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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 104618 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:20:55 am »

SPETTACOLI & CULTURA      IL COMMENTO

Il romanzo della realtà

di EZIO MAURO


Quando capita che la letteratura operi un disvelamento della realtà, portando il lettore a conoscere, a capire, a prendere coscienza e dunque a diventare compiutamente cittadino, quali obblighi nascono per lo scrittore? Obblighi davanti alle parole, al loro uso e al loro significato, dunque davanti alla scrittura, alla sua funzione pubblica di fronte al Paese e alla comunità dei lettori. La risposta di Roberto Saviano dopo il successo mondiale di "Gomorra" è molto chiara: lo scrittore civile alla fine del libro ha l'obbligo di proseguire il suo lavoro con altri mezzi. Deve continuare a parlare ai suoi lettori, deve rivolgersi alla loro disponibilità a capire, deve occupare lo spazio pubblico che la letteratura gli ha aperto dentro la società.

Così nascono gli articoli di Saviano per i suoi giornali, "Repubblica" e "L'Espresso". Reportage, editoriali, incontri, recensioni rivisitate. Sono i movimenti della criminalità, indagati con la conoscenza dello scienziato, è il dialogo con un altro scrittore, è la curiosità di approfondire il mondo della mafia russa, è una storia di pugili, o un'immersione nella graphic novel. Con il modo di guardare e di raccontare preso dalla letteratura e portato sul quotidiano, e il risultato di un format narrativo inedito e universale, capace di spiegare raccontando.

Ma c'è naturalmente qualcosa di più, nella dimensione civile di questa testimonianza letteraria. C'è una presenza. Ciò che il crimine vorrebbe annullare in Saviano. Il suo esserci, il suo saper guardare e capire, il suo modo di spiegare e di farsi ascoltare. Sul giornale l'impegno di "Gomorra" continua, il patto col lettore si rinnova, mentre un altro libro si prepara il dialogo prosegue, l'indagine dello scrittore va avanti sulla spinta dei fatti quotidiani, si allarga al caso Eluana, aggiunge il Nord al Sud, diventa un'inchiesta permanente sull'Italia.

Tutto questo, dà modo a Roberto di essere presente. Con la fatwa criminale che una società democratica e avanzata come la nostra accetta rassegnata, volevano impedirgli una presenza, una testimonianza continua, una partecipazione. Non potendo più cancellare Gomorra, volevano cancellare il suo autore dalla vita civile, togliergli la parola. Ecco perché Saviano dice qui, in questo libro che raccoglie i suoi articoli, come per lui scrivere significhi prima di tutto esistere, non perdere la parola, la possibilità di darle un significato di realtà, sentendola risuonare nel Paese che tollera la sua condanna ad una vita nascosta.

Si sono presi le sue giornate, le domeniche nel cortile di un carcere giocando a palla col magistrato di guardia, otto agenti che lo circondano per strada prima di ricacciarlo in macchina, le case da cambiare ogni mese e senza l'aria di un balcone. Ma il giornale gli custodisce un pubblico costituito, pronto, recettivo, che non rinuncia a sapere perché vuole capire, dunque gli chiede di parlare, cioè di scrivere. Il giornale lo porta dentro la vita quotidiana, tra la gente che non può fisicamente incontrare.

Il giornale non è letteratura, perché ha altri obblighi, dunque altre regole e altri canoni, altri tempi. Ma può distribuire l'indagine di uno scrittore, può avvolgerla nella vicenda quotidiana, può stimolarla con la realtà, può portarla dove i libri non arrivano, in uno spazio di lettura più breve, nell'arco d'impegno di una pagina, nella ri-costruzione della giornata che abbiamo attraversato, nell'urto della scrittura e delle idee con i fatti. Il giornale, non bisogna stancarsi di dirlo, fa parte della vita di un Paese e non della sua rappresentazione, così come il giornalismo non è un'arte ma una professione civile, soprattutto non è una struttura mimetica, ma vive nel divenire della vicenda quotidiana e del suo primo impatto. Qui, proprio qui e proprio per questo, la scrittura civile può essere dirompente.

