nel rispetto delle libertà di ciascuno; più soldi nelle tasche di chi, poi, li spenderà, facendo ripartire i consumi, o li investirà, aumentando la produzione.

Piero Ostellino

08 agosto 2011 08:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_08/se-lo-stato-non-cambia-l-economia-non-riparte-piero-ostellino_fd097174-c183-11e0-9d6c-129de315fa51.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Agosto 18, 2011, 05:40:18 pm »

PIU' PRIVATIZZAZIONI E LIBERALIZZAZIONI

Cura dimagrante per lo Stato

Sono tante crisi nazionali, tutte uguali e con la stessa origine: un forte debito pubblico spesso aggravato dal deficit di bilancio. Ma per la politica è, invece, una crisi internazionale provocata dalla «speculazione», una sorta di Spectre spuntata non si sa da dove e perché. Così, una vicenda incominciata come tragedia è diventata farsa. Il capo del governo si dice convinto di passare alla storia - cito dai giornali - «come il salvatore dell'Italia dal disastro»; dimenticando che l'Italia non sarebbe finita sull'orlo del disastro se lui avesse fatto quello che aveva promesso di fare: ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale, deregolamentare normativamente e amministrativamente.

La politica si è creata un «nemico esterno» (la speculazione) perché, altrimenti, avrebbe dovuto ammettere che la colpa è sua e non potrebbe chiedere «sacrifici» ai cittadini per uscirne. Lo Stato, che già li opprimeva con un eccesso di pressione fiscale, li invita, ora, a pagare altre tasse che chiama «contributo di solidarietà».

La mistificazione è grossolana. Se la crisi fosse dovuta (unicamente) alla speculazione - e non fosse, piuttosto, la speculazione ad essere l'indotto delle condizioni finanziarie degli Stati sotto il suo attacco - non avrebbe alcun senso chiedere sacrifici e sollecitare i governi ad adottare misure di contenimento dei costi per pervenire al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito. La speculazione non si arresterebbe neppure dopo aver adottato tali provvedimenti.
È entrato in crisi il sistema di controllo pubblico dell'economia - di cui si era teorizzata l'esigenza, anche dopo la crisi del '29, come antidoto ai limiti del capitalismo e del mercato - che ha rallentato lo sviluppo, introducendo elementi distorsivi, oltre che nell'accumulazione della ricchezza, anche nella conoscenza della realtà sociale. La lotta alla disoccupazione, attraverso l'impiego permanente nel settore pubblico della manodopera eccedente in quello privato; l'estensione del welfare all'intera popolazione; i sussidi all'industria e alle banche private che non ce la facevano a reggersi sulle proprie gambe hanno dilatato a dismisura la spesa e inquinato il mercato. La moltiplicazione di leggi e regolamenti; la spesa pubblica non coperta dalla fiscalità e compensata dalla politica finanziaria di deficit spending ; la sottovalutazione del risparmio privato, sacrificato al finanziamento del debito pubblico, hanno generato un cortocircuito che ha fatto saltare lo Stato.
Il governo - prima di mettere le mani nelle tasche dei cittadini - avrebbe dovuto dire come stavano le cose. A sua volta, l'opposizione dovrebbe chiedersi, ora, se sia ancora credibile proporsi come l'autentico interprete di politiche pubbliche a causa delle quali non solo il centrodestra ma, altrove, anche i governi di altri Paesi hanno fallito. Se mettessero testa a un ripensamento del passato e mano a scelte politiche più aperte alla società civile, centrodestra e centrosinistra sarebbero, insieme, artefici di una autentica «discontinuità», sia rispetto al passato, sia a quella, peraltro fumosa, che entrambe auspicano.

Nessuna «discontinuità» invece si vede in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni: se nella manovra del governo c'è qualche indicazione per gli enti locali, con incentivi ai Comuni che dismetteranno quote di municipalizzate, niente si dice sulle partecipazioni dello Stato in Eni, Enel e Finmeccanica, né sulla privatizzazione del Poligrafico, delle Poste o della Rai.
Viviamo una fase paradossale nella storia del pensiero politico nazionale. Non siamo mai stati tanto liberi e non abbiamo mai goduto di condizioni di vita tanto buone. Lo dobbiamo alla democrazia liberale, al capitalismo e al mercato. Che mettiamo, invece, volentieri sotto accusa, alzando sempre più l'asticella delle libertà, dei diritti, del benessere, e spostando sempre più in avanti, man mano che miglioriamo, il raggiungimento di tali obiettivi. Non si tratta di accontentarsi di ciò che si è ottenuto e di adagiarsi nella conservazione; ma neppure di negare i risultati raggiunti col rischio di comprometterli in nome di una «perfezione», sempre all'orizzonte e mai raggiunta. La democrazia liberale, il capitalismo e il mercato sono tutt'altro che sistemi perfetti; sono, tuttalpiù, perfettibili. Per migliorarli, sarebbe sufficiente guardare al mondo chiedendosi, almeno, «come stanno le cose», andando, poi, a verificare se la risposta che ci siamo dati corrisponda alla realtà e operando di conseguenza.

