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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 104720 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Giugno 02, 2012, 10:15:50 am »

LA STORIA

Il Corvo e il Cardinale, i segreti della guerra che scuote il Vaticano

Il braccio di ferro nella Santa Sede sul potere di Bertone.

"Qui c'è una buona quantità di ricattatori, di ricattati e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi i Santi che tengono i piedi la Chiesa". Padre Georg è il canale per informare il Papa senza transitare dalla Segreteria di Stato

di EZIO MAURO

IL VOLO del corvo sulle mura vaticane (dove un tempo s'innalzava nei mosaici di San Pietro la più nobile fenice, simbolo della verginità immacolata ma ancor più della dignità della Chiesa che non muore) è in realtà soltanto il penultimo atto di una battaglia medievale spostata nel ventunesimo secolo. Dunque spettacolare per i media, infarcita di simboli come un romanzo popolare sui poteri occulti, clamorosa nel rovesciamento pubblico di quel "segreto" che è buona parte del mistero della potestà papale fin da Bonifacio VIII che ebbe la cura e la preveggenza, dopo aver nominato il suo cameriere, di non rivelarne mai il nome, per evitare pubblici guai.

Oggi tutto il mondo conosce il nome di Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI finito in una cella vaticana di quattro metri per quattro, con l'accusa di essere l'uomo della cospirazione: appunto il corvo. Ma chi vive all'interno delle Mura sa che la partita è più larga, conta molti protagonisti in più, e soprattutto dura da molto tempo. La vera posta è la Segreteria di Stato, cioè il governo della Santa Sede, la carica ecclesiastica più alta sotto il trono papale. Per cominciare bisogna andare indietro negli anni, alla prima insofferenza organizzata di 15 cardinali contro Tarcisio Bertone, pochi mesi dopo la sua nomina a Segretario di Stato al posto di Angelo Sodano.

A Bertone, fedelissimo del Papa fin dagli anni passati all'ex Sant'Uffizio, nessuno
rimprovera incapacità e inesperienza nel ruolo importantissimo che svolge. Piuttosto l'ambizione di occupare spazi altrui (come dimostra il conflitto permanente con la Cei, cioè con Bagnasco, sulla titolarità del "protettorato" da esercitare nei confronti della "cattolicissima Italia"), la disinvoltura nelle relazioni con il mondo italiano della politica e della finanza, i metodi salesiani e sbrigativi all'interno, nella costruzione meticolosa di un sistema di potere.

Contro Bertone si muovono cardinali in gruppo e isolati. Le Eminenze che possono, ne parlano al Papa, com'è successo un anno fa durante un pranzo a Castel Gandolfo con i cardinali Ruini, Scola e Bagnasco; altri gli scrivono; chi non arriva al pontefice, si lamenta negli uffici e nei corridoi. "Qui dentro - dice chi mi fa da guida e mi aiuta a capire - c'è una buona quantità di ricattatori, un numero uguale di ricattati, una massa di employé, e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi ci sono i Santi, che tengono in piedi la Chiesa. E in questa fase di disorientamento tutti vanno dai Santi, per avere un conforto, qualche certezza". Anche perché a chi gli ha parlato criticando Bertone, Benedetto XVI ha risposto più volte nello stesso modo: "Noi siamo un Papa vecchio": come a dire che non ha un lungo orizzonte di pontificato davanti a sé, e non se la sente di rovesciare la governance della Santa Sede, ricominciando a 85 anni con un nuovo Segretario di Stato con il quale non ha consuetudine, proprio lui che ascolta preferibilmente gli uomini con cui ha un'amicizia antica, meglio se storica, comunque collaudata e a prova di inquietudini e sorprese.

Sul tavolo del Papa si sono così accumulati messaggi d'ogni tipo, giusti e anche ingiusti, contro il suo collaboratore più vicino, persino l'ultima velenosa accusa - documentata e inedita - sull'uso di aerei di Stato italiani per i suoi spostamenti veloci. Ma il Pontefice sa bene che i capi d'imputazione veri sono contenuti in tre lettere - rivelate dal "Fatto" e dalla trasmissione "Gli Intoccabili" - che proprio il corvo ha fatto uscire dai Sacri Palazzi negli ultimi mesi. Una missiva del segretario del Governatorato della Città del Vaticano, arcivescovo Carlo Maria Viganò (oggi rimosso da Bertone e inviato a Washington come Nunzio apostolico), che denuncia una serie di malversazioni, traffici e complotti in Vaticano ma soprattutto sostiene - dietro gli omissis, dice chi ha letto gli originali - che il Segretario di Stato è influenzato da personaggi esterni e da "ambienti massonici", che gli tolgono autonomia. Poi la lettera del cardinale Dionigi Tettamanzi indirizzata direttamente al Papa per chiedergli se davvero ha ispirato la richiesta che Bertone ha rivolto a nome di Benedetto XVI all'ex vescovo di Milano, spingendolo a lasciare la presidenza dell'istituto Toniolo, che controlla due giganteschi centri d'influenza e di potere come l'università Cattolica e il Policlinico Gemelli. Infine, la lettera del cardinale Attilio Nicora, presidente dell'AIF, l'Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano, che denuncia il rifiuto dello Ior, la Banca della Santa Sede, di dare informazioni trasparenti su movimenti bancari sospetti prima dell'entrata in vigore della legge vaticana antiriciclaggio, il 1° aprile 2011.

Sono tre accuse pesanti per il cardinal Bertone: condizionamento esterno nella guida del governo vaticano; abuso della delega papale nel rapporto coi vescovi; mancanza di chiarezza nella gestione dei fondi Ior, la banca che ha già coperto misteri vergognosi. La questione finanziaria è talmente delicata e rilevante che ha portato più di un anno fa alla rottura tra Bertone e Ettore Gotti Tedeschi, suggerito al Segretario di Stato come presidente dello Ior direttamente dal Papa, con cui aveva collaborato per la stesura dell'enciclica "Caritas in veritate". Gotti riceve da Benedetto XVI il mandato di rendere lo Ior "limpido". Lavora per portare la banca nella white list dove stanno le democrazie occidentali, fa approvare una legge antiriciclaggio e istituisce un'autorità di controllo interna, l'Aif. Ma subito dopo, si accorge che il Vaticano dice una cosa e ne fa un'altra, vede le norme cambiare, l'autorità scavalcata, la trasparenza ingannata. Rompe con Bertone e minaccia le dimissioni. Ma il Segretario di Stato lo precede - forse temendo rivelazioni - e restando ufficialmente all'oscuro di tutto lo fa sfiduciare all'unanimità dal Consiglio di Sovrintendenza dello Ior con un attacco ad personam del Cavaliere di Colombo Carl Anderson, per delegittimare preventivamente le eventuali notizie scomode che Gotti potrebbe dare un giorno.

Sulla Banca si gioca uno scontro di potere concreto. In passato per i forzieri dell'Istituto per le Opere di Religione è transitato di tutto: dal conto "omissis" di Andreotti ai soldi del democristiano Prandini, che aveva affittato addirittura il conto del demonologo Padre Balducci, ai fondi di Luigi Bisignani, l'ultimo faccendiere di Stato campione di tutti gli intrighi che cominciano con la lettera P, cioè P2, P3 e P4. Ma il problema non riguarda tanto il passato, con storie che sembrerebbero pittoresche se non fossero ignobili anche per una banca non religiosa, quanto il futuro immediato. Con tutti i Paesi democratici che dopo l'11 settembre si adeguano alla trasparenza dei movimenti finanziari, l'opacità voluta, insistita e ricercata dallo Ior può essere una finestra d'opportunità criminale per operazioni d'ogni genere, con il rischio - denunciato nella sua lettera dal cardinal Nicora - "di un conseguente colpo alla reputazione della Santa Sede".

È quello che gli avversari di Bertone ripetono al Papa, ogni volta che possono. E questa insistenza ha creato involontariamente un antagonista di Bertone, proprio alla Seconda Loggia. È Padre Georg Gaenswein, il segretario del Papa: un uomo che non ha mai creato correnti e non ha ambizioni di potere, ma "vuole soltanto il bene del Papa, e quindi della Chiesa", come dice chi lo conosce da vicino. Ma Georg, nella vecchiaia distante di Ratzinger, è diventato l'orecchio a cui si indirizzano tutte le proteste, e soprattutto il canale per trasmettere informazioni dirette al Papa, senza transitare come si faceva prima dalla Segreteria di Stato: basta passare dal salottino ristretto con due sedie imbottite davanti a una scrivania minuta, dove Monsignore compare entrando da una porta mimetizzata nella parete di sinistra. Ci passano in molti. Fatalmente Padre Georg senza volerlo si è così trovato ad incarnare l'immagine di uno dei due duellanti dello scontro in atto attorno all'Appartamento papale. Il segretario contro il Segretario.