Ecco perché non vogliono che Roberto scriva sul suo giornale, e lo hanno detto chiaramente. Ed ecco, semplicemente, perché continua a farlo.


(9 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:23:27 am »

IL COMMENTO

La crepa

di EZIO MAURO


L'onda lunga di destra che spazza il Paese si è arrestata domenica sera, quando si sono aperte le urne del voto europeo. Un appuntamento che arriva appena un anno dopo il trionfo berlusconiano alle politiche, con una maggioranza schiacciante, e al culmine di un ciclo in cui il sistema di potere dominante ha sprigionato la sua massima potenza. In un giorno, quella macchina da guerra si è arrestata, nel momento esatto in cui il leader chiedeva e profetizzava il potere assoluto, con il 45 per cento dei voti per sé e l'alleanza con la Lega oltre il 50. Questa era la soglia politicamente sacra, la seconda presa del potere in un anno, la misura che trasforma il consenso in adesione, il governo in comando e il comando in dominio.

Tutto questo non è avvenuto. Ecco perché il Cavaliere tace da due giorni, nonostante nello spoglio delle amministrative, ieri, l'onda si stia richiudendo, con la destra che porta via pezzi interi di Nord trainata dal boom della Lega, conquista Napoli, si incunea nelle regioni rosse, con un Pd in calo ovunque e fortemente indebolito. Delle 51 province che aveva conquistato nel 2004 (solo 8 erano andate al centrodestra) il Pd ne tiene al primo turno appena 15, la destra ne conquista 25, altre 19 vanno al ballottaggio.

La destra italiana rimane dunque fortissima, pesantemente insediata nel territorio, rivitalizzata - e non solo al Nord - dall'energia elettorale e politica del partito di Bossi. Ma se il Pd nella grande sfida delle europee perde 4 milioni di voti, che sono tantissimi, il Pdl ne perde quasi tre milioni (2,8), e inaspettatamente. Si può dunque vincere, come Berlusconi ha fatto, e nello stesso tempo vedere con preoccupazione la grande crepa che si è aperta all'improvviso nel gigantesco monumento equestre che il Cavaliere stava erigendo a se stesso, simbolo perenne dell'alleanza tra il Capo e il suo popolo.
Bisogna partire da qui, dalla sorpresa psico-politica di un Paese che non si consegna mani e piedi al suo incantatore, convinto di averlo sedotto dopo la conquista. Certo, il premier può consolarsi con la netta sconfitta del Pd che cala precipitosamente di 7 punti.

Ma proprio da questo dato nasce una domanda che non si può eludere: di fronte al calo fortemente annunciato del Pd e mentre le sinistre battono in ritirata in tutta Europa, come mai in Italia la destra non se ne avvantaggia, ma anzi perde due milioni di voti, per di più senza che sia suonato un allarme, come un vuoto che si allarga all'improvviso in un meccanismo di consenso che si pensava garantito?

Oltre la soglia dei numeri, che parlano chiaro, c'è in politica una soglia simbolica che parla all'immaginario dei cittadini. Nei due principali partiti l'ultimo anno aveva fissato destini rovesciati. Per il Pd si profetizzava la polverizzazione, lo schianto, la sicura scissione (annunciata pubblicamente proprio dal Cavaliere), dunque la fine dell'avventura cominciata meno di due anni fa con Veltroni. Per il Pdl, al contrario, si annunciava lo sfondamento, con una crescita capace di portare la destra oltre la maggioranza assoluta, in modo da poter cambiare la Costituzione da sola, senza più impacci e condizionamenti. "Il Pdl è al 46 per cento", aveva garantito il premier il 6 maggio. "Siamo sopra il 40 per cento e quindi siamo il partito più forte del Ppe", aveva aggiunto il 16 maggio. "Alle europee l'obiettivo è molto più del 40 per cento e i sondaggi ci danno al 45" aveva spiegato il 23 maggio. "Gli ultimi sondaggi parlano di un Pdl al 43-45 e io sono certo che sarà così", aveva concluso il 30 maggio.