Piero Ostellino

18 agosto 2011 08:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_18/cura-dimagrante-per-lo-stato_18f45e96-c961-11e0-a66c-10701cdb9ebd.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Settembre 05, 2011, 10:47:42 am »

I ricchi e gli evasori

Fra i «danni collaterali» prodotti dalla schizofrenica politica del centrodestra e dall'assenza di una opposizione riformista di centrosinistra, c'è la metamorfosi del linguaggio della politica, di quello dei media in generale e persino dei fiancheggiatori dell'uno e dell'altro schieramento. È passato dalla difesa di alcuni principi liberali - la tutela della privatezza, il rispetto per l'autonomia dell'individuo, la certezza del diritto, il governo della legge, la condanna del cambiamento delle regole mentre si gioca, per non parlare del contenimento della spesa pubblica e della riduzione della pressione fiscale - alla loro negazione, all'elogio di forme di propaganda demagogica che rasentano il lessico dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo scorso. Un caso di regressione e di degrado civili, oltre che culturali e politici.

L'Unione Europea ha fornito al Cavaliere un assist formidabile, consigliandolo di fare quelle riforme di struttura che aveva messo nel suo programma del '94. Il governo non solo non lo ha raccolto ma ha scatenato, con la complicità dei media, una caccia all'«untore», il «ricco», identificato tout court con l'«evasore». Tremonti, che ripete che «anche i ricchi devono pagare le tasse», non si limita a proclamare un principio ovvio per un ministro delle Finanze, bensì fa un'affermazione che puzza di demagogia lontano un miglio, che non fa onore né alla sua intelligenza né alla sua cultura e suona più una giustificazione dell'incapacità del governo di fargliele pagare che un programma di rigore fiscale, che andrebbe fatto con serietà. I dati di ieri fanno riflettere.

Nel giro di qualche settimana, la «comunicazione» governativa ha attribuito la crisi - che è della finanza pubblica nazionale, oberata da uno Stato costoso, sprecone e oppressivo - alla «speculazione internazionale», che ne è invece il sintomo; e, una volta constatato dai sondaggi che gli italiani non la bevevano, la fa risalire, ora, all'evasione fiscale. Ma, dopo aver indicato una serie di misure, il governo le sta parzialmente correggendo. Cancellata infatti la parte più ruvida della manovra, come l'idea di mettere alla berlina le dichiarazioni dei redditi (già pubbliche) o di imporre l'identificazione dei conti correnti nelle dichiarazioni. L'ipotesi di poter agganciare le condizioni di vita a un reddito eventualmente non dichiarato si rivela impraticabile.

Nei negozi della Cina di trent'anni fa erano già in vendita stoffe di gran pregio che il consumatore non poteva permettersi, in ogni caso, di indossare in un Paese dove tutti erano vestiti allo stesso modo. Ma il regime ne tollerava lo smercio, sia nella eventualità che l'acquisto fosse il frutto di un ancorché improbabile risparmio, piuttosto che di una violazione della parsimonia rivoluzionaria, sia nell'eventualità che il singolo acquirente ne facesse poi sfoggio in privato. Un governo comunista mostrava maggiore attenzione al mercato e all'autonomia individuale dei nostri attuali politici.
Che senso logico e finanziario avrebbe l'aumento dell'Iva - che, stante le cose come stanno, pagherebbero solo produttori e consumatori del Nord - quando al Sud l'«evasione collettiva» della stessa imposta raggiunge picchi di quasi il 90 per cento ed è tollerata, se non incoraggiata, dalla politica come stabilizzatore sociale e/o utilizzata come voto di scambio? Quale è la logica politica di un governo, e di un'opposizione, che cercano altrove le ragioni del disastro finanziario pubblico, attribuibile, invece, oltre che alle follie dell'antico consociativismo - ancora riproposto recentemente come «governo di unità nazionale» - alle mancate riforme degli ultimi vent'anni? Che senso comune (verificabile nella realtà) ha l'invocazione di Confindustria a riforme «strutturali», se una certa imprenditoria privata - barricata dentro un diritto societario ostile alla concorrenza - e la burocrazia pubblica, contraria alla produttività, sono entrambe conservatrici almeno quanto governo e opposizione, chiunque sia al governo e all'opposizione?

postellino@corriere.it

Piero Ostellino

05 settembre 2011 07:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_05/ostellino-ricchi-e-evasori_1d6b8204-d77d-11e0-af53-ed2d7e3d9e5d.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:12:10 am »