Così, arriviamo al penultimo atto. Non ottenendo una reazione immediata dal Papa alle loro denunce, gli avversari di Bertone inventano il corvo, un gruppo organizzato di persone che rivela documenti riservati scritti contro il Segretario di Stato, con il doppio scopo di mostrare al Papa la clamorosa verità di una governance che fa acqua da tutte le parti, e di minare all'esterno l'autorità di Sua Eminenza, mettendolo in difficoltà per cercare di spingerlo a lasciare. Un'operazione primitiva e modernissima nella sua violenza elementare, fatta di carta e d'inchiostro nell'epoca del web. Trasportare all'esterno i veleni e gli intrighi fino a ieri coperti dalle Sacre Mura, nell'abitudine anagrafica e curiale di metterli per scritto, colpendo i nemici in bella calligrafia e chiamandoli sempre Eminenze Reverendissime. Per poi farli rimbalzare, quei veleni e quegli intrighi, all'interno dei Palazzi, ingigantiti dal clamore pagano - divertito e scandalizzato - del mondo di fuori. Ma la reazione di Bertone è intelligente e mirata: prima di tutto, un clima di polizia dentro le mura, con tutti che si sentono controllati nella persona, negli incontri, nelle conversazioni telefoniche, e non importa che lo siano davvero. Basta sia chiaro che se il Papa ha le chiavi di Pietro, e può serrare o disserrare le porte del Cielo, le chiavi del regno terreno sono saldamente in mano al Segretario di Stato, che può chiudere o aprire carriere e percorsi di laici, monsignori e porporati. Poi, l'avvertimento a Padre Georg e soprattutto a chi si rivolge troppo frequentemente a lui: quel maggiordomo così interno all'Appartamento, così vicino alla "famiglia" ristretta che circonda il Pontefice, e così ingigantito nella dimensione criminale da riassumere in sé - per comodità investigativa, politica e strategica - la molteplicità dei corvi che si sono mossi insieme in questi mesi: chi ha dato per anni fiducia al corvo-maggiordomo? Chi doveva vigilare sull'inviolabilità dell'Appartamento, e soprattutto sulla sicurezza delle carte del Papa? Come a dire: invece di lasciar attaccare la Segreteria, guardatevi in casa. "Da Innocenzo III - spiega la nostra guida - il Papa viene detto anche "dominatore dei mostri": bene, come ognuno di noi, deve purtroppo cominciare da quelli domestici".

In realtà il Papa assiste a questa profana guerra non di religione ma di religiosi senza saper come intervenire. La sapienza e la tradizione non lo aiutano. La storia vaticana è piena di lettere segrete del pontefice, che venivano contrassegnate proprio dal sigillo dell'anello piscatorio, simbolo di Pietro, che consegnava al segreto in perpetuo anche i "brevi", scritti su pelle di agnello nato morto dai segretari del pontefice. E già da Benedetto III in poi la cancelleria apponeva alle lettere papali più delicate delle "bolle" di piombo con le sacre immagini di Pietro e Paolo, segno della gran cura religiosa necessaria per custodire con fede la riservatezza degli "interna corporis", quando riguardano il Papa. Ma oggi, non è più tempo di piombo e soprattutto non è tempo di agnelli. Al Papa piuttosto qualcuno in questi giorni ha ricordato le parole di Geremia: "Issate un segnale verso il muro di Babilonia, rafforzate le guardie, ponete sentinelle, preparate gli agguati".

Già, ma cosa può fare il Papa? Sembra di risentire le parole del cardinal Poupard nel dicembre 2000, era finale del woytjlismo: "In Vaticano si vive in regime di inadempienza costituzionale. Il Santo Padre non controlla la Curia. Il Segretario di Stato procede in proprio. I dossier vanno e vengono privi di firma o di sigla. Si dubita che il Papa possa avere l'energia sufficiente per leggerli. E soprattutto non si sa neanche se gli vengono sottoposti". Sullo sfondo dei suoi silenzi, Benedetto XVI vede avvicinarsi l'ombra del conclave, le guerre di posizione, gli schieramenti, i giochi degli "italiani", i dubbi degli stranieri, la Curia sotto choc, tutto il mondo che improvvisamente rivaluta le trame di Dan Brown che fino a ieri sembravano infantili ed esagerate, e oggi sono sopravanzate dalla realtà vaticana. Tanto che lo stesso Gotti Tedeschi, dicono, si è confidato con un amico cardinale confessando che "è finito un sogno, ma soprattutto è finito un incubo".

Chi preme sul Papa contro Bertone spiega che lo fa per difendere il ruolo e l'autorità della Chiesa cattolica apostolica e romana, e il Pontefice. Ma come si può voler difendere il Papa, e poi forzare il suo silenzio con l'evidenza clamorosa del corvo, che toglie ogni immagine di sacralità e di fraternità alla vita oltre le Sacre Mura? Voi laici, dice chi mi accompagna, non capite che è in gioco qualcosa di più del galateo profano e della stessa bontà d'animo cristiana, qualcosa che interpella il soprannaturale. Perché il Papa è ascoltato nel mondo quando parla del bene e del male proprio in quanto la sua autorità non è solo terrena e pertanto non viene messa in discussione. Bene, oggi siamo al punto in cui viene in discussione la credibilità del Papa, la sua autorità: e se il Papa perde credibilità, è la fine della Chiesa.

Tuttavia il Papa vive nell'attitudine consolatoria di precetti che parlano di compassione, di distinzione tra peccato e peccatore, soprattutto di perdono, come sacramento insito nella confessione e nella penitenza. Da qui la tendenza a non condannare mai, ad aspettare. Cambiare Segretario di Stato adesso, proprio nell'urto dello scandalo? Solo se ci fosse qualche evidenza documentale, dice chi conosce bene il Papa e la sua prudenza.

Allontanare Padre Georg, nominandolo vescovo in Germania, per ristabilire l'unità della Santa Sede attorno al Segretario? Sarebbe un'amputazione papale, per di più ingiusta, e significherebbe introiettare la colpa per quieto vivere. Aspettare dicembre, il compleanno di Bertone, e fingere un normale avvicendamento? "Ma ogni giorno che passa qui affondiamo di più, e si perde fiducia nella Chiesa e alla fine nel Papa".

Così continua la battaglia medievale sotto il regno di Benedetto XVI. Fino a quando, e fin dove? Siamo giunti con ogni evidenza all'ultimo atto di questa lunga partita. Chi dietro le Mura ne ha viste molte ("non così, però: mai"), adesso cita il Faust e pensa che alla fine il Papa riuscirà a trasformare il male in bene, operando il necessario rinnovamento. Nel suo pensiero e nei suoi libri, Joseph Ratzinger sa che tocca al Papa "essere un argine contro l'arbitrio", perché lui "incarna l'obbligo della Chiesa a conformarsi alla parola di Dio". Può farlo non per la qualità degli uomini diventati pontefici, ha scritto Benedetto XVI, ma "per un'altra forza, non umana: quella forza che era stata promessa a Pietro, dicendo che le porte degli inferi non prevarranno". D'altra parte, anche la fenice del mosaico di San Pietro ogni cinquecento anni incendiava il suo stesso nido e battendo le ali faceva crescere il fuoco fino a bruciare nelle fiamme, risorgendo viva e vitale dalle braci. Solo che qui, intanto, gracchia il sacro corvo. E chi sa, dice che non è finita.

(01 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/01/news/corvo_bertone_papa-36328059/?ref=HREA-1
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:43:45 pm »

L'EDITORIALE

Un giornale, le procure e il Quirinale

Gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia dopo vent'anni di depistaggi.

L'inchiesta di Palermo è meritoria ma è un falso palese dire che si vuole fermare il lavoro dei magistrati.

Anzi, è un inganno ai cittadini in buona fede

di EZIO MAURO


MA IO, che cosa penso? Me lo chiedono gli avversari di sempre, stupiti di trovare su questo giornale (che hanno presentato per anni come un partito) ciò che sono incapaci di avere sui loro, e cioè un dibattito aperto tra idee diverse, nate da uno stesso filone culturale: una prova di libertà e di ricchezza, soprattutto quando ad argomentare sono persone come Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky, con la loro autorità e la loro passione democratica.

Sconcertati per la libertà di "Repubblica", sperano almeno di trovare me in difficoltà: Gustavo è per una fortuna della vita un mio grande amico, discutere con lui mi appassiona, lo faccio ogni volta che posso  -  anche da lontano  -  e imparo sempre qualcosa. Con Eugenio c'è qualcosa (molto) di più dell'amicizia. C'è un'avventura comune per noi importantissima, che si chiama "Repubblica" e va al di là di noi, c'è il fatto che ci siamo scelti tanti anni fa e continuiamo a farlo ogni giorno.
Tutto questo complica? No, semplifica, perché obbliga alla verità. Noi tre conosciamo non solo le idee l'uno dell'altro ma anche i punti di dissenso di cui parliamo spesso, conosciamo soprattutto la nostra natura, che è alla base delle amicizie vere.

Infine e prima di tutto, c'è poi per me il giornalismo. E poiché molti lettori mi chiedono un'opinione è soprattutto a loro che rispondo. Con le parole di due mesi fa. Perché il giornalismo ha questo di bello: che le parole dette o scritte in pubblico restano, e non si cancellano.

Appena è nato il caso della trattativa Stato-mafia e del contrasto tra la Procura di Palermo e il Quirinale ne ho parlato più volte a "Repubblica domani", davanti a due milioni e mezzo di utenti unici del nostro sito che trasmette ogni giorno (salvo il mese delle ferie) la riunione di redazione di "Repubblica", con gli archivi a disposizione di tutti. Che cosa dicevo allora, ed era la fine di giugno? Quel che penso oggi e che riassumo qui.

Prima di tutto gli italiani hanno il diritto di conoscere la verità sulla trattativa Stato-mafia dopo vent'anni di nascondimenti, di menzogne e depistaggi.

Compito delle Procure non è scrivere la storia ma accertare gli illeciti. Bene, l'indagine della Procura di Palermo, indagando tutto ciò che si è mosso sotto la linea d'ombra delle legalità, può aiutarci a capire cos'è successo tra Stato e crimine organizzato in anni terribili per la Repubblica, all'insaputa dei cittadini, senza alcuna discussione pubblica sulla trattativa, nessuna trasparenza, quindi senza nessuna assunzione politica di responsabilità.

Dunque l'indagine è meritoria, come dicevo due mesi fa. Ma oggi  -  aggiungo  -  chi la ostacola? La Procura l'ha conclusa con le richieste di rinvio a giudizio, in piena libertà, com'è giusto, ora tocca al Gip decidere sugli indagati eccellenti. E allora? È un falso palese dire che si vuole bloccare il lavoro di Palermo, anzi è un inganno ai cittadini in buona fede. La Procura continuerà su altre strade  -  immagino  -  il suo difficile lavoro di frontiera, una frontiera impegnativa, per cui il compito dei magistrati di Palermo va seguito con attenzione e rispetto. Ma senza evocare fantasmi che non esistono, alla prova dei fatti.