Non è andata così, e il Pdl ruzzola dieci punti più in basso della profezia, perdendo il 2,1 per cento rispetto alle politiche. Soprattutto, si infrange il mito dell'invulnerabilità del Capo, condannato a vincere sempre, dopo la riconquista che lo ha riconsacrato premier nel 2008. La vulnerabilità del Cavaliere era già emersa chiaramente con il volto della paura nell'ultimo mese, sotto l'urto dello scandalo nato dal "ciarpame politico", cioè dalle veline candidate per amicizia e non per merito politico, secondo una denuncia che ha fatto il giro del mondo. Questo scandalo ha portato alla luce altri casi collegati e controversi, da Noemi ai voli di Stato, alle feste in Sardegna, alle fotografie bloccate dalla magistratura. Tutto ciò è diventato un vero e proprio affare internazionale, commentato e giudicato (negativamente) dalla stampa europea e americana, tanto che persino i giornali italiani se ne sono dovuti occupare di rimbalzo. Le contraddizioni del Cavaliere nei suoi affannosi racconti, le diverse versioni messe in campo l'una dopo l'altra, le bugie accumulate inspiegabilmente e mai spiegate, gli insulti a Repubblica e ai giornali stranieri hanno semplicemente minato la credibilità del premier agli occhi dei cittadini, e anche dei suoi elettori.

La crepa si è aperta qui, nel rapporto di fiducia tra un leader e la sua gente, tra un Capo del governo e il Paese, e ha prodotto quella reazione di disincanto molto prima del previsto: con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), come se la menzogna del potere non fosse il problema principale nel rapporto tra la politica e la pubblica opinione, come l'America insegna. Ciò che troppi non hanno voluto capire, e le televisioni hanno attentamente occultato, lo hanno però capito i cittadini: e lo aveva probabilmente ben compreso il Cavaliere, se rivediamo gli ultimi frenetici giorni della campagna elettorale, dove Casoria sembrava aver sostituito Arcore nella geografia simbolica del berlusconismo.

Tutto ciò è costato consenso, in termini politici e addirittura personali. Nel calcolo delle preferenze, il Cavaliere pigliatutto che aveva sfiorato i tre milioni di voti sul suo nome nel 1994 e nel 1999, e aveva promesso di superare questa volta la soglia, si è fermato a quota 2 milioni e settecentomila. Mancano almeno 250 mila preferenze, e in una democrazia carismatica e populista non è un dato da poco.

La crepa dunque è aperta: ma non avvantaggia il Pd. I democratici sono giunti all'appuntamento con il voto logorati da un anno avventuroso, da risultati sempre critici, dal cambio traumatico non solo di un leader, ma del primo segretario, il fondatore. Le due anime assistono guardinghe ad ogni mossa di Franceschini, lo tengono in equilibrio precario, invece di fondersi si misurano a vicenda quotidianamente. Invece di sommarsi si depotenziano nei veti reciproci. Invece di fondare un nuovo riformismo guardano alle vecchie eredità, che non abbandonano per paura e per calcolo cinico. Piuttosto di lasciare spazio ai giovani (Debora Serracchiani, che ha scalato il partito da sola, ha superato nelle preferenze il capolista arrivato da Roma nel Nordest e persino Berlusconi) si stringono nella vecchia foto di famiglia dell'apparato, sempre uguale a se stessa. Così il partito soffoca appena nato e non decolla, mentre dovrebbe essere liberato per prendere il largo, affidato a forze nuove, con i vecchi capi che garantiscono un deposito di esperienza e di tradizione.
E tuttavia, non si può far finta di non sapere che la vera partita del Pd era il "Primum vivere". Per il rotto della cuffia, dopo un anno disastroso, i democratici hanno salvato la pelle, chi pensava a scissioni deve rimandare il progetto a qualche occasione più conveniente, e lo strumento partito c'è. Malandato, arrugginito, ma in qualche modo c'è. È addirittura a disposizione di chi ci crede, di chi ha voglia di reinterpretarlo inventandolo, rendendolo partecipato, contendibile, aperto, e insieme presente nel Paese, insediato, consapevole della sua identità di sinistra, moderna, europea e occidentale: però sinistra, dunque chiaramente e fortemente alternativa alla destra realizzata che Berlusconi mette in campo ogni giorno.