RIFORME: VOLERLE SENZA FARLE

Società e politica, la doppia morale

L’asfittica manovra del governo, in senso liberale, introduceva un minimo di flessibilità nelle relazioni industriali. Hanno provveduto Confindustria e sindacati a spazzarla via con l’accordo che ripristina la dittatura del contratto collettivo in nome dell’ «autonomia delle parti sociali » che, di fatto, toglie la parola alla sola parte sociale che dovrebbe contare— i lavoratori — per (ri)consegnarla alle due corporazioni. La logica è sempre la stessa: i sussidi pubblici all’industria; la gestione delle relazioni industriali ai sindacati «consociati» con i padroni. Il che spiega perché nessuno riduca la spesa pubblica — aumentata, invece, di circa seicento miliardi dalla nascita del bipolarismo centrodestra- centrosinistra (1994) a riprova che, chiunque governi, la musica è sempre la stessa: come spillare altri soldi dalle tasche dei cittadini per farvi fronte — e perché di sviluppo e crescita manco parlarne.

Se ogni Paese ha la classe politica che si merita, la conclusione è che la confusione politica viene da lontano. La società civile — che, poi, vuol dire l’establishment, a tutti i livelli, e il «sentire comune» dell’uomo della strada — da noi, non è migliore della Casta politica, bensì ne è a fondamento. L’Italia non è sprofondata, all’improvviso, in un «vuoto politico», mentre l’intero Paese continuerebbe a progredire. È vero il contrario. È stato il «vuoto sociale» di una parte del Paese — che meglio sarebbe dire «culturale» —ad aver inabissato la democrazia in un vuoto politico.

Basta togliere l’occhio dal buco della serratura della camera da letto di Berlusconi per capire che ciò che ha generato l’attuale situazione è l’idea che a produrre progresso non possano essere i singoli individui— messi nelle condizioni di perseguire liberamente i propri interessi, alla sola condizione di non danneggiarsi reciprocamente— ma debba essere «il disegno» di una razionalità legislativa e di governo provvidenzialiste. Il fatto che ogni governo, prima o poi, pretenda di avere una «politica industriale » ha prodotto due distorsioni. L’invasione, da parte dei partiti, di un terreno, la produzione di ricchezza, che, in una società «aperta », è delle forze sociali; l’Italia è il Paese dove, più che in ogni altro, la nascita di un’azienda, e la sua stessa esistenza, dipendono da un apparato legislativo e amministrativo invasivo e soffocante. La conseguente dipendenza del mondo dell’impresa—che meglio sarebbe definire assuefazione e adeguamento — dalla discrezionalità della politica, cioè dalle sue concessioni legislative e finanziarie.

Il centrodestra oscilla fra il «rigore burocratico» del ministro delle Finanze, che inclina al dirigismo pubblico, e la carenza di visione di quello dell’Economia, incarnati nella stessa persona, che si ispira a una sorta di «vetero- mercantilismo», e il velleitarismo del presidente del Consiglio, una sorta di dottor Jekyll (il politico liberale a parole) e di mister Hyde (l’imprenditore monopolista per vocazione).

Piero Ostellino

26 settembre 2011 09:07
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_26/societa-e-politica-la-doppia-morale-piero-ostellino_d49d9a08-e807-11e0-9000-0da152a6f157.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Aprile 03, 2012, 05:23:02 pm »

I DIRITTI (E I DOVERI) DEI CONTRIBUENTI

Controlli fiscali e società aperta


Fra i compiti dello Stato di democrazia liberale c'è quello di far pagare le tasse per garantire la vita, le libertà soggettive, la proprietà e la sicurezza dei propri cittadini. È, perciò, nell'interesse dei cittadini pagarle. Ciò nonostante, ci distinguiamo per essere uno dei Paesi al mondo con la più alta evasione fiscale. Forse dovremmo incominciare a interrogarci perché sia tanto difficile, da noi, far pagare le tasse, chiedendoci: 1) se non siano troppo oppressive - come suggerisce la curva di Laffer: più alte sono, maggiore è l'evasione; più basse sono, maggiore è la propensione a pagarle - rispetto alla capacità contributiva del Paese; 2) se il loro livello troppo elevato non sia in contraddizione con un'economia capitalistica quale è (dovrebbe essere) la nostra, fondata sull'accumulazione della ricchezza da parte della società civile, e non piuttosto non sia in sintonia con uno Stato di «socialismo reale», dove i funzionari e gli impiegati pubblici di ogni categoria e di ogni livello sono cinque volte quelli dei Paesi di democrazia liberale delle nostre stesse dimensioni. In altre parole, forse, incominceremo a pagare meno tasse quando l'impiego pubblico sarà «un lavoro»; non, come adesso, «il posto».