E veniamo al secondo punto. Un testimone di rango, poi indagato, l'ex ministro degli Interni Mancino, si agita molto per l'inchiesta. Essendo stato presidente del Senato e vicepresidente del Csm ha accesso al Quirinale, ai collaboratori più stretti del Presidente, ai quali telefona continuamente senza sapere di essere intercettato. Così come parla col Capo dello Stato. Ho già detto, e ripetuto, che il comportamento dei consiglieri di Napolitano secondo quelle telefonate è imprudente e improprio, perché sembrano consigliare più il testimone Mancino che il Presidente della Repubblica: e innescano iniziative del Colle tutte legittime, ma sollecitate da una parte in causa  -  Mancino  -  che ha una possibilità di accesso al Quirinale che altri cittadini non hanno.

Napolitano, per dichiarazione degli stessi procuratori e di chi li guida, non compie alcun atto illegittimo e soprattutto non dice nella conversazione registrata con Mancino nulla che abbia qualche rilevanza con l'indagine. Ma il Presidente non ritiene che i testi delle sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue prerogative più che del caso specifico. Solleva un conflitto di attribuzione su un "buco" normativo: può il Capo dello Stato essere intercettato, sia pure indirettamente? Questo conflitto è perfettamente legittimo. Può non essere opportuno, ed è una valutazione politica: io non lo avrei aperto. Ma è legittimo e a mio parere non vale dal punto di vista logico (lo dico al mio amico Gustavo che conosce quel che penso) l'argomentazione secondo cui il peso delle parti è squilibrato essendo il Quirinale troppo più forte di una Procura: perché allora tanto varrebbe non prevedere la possibilità di ricorrere all'arbitrato della Consulta, per manifesta superiorità del Quirinale.

Ma sollevo una questione di semplice buon senso repubblicano, di cui non si è ancora parlato. Il lavoro del Presidente della Repubblica, fuori dagli impegni istituzionali solenni e pubblici, è in gran parte fatto di colloqui, incontri, conversazioni (anche telefoniche) attraverso i quali il Capo dello Stato raccoglie elementi di conoscenza e di valutazione e esercita la sua moral suasion al servizio della Costituzione. Ora, rispondiamo a una domanda: è interesse di Napolitano (posto che non si parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere, già esclusi da tutti gli inquirenti. Facciamo un'ipotesi astratta, di scuola.

Quante telefonate avrà dovuto fare il Capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da palazzo Chigi? Quante conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano più con il governo, i mercati impazzivano, il Paese era allo sbando senza una guida esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se quelle conversazioni  -  che hanno necessariamente preceduto e preparato l'epilogo istituzionale di vent'anni di berlusconismo  -  fossero diventate pubbliche, quell'esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?

Questa realtà semplice ed evidente viene incupita da sospetti e distorta da allusioni ed evocazioni complottistiche come se fossimo davanti a chissà quale mistero di Stato, o come se il Quirinale fosse addirittura il principale problema del Paese, il centro dei suoi mali. Tutto questo, prima ancora che falso sarebbe ridicolo, se non fosse un nuovo inganno ai danni dei cittadini.

Ecco perché due mesi fa parlavo di manovra contro il Quirinale, vedendola nascere. Con quel che l'Italia ha passato in questi vent'anni, e con l'emergenza economico-finanziaria che ci getta ai margini dell'Europa, togliendo lavoro e futuro ai giovani, com'è possibile rappresentare la crisi italiana come una manovra di palazzo, orchestrata da un uomo che gli altri Paesi considerano come uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia?

Io ho una mia risposta, che non piacerà ai miei critici sui due spalti contrapposti. Il fatto è che l'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra. Una destra diversa dal berlusconismo, evidentemente, ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca.

Si capisce perfettamente che per chi ha questa posizione la cosiddetta "casta" non contempla differenze al suo interno, chi ha umiliato il parlamento sostenendo col voto che la ragazza Ruby era nipote di Mubarak è e deve essere uguale a chi ha resistito votando contro: facendo di ogni erba un fascio in modo da legittimare il lanciafiamme che redima il sistema.
Io penso al contrario che il compito di ogni organizzazione culturale, politica, giornalistica, intellettuale, sia quello di fornire ai cittadini non la famigerata "narrazione", bensì gli strumenti utili per poter distinguere, che è l'unico modo per potere davvero giudicare, dunque prendere parte.

Ma per chi ha queste posizioni, cultura è già una brutta parola. Meglio alzare ogni giorno di più i toni chiamando i politici "larve", "moribondi", "morti". Meglio alimentare la confusione, fingere che la destra sia uguale alla sinistra, che è il vero nemico, come il riformismo è stato sempre il nemico del massimalismo,

Ecco perché per coloro che sostengono queste posizioni Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo strumento con cui suonare la loro musica. Per questa nuova destra, Napolitano e Berlusconi devono essere uguali, ingannando i cittadini. E infatti, mentre D'Avanzo rivolgeva le nostre dieci domande a Berlusconi ogni giorno, la nuova destra canzonava il Cavaliere in un linguaggio da Bagaglino, con un "calandrinismo" che rompeva la cornice drammatica in cui stava avvenendo quella prova di forza: deridendo i nomi (incolpevoli, almeno loro) delle persone, scherzando coi loro difetti fisici, stilemi tipici da sempre della destra peggiore. Non Montanelli, per favore, ma il Borghese degli anni più torvi.

Altro che guerra civile a sinistra. Siamo davanti a parole e opere tipiche di una nuova destra che lavora trasversalmente e insidia il campo "democratico" per la debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia della sinistra italiana, e per l'eccessiva indulgenza che tutti abbiamo avuto con l'antipolitica, davanti all'inconcludenza della politica italiana. Finché questo equivoco finirà, e dopo la definitiva uscita di scena di Berlusconi la destra starà finalmente con la destra e la sinistra con la sinistra.

Ecco quel che io penso. Ce n'è abbastanza perché "Repubblica" faccia ricorso a tutte le sue intelligenze e le sue passioni per portare avanti le battaglie di sempre, anche se in minoranza e anche se controvento, a partire dalla tutela della libertà di cronaca se verrà manomessa la normativa sulle intercettazioni telefoniche. Semplicemente in difesa della democrazia e della Costituzione, parlando anche a chi è attratto dall'antipolitica ma non è né antipolitico, né di destra. Nell'interesse di un Paese con il diritto di sapere che non vive in un eterno complotto: ma in una democrazia che dobbiamo rinnovare e migliorare, ma nella quale possiamo persino credere.

(24 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/24/news/un_giornale_le_procure_e_il_quirinale-41384249/?ref=HREC1-1
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:51:26 pm »

L'INTERVISTA

Marchionne: "Manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all'estero"

Parla l'ad: "Risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte".

E replica alle critiche: "In giro vedo troppi maestri d'automobile improvvisati. Non si investe in un mercato tramortito dalla crisi, ma io non mollo e sono qui. Non dipingetemi come l'uomo nero"

di EZIO MAURO


Sergio Marchionne, in poche righe di comunicato lei ha seminato il panico sul futuro della Fiat in Italia, poi se n'è andato in America senza spiegare niente. Qui ci si interroga sul destino di stabilimenti, famiglie, comunità di lavoro, città. Cosa sta succedendo, e che cosa ha in mente?
"Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l'unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità".

E qual è la verità, il blocco degli investimenti in Italia dando tutta la colpa alla crisi?
"No, questa è semplicemente una sciocchezza. Abbiamo appena investito circa un miliardo per la Maserati in Bertone (una fabbrica rilevata da noi nel 2009 che non aveva prodotto vetture dal 2006), altri 800 milioni per Pomigliano: le sembra poco?".

La sua verità, allora?
"Semplice. La Fiat sta accumulando perdite per 700 milioni in Europa, e sta reggendo a questa perdita con i successi al'estero, Stati Uniti e Paesi emergenti. Queste sono le uniche due cose che contano. Se vogliamo confrontarci dobbiamo partire da qui: non si scappa".

La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un'azienda che ha più di cent'anni di vita?
"Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura  -  badi bene  -  di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell'acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell'azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo".

Ma i suoi concorrenti sono europei come la Fiat, operano sullo stesso mercato, eppure non hanno alzato le braccia. Tutti incoscienti e irresponsabili, anche quando guadagnano quote di mercato a vostro danno?
"Senta, perché non guardiamo le cifre che parlano da sole, molto meglio della propaganda? Lei le conosce? In Italia l'automobile è precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco nel vero senso della parola, ritornato ai livelli degli anni Sessanta. Sa cosa vuol dire? Che abbiamo perso di colpo quarant'anni. E si capisce, se uno è capace di guardarsi attorno. Il Paese soltanto un anno fa era fallito, lo avevamo perduto. Solo l'intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l'Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. Ce lo siamo dimenticato? E qualcuno vorrebbe che la Fiat, in mezzo a questa tempesta, si comportasse tranquillamente come prima, quando c'era il sole? O è un'imbecillità, pensare questo, o è una prepotenza, fuori dalla logica".

Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
"Che tutti parlano a cento all'ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch'io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d'automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c'è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino
stare la Fiat, per rispetto e per favore".

È normale che il Paese si preoccupi davanti al rischio che la Fiat vada via dall'Italia, che lei scelga l'America, che si perda la sapienza del lavoro nell'automobile. Perché lei non ha risposto a queste paure?
"Se vuol dire che potevamo comunicare meglio, possiamo discuterne. Ma la sostanza non cambia".

Ma lei dopo cent'anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l'Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
"Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d'azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ".

Qui sta la sua responsabilità nei confronti del Paese?
"In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi".

Ma due anni fa lei aveva detto a Repubblica che le quattro lettere Fiat avrebbero
conservato il loro significato: ancora Fabbrica, sempre Italiana, per produrre Automobili, e tutto questo a Torino. Oggi se la sente di confermare?
"Siamo qui. Anzi, io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia. Non mollo, se è questo che vuole sapere".

