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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 104951 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Luglio 30, 2010, 10:25:36 am »

L'EDITORIALE

L'ora della libertà

La costruzione politica e mitologica del più grande partito italiano è andata in pezzi. La legalità è come una bomba nel mondo chiuso del Cavaliere. Fini ha scelto il terreno più proficuo per mettere psicologicamente e moralmente in minoranza la sua potenza, dimostrando la solitudine dei numeri e la debolezza dei muscoli

di EZIO MAURO


L'IRRUZIONE della legalità ha dunque fatto saltare per aria il Pdl, mettendo fine alla costruzione politica e mitologica del più grande partito italiano nella forma che avevamo fin qui conosciuto, come l'incontro tra due storie, due organizzazioni e due leader in un unico orizzonte che riassumeva in sé tutta la destra italiana, il suo passato, il suo futuro e l'eterno presente berlusconiano.

Tutto questo è andato in pezzi, perché la legalità è come una bomba nel mondo chiuso del Cavaliere, dove vigono piuttosto la protezione della setta, l'omertà del clan, il vincolo di servitù reciproca di chi conosce le colpe individuali e il destino comune di ricattabilità perpetua. Trasformando la legalità in politica, Fini ha scelto il terreno più proficuo per mettere psicologicamente e moralmente in minoranza la potenza del premier, dimostrando la solitudine dei numeri e la debolezza dei muscoli. In più, si è posizionato su un terreno elettoralmente e mediaticamente redditizio, dove può nascere una cultura di destra-centro che provi per la prima volta a parlare insieme di ordine e di regole, di moralità e di Costituzione.

Il rispetto delle istituzioni, la fedeltà alla Carta sono infatti l'altro grande fattore di rottura. Dalla semplice, ma insistita regolarità costituzionale con cui il presidente della Camera ha interpretato il suo ruolo e con cui ha segnato ogni suo intervento è nata una cultura politica che è rapidamente e inevitabilmente diventata antagonista rispetto al populismo berlusconiano, alla continua forzatura istituzionale, al primato della costituzione materiale basata su una concezione sovraordinata della leadership "unta" dal consenso popolare, e dunque suprema, libera da ogni separazione e bilanciamento dei poteri.

Sono queste due culture - una tutta prassi, imperio e comando, l'altra alla ricerca di uno spazio costituzionale, europeo e occidentale anche a destra - che non potevano più convivere. Disegnato il perimetro di una nuova destra-centro, Fini si è fermato ad aspettare l'inevitabile, che doveva accadere ed è accaduto. Preannunciato dal pestaggio mediatico sui giornali di famiglia e di altre famiglie asservite, un pestaggio con cui il Cavaliere annuncia sempre il suo arrivo in zona di guerra, ieri si è giunti di fatto all'espulsione, parola che non viene pronunciata nel documento del Pdl solo per un finto pudore di vocabolario, e perché ricorda troppo da vicino la pratica autoritaria del "centralismo democratico" comunista, che anche in Italia non tollerava il dissenso e cacciava i dissidenti.

È un pudore inutile, per due ragioni. La prima è che gli intellettuali e i giornali cosiddetti liberali in Italia sono strabici, e in questi anni sono riusciti a tollerare ogni sorta di sopruso ad personam: dunque ingoieranno questa repressione autoritaria del dissenso senza nemmeno ricordare quel che dicevano quando la minoranza del Manifesto fu cacciata dal Pci. La seconda ragione, è che il documento politico parla comunque chiaro, anzi chiarissimo, per oggi e per domani, fino alla parole con cui il premier rivuole indietro la presidenza della Camera, come se le istituzioni fossero cosa sua. Nessuna distinzione ideale, culturale, politica, organizzativa e soprattutto morale - dice quel testo - è possibile nel cerchio magico del berlusconismo, che giudica automaticamente "incompatibile" chi non la pensa come il leader, senza nemmeno rendersi conto dell'enormità illiberale di questa scelta. L'unica cosa che conta è l'invulnerabilità politica del Capo, anzi la sua intangibilità, nel culto sacrale dei sottoposti. Nella sua debolezza patente, spacciata per prova di forza, il Cavaliere pensa che una volta cacciato Fini il cerchio del potere tornerà a chiudersi su di lui virtuosamente come accade da quindici anni, cingendogli il capo davanti alla nazione prona e riconoscente.

Purtroppo per Berlusconi, le cose non stanno così. Questi ultimi tre mesi dimostrano che i numeri dei dissidenti sono sufficienti già oggi per farlo ballare a piacimento alla Camera, e domani al Senato. Fini ha già detto che non vuole ribaltare la maggioranza, dunque tecnicamente terrà in mano la sorte del governo ogni giorno, acquistando un rilievo evidente come attore politico e non solo come soggetto istituzionale. Ogni volta che vorrà, manderà a bagno il Cavaliere, nelle acque per lui meno salutari: la legalità, la moralità, la libertà d'informazione, l'economia, il federalismo e inevitabilmente il sistema televisivo, con il controllo totale della Rai da parte del padrone di Mediaset.

Tutto ciò, naturalmente, a condizione che il presidente della Camera sappia far politica da solo, in mare aperto, reggendo alle bastonature quotidiane che la fabbrica familiare del fango berlusconiana (sempre aperta) infliggerà a comando: con il risultato inevitabile di portare al pettine politico e parlamentare quanto prima la vergogna e la dismisura del conflitto di interessi, con buona pace dei liberali che da anni fingono di dimenticarlo. Ma Fini ha un obbligo in più: non può fermarsi, come tocca alle formazioni corsare, deve andare avanti, tessendo una politica e una cultura che se restano fedeli alla Costituzione possono essere utili alla repubblica. Vedremo se saprà farlo.

Già oggi, nel giorno dell'espulsione, due risultati politici sono chiari: il primo è il destino della legge bavaglio, sintesi delle pulsioni illiberali del premier - contro la legalità, contro l'informazione, contro un'opinione pubblica consapevole - e ormai apertamente disconosciuta dal suo autore: "Avevamo fatto un bel cavallo - ha ammesso il Cavaliere - ci ritroviamo un ippopotamo". Il fatto è che quel cavallo serviva al leader e ai suoi uomini di vertice per scappare alla vergogna degli scandali che li inseguono, a suon di intercettazioni legali, ed è stato fermato in piena corsa dalla protesta dei cittadini, dei movimenti, dell'opposizione parlamentare, di questo giornale, ma anche dalla tenuta dell'asse istituzionale tra Fini e Napolitano. Il secondo risultato politico è una conseguenza: la rete larga di opinione, di istituzioni e di politica che ha detto no al sopruso berlusconiano rende di fatto impossibile il ricorso da parte del Cavaliere all'arma fine di mondo, le elezioni anticipate.

Indebolito nel presente, bloccato nel futuro, il premier vede andare in frantumi anche l'epopea eroica con cui racconta il suo passato. Ciò che viene meno dopo la rottura con Fini è infatti lo stesso mito fondativo, l'epica primordiale dell'uomo che con l'alito creatore dà vita alla destra, indicandole nello stesso tempo il frutto proibito del dissenso, mentre ammonisce terribile e paterno: "Non avrai altro dio all'infuori di me". Da oggi, il creatore del Pdl torna ad essere una creatura politica come le altre, mentre anche a destra comincia finalmente la stagione inedita del politeismo, che porterà per forza al rifiuto del vitello d'oro: è solo questione di tempo.