Un partito di questo tipo può mettere in movimento l'intera area di opposizione. Aiutare la sinistra radicale a dare un valore ai voti ancora una volta dispersi, radunandoli dentro un contenitore politico con una leadership capace di parlare ad una fetta di sinistra; ingaggiare con Di Pietro, dopo la sua clamorosa ascesa, una sfida di responsabilità di fronte ai problemi del Paese, perché l'antiberlusconismo è anche questo; chiedere a Casini, dopo il buon risultato della sua corsa autonoma, di scegliersi un destino politico e culturale riconoscibile e riconosciuto. Solo in questo modo le opposizioni possono diventare un'alternativa. La crepa dimostra che si può contendere l'Italia a Berlusconi, senza lasciargli tregua sulla sua credibilità in crisi, incalzandolo con ciò che gli manca: una politica per il Paese. Un Paese in cui si sta rompendo il lungo incantesimo del Cavaliere.

(9 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:17:13 pm »

IL COMMENTO

Il Cavaliere e il suo fantasma

di EZIO MAURO


Dunque siamo giunti al punto in cui il Presidente del Consiglio denuncia pubblicamente un vero e proprio progetto eversivo per farlo cadere e sostituirlo con "un non eletto dal popolo". Un golpe, insomma, nel cuore dell'Europa democratica, come epilogo dell'avventura berlusconiana, dopo un quindicennio di tensioni continue introdotte a forza nel discorso pubblico italiano: per tenere questo sventurato Paese nella temperatura emotiva più adatta al populismo che può dominare le istituzioni solo sfidandole, fino a evocare il martirio politico.

È proprio questa l'immagine drammatica dell'Italia che l'uomo più ricco e più potente del Paese porta oggi con sé in America, all'incontro con Obama.

Solo Berlusconi sa perché dice queste cose, perché solo lui conosce la verità, che non può rivelare in pubblico, della sciagura che lo incalza. Noi osserviamo il dramma di un leader prigioniero di un clima di sconfitta anche quando vince perché da quindici anni non riesce a trasformarsi in uomo di Stato nemmeno dopo aver conquistato per tre volte il favore del Paese.
Quest'uomo ha con sé il consenso, i voti, i numeri, i fedeli. Ma non ha pace, la sicurezza della leadership, la tranquillità che trasforma il potere in responsabilità. Lo insegue l'altra metà di se stesso, da cui tenta di fuggire, sentendosi ghermito dal fondo oscuro della sua stessa storia. E' una tragedia del potere teatrale e eccessiva, perché tutto è titanico in una vicenda in cui i destini personali vengono portati a coincidere col destino dell'Italia. Una tragedia di cui Berlusconi, come se lo leggesse in Shakespeare, sembra conoscere l'esito, sino al punto da evocare la sua fine davanti al Paese.

In realtà, come è evidente ad ogni italiano di buon senso, non c'è e non ci sarà nessun golpe. C'è invece un rapido disfacimento di una leadership che non ha saputo diventare cultura politica ma si è chiusa nella contemplazione del suo dominio, credendo di sostituire lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico.

Oggi quel potere sente il limite della sua autosufficienza. Ciò che angoscia Berlusconi è il nuovo scetticismo istituzionale che avverte intorno a sé, il distacco internazionale, il disorientamento delle élite europee, le critiche della stampa occidentale, la freddezza delle cancellerie (esclusi Putin e Gheddafi), lo sbigottimento del suo stesso campo: dove la regolarità istituzionale di Fini risalta ogni giorno di più per contrasto.

Il Cavaliere sente di aver perso il tocco, che aveva quando trasformava ogni atto in evento, mentre lo spettacolo tragicomico dei tre giorni italo-libici dimostra al contrario che le leggi della politica non sono quelle di uno show sgangherato.