Ma lei ha appena detto che Fabbrica Italia è superata. Questo significa che l'impegno di investire in quel progetto 20 miliardi non viene mantenuto. Non si sente in colpa?
"Quell'impegno era basato su cento cose, e la metà non ci sono più, per effetto della crisi. Lo capirebbe chiunque. Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato, su una riforma del mercato del lavoro, e ho più di 70 cause aperte dalla Fiom. Soprattutto, da allora ad oggi il mercato europeo ha perso due milioni di macchine. C'erano e non ci sono più. Tutto è cambiato, insomma. E io non sono capace di far finta di niente, magari per un quieto vivere che non mi interessa. Anche perché puoi nasconderli, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco, siamo in quel momento. Io indico i nodi: parliamone".

Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
"Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un'equazione troppo difficile".

Ma gli altri produttori europei continuano a sfornare modelli. Fiat è ferma, vuota e assente. Non è anche così che si lascia andare a picco il mercato?
"Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c'è. Provi a pensare: se quell'investimento io lo avessi moltiplicato per quattro, se cioè avessi pensato in grande, diciamo così, la Fiat sarebbe fallita entro il 2012 e adesso saremmo qui a parlare d'altro. Io dovrei andarmene in giro col cappello in mano, chiedendo soldi non so a chi: agli azionisti, al governo, ad un altro convertendo".

Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
"Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più".

Il rischio è di disperdere un know how, una sapienza del lavoro, un universo dell'indotto, un marchio storico. Non ci pensa?
"Le rispondo così: lei non può saperlo, ma nei piani strategici del 2004 la Peugeot aveva considerato la Fiat fallita, e aveva programmato la conquista delle sue quote di mercato, come se la nostra azienda non ci fosse più. Fallita, cancellata, capito? Oggi la situazione è completamente diversa. Bisogna solo capire in che mondo viviamo. C'è un rapporto di Morgan Stanley secondo cui nello scorso decennio General Motors ha pompato 12 miliardi di euro in Europa, a fondo praticamente perduto".

Questo cosa vuol dire? Che tutte le colpe sono del mercato e non vostre?
"Lasci stare le colpe, parliamo di numeri. Vuol dire che il mercato non c'è. In Italia siamo sotto un milione e 400 mila automobili vendute, ciò significa che ne abbiamo perse un milione e centomila in cinque anni".

E come vede l'anno prossimo?
"Male, molto male. D'altra parte la gente non ha più potere d'acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto? L'auto nuova è proprio l'ultima cosa, non ci pensano nemmeno, si tengono la vecchia ben stretta. È un meccanismo che si può capire ".

È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
"Sono stati una droga, non c'è dubbio".

Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
"Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Ho sempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato. Pensi che vendevamo un "Cubo" a metano a meno di 5 mila euro, 4.990: drogato al massimo".

Sono i famosi aiuti di Stato all'automobile, di cui oggi non dovreste dimenticarvi, non le pare?
"Già l'ultima volta ho detto di no. Vedevo crearsi una bolla che gonfiava d'aria i tubi del mercato, per poi farli saltare prima o poi. Semplicemente si posticipava una crisi, una difficoltà e un problema, invece di affrontarli".

Ecco, oggi la paura è proprio questa: che una Fiat americana non affronti il problema della produzione automobilistica in Italia, e non contrasti la crisi. Cosa risponde?
"Io gestisco un'azienda che fa 4 milioni e 100 mila vetture all'anno. La scorsa settimana sono andato a Las Vegas per un incontro con i concessionari: tra novità e restyling gli abbiamo fatto vedere 66 vetture. Si rende conto? È il segno di un'espansione commerciale fantastica di un'azienda globale. Che va giudicata in termini globali. Chi cresce a questi ritmi negli Usa e anche in America Latina, forse sa fare automobili, forse capisce il mercato".

E l'Italia? Lei non può ignorarla.
"Ma lei non può pensare alla Fiat come a un'azienda soltanto italiana. Sarebbe in ritardo di dieci anni. La Fiat non è più un'azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un'auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale, e deve essere uguale".

Se non fosse per quel problema della responsabilità nazionale, nei confronti del Paese e di chi lavora, non crede?
"E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico. Fare diversamente, sarebbe una follia".

Siete specializzati in utilitarie: non c'è l'idea di un'auto per la crisi?
"I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più".

Però state per lanciare la 500L, prodotta in Serbia. Quanto ci punta la Fiat?
"L'ho presentata agli americani lunedì scorso, l'accoglienza è stata fantastica, su quel mercato sono tranquillo perché andrà benissimo. E questo ci aiuterà. Ma se dovessi puntare solo sui risultati europei, non ce la farei mai e poi mai. E le aggiungo una cosa: io venderò la 500L a 14.500 euro. La Citroen ha deciso di vendere la C3 Picasso, che è un competitor, a meno di diecimila, per smaltire le giacenze. È una quota che sta sotto il mio costo variabile. Questo le dice come sta oggi il mercato in Europa".

Come spiega agli americani il successo a Detroit e il disastro a Torino?
"Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo".

E lei?
"I conti li so fare anch'io. Se mi comporto diversamente, ci sarà una ragione".

Cosa vuol dire?
"Che non parlo di eccedenze, non parlo di chiusure, dico solo che non c'è mercato per fare attività commerciale garantendo continuità finanziaria all'azienda".

E quando vede un cambio di mercato?
"Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l'abitudine di fare un po' di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c'è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall'euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole".

Sembra un discorso riferito al governo. La stanno cercando e vogliono chiarimenti: li vedrà?
"Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?".

Le chiederanno garanzie per la Fiat in Italia e vorranno sapere qual è il suo disegno strategico. Cosa dirà?
"Sopravvivere alla tempesta con l'aiuto di quella parte dell'azienda che va bene in America del Nord e del Sud, per sostenere l'Italia, mi pare sia un discorso strategico".

Lei dunque s'impegna?
"Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia. Io la mia parte la faccio, non sono parole. Quest'anno la Fiat guadagnerà più di 3 miliardi e mezzo a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese. È la prova di quel che le ho detto".

Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
"Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l'unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri".

Cosa intende dire?
"Che non sono l'uomo nero".

Col sindacato sì, sembra aver dichiarato una guerra ideologica alla Fiom, da anni Sessanta.
"Storie. Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi. Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile. Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati. Noi siamo in ballo, il gran ballo della globalizzazione: non è detto che mi piaccia ma come dicono in America il dentifricio è fuori, e rimetterlo nel tubetto non si può più".

Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema del-l'Italia?
"Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma "repubblica fondata sul lavoro" vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca".

Il professor Penati oggi su Repubblica, cercando di capire la sua strategia, le ha chiesto di essere coerente e di vendere le partecipazioni editoriali, per dimostrare che la crisi colpisce tutti i settori in crisi e non penalizza solo l'automobile. Può rispondere?
"Proprio a me venite a chiedere dei salotti buoni? Non li ho mai frequentati. E quando abbiamo avuto bisogno di qualcosa da loro, ho visto solo buchi nell'acqua".


(18 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #108 inserito:: Settembre 26, 2012, 02:30:37 pm »

L'EDITORIALE

Cambiare subito

di EZIO MAURO

Ormai è una questione di decenza, e anche di sopravvivenza. La legge anti corruzione non può rimanere ostaggio di una destra allo sbando, arroccata nelle paure personali del suo leader, politicamente suicida al punto da non avvertire l'urgenza assoluta di mettere il nostro sistema al passo con l'Europa: ma anche, e soprattutto, con la sensibilità acutissima del Paese, che non tollera più abusi e furbizie.

La cintura di illegalità corruttiva che soffoca l'Italia e la sua libertà tiene lontani gli investimenti stranieri, penalizza le imprese, altera il mercato. Ma soprattutto pesa sul sistema per 60 miliardi all'anno, una cifra enorme che è il segno dell'arretratezza del Paese e del condizionamento di una diffusa criminalità quotidiana.

A tutto ciò si aggiungono l'uso disinvolto del denaro pubblico e gli sprechi del sistema politico. Lo scandalo della Lombardia, con le vacanze pagate al presidente Formigoni da un faccendiere della sanità, e la vergogna del Lazio, con cifre da capogiro intascate dai consiglieri regionali per spese private, fanno ormai traboccare il vaso. Ieri Napolitano ha definito la corruzione "vergognosa", il giorno prima Monti aveva denunciato "l'inerzia" della destra.

Ora non ci sono più alibi. Il governo non può fare il notaio delle inerzie altrui: vada avanti con forza e il Premier chieda al Parlamento di approvare subito la legge. Chi non la vuole, se ne assuma la responsabilità.

E l'opinione pubblica faccia sentire la sua voce. Il cambiamento può cominciare qui, oggi.

(26 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/26/news/polverini_commento_mauro-43295628/
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« Risposta #109 inserito:: Ottobre 13, 2012, 04:01:29 pm »

L'EDITORIALE

Come difendere la democrazia malata

di EZIO MAURO


Ma dove viviamo? Ciò che vediamo a Milano, con l'evidenza dell'incredibile, non deve farci dimenticare il quadro d'insieme. In meno di un mese è saltato per aria il governo della Regione Lazio, affondato nell'abuso privato del denaro pubblico e nell'estetica esemplare di una politica ridotta a festa onnipotente ed esibizione impunita, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell'Emilia e del Piemonte, un assessore della Lombardia è finito in carcere 1 perché comprava i voti direttamente dalla 'ndrangheta, una grande città come Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica. Stiamo tornando al '92, vent'anni dopo, dicono tutti. In realtà, è molto peggio.

Siamo infatti davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d'Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove
avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l'arricchimento dei singoli o delle loro bande.

L'unico vero punto in comune con il '92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l'infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.

Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l'indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò 2 la fine dell'innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell'Interno Maroni 3 che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un'azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.

Bisogna avere il coraggio di dire che la vera "infiltrazione" mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l'una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l'elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L'Aquila.

Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l'asservimento mafioso dell'assessore Zambetti a Milano prosperano all'ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l'ex ministro Galan, "volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale". Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.

Vent'anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un'imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient'affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell'epoca. I capiclan si raccontano la scena dell'assessore impaurito quando gli mostrano il "pizzino" del patto scellerato, "piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale". Si trasmettono giudizi definitivi: "'sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell'altro". Si vantano: "Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?". Minacciano: "Gli facciamo un culo così". E infine si rassicurano: "Guarda, Zambetti ce l'abbiamo in pugno".

Certamente il senso d'impunità seminato in questi anni, l'elogio continuo del malandrino, l'irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l'attacco al principio di legalità, il sentimento dell'onnipotenza giustificato dall'esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l'indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l'esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C'è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economico-politico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell'altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?

La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel '92, oggi è malata. C'è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola "casta" è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.

Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un'opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l'indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell'onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com'è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.

Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c'è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l'evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di "Repubblica") scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?

La politica che vuole salvare se stessa ha l'occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell'Italia onesta.

(12 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/12/news/difendere_democrazia_malata-44361002/
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« Risposta #110 inserito:: Ottobre 20, 2012, 04:00:21 pm »

L'EDITORIALE

Non solo spread

di EZIO MAURO


NO, signor Presidente del Consiglio: non può essere "soddisfatto" se la legge anticorruzione verrà approvata così com'è alla Camera.
Questo è quanto vogliamo dire a Mario Monti, anche a nome dei 330 mila cittadini che hanno firmato l'appello di "Repubblica" per varare al più presto la legge, chiedendo però al governo "di non essere il notaio delle inerzie altrui" e delle resistenze della destra berlusconiana.

Quei cittadini, come molti altri, non chiedono una legge qualunque, di facciata, che possa essere esibita in Europa ma risulti inutile o dannosa in Italia. Questo avevamo detto consegnando le prime 250 mila firme al ministro Severino con urgenza, con la raccolta in corso, proprio perché il governo avvertisse in tempo l'impegno e la partecipazione della pubblica opinione, "un'opportunità, ma soprattutto una grande responsabilità".

Monti oggi ammette che il governo avrebbe voluto fare di più e "andare più in là", e fa notare che nessun governo precedente, di qualsiasi colore, ha fatto meglio. Il Guardasigilli aggiunge che il governo è composto da persone "oneste". Ma tutto questo, che è vero, non giustifica: anzi obbliga ancora di più.

La corruzione sta taglieggiando i cittadini, sta corrodendo le istituzioni, sta avvelenando la politica, sta pesando sull'economia.
Gli scandali si moltiplicano, e sono clamorosi. Il governo non può non vederli. E non può non sapere, in coscienza, che, come dice il Csm, la legge è "un passo indietro" pericoloso, soprattutto sul falso in bilancio, sulla concussione, sul voto di scambio, sull'antiriciclaggio, sulle prescrizioni.

Il governo non può limitarsi a registrare i veti e le pretese di chi non vuole una legge seria ed efficace. Il Paese non ha più tempo. Dunque il Premier e il Guardasigilli devono alzarsi in Parlamento per proporre le modifiche che rendano concreta la lotta contro la corruzione, in modo che chi è contrario se ne assuma la responsabilità davanti ai cittadini. Onestà non significa soltanto non rubare, ma fare ciò che è giusto e utile al Paese. E il dopo-Monti, di cui tanto si parla, si misura su queste cose e non solo sullo spread.

(20 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/20/news/non_solo_spread-44898879/?ref=HREA-1
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« Risposta #111 inserito:: Dicembre 04, 2012, 05:13:14 pm »

Non basta vincere, cambiare è un obbligo

di EZIO MAURO


Sembrava che l'unica parola fosse ormai quella dell'antipolitica. E invece si è visto che quando la parola torna ai cittadini perché i partiti danno loro la possibilità di esprimersi, di prendere parte e di contare, l'antipolitica tace, o addirittura deve inseguire. Dunque uno spazio per la politica e per i partiti esiste, anche in questo Paese dove appariva corroso e consumato: a patto che i partiti si aprano invece di arroccarsi e che la politica, di conseguenza, torni a parlare la lingua popolare della gente.

Non capita spesso, da noi, che metà dello schieramento politico metta completamente in gioco la sua leadership, il profilo di governo, la sua stessa identità affidando la scelta ai cittadini-elettori. Questa volta è accaduto, perché erano in campo due ipotesi divaricate per età, programmi, stili, progetti di alleanza e modelli culturali. Renzi aveva con sé la forza della rottura (che ha premiato nelle primarie tutti coloro che sparavano sul quartier generale), l'evidenza dell'età, l'energia del cambiamento. Tutti elementi in lui quasi antropologici, come se dicesse: sinistra e destra sono dell'altro secolo, la mia biografia è il mio programma e la garanzia del cambiamento.

Bersani aveva il peso dell'apparato ma anche il vantaggio dell'esperienza, dell'arte di governo, la capacità di trasmettere un'idea di sinistra aggiornata all'epoca che viviamo e all'Europa, un sentimento politico di sicurezza sociale che non rinnega il merito ma insegue l'uguaglianza.

Come se promettesse: la sinistra c'è ancora, è diversa dalla destra che abbiamo conosciuto e ha qualcosa da dire per governare la crisi.

Vincendo una sfida vera, senza rete di protezione, il segretario diventa leader. Ma sbaglia se pensa di aver sconfitto la voglia di cambiare, confinandola al 40 per cento. Quella domanda deborda, contagia, attende risposte. Se mai - e su questo è Renzi che deve riflettere - le primarie dicono che il tema del cambiamento è più ampio della pura questione generazionale e che il concetto di sinistra non si riduce al solo cambiamento.

Ma guai se Bersani si farà riagguantare dagli "elefanti" del partito, se si farà rinchiudere nel recinto del suo gruppo di vertice, interessato al dividendo della vittoria. Ormai è chiaro che quel partito è forte solo se è contendibile, scalabile, aperto, nuovo davvero. E qui Renzi, apriscatole del sistema, può essere più utile del "renzismo": con un'alleanza per rinnovare metodi e politica e per battere la destra, visto che l'avversario - finite le primarie - torna a star fuori e non dentro il partito. Oggi la sinistra può vincere anche per le debolezze altrui, restando ferma. Ma per convincere e governare, deve cambiare davvero, partendo da se stessa. Il cammino è cominciato: soprattutto, è obbligatorio.

(04 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/04/news/obbligo_cambiare-48025106/?ref=HREC1-2
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« Risposta #112 inserito:: Dicembre 10, 2012, 11:25:10 pm »

Monti: "Preoccupato ma non potevo evitare le dimissioni"

Il presidente del Consiglio il giorno dopo la decisione di lasciare spiega: "Le parole di Alfano erano un attestato di sfiducia anche se non espressa in modo formale". "Il mio futuro in politica? Ora non lo so"

di EZIO MAURO

IL GIORNO dopo è senza amarezza, ma con molte preoccupazioni. "Sono convinto di aver fatto la cosa giusta  -  spiega Mario Monti a chi lo chiama per un saluto nel momento in cui si apre la crisi del suo governo  -  e in ogni caso non potevo farne a meno, dopo quel che è successo. Ma sono preoccupato, naturalmente: non per me, ma per quel che vedo". Quel che il presidente del Consiglio  vede, lo si osserva anche dall'estero, e la preoccupazione per la deriva politica, istituzionale, finanziaria dell'Italia è ancora maggiore. A Monti, alla sua persona e alla sua politica, è legato il recupero di credibilità faticosamente riconquistato dall'Italia in questi tredici mesi, dopo il baratro di fiducia e di consenso in cui era precipitato il nostro Paese nei mesi di agonia del governo Berlusconi, prima della caduta del Cavaliere nel novembre di un anno fa. E questo clima internazionale di incertezza sul futuro dell'Italia e sulle capacità del Paese di rimanere ancorato all'Europa con una politica autonoma di responsabilità si somma all'apprensione per le mosse di Berlusconi.

Per tutta la giornata Monti (e anche Giorgio Napolitano, dal suo appartamento al Quirinale) hanno dovuto prendere atto di questo allarme internazionale, che può innescare una nuova spirale di sfiducia nei confronti dell'Italia, allargandosi dalle cancellerie europee agli Stati Uniti, ai mercati. "Sì, ho avuto molte telefonate dall'estero", si limita a dire Monti. Telefonate per capire cos'era successo e soprattutto che cosa può succedere adesso, in un Paese che non ha ancora compiuto il suo risanamento, e resta in una situazione complicata e difficile.

Nessuna telefonata, invece, a nessun uomo politico prima di discutere sabato sera con Napolitano al Quirinale la scelta delle dimissioni. Nemmeno i ministri più importanti erano stati avvertiti. "La mia decisione non ha avuto bisogno di un confronto politico - spiega il Capo del governo - Non è vero che mi sono consultato con gli onorevoli Bersani e Casini prima di andare al Quirinale. Non ne avevo il tempo, e in qualche modo potrei dire che non ne ho avvertito la necessità. Nel senso che mi era ben chiaro che cosa dovevo fare. Ecco perché non ne ho parlato nemmeno con esponenti del governo. Ho voluto confrontarmi soltanto con il Capo dello Stato. Poi, a cose fatte, ho chiamato Bersani e Casini. E dopo anche l'onorevole Alfano".