L'unica soddisfazione, misera, è per l'istinto padronale di Berlusconi, che non misura la partita in termini di politica, ma di comando. Il Capo è appunto un uomo solo al comando, circondato dai Verdini, i Dell'Utri e i Brancher, che gli devono tutto e a cui lui deve di più, come dimostra l'intreccio esoso delle servitù incrociate, all'ombra degli scandali che circondano il fortino in cui è rinchiuso il governo, senza politica. L'unica politica, l'unico collante, l'unica ragione per rimanere in piedi è ormai il federalismo, un'ideologia altrui, che Berlusconi accetta per placare Bossi: inquieto ogni volta che deve spiegare alla sua gente gli affari, i favori, le manovre segrete della P3.

È un conto alla rovescia, oggi che nel popolo berlusconiano è cominciata davvero l'ora della libertà.

(30 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/30/news/ezio_mauro_pdl-5940641/?ref=HREA-1
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 30, 2010, 05:20:33 pm »

L'EDITORIALE

La fiducia avvelenata

di EZIO MAURO

DOPO due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l'autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.

Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l'asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.

Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all'altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com'è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com'è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.

È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l'equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L'esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell'ipotesi di autosufficienza dell'asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?

La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del '94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l'Italia  -  salvo brevi parentesi  -  per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all'epoca del peggior Caf, nell'agonia della prima repubblica.

(30 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/30/news/la_fiducia_avvelenata-7567501/?ref=HREA-1
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:41:00 pm »

EDITORIALE

Il ritorno dei cittadini

di EZIO MAURO

NON c'è un elemento politico e culturale unificante nelle proteste per i rifiuti che infiammano il Sud e nella rivolta degli studenti che entrano nel Colosseo, per far viaggiare attraverso Internet l'immagine della loro ribellione in tutto il mondo. Non c'è nemmeno uno schema politico d'opposizione organizzata, nonostante l'accorrere di tanti leader sui tetti della protesta, diventati il vero luogo politico provvisorio della contestazione al governo. C'è però qualcosa di più, che si sta raccogliendo in tutto il Paese per scaricarsi nel Palazzo: la sensazione che il sentimento politico degli italiani stia cambiando.

Ci avevano detto che c'era solo il popolo, in dialogo diretto e permanente con il leader: ed ecco che tornano i cittadini. L'irruzione degli attori sociali sulla scena rompe la solitudine del calcolo politico, che rischia di parlare solo a se stesso, con le idee e le persone ridotte a numeri, senza dare le risposte che la parte del Paese in movimento si aspetta, anzi ormai pretende. Indebolita per mesi e mesi dalla crisi economica e finanziaria mondiale, e adesso spaventata dai possibili effetti della tempesta irlandese, l'Italia è stata fino ad oggi un Paese molto responsabile, che ha accettato tagli e riduzioni rimodellandosi ogni volta su misure inferiori e impoverite. Soprattutto nel campo culturale, sanitario, scolastico, e cioè in quel moderno perimetro di un welfare europeo allargato, che per la destra al governo sembra l'unica rendita attaccabile in tempi di difficoltà e ridimensionamento.
In questo senso, possiamo dire che il Paese ha condiviso la crisi e ha riconosciuto autonomia al governo nel decidere le contromisure, facendosene carico in silenzio fin qui.

C'è però un limite alla delega passiva, alla compressione sociale, alla riduzione degli spazi culturali, al carico di tagli e tassazione su scuola pubblica e università: tutto ciò, insomma, "che non si mangia", come ha allegramente spiegato un ministro, illustrando alla perfezione la gerarchia gastrica di questo governo. Ad un certo punto la scelta di scaricare la crisi sul sociale, sul welfare e sulla cultura cambia di misura, diventa un'ideologia, come tale viene riconosciuta, e produce una reazione. Meglio ancora, produce politica, perché rapidamente quella reazione diventa una risposta politica, che si inventa spazi, riti, soggetti e linguaggi. E soprattutto, si manifesta in luoghi simbolici ma imprendibili e diffusi ovunque nella quotidianità del Paese, come i tetti, e dai tetti si sporge verso il Palazzo, sul quale pesa una crisi di governo conclamata, sospesa e rimandata a data destinata, dunque incapace di produrre qualsiasi effetto politico comprensibile e concreto.

La raffigurazione dei due momenti contrapposti della politica italiana di oggi - quello ufficiale, quello sociale - è dirompente. L'attore sociale chiede conto all'attore politico di come ha speso tempo e atti di governo per rispondere alla crisi, che sta toccando con mano. Chiede ragione della selezione sociale che diventa esplicita ed evidente. Chiede il perché delle bugie raccontate a Napoli e dintorni sul miracolismo dei rifiuti, in due anni di visite propagandistiche, con svincolo a Casoria.

La politica non sa rispondere. Anzi, è bastato questo movimento spontaneo nella società per mettere in mora la miserabile compravendita di parlamentari in corso in questi giorni, come se i problemi del Paese si risolvessero con il portamonete e il pallottoliere. Così, la compravendita mostra tutta la nudità di una politica che si riduce alla sopravvivenza extracorporea perché non sa giustificarsi e legittimarsi altrimenti. Anzi, la compravendita proclama la negazione della politica, perché va in scena quando la politica è già finita, e tutto diventa artificiale.
Può pensare il Presidente del Consiglio non di galleggiare, ma di rispondere ai problemi che il Paese ha di fronte a sé con due o tre voti in più, ammesso che li trovi? E soprattutto, non vede il prosciugamento definitivo di valori, progetti, strategie, se tutta la spinta propulsiva della vittoria elettorale di due anni fa finisce per inaridirsi e immiserirsi nel fissare il prezzo di un'astensione, il vitalizio per un cambio di bandiera?

La rottura traumatica della maggioranza è un fatto politico di tutto rilievo. Un leader deve dare una risposta altrettanto politica davanti al Paese, non mercantile e nemmeno di sopravvivenza in carica personale. E la risposta deve partire prima di tutto da un'assunzione di responsabilità, perché il governo ha il dovere di definire la crisi economico-finanziaria, di dare finalmente un nome alla fase che stiamo vivendo, indicando posizione e ruolo dell'Italia, illustrando i punti di tenuta e le fragilità del nostro Paese, e a quel punto decidendo le politiche che ne conseguono. Ma questa assunzione di responsabilità - che in democrazia è un dovere dei governanti - fino ad oggi è mancata.

Le opposizioni dovrebbero capire che questo è un ottimo momento per la politica. Come dice il Presidente della Repubblica, di fronte ai rischi a cui è oggi esposto un Paese fragile c'è bisogno di stabilità. Ma dove va cercata questa stabilità? È la stabilità del sistema Paese che conta, la sua tenuta interna ed esterna, la qualità della sua democrazia. Mentre questo quadro politico disastrato è un elemento di fragilità, non di forza, come dimostra l'incapacità persino di arbitrare i conflitti al suo interno. Si deve avere il coraggio di dire che una cultura politica, quella del populismo berlusconiano che radicalizza a destra il Paese, è al suo esaurimento, anche perché non è in grado di dare risposte ai soggetti sociali - potremmo dire ai cittadini -, abituata com'è a parlare al "popolo" indistinto, e inteso come pura fonte di potere e di comando.