Quando supera certi livelli, l'evasione fiscale è un fenomeno «sociologico»: c'è qualcosa di strutturale che non va nel sistema. Per il nostro Fisco, e gran parte dell'opinione pubblica, l'evasione è, invece, «un fatto morale». Gli addetti alla riscossione tendono a comportarsi come fossero «inviati da Dio sulla terra per redimere i cittadini disonesti». È un approccio distorto per due ragioni. Innanzi tutto, perché confonde la produzione di ricchezza con l'evasione: siamo il solo Paese capitalista al mondo dove i capitalisti (gli imprenditori) si suicidano perché non ce la fanno a pagare le tasse e a fare il proprio mestiere. In secondo luogo, perché, conferendo al Fisco una natura teologica, connota lo Stato come premoderno, nel quale il cittadino era (è) suddito del sovrano assoluto legittimato dalla religione.

Sotto il profilo della teoria politica, pagare le tasse non può essere un «dovere» per la semplice ragione che lo Stato moderno non impone, ma si limita a offrire al cittadino - che, eventualmente, come sostengono i libertari, se li potrebbe procurare in gran parte anche sul mercato - solo di godere dei suoi servizi. È sbagliato sostenere che si pagano le tasse per pagare il welfare, perché, in tal modo, si finisce con autorizzare chi non ne usufruisca - magari facendosi curare in Svizzera, mandando i figli a scuola in Inghilterra, facendosi proteggere da una scorta privata, ricorrendo ad arbitrati nel caso di controversie private - a non pagarle. È invece «interesse» del cittadino pagare le tasse perché esse sono il modo attraverso il quale si concreta il Contratto sociale attraverso il quale gli uomini si assicurano la convivenza civile nella sicurezza.

Veniamo, così, alla questione fiscale sotto il profilo delle libertà individuali. Il Garante della privacy ha giustamente denunciato che «una spinta al controllo e all'acquisizione di informazioni sui comportamenti dei cittadini (...) può condurre a fenomeni di controllo sociale di dimensioni spaventose».

Un conto sono, dunque, le visite della Guardia di finanza negli esercizi commerciali per verificare la regolarità fiscale della loro attività (emissione degli scontrini; tenuta di registri della contabilità eccetera), un altro fermare le automobili di una certa cilindrata e chiedere agli automobilisti quale sia la loro situazione fiscale e come le abbiano pagate. Nel primo caso, siamo nell'ordinario e corretto esercizio del diritto di accertamento fiscale nei confronti di attività produttive di ricchezza tassabile; nel secondo, si cade in forme di controllo sociale sugli stili di vita dei cittadini che tracimano nella violazione non solo della loro privatezza ma anche - come rileva giustamente il Garante - delle loro libertà e dei loro diritti individuali.

La traduzione dell'evasione in un «fatto morale» produce conseguenze distorsive anche a livello di percezione delle proprie libertà e dei propri diritti da parte degli stessi cittadini, molti dei quali reagiscono alle notizie sulle incursioni della Finanza nella vita dei loro simili sostenendo che «chi non ha nulla da nascondere, non ha nulla da temere». Una «società aperta», cioè di democrazia liberale, si distingue da una «chiusa», cioè autoritaria o totalitaria, perché non tratta i suoi cittadini come fossero tutti delinquenti, ma tutela la privatezza proprio di chi non ha nulla da nascondere.

Sarebbe utile che ci fosse una chiara presa di posizione sui limiti e i modi di esecuzione delle indagini fiscali. Ciò affinché la credibilità dell'Italia, all'estero e agli occhi dei suoi stessi cittadini, non dipendesse (solo) dalla severità fiscale con la quale ha fatto fronte alla crisi finanziaria, ma (anche e soprattutto) dal fatto di essere, e di voler restare, uno Stato di diritto e una democrazia liberale, in qualsiasi circostanza.

Piero Ostellino

3 aprile 2012 | 9:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_03/controlli-fiscali-societa-aperta-piero-ostellino_777ab422-7d5e-11e1-adda-3290e3a063cc.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:20:03 pm »

TROPPE LE ATTESE SU HOLLANDE

La lingua di legno del neopresidente

Chi ha memoria storica coglie nel lessico del neopresidente francese, François Hollande, l'eco della langue de bois («lingua di legno») del socialismo dirigista e burocratico che, in Urss, chiamava democrazia il totalitarismo e libertà la tirannia, stravolgendo il senso delle parole. Il socialismo reale è morto, ucciso da carenze ed errori che la «lingua di legno» non riusciva più a compensare. I fatti sono cocciuti, aveva detto Lenin, ma i suoi successori non gli avevano dato retta. Così, i fatti si sono presi la loro rivincita e hanno smentito la «lingua di legno».