Ma quando è salito al Quirinale, in ritardo sull'appuntamento per colpa dell'aereo che lo riportava in Italia da Cannes, Monti in realtà aveva già preso la sua decisione. Non un orientamento per le dimissioni, ma la decisione vera e propria di lasciare, in modo irrevocabile, sottoposta soltanto alla verifica istituzionale del Presidente della Repubblica, con il quale l'intesa è stata fortissima in tutti questi mesi, e soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà interna e internazionale. "Avevo in realtà deciso da pochissime ore - dice il Premier - e più esattamente proprio durante il volo da Cannes a Roma. Ho avuto modo di pensare, inevitabilmente, a cosa aveva rappresentato per l'Italia Cannes lo scorso anno, con quel G8 all'inizio di novembre in cui il nostro governo fu messo alle strette". Le cronache ricordano l'isolamento di Berlusconi tra i Capi di Stato e di governo degli altri Paesi, la sfiducia palpabile nei confronti dell'Italia, precipitata in coda ai Pigs, dopo la Spagna e appena prima della Grecia, con i dubbi diffusi sulla nostra capacità di sfuggire al rischio default insieme con Atene.

Anche quel ricordo ha consigliato Mario Monti a scegliere la giornata festiva di sabato per la resa dei conti finale: "Ho preferito che la decisione e l'annuncio cadessero in un giorno di mercati chiusi, con ventiquattro o trentasei ore di tempo per riassorbire un eventuale "colpo", nella speranza naturalmente che il colpo non ci sia. Spiegando subito, in ogni caso, che le dimissioni diventeranno effettive solo dopo l'approvazione della legge di stabilità, che spero proprio arriverà come previsto".
La dichiarazione di Alfano che annunciava la presa di distanza del Pdl e la fine dell'esperienza del governo Monti è stata la causa definitiva della scelta del Professore perché meditata e circostanziata, dopo gli attacchi e i preannunci di crisi da parte di Silvio Berlusconi. "L'ho interpretata veramente come un attestato di sfiducia - dice Monti - anche se non espressa in modo formale. Ma non era necessario, tutto era ormai chiaro".

Chiaro anche il preannuncio di un Vietnam parlamentare, con il Pdl che puntava ad avere le mani libere in una lunga campagna elettorale, boicottando ogni provvedimento del governo (a partire dal taglio delle Province e dall'incandidabilità per i condannati) senza assumersi formalmente la responsabilità di una crisi. Monti dunque sarebbe stato rosolato a fuoco lento sulla graticola parlamentare. "È possibile, anzi è probabile - spiega il Professore -, ma non è stato questo l'elemento determinante nella mia decisione. Il fatto importante e per me decisivo è un altro: io non sento più intorno a me una maggioranza che, sia pure con riserve e magari anche a malincuore, sia capace di sostenere con convinzione la linea politica e di programma su cui avevamo concordato".

Questo venire meno agli impegni presi, questo venire meno della responsabilità condivisa da parte della maggioranza anomala che aveva accettato di far fronte al risanamento necessario, dividendosi il costo politico ed elettorale dei sacrifici, ha convinto Monti a prendere l'iniziativa formale della crisi, con un chiarimento definitivo. "Non potevo fare altrimenti - chiarisce il presidente del Consiglio -. Non sarebbe stato giusto, e nemmeno possibile. E oggi, non ha molta importanza vedere che una parte di quella maggioranza incrinata dica che non ha mai dichiarato la sfiducia in modo formale. Le cose sono chiare".
Che cosa resta? Il bilancio di quest'anno di governo in condizioni drammatiche, e Monti troverà il modo di farlo. Le telefonate di riconoscimento per l'impegno del Paese in questi mesi, venute dall'estero. E gli inviti, ripetuti, ad andare avanti, a non interrompere qui questa avventura politica e culturale nel segno dell'Europa. Molti spingono per una candidatura, per una scelta decisa, per la benedizione a qualche lista, scommettendo che Monti in politica non si fermerà qui. "Non lo so - risponde il Professore -, non lo so proprio. Se dovessi candidamente dire il mio sentimento oggi, direi che sono molto preoccupato. E non mi riferisco soltanto a quella parte politica da cui è venuto questo epilogo, con le mie dimissioni. No, la mia preoccupazione è più generale".

C'è come un senso di solitudine, il giorno dopo. Come concluderà la domenica di crisi il Professore? "Telefonando al Presidente Ciampi, per gli auguri del suo compleanno. Una voce autorevole, e amica".

(10 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #113 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:40:55 pm »

Canone occidentale

di EZIO MAURO

Dove sta l'onore di una nazione? Di fronte alle critiche che sono piovute sulla decisione di Silvio Berlusconi di ricandidarsi alla premiership, spingendo Mario Monti alle dimissioni, ritorna l'accusa di "offesa" a un intero Paese. Attaccando Berlusconi, dunque, si attaccherebbe l'Italia, la sua libertà e la sua autonomia nel momento delle scelte elettorali. Quindi quelle critiche vanno respinte e rigettate dall'intero Paese perché "antiitaliane", lesive appunto dell'onore della nazione.

In realtà non siamo affatto un Paese a sovranità limitata. Gli elettori scelgono liberamente, destra e sinistra si sono alternate al potere più volte, con piena legittimità. Solo che in democrazia il consenso bisogna ogni giorno riguadagnarselo, in patria e fuori. E in Occidente, bisogna saperlo trasformare in capacità di governare, cioè in politica coerente, efficace e credibile.

Il Cavaliere e il suo partito dovrebbero dunque domandarsi perché l'establishment europeo, il Ppe, le cancellerie e l'opinione pubblica rappresentata dai giornali esprimano queste preoccupazioni all'idea di un ritorno berlusconiano: quali ricordi e quali tracce hanno lasciato la politica e il governo della destra negli ultimi anni? Quali effetti hanno prodotto, per il Paese e la sua credibilità, i comportamenti più disinvolti e scandalosi che confondevano pubblico e privato? Quali giudizi hanno provocato le norme ad personam ripetute e insistite nel tentativo, del tutto inedito in Europa, di dimostrare
che la legge non è uguale per tutti? Quale memoria resta nel continente della dismisura come regola di vita politica e personale? E quale promessa di futuro può nascere oggi dall'irrisione dello spread, unita all'attacco alla Germania e alla nostalgia della lira?

È questo che l'Italia paga, ed è da tutto questo che deve sentirsi offesa, per il danno subito e per il costo nel suo onore internazionale. Ciò che scrivono i giornali, ciò che dicono i Cancellieri è soltanto la conferma che il canone occidentale non è quello di Arcore, cui hanno acconsentito per anni gli intellettuali italiani, una Chiesa accomodante, un establishment prono fino alla crisi del Cavaliere, quando si poteva rialzare la testa. E attenzione: il populismo antieuropeo che Berlusconi prepara per la campagna elettorale è un'altra volta un'eccezione. Che spaventa l'Europa, più dell'idea incredibile del suo ritorno.

(12 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #114 inserito:: Febbraio 05, 2013, 06:51:30 pm »

La demagogia irresponsabile

di EZIO MAURO

A tre settimane dalle elezioni, i mercati hanno votato ieri, segnalando tutto il loro allarme. Borsa in calo di 4 punti e mezzo (la più debole d'Europa), le banche che arrivano a perdere più di 6 punti, lo spread che risale di 20 punti base, a quota 285. La tregua è finita, il recupero di credibilità del governo Monti rischia di essere mangiato pezzo a pezzo, insieme col rigore e le riforme dell'ultimo anno, dalla confusione politica che porta nuovamente a galla  -  com'è inevitabile  -  tutte le debolezze drammatiche dell'Italia. Un Paese, non dimentichiamolo, che nel 2013 dovrà collocare sul mercato ben 410 miliardi di titoli per finanziarsi il debito: appena 60 in meno del 2012, l'anno peggiore del dopoguerra.

Quel che è successo è sotto gli occhi di tutti. Gli scandali Mps e Saipem trasmettono l'immagine di un sistema inaffidabile, che trucca i conti in un caso e nell'altro inganna la stessa vigilanza: Siena in più manda il segnale d'allarme di una contiguità di interessi e di potere tra la terza banca del Paese e la politica (in questo caso la sinistra), e soprattutto getta un'ombra sul mondo bancario italiano, fino ad oggi più riparato di altri mondi davanti all'urto della crisi.

In questo paesaggio di fragilità e di nuovi dubbi sull'Italia, irrompe il fattore Berlusconi. I report di tutte le banche d'affari occidentali, ieri, lo citano espressamente, per nome e cognome. Gli operatori finanziari, com'è evidente, non inseguono la piccola politica quotidiana, badano agli scarti di sistema, alle svolte, alle incognite, ai rapporti di forza. Non hanno certo in simpatia la sinistra, in qualunque Paese operi. Non è dunque il recupero di qualche percentuale da parte di Berlusconi che spaventa i mercati. È la combinazione tra il populismo elettorale, di propaganda, della destra italiana, e le possibili conseguenze che questa avventura politica rischia di proiettare sull'azione del prossimo governo, sulla linea della futura maggioranza, sullo spirito del nuovo parlamento. Sul ruolo quindi che l'Italia giocherà in Europa.

È evidente a tutti che la campagna elettorale è il luogo della radicalità, degli slogan, delle promesse, e dunque di un linguaggio forte e persino estremo. Ma in politica, almeno da parte di chi compete per governare, la radicalità elettorale va combinata con la responsabilità dell'amministrazione. Bisogna sostenere le promesse con la credibilità che si è conquistata quando si governava. Bisogna misurarle con la sostenibilità della fase in cui si governerà. Ora è evidente a tutti che l'annuncio di Berlusconi di voler cancellare l'Imu sulla prima casa (3,7 miliardi) e di restituire "in contanti" quella già pagata (altri 3,7 miliardi, per un totale di mezzo punto di Pil) è una promessa impossibile, resa non credibile dalle promesse non mantenute dal passato governo, e resa semplicemente insostenibile dalle condizioni in cui si trovano l'Italia e i suoi conti pubblici.
Ma ciò che allarma l'Europa è l'assoluta irresponsabilità politica e di governo che c'è dietro questo populismo demagogico, nel senso letterale di adulazione del popolo, attraverso i suoi istinti e i suoi interessi a breve. L'uomo che promette di cancellare l'Imu lo ha votato, per scelta libera e autonoma, nel parlamento della repubblica. L'uomo che vuole scardinare le politiche di rigore e di risanamento che Monti ha dovuto varare per rimediare ai disastri del suo governo è lo stesso leader che si è fatto garante con l'Europa del fiscal compact, prendendo impegni precisi a nome dell'Italia con la Ue e con la Bce in un momento drammatico della crisi finanziaria che minacciava di travolgere il nostro Paese. Che credibilità può avere nel suo ultimo voltafaccia?