Dunque, questa cultura politica può essere sfidata: in parlamento con la sfiducia, e anche con il tentativo di raccogliere le forze disponibili in una maggioranza di responsabilità repubblicana, se così vogliono le Camere. E in ogni caso questa cultura può essere sfidata pubblicamente davanti ai cittadini, nel voto. E può essere battuta, dopo che si è già rivelata improduttiva. Non bisogna aver paura della democrazia e dei suoi passaggi, né dal centro, né da destra né da sinistra, soprattutto quando un'altra idea d'Italia è possibile.

(26 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/11/26/news/ezio_mauro_universit-9516250/?ref=HRER3-1
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« Risposta #63 inserito:: Novembre 27, 2010, 04:43:02 pm »

Il potere irresponsabile

di EZIO MAURO

Che cosa sta succedendo?
Con una procedura d'allarme totalmente inconsueta in Occidente il Consiglio dei ministri all'unanimità ha denunciato ieri in un comunicato ufficiale "vicende delicate" che rivelano "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale".
 
Il riferimento è alle prossime rivelazioni di Wikileaks, allo scandalo Finmeccanica, alla "diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei". Quattro realtà che non hanno alcun legame tra di loro, ma che secondo il governo "impongono fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale" e addirittura "la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

È qualcosa di mai visto. Terrorizzato dall'idea che i documenti di Wikileaks svelino il reale giudizio di Washington su Berlusconi, e qualcosa di peggio sulle sue relazioni personali con qualche leader straniero, il governo evoca l'ultimo fantasma populista, il complotto internazionale, al quale mette in conto le sue deficienze più gravi  -  Napoli e Pompei  -  e la sua inquietudine più oscura, per lo scandalo Finmeccanica. Nell'ombra del comunicato, aleggia il non detto sull'eco internazionale dei riti berlusconiani di bunga bunga, e delle nipoti di Mubarak inventate per imbrogliare la questura di Milano.

È il ritorno della strategia della tensione, ad uso e consumo privato di un Premier spaventato che non esita a drammatizzare la sua crisi fino all'estremo,
indebolendo ed esponendo gravemente l'Italia nella percezione delle cancellerie, dell'opinione internazionale, dei mercati. È un gesto pericoloso, che dimostra una totale mancanza di responsabilità. Ed è umiliante che nessun ministro abbia sentito il dovere di distinguersi, con un richiamo alla realtà.

Che cosa si aspetta ancora per formalizzare questa crisi ogni giorno più evidente, restituendo autonomia alla politica e sicurezza al Paese?

(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/27/news/potere_irresponsabile-9557403/?ref=HREA-1
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 03, 2010, 04:10:26 pm »

L'EDITORIALE

Dimissioni
di EZIO MAURO

In un brutto giorno per l'immagine del nostro Paese nel mondo, il Presidente del Consiglio ha incassato tre sfiducie, che lo rendono ormai palesemente inadatto a governare una grande democrazia occidentale.

In Parlamento Fini, Casini, Rutelli e Lombardo hanno portato tutti i loro uomini a firmare una formale mozione di sfiducia nei confronti del governo e dunque a partire da oggi, sommando queste firme con quelle già pronte del Pd e dell'Idv, il ministero Berlusconi non ha più una maggioranza politica.

Ma dalla valanga di WikiLeaks emerge un altro elemento di drammatica e crescente fragilità. È la insistita e costante diffidenza dell'amministrazione americana  -  espressa nel normale svolgimento del suo lavoro quotidiano riservato e dunque autentica  -  nei confronti del Premier italiano a causa del suo rapporto pericoloso con Putin. Una relazione che la diplomazia americana sospetta basata su affari inconfessabili e addirittura su tangenti, oltre che su un mimetismo machista e autoritario: e che viene descritta nei dispacci riservati come innaturale per un leader occidentale, dunque politicamente allarmante.

Infine, com'era naturale attendersi, questa serie crescente e patente di anomalie (che Repubblica denuncia da anni, ma che molti scoprono solo oggi, di rimbalzo dall'America) provoca delusione, disagio e inquietudine all'interno dello stesso santuario del potere berlusconiano in disfacimento, da dove escono i racconti ormai rassegnati ed esasperati dell'inner circle del Premier: dall'ossessione
per i festini agli scontri con Napolitano, all'uso politico pilotato degli scandali altrui, nel tipico disvelamento che accompagna ogni crepuscolo di regime.

Davanti a queste tre sfiducie il Presidente del Consiglio ha un dovere preciso. Salga dal Capo dello Stato per assumersi per una volta la responsabilità di questo indebolimento del Paese e del suo sistema politico e istituzionale, e annunci subito che si dimetterà un minuto dopo il voto sulla legge di stabilità economica: evitando così di provocare altri danni all'Italia.

(03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/03/news/editoriale_mauro-9786210/?ref=HREA-1
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« Risposta #65 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:02:30 am »

Il potere irresponsabile

di EZIO MAURO


Che cosa sta succedendo? Con una procedura d'allarme totalmente inconsueta in Occidente il Consiglio dei ministri all'unanimità ha denunciato ieri in un comunicato ufficiale "vicende delicate" che rivelano "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale".
 
Il riferimento è alle prossime rivelazioni di Wikileaks, allo scandalo Finmeccanica, alla "diffusione ripetuta di immagini sui rifiuti di Napoli o sui crolli di Pompei". Quattro realtà che non hanno alcun legame tra di loro, ma che secondo il governo "impongono fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale" e addirittura "la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

È qualcosa di mai visto. Terrorizzato dall'idea che i documenti di Wikileaks svelino il reale giudizio di Washington su Berlusconi, e qualcosa di peggio sulle sue relazioni personali con qualche leader straniero, il governo evoca l'ultimo fantasma populista, il complotto internazionale, al quale mette in conto le sue deficienze più gravi  -  Napoli e Pompei  -  e la sua inquietudine più oscura, per lo scandalo Finmeccanica. Nell'ombra del comunicato, aleggia il non detto sull'eco internazionale dei riti berlusconiani di bunga bunga, e delle nipoti di Mubarak inventate per imbrogliare la questura di Milano.

È il ritorno della strategia della tensione, ad uso e consumo privato di un Premier spaventato che non esita a drammatizzare la sua crisi fino all'estremo, indebolendo ed esponendo gravemente l'Italia nella percezione delle cancellerie, dell'opinione internazionale, dei mercati. È un gesto pericoloso, che dimostra una totale mancanza di responsabilità. Ed è umiliante che nessun ministro abbia sentito il dovere di distinguersi, con un richiamo alla realtà.

Che cosa si aspetta ancora per formalizzare questa crisi ogni giorno più evidente, restituendo autonomia alla politica e sicurezza al Paese?

(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/27/news/potere_irresponsabile-9557403/?ref=HREC1-1
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« Risposta #66 inserito:: Dicembre 09, 2010, 10:57:52 am »

L'EDITORIALE

di EZIO MAURO

Il ciclone WikiLeaks e il bisogno di capire Julian Assange, fondatore di WikiLeaks
CHE dice di noi, il ciclone WikiLeaks? Si può cominciare a rispondere, oltre le voci segrete degli ambasciatori americani svelate dai cable che Julian Assange ha rovesciato sul mondo, prima di consegnarsi all'arresto a Londra, per l'accusa di stupro. Questa vicenda parla di tre cose che potremmo riassumere in una formula: informazione, potere e democrazia al tempo di Internet.