Per la Merkel, rigore vuol dire tenere i conti dello Stato in ordine e l'economia sociale di mercato è la versione contemporanea di quella bismarckiana. Una versione, oggi pacifica, del nazionalismo e delle ambizioni egemoniche europee della Germania che, in passato, si erano tradotti in militarismo e avevano generato tre guerre (che i francesi non hanno dimenticato). Nella Germania d'oggi, lo Stato è il direttore e, al tempo stesso, uno degli attori di una società fondamentalmente organicista, dove ogni tassello si incastra nell'altro; i sindacati non sono antagonisti, ma collaborano col mondo della produzione alla stabilità sociale e allo sviluppo economico, le banche operano in sintonia con i sindacati e il mondo della produzione, la popolazione tiene disciplinatamente il passo. Un caso unico.

È il sogno anche del professor Monti, ai cui progetti di crescita si oppongono, con la sua stangata fiscale, la vecchia cultura politica collettivistica e corporativa, il carattere antagonistico della società, i residui passivi del sistema welfarista novecentesco che Mario Draghi ha efficacemente riassunto nella «fine del modello sociale europeo». Se i nostri intellettuali non fossero tanto incolti quanto politicamente vecchi avrebbero avvertito, nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro fra il ministro Fornero e il segretario della Cgil, Camusso, il riflesso della contraddizione fra una Costituzione, che definisce (ancora) il lavoro «un diritto», e la domanda di modernizzazione, che lo assimila a una merce esposta alla domanda e all'offerta e all'esigenza di produttività; contraddizione che è anche l'ostacolo che incontrerà il governo tecnico sulla strada della crescita.

Per Hollande, «basta col rigore» vuol dire rilancio dello statalismo e del dirigismo. Come possa, poi, parlare di crescita, annunciando contemporaneamente di voler tassare oltre misura la ricchezza, invece di combattere l'indigenza, e non nascondendo la propria ostilità per il mercato, è un mistero spiegabile solo o con la «lingua di legno» o con l'illusione di stimolare la domanda con una dose massiccia di keynesismo (spesa pubblica e tasse elevate), mentre il problema è ridurre la spesa e le tasse per stimolare l'offerta. Ha vinto perché ha incarnato, col suo «nazionalsocialismo», la diffidenza dei francesi per la Germania e la loro ostilità per la «dipendenza» di Sarkozy dalla Merkel, oltre che per una certa vocazione étatiste - che viene non solo dall'assolutismo dell'Antico regime, ma dalla stessa Rivoluzione del 1789, dopo la sua degenerazione giacobina - alla quale non è mai stata estranea neppure la destra.

Spero di sbagliarmi, ma la Francia - se Hollande non imita Mitterrand, che era partito con un programma quasi comunista e aveva virato verso una soluzione moderata - è condannata alla recessione.Ventuno economisti di area liberale, e non appartenenti ad alcun partito, avevano indirizzato ai francesi un appello. Vale la pena, anche per noi, citarne alcuni passi. «Il socialismo non ha mai funzionato nella sua forma estrema, il comunismo. Come dimostrano molti anni di storia europea, non funziona nemmeno nella sua forma più moderata di socialdemocrazia. Se la storia europea ci può insegnare qualcosa, è che la prosperità è intrinsecamente correlata alla libertà economica. Come possiamo allora, nel XXI secolo, dopo decenni e secoli di riflessioni e di esperienze, credere ancora a ricette economiche emerse più da magie incantatorie che dalla scienza? (...) Non abbiamo più alcuna scusa per lasciarci affascinare dall'idea che uno Stato produrrà crescita semplicemente spendendo di più, quando tutte le risorse per questa dispendiosa compiacenza provengono da maggiori tasse su di noi e da maggiori prestiti fatti in nostro nome. La crescita non può essere decretata; è il risultato di decisioni non prevedibili e di azioni di un numero imprecisato di individui tutti capaci di sforzi e di immaginazione. La crescita può esserci soltanto se gli impulsi di un numero imprecisato di individui non sono paralizzati da regolamenti, tasse o dalla dipendenza dallo Stato (...). È tragico che qualcuno possa ancora pensare che una vita umana possa migliorare saccheggiando quella di un altro».

Piero Ostellino

9 maggio 2012 | 7:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_09/la-lingua-di-legno-del-neopresidente-piero-ostellino_5d1be0f8-9995-11e1-85ab-3c2c8bfb44fd.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 13, 2012, 06:36:51 pm »

Maionese italiana

Berlusconi non era stato, al governo, il riformista che, dall'opposizione, aveva promesso di essere. Ma il suo ipotetico ritorno sta provocando un'ondata di reazioni, ai limiti dello sgomento, difficilmente spiegabile razionalmente. È, all'interno, un rigurgito della polarizzazione fra chi è pro e chi è contro una personalità anomala. È, in Europa, la preoccupazione - diciamola tutta - degli altri Paesi, più che di un ripristino, in Italia, della finanza allegra, di perdere il controllo politico sull'Unione Europea e sui vantaggi commerciali ed economici della nostra recessione.