L'irresponsabilità è massima quando si pensa che Berlusconi sa che non toccherà a lui governare, e quindi non dovrà onorare le promesse, o farsi carico delle bugie elettorali. Quindi può tranquillamente drogare il mercato elettorale alzando la posta senza pagare dazio, introducendo dinamiche politiche impazzite, perché cozzano contro la condotta tenuta fino a ieri dal suo partito in parlamento, contro gli impegni e i vincoli precisi che lui personalmente ha sottoscritto con l'Europa, compreso il pareggio di bilancio imposto a partire da quest'anno dalla Costituzione. Soprattutto, Berlusconi sa che gli avversari non possono seguirlo sul terreno dell'irresponsabilità: Monti infatti ha detto che quello dell'ex premier è un tentativo di "comprarsi i voti" dei cittadini con i soldi dei buchi di bilancio che proprio lui ha lasciato, una sorta di tentativo di corruzione elettorale, prendendo a schiaffi i sacrifici degli italiani. E Bersani ha parlato di "barzellette da Bengodi" per strizzare l'occhio agli evasori, come la proposta del Cavaliere di un nuovo condono tombale.

Ma la demagogia sull'Imu del Cavaliere cade su un terreno già dissodato dal populismo, abbondantemente arato dall'antipolitica: dunque pronto ad accogliere il seme dell'irresponsabilità nei confronti del futuro governo e del patto fiscale europeo che quel governo dovrà onorare. Se i politici sono tutti uguali e il "vaffa" mortuario di Grillo è la cifra politica della fase che stiamo vivendo, allora perché non puntare il voto sulla riffa berlusconiana e scommettere sull'ennesimo vantaggio privato - lo sconto fiscale - a danno dei conti pubblici? Basta col rigore, basta con l'Europa e magari basta anche con l'euro come dice Berlusconi ammiccando prima di ritrattare. L'Italia può farcela da sola, in fondo si stava meglio quando si stava peggio, nessuno diceva la verità e il governo procedeva nell'inganno ottimista, perché sacrifici e rigore hanno un costo elettorale che il leader populista non può permettersi, innocente e invulnerabile com'è nel cerchio perenne del carisma perfetto.

Due disperazioni rischiano di unirsi: quella politica di Berlusconi, che ha perso tutto compreso l'onore e gioca qualsiasi carta titanica pur di vincere in un campionato a parte, che è quello dell'interdizione e del condizionamento, mandando in stallo il sistema; e quella di cittadini che si sentono senza rappresentanza, soli davanti a tasse troppo alte, impoveriti e indifesi. E si capisce perché.

Ciò che non si capisce è perché la sinistra sia sulla difensiva sul tema delle tasse, come se non fosse evidente a tutti che il fisco è arrivato a livelli eccessivi nel nostro Paese, l'evasione cresce e dunque il tema è per forza di cose centrale nella contesa elettorale. Il Pd dovrebbe affrontarlo a testa alta, all'attacco, nella convinzione che i suoi strumenti culturali e politici possono essere i più adatti ad affrontare l'emergenza e la crisi, se sono capaci come dovrebbero di coniugare rigore ed equità, cioè proprio quel che è mancato a Monti. La questione fiscale deve essere discussa davanti al Paese, spiegando come la tassazione faccia parte di uno scambio civico tra lo Stato e il cittadino, che quando va a votare giudica anche la qualità e la quantità dei servizi forniti dall'amministrazione pubblica in cambio del pagamento delle tasse, in un circuito di andata e ritorno e non di solo prelievo. È questo il "capitale simbolico" che lo Stato accumula con il fisco, insieme con il capitale economico centrale, ed è questo che dà legittimità alla tassazione moderna, a differenza dei gabelli medievali imposti dal sovrano ai sudditi come "dono".

Dentro questo quadro, bisogna ricordare ai cittadini che la tassazione è cresciuta per il malgoverno di Berlusconi, la dissipazione di una maggioranza enorme, l'incapacità di realizzare le riforme promesse, il negazionismo davanti alla crisi più pesante degli ultimi decenni. Bisogna dire con chiarezza che la tassazione è troppo alta, senza lasciare questa carta alla demagogia della destra. E bisogna spiegare che si proverà a ridurla puntando sui redditi più bassi e sul lavoro, con responsabilità e coerenza davanti all'Europa. Non perché l'Europa è un vincolo: ma perché è l'unica scelta di sopravvivenza e di garanzia che il Paese può liberamente fare per il suo futuro.
Chi ci guarda, vede il rischio che la demagogia porti voti a Berlusconi proprio mentre mina le politiche di rigore e dunque la credibilità italiana. Un doppio rischio per l'Italia e per l'Europa, secondo i mercati: che il Cavaliere torni competitivo, dopo essersi rivelato incapace di governare, e che la sua predicazione irresponsabile condizioni l'opinione pubblica e dunque il futuro parlamento e il governo, facendo credere agli italiani che la crisi è passata solo perché elettoralmente conviene a Berlusconi.

Davanti a questo pericolo, si capisce che i mercati vedano, capiscano e reagiscano. Si capisce meno che non facciano altrettanto gli italiani.

(05 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #115 inserito:: Marzo 12, 2013, 06:36:10 pm »

   
I caimani

di EZIO MAURO

UN PRESUNTO uomo di Stato, che ha avuto l'onore di guidare per tre volte il governo di un Paese democratico, ieri ha organizzato una gazzarra davanti al Tribunale di Milano schierando i deputati e i senatori Pdl contro la magistratura che lo indaga per reati comuni e portandoli addirittura a rumoreggiare di fronte all'aula del processo Ruby. La scena finale resterà nelle memorie peggiori del Paese, con i parlamentari in fila contro lo Stato come dei caimani in versione Lacoste, che purtroppo trasformano in piazza l'Inno di Mameli in una marcia antirepubblicana ed eversiva.

L'ordalia finale di un leader soffocato dalla sventura costruita con le sue stesse mani  -  nella dismisura degli abusi e della corruzione, all'ombra dell'impunità  -  ha travolto infine i sedicenti moderati della destra, cancellandoli in un'omologazione estremista che annulla ogni autonomia di destino per il Pdl, costretto all'identificazione fanatica col destino padronale, nella vita come nella morte politica.

La verità è che non c'è più politica, in questo salto nel cerchio di fuoco che tutto consuma, compresi (per fortuna) i piani di qualche statista per arrivare ad un governo Pd-Pdl. Ma prima ancora, l'avventurismo berlusconiano brucia ogni ruolo istituzionale della destra, qualsiasi condivisione riformista, persino l'agibilità del Parlamento, che infatti Alfano minaccia di abbandonare come protesta per "l'emergenza democratica".

Ci aspettavamo che Napolitano non ricevesse al Colle chi dopo aver chiesto udienza al Quirinale trascina il Parlamento in piazza. Ma dal Capo dello Stato Alfano e Berlusconi impareranno che il Quirinale non è un quarto grado di giudizio. Così come dovranno capire che in democrazia non si porta il potere legislativo in strada contro il potere giudiziario. E soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per chi alza la voce perché non può dire la verità sugli scandali che lo avvolgono: e maschera la sua disperazione politica da prova di forza, trasformando un partito in un bullo collettivo, come se la democrazia fosse una taverna.

(12 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #116 inserito:: Marzo 14, 2013, 03:49:00 pm »

Rivoluzione a San Pietro

di EZIO MAURO

Un Papa a sorpresa, venuto dalla fine del mondo quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani della Curia e alla paralisi di governo che ha indebolito la vecchiaia di Benedetto XVI fino alla rinuncia. Ma un Papa che evidentemente la Chiesa preparava da tempo, se è vero che già nel 2005 Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, era uno dei due candidati forti del Conclave, sostenuto dai riformatori che poi lui stesso portò a convergere su Ratzinger, per evitare una scelta più conservatrice. Per due volte a distanza di otto anni, dunque, due Conclavi hanno elaborato la candidatura a Papa del cardinale argentino, e bisogna tener presente che nel frattempo la composizione del Sacro Collegio è cambiata per quasi il 50 per cento. La considerazione di Bergoglio è dunque alta, forte e costante nei vertici della Chiesa universale. Ma questa volta gli scandali vaticani hanno pesato in suo favore.

E hanno chiuso la porta al ritorno di un Papa italiano (cioè a Scola, il vescovo più qualificato e conosciuto) per metter fine a un sistema di potere simbolicamente impersonato dalle figure del Decano del Collegio Cardinalizio e del Camerlengo, Sodano e Bertone, che scadono con la fine della Sede Vacante. L'addio al pontificato di Ratzinger ha dunque lasciato un "segno" visibile nel Conclave. La scelta di successione a Benedetto XVI rappresenta infatti un rovesciamento geografico e culturale del potere curiale vaticano talmente evidente e simbolico da diventare un gesto politico che scuote Roma parlando al mondo. Un gesto di apertura e di speranza che chiude un'epoca e porta il Papa fuori dai Sacri Palazzi, liberandolo dal potere per sperare di ritrovarlo pastore.