Internet, oggi giunto alla sua massima potenza, è lo strumento usato da WikiLeaks per scardinare i forzieri della superpotenza diplomatica americana ed estrarne i segreti che riguardano tutto il mondo, dal Medio Oriente alla Cina, all'Iran, all'Europa, alla Corea. Il primo problema è la vulnerabilità dei segreti di Stato. Ovviamente le democrazie - e una grande democrazia come gli Stati Uniti - sono più esposte a queste infiltrazioni dei sistemi chiusi e bloccati come gli Stati autoritari, sia per la libertà dei mezzi d'informazione e l'autonomia dei soggetti sociali, e sia perché seguono regole e procedure collaudate e conosciute nello scambio interno di dati e notizie su alleati, competitori e avversari.

Gli Stati - e le democrazie tra loro, ovviamente - prevedono procedure riservate nei passi più delicati della loro governance, e anche momenti segreti, a tutela della sicurezza nazionale. Ma gli Stati democratici si muovono sempre più nell'obbligo della trasparenza e della pubblicità, mentre i cittadini grazie alla crescita e alla velocità dell'informazione pretendono ormai di conoscere e monitorare i processi
di scelta e di formazione delle decisioni, senza accontentarsi di commentare il risultato finale. Da qualche anno, potremmo dire, la politica è tutta "esposta", senza riserve, salta il confine tra la scena e il retroscena, il meccanismo decisionale ha rilievo quanto e come l'opzione finale.

Oggi facciamo un passo in più dentro una nuovissima stagione. I mezzi ubiqui, veloci e contemporanei cambiano il concetto di segreto così come cambiano la nozione stessa di trasparenza. Cosa significa il timbro di riservatezza sul dispaccio di un ambasciatore, quando l'intera banca dati diplomatica di una superpotenza può saltare in pochi minuti? E fin dove arriva la nozione di "pubblico", patente e trasparente, nel momento in cui il cittadino è trasportato da Internet dentro il flusso stesso della documentazione protetta, può navigare a suo piacimento tra i segreti, recuperare il passato negli archivi, usare le chiavi personali di lettura, creare percorsi interpretativi che la lettura ufficiale e istituzionale delle carte non solo non prevede, ma neppure conosce?

Tutto ciò che crea un cittadino più informato lo fa anche più esigente. Il cittadino che ha imparato a conoscere, pretende di sapere. Non ritorna a casa, davanti alla televisione. Tecnicamente, non gli importa dell'accusa di stupro ad Assange: sa che seguirà l'inchiesta e l'eventuale processo, e attraverso l'informazione sarà in grado di distinguere tra reato individuale e responsabilità personale da un lato, e interesse generale alla pubblica conoscenza dall'altro. Oggi, il cittadino vuole che quel flusso di informazione continui, perché nessuno rinuncia coscientemente a capire come funziona il mondo, se ne ha la possibilità, o a vivere un pezzo di storia in diretta.
E qui, interviene il giornalismo. Perché 250 mila files, 250 milioni di parole, sono una massa di dati non intellegibili. Si scopre, finalmente, che conoscere non è sapere, che guardare non è vedere, che ciò che conta è capire. Nel grande flusso di Internet, contano le regole del fiume, la velocità di scorrimento dei "pieces of news" e la portata. Ma per capire, serve di più. E Assange ha dovuto rivolgersi al giornalismo, consegnandogli tutta la massa di informazioni sottratte al potere e chiedendogli semplicemente di renderla comprensibile, trovando le chiavi per decifrarla. E il giornalismo ha lavorato, sta lavorando, esattamente per dare al lettore-cittadino la possibilità di decifrare, interpretare, comprendere e alla fine giudicare, a ragion veduta.

Internet apre la porta del potere, e trasporta nel suo flusso i materiali. Il giornalismo legge quei materiali, e riesce a farli leggere, perché opera per l'intelligenza degli avvenimenti. Questo avviene con l'uso degli strumenti tipici del giornalismo quotidiano, davanti ai grandi eventi e agli avvenimenti minori: la selezione delle notizie, la gerarchia tra i fatti, la relazione tra le vicende, il recupero degli antecedenti, l'individuazione dei protagonisti, palesi o occulti, l'illuminazione degli interessi in gioco, legittimi o illegittimi, alla luce dell'interesse generale. E infine, l'esercizio della responsabilità.

Perché il giornalismo è anche coscienza di un limite, uso responsabile di un potere. Il diritto del cittadino di conoscere e di sapere infatti è un diritto assoluto, in democrazia, ma non è un diritto cieco. E infatti i giornali hanno usato la loro responsabilità nella selezione dei materiali, e nel deciderne la pubblicazione. Sono stati esclusi i file con nomi e cognomi di persone esposte in Paesi dove vige la pena di morte. Sono stati informati il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca dei materiali prescelti, e si sono ascoltate le loro osservazioni, a tutela di soggetti a rischio. Infine, è l'ultimo caso, il Guardian ha deciso di non pubblicare l'elenco delle infrastrutture occidentali che gli Usa considerano a rischio di attacchi terroristici. Perché, come scrive Javier Moreno, il direttore del Paìs, "tra gli innumerevoli doveri di un giornale non c'è quello di proteggere i governi da situazioni imbarazzanti", se queste situazioni sono interessanti per i lettori, che hanno il diritto di conoscerle; e il direttore del New York Times, Bill Keller, aggiunge che "illuminare gli obiettivi, i successi, i compromessi e le frustrazioni" della diplomazia di un grande Paese "è di pubblico interesse". Ma nello stesso tempo - e le due cose stanno insieme - il diritto del cittadino di sapere non è disgiunto dal suo dovere di farsi carico della democrazia. E questo, naturalmente, vale anche per il cittadino-giornalista.

L'imbarazzo delle democrazie è l'ultimo elemento, ed è il denominatore comune del caso WikiLeaks. Ma anche qui, c'è un punto su cui riflettere. Dovunque, tra le democrazie occidentali e i loro governi, il Cablegate ha provocato soltanto imbarazzo, qualche problema di galateo internazionale, e nulla più. Leggere che nei dispacci americani Angela Merkel è "teflon", resistente e respingente, non provoca ripercussioni in Germania. Scoprire che per i diplomatici Usa Nicolas Sarkozy è un "monarca impulsivo" non inquieta Parigi. Veder scritto in un cablo al Dipartimento di Stato che Zapatero è "astuto come un felino", non è un problema per Madrid. Perché invece in Italia Wikileaks ha provocato un terremoto politico, addirittura preventivo, col governo che ha evocato addirittura un complotto mondiale contro il nostro Paese, e Frattini che ha parlato di 11 settembre?

Perché i rilievi degli ambasciatori ai leader delle altre democrazie europee, riguardano tutti la parte visibile delle leadership, ciò che si conosce, ciò che è pubblico. I rilievi al Capo del governo italiano riguardano, tutti, la parte invisibile, ciò che è celato, camuffato, nascosto alla pubblica opinione. Legami con Putin incomprensibili dal punto di vista della responsabilità occidentale, e dunque per gli Usa pericolosi e basati su affari inconfessabili. Dichiarazioni private di debolezza per estorcere pubbliche parate congressuali a Washington, da mistificare nelle televisioni italiane come prove di forza. Confessioni amareggiate dell'inner circle del Premier, su un potere che sta ormai evaporando.