Nessuno crede che il «redivivo», non essendo stato, ieri, un riformista, sia, oggi, un rivoluzionario. Ma la parte del Paese più responsabile teme che il suo ritorno e l'eventualità che possa vincere le elezioni inducano gli altri partiti, per una sorta di riflesso condizionato, alla rilassatezza finanziaria. Quella conservatrice teme invece li solleciti, per ragioni di (improbabile) concorrenza, a un qualche riformismo. Se da un lato, dunque, le reazioni sono il segno inquietante di scarsa maturità democratica e liberale; dall'altro paiono prevedere un maggior dinamismo da parte di chi, finora, aveva mostrato di non esserne propenso. Tutto sta a capire dove si andrà.

Che piaccia o no, dodici mesi fa una parte del mondo politico si era posta il problema di liberarsi del Cavaliere; che meritava, comunque, di andarsene. La strada corretta erano le elezioni; che, probabilmente, avrebbe vinto la sinistra. Ma era mancata la fiducia nel popolo. Così, armata di un inusitato spirito europeista, la classe politica aveva affidato il governo al professor Monti. Che ha dato una scossa, soprattutto fiscale, al Paese e al quale, ora che è dimissionario, molti (compreso Berlusconi) chiedono di restare, in un modo o nell'altro, a Palazzo Chigi malgrado i risultati non sempre brillanti della sua gestione. Forse, è un modo di rassicurare l'Europa. Continuiamo ad avere bisogno di rigore nella spesa e, soprattutto, di una radicale semplificazione legislativa e amministrativa, più che di ulteriore pressione fiscale, malgrado il patologico livello dell'evasione.

Ciò che la gente comune si aspetta sarebbe, dunque, una campagna elettorale condotta sulla base di una contrapposizione di programmi politici ed economici dei quali, per ora, non si vedono neppure le avvisaglie. Il centrodestra ha scoperto, dopo averlo sostenuto, che il governo dei tecnici ha sbagliato tutto ed è passato all'opposizione perché così ha voluto il suo padre padrone (anche se ieri, a sorpresa, ha addirittura proposto Monti a leader dei moderati, dicendosi disposto ad appoggiarlo). Il centrosinistra pare accontentarsi che a vincere le primarie nel Pd sia stato un bonario ex apparatchik , grazie alla struttura dell'ex Pci. I centristi scrutano i sondaggi per decidere con chi allearsi e recuperare qualche consenso.

È quello che passa il convento. Un Paese in crisi culturale, prima che economica e politica. Gli italiani vanno a votare contando di cavarsela personalmente, ma col dubbio che, chiunque vinca le elezioni, non sappia risolvere i loro problemi. Non è una prospettiva incoraggiante.

Piero Ostellino

13 dicembre 2012 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_13/maionese-italiana-piero-ostellino_e3ce9bd6-44e9-11e2-9d6d-6ccc8b2c8831.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Gennaio 06, 2013, 11:24:52 pm »

STATO ESATTORE

Il redditometro del dottor Stranamore

Fiori, animali, pentole: perché respingo l'invasione del Fisco


Se non servirà al Fisco per scovare redditi non denunciati, il nuovo redditometro pare, comunque, utile a far capire agli italiani da chi siamo amministrati e governati. Chi le paga ora sa che le sue tasse servono (anche) a mantenere una burocrazia che della propria funzione ha un'idea feudale. La democrazia liberale si sostanzia (anche) nella «società dei consumi». Ma la società che vuole chi governa è composta da famiglie che: vivono in case popolari; mangiano poco e male; comprano un capo d'abbigliamento ogni venti, trent'anni; viaggiano su un fac-simile della Trabant (l'auto dell'ex Germania comunista). Il redditometro, infatti, insegna che: a) la nostra burocrazia non è quella della «società dei consumi», ma è (ancora) quella del regime economicamente autarchico e politicamente autoritario sconfitto nel '45; b) il regime ideale di chi governa è una via di mezzo fra autoritarismo e totalitarismo.

Sotto il profilo amministrativo, i burocrati che hanno pensato e redatto il redditometro offrono di sé - spiace dirlo - l'immagine di una di queste tre tipologie (se non di tutte e tre assieme): 1) sono dei «dottor Stranamore», paranoidi e mitomani; 2) sono ex poliziotti dell'Ovra (la polizia politica fascista) che non si sono accorti che «credono, ubbidiscono, combattono», come facevano sotto il Duce, ora contro la democrazia liberale e il benessere ; 3) sono ex funzionari della Stasi (la polizia politica della defunta Germania comunista), prestati a Monti, per riconoscenza, dalla signora Merkel, che non sapeva come impiegarli nella ricca Germania democratica.