Questo significato del Conclave, che ha appreso fino in fondo il "mistero" dell'impotenza coraggiosa di Ratzinger, è stato potenziato ed ampliato dalle primissime mosse del nuovo Papa, ben consapevole fin dal suo apparire sulla Loggia di San Pietro della necessità di una rottura con un mondo e un modello di potere che ha finito per imprigionare se stesso, fino a consumare la stessa azione di Ratzinger, in una sovranità infine esausta perché immobile. Bergoglio infatti nelle sue prime parole non si è mai definito Papa (cioè sovrano e Vicario di Cristo) ma vescovo, quindi pastore, e ha annunciato che il vescovo di Roma e il suo popolo cammineranno insieme.
Un richiamo quasi giovanneo, tanti anni dopo, un conferimento della maestà alla comunità cristiana, una suggestione di collegialità, in quell'invito insistito e convinto  -  prima della benedizione apostolica del Pontefice ai fedeli  -  alla preghiera della piazza e del mondo per il Papa, per non lasciarlo solo, per dargli quella forza che deriva certo da Dio per chi crede, ma anche dalla convinta e fraterna partecipazione del popolo cristiano. Mentre questa preghiera avveniva in silenzio, per la prima volta durante il rito solenne dell'Habemus Papam Jorge Bergoglio ha curvato la maestà papale verso la folla, nell'umiltà di un inchino del Sommo Pontefice che sulla Loggia non si era mai visto.

Tutto questo senza titubanze e cedimenti, ma con la sicurezza spontanea di chi si sente pronto, il sorriso di chi chiede aiuto non per timore, ma per scelta. E la prova più grande di questa umiltà personale unita all'ambizione del cambiamento viene dalla scelta del nome, che nessun Papa aveva mai osato pronunciare per sé come successore di Pietro: Francesco. Un nome che è un progetto e un vincolo per il pontificato, quasi la denuncia programmatica della necessità di un gesto estremo, un ritorno alle origini, al Vangelo, all'Annuncio, alla missione di una Chiesa disincarnata dal potere e dalle sue pompe.

Quasi un punto e a capo, nella scelta di un nome che non ha precedenti nella lunga storia del pontificato, e che suona come una promessa agli ultimi e una minaccia ai potenti. L'indicazione di un Papa che sa di dover camminare tra i lupi, che è pronto a spogliare il Vaticano dei suoi ricchi mantelli, che proverà a rinunciare alle ricchezze occulte dello Ior, che testimonierà col solo risuonare del suo nome nei Sacri Palazzi quel sogno che spinse il frate di Assisi a Roma da Innocenzo III, dopo aver avuto la visione terribile del Laterano  -  sede del Papato  -  che minacciava di crollare disfacendosi.

E' come se il Papa, già anziano nei suoi 76 anni, sentisse di non avere molto tempo di fronte all'irreparabile, la consunzione del ruolo della Chiesa attraverso gli scandali, le lotte di potere, i corvi, i peccati di Curia contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto ciò è cresciuta, avviluppando il visibile e l'invisibile della potestà vaticana e deturpandone il volto, come dice l'ultima drammatica denuncia di Ratzinger dopo la rinuncia. Papa Francesco potrà essere soltanto un uomo di rottura con questo viluppo di bassi poteri. Nel segno della preghiera come affidamento, della sobrietà come obbligo di coerenza coi valori di fede, della povertà come scelta. Quella croce semplice, di metallo su una veste tutta bianca era già la conferma di uno stile diverso anche per il Capo della Chiesa cattolica. In coerenza con la predicazione pratica del vescovo di Buenos Aires, ortodosso e fermo nella dottrina (la fede in Cristo come "alleanza" non solo "informativa ma performativa", perché non è un semplice annuncio, ma un cambiamento di tutta la vita), rivoluzionario nella scelta di stare dalla parte degli ultimi, dei più poveri, degli sconfitti e degli "schiavi", nella convinzione che su questo si svolgerà il Giudizio nell'ultimo giorno.

Questo avvento di pontificato che ribalta evidentemente la geopolitica eurocentrica della Chiesa, probabilmente grazie ad una convergenza su Bergoglio dei cardinali americani, avviene dunque nella scelta di un nome che è una profezia di cambiamento, come se dopo l'immediata preghiera con la piazza per Joseph Ratzinger il nuovo pontefice avesse fretta di voltare pagina. Il rinnovamento ha naturalmente un costo. Papa Francesco dovrà capire che nei suoi doveri universali c'è anche quello della piena trasparenza sui suoi rapporti con la dittatura militare argentina, sugli scandali di compromissione che lo hanno chiamato in causa come gesuita in vicende mai chiarite. Dovrà farlo per avere le mani libere. E poi, non potrà tornare indietro rispetto alla novità che rappresenta, al mondo finito che lo ha preceduto, alle necessità di rinnovamento dell'istituzione cristiana, al rapporto tra l'universalità della Chiesa e la chiusura del Vaticano. Al peso, al dovere e all'obbligo che deriva dalla scelta di chiamarsi Francesco.

© Riproduzione riservata (14 marzo 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/esteri/conclave-papa-elezioni2013/2013/03/14/news/rivoluzione_a_san_pietro-54521580/?ref=HREA-1
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« Risposta #117 inserito:: Aprile 16, 2013, 03:00:01 pm »

Un nome da offrire al Paese

di EZIO MAURO

   
COME succede a chi sta fermo, il Pd rischia di importare all'interno del suo recinto la crisi che paralizza un sistema impazzito. Per ora le polemiche - furibonda quella tra Renzi e Finocchiaro - dividono il gruppo dirigente. Ma se il Pd non sceglie un nome per il Quirinale, subendo l'iniziativa e le preferenze di Grillo e di Berlusconi, il gruppo dirigente rischia di dividersi dalla sua opinione pubblica di riferimento e il partito di avere un ruolo gregario nella grande partita per il Colle.

Scegliere è complicato perché il Pd ha il diritto-dovere d'iniziativa, guidando i due gruppi parlamentari più forti, ma non sa sciogliere tre nodi decisivi: vuole il voto anticipato oppure no? Vuole ancora il governo Bersani o è pronto a soluzioni diverse? Soprattutto, vuole giocare le carte condivise per il Quirinale nella metà campo col Pdl o in quella con i grillini? Su ognuna di queste opzioni, dopo l'insuccesso elettorale e un mese di logoramento sul governo impossibile, il partito, che sta già bollendo ad alta temperatura, rischia di esplodere.

C'è una sola strada per riprendere l'iniziativa, ed è una strada maestra, sia dentro il Pd che fuori. Bersani scelga un nome degno, con sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, fuori dalla nomenklatura di partito. Chieda subito ai gruppi parlamentari di sostenere la scelta all'unanimità. Poi lo presenti al Paese, spiengado le ragioni e le caratteristiche per cui quel nome può essere di garanzia per tutte le culture politiche presenti in Parlamento: tutte, non una in particolare.

E con tutti a questo punto può partire il confronto. Con le carte in tavola, alla luce del sole e i cittadini che giudicano. Senza bisogno dello streaming.

© Riproduzione riservata (16 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/16/news/un_nome_da_offrire_al_paese-56730565/?ref=HRER2-1
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« Risposta #118 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:38:03 pm »

Dopo il naufragio

di EZIO MAURO

PRIMA di tutto il Paese. Ma il Paese vive anche delle istituzioni che lo reggono e garantiscono la funzionalità quotidiana della democrazia.
Oggi le istituzioni sono in panne, e ieri si è clamorosamente capito perché. Non solo manca una maggioranza e manca un governo, ma il Parlamento è incapace di eleggere il capo dello Stato per lo spappolamento drammatico della sinistra. Quel perno non c'è più e per questo sul palazzo di Montecitorio sventola bandiera bianca. Il sistema è bloccato. Ma bisogna pur dire che l'epicentro della crisi è il Partito democratico. In pochi giorni il Pd ha travolto nella battaglia per il Quirinale un uomo antico e rispettabile come Franco Marini, gettato nella mischia senza convinzione e senza preparazione, come minimo comun denominatore di un'intesa con Berlusconi avversata e respinta dalla base del partito.

Ieri il cannibalismo cieco dei parlamentari ha bruciato addirittura Romano Prodi, padre dell'Ulivo, l'unico quadro dirigente europeo di cui dispone oggi la sinistra. Ribellione, mancanza di guida, cupio dissolvi, dipendenza dal flusso dei tweet più che da qualche corrente di pensiero. Le spiegazioni sono tutte valide e tutte stupefacenti, salvo una: la mediocrità di un gruppo dirigente e di una classe parlamentare che non risponde più a niente, nemmeno all'istinto di sopravvivenza.

Le dimissioni di Bersani sono doverose. Ma intanto tutti, segretario, fondatori e rottamatori devono essere all'altezza dell'emergenza: propongano un nome fuori dalla nomenklatura esausta del partito, scegliendo uomini che siano già un segno dell'indispensabile rifondazione della sinistra. Poi chiedano un atto di responsabilità al Parlamento e prima di tutto al partito, che da perno di una democrazia bipolare sta rischiando di diventare uno strumento inservibile della democrazia italiana. Un'altra sinistra è possibile, nell'interesse del Paese, a partire da questo naufragio.

© Riproduzione riservata (20 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/20/news/naufragio_pd-57056120/?ref=HREA-1
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« Risposta #119 inserito:: Maggio 02, 2013, 06:50:05 pm »

Il bene del paese

di EZIO MAURO


Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l'emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) - L'Italia è in difficoltà, la crisi dell'economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) -  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell'austerity dogmatica. 3) - Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all'istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent'anni.

Com'è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l'Integrazione Cecile Kyenge) sono l'unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

Il punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un'alleanza di emergenza come uno stato d'animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un'opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L'operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista - quello della destra, con le sue convenienze - come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un'opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall'altra parte, il Pd - sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente - arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un'opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell'austerity con l'Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica "rivoluzionaria" che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l'anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un'occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul "contesto". Ingigantire l'aura di questo governo, parlando di "pacificazione", di uscita dalla "guerra civile". Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all'improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti "il principio di realtà", quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la "realtà", cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all'esito finale di tutta l'operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, "obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano". Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un'altra cosa. L'abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla "realtà", ma che configura un'iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono - si devono - fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse "visioni sostantive" del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent'anni che sono state fatte in forme tutt'affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell'Italia. Qui c'è la base di un'onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c'è la coscienza dei limiti dell'emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

(30 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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