La lezione è dunque che il potere italiano traballa più di altri, davanti al ciclone WikiLeaks proprio perché è un potere chiuso, opaco, non trasparente, con elementi di forte anomalia per una democrazia occidentale, con evidenze di fragilità crescente nella capacità di governo unite ad aspetti oscuri che inquietano gli alleati. Si capisce bene, a questo punto, il tentativo berlusconiano di banalizzare le rivelazioni non potendo gestirle, spiegarle, giustificarle, in quanto fanno parte degli arcana imperii che rendono diversa la nostra democrazia. Si capisce meno bene l'impotenza delle altre forze politiche, di vecchia e nuova opposizione, davanti alla portata di questa vicenda. L'unica cosa chiara ai cittadini è che il sistema politico non capisce il cambio di stagione determinato da WikiLeaks perché mentre il ciclone stava già soffiando era come sempre accomodato in poltrona davanti alla televisione italiana a reti unificate: credendo che la vecchia cornice del Tg1 e del Tg5, costruita dalla politica, fosse ancora in grado di inquadrare il mondo, mentre il mondo era già cambiato.
 

(09 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/09/news/il_ciclone_wikileaks_e_il_bisogno_di_capire-9986564/?ref=HRER1-1
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« Risposta #67 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:14:54 pm »

L'EDITORIALE

La partita comincia ora

di EZIO MAURO

CON tre voti di maggioranza, strappati in extremis ai finiani nell'ultima compravendita notturna, Berlusconi rimane a Palazzo Chigi.
Ma per fare che cosa? Quel margine precario, appeso a mille promesse impossibili, nel giorno per giorno non consentirà al Premier di far approvare più nulla. Ma a Berlusconi i voti non servono per governare: gli servono per comandare. Ieri li ha avuti, e tanto gli basta. La politica può aspettare, il Paese anche.

Per il Cavaliere era più importante la prova di forza con Fini, sulla fiducia. L'ha vinta e, letteralmente, questa vittoria per lui non ha prezzo. Ma da oggi, l'opposizione conta un partito in più, e comperando i pontieri il Premier ha divorato anche l'ultimo ponte coi finiani. L'unico modo per sopravvivere davvero alla vittoria di ieri, è allargare la maggioranza all'Udc. Ma Casini non ha alcuna convenienza a cambiare una linea costruita negli anni, e dirà di no.

La Lega aspetta di intascare il federalismo, e dà i 30 giorni a Berlusconi. O riesce a catturare Casini, o si andrà al voto. Dunque le elezioni sono l'esito più probabile e alla fine più giusto. Ecco perché Fini dovrà dimettersi dalla presidenza della Camera, per fare liberamente la sua battaglia politica decisiva: e farla probabilmente dal centro  -  in una posizione che fa comodo anche al Pd  -  visto che a destra l'eredità post-berlusconiana gli è preclusa.

Insomma, il Cavaliere ha vinto, ma la partita è appena cominciata.



(15 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/15/news/la_partita_comincia_ora-10212884/?ref=HREA-1
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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 14, 2011, 11:22:42 am »

FIAT

Le ragioni di Marchionne e le ragioni di tutti

Da una parte c'è la globalizzazione dall'altra si chiama in causa la democrazia.

Senza una società solidale, i singoli devono cercare risposte individuali a problemi collettivi

di EZIO MAURO


DUE, TRE cose sulla Fiat e il Paese prima che si conoscano i risultati del referendum di Mirafiori. Prima, per ragionare fuori dall'orgia ideologica di chi si schiera sempre con il vincitore e di chi pensa che i canoni della modernità e del progresso  -  oggi  -  sono sanciti dal rapporto di forza.

Il voto e la sfida di Torino non disegneranno un nuovo modello di governance per l'Italia, come sperano coloro che oggi attendono da Marchionne quel che per un quindicennio ha promesso Berlusconi, senza mai mantenere. Soprattutto non daranno il via né simbolicamente né concretamente  -  purtroppo  -  ad una fase generale di crescita del Paese. Il significato della partita di Mirafiori è un altro, e va chiamato col suo nome: la ridefinizione, dopo tanti anni, del rapporto tra capitale e lavoro.

Un manager che è lui stesso transnazionale, che ha spostato il baricentro della Fiat da Torino a Detroit, ha liberato la famiglia proprietaria dal vincolo centenario con l'automobile ma anche dalla responsabilità verso il Paese, ha deciso un assemblaggio multinazionale dei prodotti che cambierà per sempre la fisionomia e la natura dell'automobile italiana, cambia a questo punto anche le regole del gioco.

Se devo vendere nel mercato globale  -  dice Marchionne all'operaio  -  devo produrre al costo e alle condizioni di quel mercato, e se in Italia le condizioni e i costi sono diversi devono adeguarsi: solo così io investirò a Mirafiori,
altrimenti andrò in Canada.

Dammi dunque il tuo lavoro secondo le mie necessità, in cambio ti darò più salario e il posto. Non c'è altro perché il posto, in tempi di crisi e di esclusione sociale, diventa la suprema garanzia e ne assorbe ogni altra. Anzi, perché l'investimento sia redditizio, ho bisogno di un controllo totale della produzione, via dunque i diritti (lo sciopero, la rappresentanza) perché sono una variabile indipendente, che rompe il modello di controllo: questo è il nuovo diritto-dovere in cui si esercita la libertà d'impresa. Le ragioni di Marchionne sono quelle della globalizzazione. Ma ci sono anche le ragioni degli altri, che sono le ragioni di tutti, perché chiamano in causa addirittura la democrazia.

Noi vediamo che in questo schema il rapporto tra capitale e lavoro si semplifica perché perde ogni cornice, si rinchiude nella fabbrica, smarrisce ogni valenza nazionale, dunque simbolica, quindi politica. Separato dai diritti, il lavoro torna ad essere semplice prestazione, merce. Ma insieme con i diritti, il lavoro diventava un elemento di dignità e di emancipazione (concetti più ampi del solo, indispensabile salario), dunque di cittadinanza, dando un senso alla Costituzione che lo pone a fondamento della Repubblica proprio per queste ragioni, intendendo in sostanza che senza libertà materiale - nel senso più largo ma anche più concreto del termine - non c'è libertà politica.

Ora, nessuna tra le parti in causa accetterebbe di definire la democrazia come un valore relativo, comprimibile in particolari condizioni davanti a specifiche esigenze. Bene. Ma vediamo oggi che alcune componenti della democrazia, cioè i diritti legati al lavoro (che sono anche i diritti dei più deboli, portatori delle maggiori disuguaglianze) possono essere comprimibili, se il mercato lo vuole, dunque diventano relativi. Soprattutto, questo non rappresenta un problema generale, ma solo dei singoli interessati, che senza più una classe di appartenenza, un partito di rappresentanza, una società con il senso del legame solidale tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, devono ormai cercare risposte individuali ad una questione collettiva: che non riescono più a far diventare una questione di tutti, vale a dire politica nel senso più alto del termine. Mentre le ragioni del mercato, le ragioni della produzione, vengono considerate comunemente come un problema generale, da condividere.

La vicenda si compie nella cornice spettacolare e dirimente del referendum, dove si confrontano apertamente il sì e il no. Ma qual è il grado di libertà dell'operaio di Mirafiori che va a votare (qualunque sia la sua scelta), sapendo di avere in realtà una sola risposta a disposizione, perché il no equivale alla perdita del posto di lavoro, per sé e per gli altri? Sarà anche questo un problema di democrazia sostanziale, appunto di libertà, oppure per gli operai valgono regole a parte?