Leggere per credere. Nel redditometro sono finiti : le spese per mangiare, abitare, vestirsi, per le bollette di luce e gas, per il veterinario - se si ha un animale domestico, anch'esso catalogato come simbolo di ricchezza - per la riparazione degli elettrodomestici; per la biancheria - l'italiano che paga le tasse dovrà cambiare le mutande solo una volta al mese per non incorrere nel sospetto di evasione? - le pentole, le borse, il barbiere, il parrucchiere, i giornali e le riviste, l'abbonamento alla pay-tv, le piante e i fiori. Per la burocrazia e chi ci governa, l'italiano che legge fa evidentemente correre loro il rischio di comportarsi da cittadino, invece che da suddito... (guarda la tabella voce per voce)

Le voci di spesa sono oltre cento; 55 le tipologie familiari. Il Fisco monitorerà le spese che dovrebbe sostenere una delle famiglie tipo. Non si tiene conto che quelle spese potrebbero essere pagate con i risparmi accumulati o dagli aiuti, nel caso dei figli, dei genitori. Spetta, inoltre, al contribuente provare di non essere un evasore. L'inversione dell'onere della prova ributta l'Italia ai primordi del Diritto. Che dire? La morale, culturale e politica, che se ne può trarre è semplice: con l'instaurazione dello Stato di polizia fiscale - che, in realtà, indagando sugli stili delle persone, entra nelle loro vite - l'Italia è scivolata nello Stato di polizia tipico dei totalitarismi del XX secolo. Ministro dell'Economia Vittorio Grilli, prima di firmare questa sconcezza, non sarebbe stato meglio pensarci su? Presidente del Consiglio Mario Monti, questa Italia pauperista e illiberale nella quale vuole farci vivere sarebbe il Paese che ha recuperato credibilità internazionale? Andiamo.

Piero Ostellino
postellino@corriere.it

6 gennaio 2013 | 13:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_06/Il-redditometro-del-dottor-stranamore_13f05832-57ea-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:35:33 am »

LA CRISI DI GOVERNO

Purché alla fine non paghi il paese

Il caso kazako, la polemica su Calderoli, la spaccatura del Pd e i renziani all'attacco: le crepe che mettono a rischio l'esecutivo

Piero Ostellino
   

Non c'è giorno che il governo non finisca sull'orlo di una crisi. Ma questa volta il rischio è serio. E il costo sarebbe altissimo. Dopo Letta c'è il vuoto. E le elezioni anticipate. Con il Porcellum. Complimenti. Si ricomincia. Abbiamo la capacità, per dirla con re Franceschiello, di «fare ammuina» e poi di metterci da soli nei pasticci. Finora abbiamo avuto anche la fortuna di uscirne senza troppi danni, salvo la caduta di credibilità della classe politica, cui peraltro nessuno più crede, proprio perché «fare ammuina» non è una cosa seria. Colpisce che la causa delle crisi annunciate raramente sia reale, spesso virtuale. Nessuno sottovaluta la gravità del caso Shalabayeva. Per carità: una figuraccia internazionale. Ma democrazie più attente di noi ai diritti umani lo avrebbero evitato, o comunque lo risolverebbero senza mettere a repentaglio la vita del proprio governo nel momento più drammatico di una crisi economica che vede migliaia di imprese chiudere ogni giorno e troppi giovani senza lavoro.

I PUNTI OSCURI - Chi ha sbagliato paghi, ma non si faccia pagare il conto a un intero Paese riprecipitandolo nel gorgo del vuoto istituzionale e della speculazione finanziaria. I punti oscuri della vicenda sono tanti. Le spiegazioni di Alfano lacunose. Il comportamento della burocrazia indicibile. Ma non si è neppure ancora capito se le vicende del signor Ablyazov, sodale prima e poi avversario dell'orrido Nazarbaev, riguardino un episodio di «dissidenza politica», ovvero di «lotta di potere» fra un oligarca, non propriamente candido, e un regime «dispotico» col quale facciamo affari. Non è stata una gran prova di intelligenza e di dignità non accorgersi che dietro l'espulsione frettolosa di una madre e della sua figlia di sei anni c'era la «regia» dell'ambasciatore del Khazakistan in Italia, a quanto pare più influente e ascoltato presso la nostra burocrazia dei componenti del nostro fragile governo. Forse sarebbe il caso di espellere lui, stavolta, o no?

IL CASO CALDEROLI - Un altro episodio che ha minacciato la crisi di governo è stato il giudizio offensivo del vicepresidente del Senato, Calderoli, sul ministro Kyenge. Ci siamo salvati grazie soprattutto al buon senso della vittima che ne ha accettato le pubbliche scuse. È stata la tempesta in un bicchiere d'acqua cui hanno contribuito, in egual misura, classe politica e informazione. L'opinione pubblica internazionale giudica: male.

LA ROTTURA PERICOLOSA - Il governo finora non è caduto perché Enrico Letta non si è comportato, machiavellicamente, da «volpe e/o da leone», secondo le circostanze, ma più da volpe. Tirando a campare, democristianamente. Ora la spaccatura del Pd con i renziani all'attacco lo mette in serio pericolo. A Letta non resta che una strada. Un colpo d'ala sull'economia, un po' più di coraggio nel dare risposte vere a famiglie e imprese. Qualcosa che assomigli a uno scatto in avanti lungo la strada impervia della modernizzazione. Privatizzare, liberalizzare, dare un taglio deciso alle spese e al debito. Scelga da dove cominciare, ma scelga. Promuova quella radicale semplificazione normativa e amministrativa della quale Berlusconi aveva parlato nel '94, e mai ha fatto. Scelga di osare verso lo sviluppo, non di rifugiarsi nella quieta conservazione. Non ne abbiamo bisogno, troppo tardi. Sono scelte che avrebbe dovuto compiere il governo voluto da Napolitano proprio per far fronte alle carenze di quelli politici, ma nemmeno Monti le ha fatte, condizionato com'era dalla propria inesperienza politica e dai preponderanti interessi corporativi della burocrazia di cui si era, imprudentemente, circondato.

18 luglio 2013 | 8:19
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:05:03 am »

L’IMPLOSIONE DI PARTITI, FAZIONI E CORRENTI

La maionese impazzita

Provate a seguire da vicino l’iter di un provvedimento legislativo. Scoprirete che i partiti che compongono la maggioranza non sono tre come si dice, ma almeno sette. Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono. Per condurre in porto il vostro provvedimento preferito dovrete dunque fare sette stazioni della via crucis parlamentare, per quattro volte (se il governo non mette la fiducia, due letture alla Camera e due al Senato). Vi servono insomma ventotto sì. Un’intesa larghissima: si fa prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una volta approvata, la nuova norma rimanderà di sicuro a un regolamento attuativo. E lì ricomincerà la vostra gimkana, stavolta tra i burocrati dei ministeri che hanno il potere di scriverlo.
Il nostro sistema politico-parlamentare è letteralmente esploso. E la cosa incredibile è che il massimo della frammentazione convive con il massimo del leaderismo nei partiti. Il Pd, che pure è il più democratico, è una monarchia elettiva (quattro capi in cinque anni, l’unico partito al mondo che incorona il segretario con una consultazione del corpo elettorale). Il Pdl è una monarchia ereditaria. La terza forza, il M5S, è una diarchia orientale, con un profeta e un califfo.
In queste condizioni il semplice fatto che esista un governo è già un miracolo, figurarsi l’operatività. Se andiamo a votare può anche peggiorare. E non è solo colpa del Porcellum . Con i partiti come sono oggi, e con i sondaggi che circolano oggi, nessun sistema elettorale, nemmeno il più maggioritario, può garantire una maggioranza solida. Se anche questa si producesse nelle urne, si spaccherebbe in Parlamento un attimo dopo, come è miseramente accaduto alla più formidabile maggioranza della storia, quella uscita dal voto del 2008 e guidata da Berlusconi. Da tre anni il governo della Repubblica non è più espressione del risultato elettorale. Nessuna delle coalizioni che abbiamo trovato sulla scheda appena otto mesi fa esiste più.
Qualsiasi terapia del male italiano deve passare da qui: come rendere il Paese governabile. Come aprirsi un sentiero praticabile tra due Camere, venti Regioni, più di cento Province, più di ottomila Comuni. Come ridurre il numero dei partiti, ridurne il potere, ridurne l’ingerenza. È infatti nel sistema politico-istituzionale che si è incistata nella sua forma più perniciosa quella crisi di cultura e di valori di cui hanno scritto sul Corriere Galli della Loggia e Ostellino.
La soluzione viene di solito indicata nelle riforme costituzionali. Solo chi spera nel tanto peggio tanto meglio può negarne l’urgenza. Ma neanche quelle basteranno se non si produce una profonda rigenerazione morale dei partiti. Laddove l’aggettivo «morale» non sta solo nel «non rubare», e il sostantivo «rigenerazione» non coincide con l’ennesimo «repulisti» affidato al codice penale: questo sistema politico è figlio di Mani pulite, e non sembra venuto tanto meglio.
Rigenerazione morale vuol dire innanzitutto una nuova generazione, homines novi . Vuol dire restaurare un nesso, anche labile, tra l’attività politica e il bene comune. Vuol dire liberarsi dei demagoghi e dei voltagabbana. L’Italia non può farcela senza una politica migliore.

25 ottobre 2013
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ANTONIO POLITO 118

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