Dico questo pensando che sia un grave errore non partecipare al referendum e comunque non riconoscerne l'esito, che deve essere in ogni caso vincolante per tutti, anche nelle condizioni date. Non solo: credo anche che l'urto della globalizzazione, che ci costringe a fare i conti non soltanto tra noi e gli altri (i Paesi emergenti), ma tra noi e noi, resettando regole e condizioni, non vada lasciato interamente sulle spalle dell'imprenditore. Ma c'è pure un modo per negoziare produttività, competitività, compatibilità salvaguardando nello stesso tempo i diritti legati al lavoro, semplicemente perché sono a vantaggio di tutti e dunque a carico di ciascuno, in quanto fanno parte del contesto democratico in cui viviamo, della moderna civiltà italiana ed europea.
Per questo è stupefacente l'incultura gregaria della sinistra che ha smarrito il quadrante della modernità e della conservazione, e pensa che l'innovazione sia cedere al pensiero dominante perché non ha un'idea propria del lavoro oggi, delle nuove disuguaglianze, del legame tra modernizzazione, partecipazione e solidarietà, come dice Beck, quindi la London School of Economics, non un'università marxista del secolo scorso: "Se il capitalismo globale dissolve il nucleo di valori della società del lavoro si rompe un'alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia", quella democrazia che è venuta al mondo in Europa proprio "come democrazia del lavoro". Cosa c'è di più innovatore e progressista che difendere questo nesso della modernità occidentale, che lega insieme l'economia di mercato, il welfare e la democrazia quotidiana che stiamo vivendo in questa parte del mondo?

Gregaria la sinistra, parassitaria la destra di governo, che usa la forza altrui esclusivamente per regolare i conti ideologici del Novecento visto che non è riuscita a saldarli per via politica, non avendone l'autorità. Ed è un puro ideologismo, non un semplice infortunio, il plauso del Capo del Governo all'idea che la Fiat debba lasciare l'Italia se dovesse perdere il referendum, punendo Torino, le famiglie operaie, l'indotto, il Paese per leso liberismo, altrui. Come se il dividendo ideologico (peraltro preso a prestito) fosse per il Capo del governo italiano più importante del lavoro, della sicurezza, del destino di una città e di un Paese.

Il vuoto della politica ha impedito di chiedere a Marchionne, mentre fissa nuove regole agli operai, di spiegare natura, rischi e potenzialità dell'investimento promesso, chiarendo anche, se il costo del lavoro pesa per il 7 per cento nel valore di un'automobile, quali sono le garanzie dell'azienda che anche tutto ciò che dà forma al restante 93 per cento si stia rimodellando in funzione delle nuove esigenze del mercato mondializzato, per riguadagnare le quote perdute di competitività: garantendo profitti e lavoro. Se la sfida è globale, riguarda appunto tutto e tutti.

Ma il vuoto della politica è più grave se si alza lo sguardo da Mirafiori e si raccorda la Fiat all'Italia. Un Paese fermo legge la sfida di Marchionne come una rivoluzione copernicana e una riforma capitale non del sistema di produzione ma delle relazioni di potere che lo governano: come se fosse possibile per la politica acquistare in outsourcing le riforme che non è capace di produrre in proprio, e gestirle senza condivisione.

La realtà è che l'innovazione berlusconiana del '94 si è accontentata della conquista del potere ed è invecchiata esercitandolo, insieme con tutti i protagonisti in campo - sempre uguali, sempre gli stessi - di maggioranza e d'opposizione. Attorno il mondo ha fatto un giro, è nata Google, è rinata al mercato la Cina: l'Italia è ferma. Guidandola, Berlusconi diventa il simbolo di un Paese bloccato, il cui immobilismo non può però certamente dipendere solo da lui. Attorno alla politica nazionale, il sistema non ha più prodotto uomini riconosciuti come quadri internazionali dalla comunità europea e mondiale, come ai tempi di Ruggiero, Prodi, Monti, Padoa Schioppa, Bonino. Tolta l'eccellenza della moda e in particolare del lusso (che non può trainare da solo l'economia di un Paese) è ferma la produttività e la competitività del sistema industriale, quindi della crescita. Ma appassisce persino la stessa vecchia scuola delle Partecipazioni Statali, declina l'università e tutto il sistema d'istruzione - vero investimento a medio e lungo termine sul futuro -, le televisioni sono diventate inguardabili salvo le nicchie di Sky e della nuova "7". L'establishment ha confermato di non esistere, accontentandosi di essere un network di autoprotezione da rotocalco, incapace di svolgere la funzione nazionale di un richiamo alle regole e ai canoni europei, ma preferendo adattarsi al modus vivendi di un Paese rimpicciolito e rattrappito, pur di staccare qualche dividendo di piccolo potere, all'ombra del potere dominante. Così, inevitabilmente, l'immagine complessiva del Paese è declinata fino a raggiungere i più ingiusti stereotipi che ci hanno sempre accompagnati: in modo che nelle cancellerie non si fa nemmeno più lo sforzo di distinguere la realtà italiana dai luoghi comuni, perché la coincidenza è più comoda, e un'Italia debole fa comodo a tanti.

Il debito pubblico, nella sua massa enorme e nell'impotenza anche culturale della politica di affrontarlo per noi e per i nostri figli, è la fotografia di questo blocco. Che rende difficile affrontare gli spiragli di ripresa che gonfiano le vele alla Germania, ma consentono alla Francia di mantenere lo status di grande Paese se non più di grande potenza, ridanno speranza all'America, cambiano con Cina, India e Brasile la geopolitica mondiale.
Si capisce che in questo quadro la Fiat sembri una soluzione, ma è l'indicazione di un problema. Stupisce, piuttosto, che in tutti gli inviti politici alla "responsabilità", alla "pacificazione", all'"emergenza" che coprono il gran mercato della compravendita di deputati (l'unico fiorente) manchi l'unico appello veramente necessario al Paese: quel "patto per la crescita" che può cambiare l'Italia e che sarà l'indispensabile piattaforma di speranza per il dopo-Berlusconi.
 

(14 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/14/news/ragioni_marchionne_altri-11203018/?ref=HRER1-1
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:44:45 pm »

L'EDITORIALE

Il confine superato

di EZIO MAURO

ABBIAMO evidentemente superato il livello di guardia se il Papa e il capo dello Stato devono intervenire con un richiamo alla correttezza morale e civile dei comportamenti pubblici. Non siamo davanti a prese di posizione di tipo politico (che per il Pontefice sarebbero improprie) ma ad un preciso gesto di allarme per la gravità dell'ultimo scandalo di Silvio Berlusconi.

Qui siamo oltre le divisioni tra destra e sinistra e le distinzioni tra laici e cattolici. Si tratta di preservare quella base di "moralità comune", come dicono gli uomini di Chiesa, o di "religione civile", come dicono i servitori dello Stato che è alla base dell'agire pubblico. Un nucleo di valori condivisi di decoro e rispetto per se stessi e per gli altri, dunque per la comunità nazionale e per le istituzioni che la guidano e hanno la responsabilità di rappresentarla.

E' la mancanza assoluta di questo senso di responsabilità la vera rivelazione dello scandalo berlusconiano: un leader che ha la dismisura come regola di vita, pubblica e privata, nel disequilibrio di mezzi e di poteri, nell'abuso permanente delle persone e delle regole, con una proiezione di sé e una visione del mondo che non trovano spazio in Occidente.

La grande banalizzazione, la menzogna organizzata, la complicità degli intellettuali cercano di impedire all'opinione pubblica di conoscere, di capire e di reagire. Ma quando il degrado tocca il vertice del governo, ridicolizza l'immagine dell'Italia nel mondo, paralizza la politica in
una difesa furiosa che minaccia altri poteri dello Stato, è la stessa democrazia che è colpita.

Stupisce che nel Pdl non ci sia un soprassalto di dignità, come se tutti fossero dipendenti Mediaset. Non stupisce, ma colpisce ancora una volta il silenzio di un establishment pavido e gregario, incapace di autonomia e di responsabilità nazionale. Eppure, basterebbe dire a Berlusconi di andarsi a difendere davanti ai magistrati, facendo valere le sue ragioni e rispondendo delle accuse: perché la legge è uguale per tutti, e il potere pubblico è fatto anche di doveri e non solo di privilegi e di abusi.

(22 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/22/news/il_confine_superato-11515742/?ref=HREA-1
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« Risposta #70 inserito:: Febbraio 03, 2011, 06:44:47 pm »

EDITORIALE

Riforme  e credibilità

di EZIO MAURO


PRENDIAMO sul serio il Presidente del Consiglio quando annuncia che intende finalmente occuparsi dell'economia, della crescita e della necessità di dare la scossa ad un sistema bloccato. Sarebbe ora, dopo che da mesi e mesi l'esecutivo è prigioniero nel bunker del suo presidente, e non produce né politica né governo.

Il problema è proprio qui. Berlusconi non è riuscito in due anni a fare le riforme che aveva promesso e non ci è riuscito quando aveva una maggioranza enorme, una leadership indiscussa, l'autorità politica intatta del vincitore alle elezioni. Pretende di fare quelle riforme oggi, quando ha una maggioranza affidata ai saldi di stagione, una leadership contestata, e ha perso ogni autorevolezza per gli scandali che non sa spiegare e giustificare, se non con le menzogne.

Ora possiamo anche discutere dell'articolo 41 come se fosse il principale problema del Paese, e possiamo far finta di non ricordare che il piano casa è stato annunciato già tre volte a vuoto, e il piano per il Sud almeno due. Ma come si può "tornare alla politica"quando poche ore prima il Premier denuncia come "invenzioni" le accuse della Procura di Milano, quando il suo Guardasigilli è impegnato a costruirgli l'ennesima scappatoia ad personam dai processi, quando lo stesso Capo del Governo annuncia il suo vero programma: "punire i magistrati"?

Un ritorno alla politica è utile, un piano per la crescita è necessario. Ma la politica è credibile
quando le istituzioni sono credibili. Berlusconi dimostri finalmente che la legge è uguale per tutti, e si difenda davanti ai magistrati, senza criminalizzarli. Altrimenti, è lecito pensare che il suo piano economico è un diversivo per sfuggire a uno scandalo che lo sovrasta, perché non può dire la verità agli italiani.

(03 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
repubblica.it/politica/2011/02/03
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« Risposta #71 inserito:: Febbraio 05, 2011, 05:47:33 pm »

L'EDITORIALE

L'urgenza irresponsabile

Il Capo dello Stato ha invitato il governo a riscrivere il decreto sul federalismo e a ripresentarlo alle Camere.

Ricordando a Berlusconi che bisogna rispettare il Parlamento.

E che le sue urgenze private di sopravvivenza non possono portarlo a scavalcare la legge

di EZIO MAURO


DUNQUE era "irricevibile" il decreto sul federalismo che il governo ha approvato in fretta e furia l'altra sera, senza nemmeno informare il Quirinale e senza rispettare la legge, per correggere con un colpo di mano la bocciatura nella commissione bicamerale ed evitare che Bossi mandasse a casa su due piedi Berlusconi e i suoi ministri.

Il Capo dello Stato ha invitato il governo a riscrivere il decreto e a ripresentarlo alle Camere, ricordando a Berlusconi che bisogna rispettare il Parlamento e che le sue urgenze private di sopravvivenza non possono portarlo a scavalcare la legge. Soprattutto per il Quirinale una riforma di questa portata non si può varare con un voto improvvisato, senza un'intesa con i comuni e le regioni. Non è così che si riforma lo Stato, serve un consenso per impiantare il federalismo nel Paese.

Bossi lo sa perfettamente. Per ora si aggrappa alla bandiera slabbrata di un federalismo monco e zoppo, partito malissimo e senza respiro con questa maggioranza rappattumata nel mercato d'inverno e una leadership a fine corsa. Ma quanto può durare? Per un piatto di lenticchie la Lega sta cuocendo nel brodo indigeribile degli scandali berlusconiani, tra le manovre di palazzo di un leader che perde ogni giorno lucidità e credibilità, e tira a campare come nella più tarda età democristiana.

I danni sono evidenti, per tutti. Ieri il Premier, inseguito al vertice europeo dalle sue vergogne, ha dipinto la repubblica democratica come un Paese in mano ai magistrati golpisti.
Sarebbe questo l'uomo delle riforme e della crescita? Ciò che è irricevibile, insieme con la legge respinta da Napolitano, è questa condotta irresponsabile e antiitaliana, che danneggia il Paese e la democrazia.

(05 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
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« Risposta #72 inserito:: Febbraio 08, 2011, 05:22:27 pm »

L'EDITORIALE

Il fantasma azionista

Gli attacchi di Ferrara a Zagrebelsky.

L'ossessione della nuova destra nei confronti dell'"azionismo torinese", quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una malattia ideologica

di EZIO MAURO


L'UNICA cosa su cui vale la pena ragionare, nell'attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti - di tipo addirittura fisico, antropologico - e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell'appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l'ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell'"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".

Eppure la storia breve del Partito d'Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell'avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com'erano vissuti, in case piene di libri più che di potere.
Ma l'idea dev'essere davvero formidabile se ha attraversato sessant'anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell'intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d'elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.

È un'ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell'Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell'errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.

Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell'interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un'Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell'azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell'impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel '47, ecco l'allarme ideologico. Parte l'invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.

Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall'impaccio di regole e leggi. Un'Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un'Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell'abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".

Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell'azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest'epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant'anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.

Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l'antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l'azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l'anticomunismo.

Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un'altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.

Ce n'è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un'Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell'Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d'altra parte, sull'"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".

(08 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #73 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:43:18 pm »

L'EDITORIALE

La struttura Delta

di EZIO MAURO


UNA versione italiana e vergognosa del "Grande Fratello" è dunque calata in questi anni sul sistema televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza, per farne la centrale unificata di un'informazione omologata e addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere. L'inchiesta di "Repubblica" ha svelato fin dove può arrivare il conflitto d'interessi, che questo giornale denuncia da anni come anomalia italiana, capace di corrompere la qualità della nostra democrazia.

Nel pozzo senza fondo di quel conflitto, tutto viene travolto, non soltanto codici aziendali e doveri professionali, ma lo stesso mercato, insieme con l'indipendenza e l'autonomia del giornalismo. Con il risultato di una servitù imposta alla Rai come un guinzaglio per un unico padrone, ben al di là dell'umiliante lottizzazione tra i partiti, e i cittadini-spettatori truffati e manipolati proprio in quella moderna agorà televisiva in cui si forma il delicatissimo mercato del consenso.

Ci sono le prove documentali di questa operazione sotterranea, che ha agito per anni alle spalle dei Consigli di amministrazione, della Commissione di vigilanza, dei moniti del Quirinale sul pluralismo dell'informazione. Si tratta - come ha documentato "Repubblica" - di un'indagine della magistratura milanese sul fallimento dell'Hdc, la holding dell'ex sondaggista di Berlusconi (e della Rai) Luigi Crespi, che è stato per un lungo periodo anche il vero spin doctor del Cavaliere.

Dopo il fallimento del gruppo, nel marzo 2004, sono scattate perquisizioni e intercettazioni della Guardia di Finanza. E gli appunti dei finanzieri sulle conversazioni telefoniche rivelano un intreccio pilotato tra Mediaset e Rai che coinvolge manager di derivazione berlusconiana e uomini che guidano strutture informative, con scambi di informazioni tattiche e strategiche, mosse concordate sui palinsesti per "coprire" notizie politicamente sfavorevoli al Cavaliere, ritardi truffaldini nella comunicazione al pubblico di risultati elettorali negativi per la destra: con l'aggiunta colorita e impudente di notisti politici Rai che si raccomandano a Berlusconi, dirigenti Mediaset che danno consigli alla Rai sulla preparazione del festival di Sanremo. E un lamento, perché durante le riprese televisive dei funerali del Papa, "Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere".

Non si tratta, com'è evidente, soltanto di un caso di malcostume politico, di umiliazione professionale, di vergogna aziendale. E' la rivelazione di un metodo che mina alle fondamenta il mito imprenditoriale berlusconiano, perché sostituisce la complicità alla concorrenza, la sudditanza all'autonomia, la dipendenza al mercato. Il tutto in forma occulta, con la creazione di una vera e propria rete segreta che crea un "gioco di squadra" - come lo chiamano le telefonate intercettate - che ha un unico capitano, un unico referente e un unico beneficiario: Silvio Berlusconi.

Trasmissioni d'informazione, come quella di Vespa, per la quale il direttore generale Rai garantisce che il conduttore "accennerà al Dottore ad ogni occasione opportuna", dirigenti della televisione pubblica che quando vengono a conoscenza di un discorso di Ciampi a reti unificate per la morte del Papa hanno come unica preoccupazione quella di organizzare un contraltare di Berlusconi al capo dello Stato, che potrebbe essere messo troppo "in buona luce", serate elettorali in cui si decide di "fare più confusione possibile" nel comunicare i risultati "per camuffare la loro portata".

In che Paese abbiamo vissuto? La politica - avversari e alleati di Berlusconi, tutti quanti defraudati da questa rete sotterranea costruita per portare acqua ad un mulino solo - è consapevole della gravità di queste rivelazioni, che dovrebbero spingerla ad approvare una seria legge sul conflitto d'interessi nel giro di tre giorni? E il Cavaliere, quando sarà sceso dal predellino di San Babila dove le sue televisioni lo hanno inquadrato in abbondanza, vorrà spiegare che mandato avevano i suoi uomini (spesso suoi assistenti personali) mandati ad occupare posizioni-chiave in Rai e Mediaset, se i risultati documentali sono questi?

La realtà è che in questo Paese ha operato e probabilmente sta operando da anni una vera e propria intelligence privata dell'informazione che non ha uguali in Occidente, un misto di titanismo primitivo e modernità, come spesso accade nelle tentazioni berlusconiane. Potremmo chiamarla, da Conrad, "struttura delta". Un'interposizione arbitraria e sofisticatissima, onnipotente perché occulta come la P2, capace di realizzare un'azione di "spin" su scala spettacolare, offuscando le notizie sgradite, enfatizzando quelle favorevoli, ruotando la giornata nel senso positivo per il Cavaliere.

Naturalmente con le telecamere Rai e Mediaset che ruotano a comando intorno a questa giornata artificiale, a questo mondo camuffato, a questa cronaca addomesticata. In una finzione umiliante e politicamente drammatica della concorrenza, del pluralismo, dei diritti del cittadino-spettatore, alterando alla radice il mercato più rilevante di una democrazia, quello in cui si forma la pubblica opinione.

Lo abbiamo già scritto e lo abbiamo denunciato più volte, ma oggi forse anche la politica più sorda e cieca riuscirà a capire. In nessun altro luogo si è formato un meccanismo "totale", così perverso e perfetto da permettere ad un leader politico di guidare legittimamente la più grande agenzia newsmaker del Paese (il governo) e di controllare insieme impropriamente l'universo televisivo, con la proprietà privata di tre canali e la sovranità pubblica degli altri tre.

A mettere in connessione le notizie trattate secondo convenienza politica e i canali informativi, serviva appunto la "struttura delta", ricca del know-how specifico del mondo berlusconiano, specializzato proprio in questo. Da qui alla tentazione di costruire il palinsesto supremo degli italiani, manipolando paesaggio e personaggi della loro vita, il passo è breve. E se la mentalità è quella che punta ad asservire l'informazione alla politica, la politica al comando, il comando al dominio, quel passo è probabilmente quasi obbligato.

E' ora possibile fare un passo per uscire da questo paesaggio truccato, da questa manipolazione della nostra vita. Purché le istituzioni, la libera informazione, il mercato e la politica lo sappiano. Sappiano che un Paese moderno, o anche solo normale, non può sopportare queste deformazioni delle regole e della stessa realtà: e dunque reagiscano, se ne sono capaci. La stessa mano che domani proporrà le larghe intese, è quella che ha predisposto il telecomando con un tasto unico. E truccato.

(22 novembre 2007)
da repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca
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« Risposta #74 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:55:26 pm »

L'EDITORIALE

La misura è colma

di EZIO MAURO

CI sono elementi di prova sufficienti per mandare subito Silvio Berlusconi a processo. Questa la decisione del gip, ieri, dopo aver vagliato le fonti di prova dei procuratori, in 15 pagine. Dunque l'inchiesta è chiusa e si apre il processo, dal 6 aprile. L'atto d'accusa, che ha già fatto il giro del mondo, riguarda due reati gravissimi per un Primo Ministro: concussione e prostituzione minorile.

Secondo l'accusa si tratta di reati collegati tra loro. Il Capo del governo ha esercitato una pressione illecita sulla questura di Milano per far liberare nottetempo la giovane Ruby, proprio perché voleva impedire che la ragazza parlasse delle notti ad Arcore da minorenne, compreso il bunga bunga di Stato. La vera cifra di questa vicenda è l'abuso di potere. Una concezione di sé e del mondo all'insegna della dismisura sia nel privato che nel pubblico, un potere che non riconosce limiti, sproporzionato e dunque abusivo nella sua pretesa di essere impudente e impunito, fuori da ogni regola, ogni legge e ogni controllo.

Ieri la "struttura Delta" (che si muove sul confine tra azienda e Stato, politica e marketing) aveva organizzato per il Premier una missione di Stato in Sicilia, tra la propaganda e la paura davanti alla nuova ondata migratoria. Ma il Presidente del Consiglio, dopo la decisione del gip, è tornato d'urgenza a Roma dai suoi avvocati annullando tutti gli impegni, e soprattutto la conferenza stampa già fissata. Perché - ecco il punto capitale - non è in condizione di dire agli italiani la verità sui suoi scandali, e non sa assumersene la responsabilità davanti al Paese.

Ora il suo istinto populista lo spingerà a incendiare il Palazzo, attaccando i magistrati e travolgendo le istituzioni, fino alla distruzione del tempio. La politica che lo circonda non ha l'autonomia per distinguere il suo futuro dal destino del Premier, ma è condannata a seguirlo nel pozzo della sua ossessione. Ecco perché la strada maestra, a questo punto, è una sola: il voto, col giudizio dei cittadini. I quali hanno definitivamente capito che la misura è ormai colma. 

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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