Soprattutto, Berlusconi capisce che la fiaba interrotta di un'avventura sempre vittoriosa e incontaminata si è spezzata, semplicemente perché gli italiani improvvisamente lo vedono invece di guardarlo soltanto, lo giudicano e non lo ascoltano solamente. E' in atto un disvelamento. Questa è la crepa che il voto ha aperto dentro la sua vittoria, e che è abitata oggi da queste precise inquietudini.

Il Cavaliere ha infatti ragione quando indica i quattro pilastri che perimetrano il campo della sua recente disgrazia: le veline, le minorenni, lo scandalo Mills e gli aerei di Stato. Giuseppe D'Avanzo, che su questi temi indaga da tempo con risultati che Berlusconi conosce benissimo, spiega oggi perché siano tutt'altro che calunnie come dice il premier. Sono quattro casi che il Cavaliere si è costruito con le sue mani, che lo perseguitano perché non può spiegarli, che lui evoca ormai quotidianamente mentre tenta di fuggirli, e che formano insieme uno scandalo pubblico, tutt'altro che privato: perché dimostrano, l'uno insieme con l'altro, l'abuso di potere come l'opinione pubblica comprende ogni giorno di più.

E' proprio questo il sentimento del pericolo che domina oggi Berlusconi. Incapace di parlare davvero al Paese, di confrontarsi con chi gli pone domande, di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti, reagisce alzando la posta per trascinare tutto - le istituzioni, lo Stato - dentro la sua personale tragedia: di cui lui solo (insieme con la moglie che di questo lo ha avvertito, pochi giorni fa) conosce il fondo e la portata. Reagisce minacciando: l'imprenditore campione del mercato invita addirittura gli industriali italiani a non fare pubblicità sui giornali "disfattisti", quelli che cioè lo criticano, perché la sua sorte coincide col Paese. Poi si corregge dicendo che voleva invitare a non dar spazio a Franceschini, come se non gli bastasse il controllo di sei canali televisivi ma avesse bisogno di un vero e proprio editto. E' qualcosa che non si è mai visto nel mondo occidentale, anche se la stampa italiana prigioniera del nuovo conformismo preferisce parlar d'altro, come se non fosse in gioco la libertà del discorso pubblico, che forma l'opinione di ogni democrazia.

In realtà Berlusconi minaccia soprattutto se stesso, rivelando questa sua instabilità, questa paura. Se sarà coerente con le sue parole, c'è da temere il peggio. Cosa viene infatti dopo la denuncia del golpe? Quale sarà il prossimo passo? E se c'è una minaccia eversiva, allora tutto è lecito: dunque come userà i servizi e gli altri apparati il Cavaliere, contro i presunti "eversori"? Come li sta già usando? Chi controlla e chi garantisce in tempi che il premier trasforma in emergenza?

Attendiamo risposte. Per quanto ci riguarda, continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale, dove la dialettica e anche lo scontro tra la libera stampa e il potere legittimo del Paese fanno parte del gioco democratico. Poi, ognuno giudicherà dove saprà fermarsi e dove potrà arrivare questo uso privato e già violento del potere statale da parte di un uomo che sappiamo pronto a tutto, anche a trasformare la crisi della sua leadership in una tragedia del Paese.

(14 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:55:49 pm »

IL COMMENTO

Il bene del Paese

di EZIO MAURO


I Grandi del mondo arrivano a Roma - mentre Hu Jintao deve ripartire per l'urgenza della crisi cinese - in uno scenario inedito: il chairman del G8 è impegnato in una sua battaglia personale contro i giornali, attaccati domenica con una nota ufficiale del governo per la loro "morbosità", e presi a male parole ieri nella conferenza stampa della vigilia, per aver osato criticare la regia italiana del vertice, accennando all'ipotesi che l'Italia possa essere esclusa in futuro dal G8.

Soffocato dagli scandali che ha costruito interamente con le sue mani, Silvio Berlusconi attribuisce ai giornali la causa dei suoi mali, l'"imbarazzo" e il "calo di reputazione" di cui parla il "Financial Times", gli avvertimenti alla Merkel raccolti dal "Wall Street Journal" sulle fotografie del summit con il premier italiano, che potrebbero metterla in difficoltà nelle prossime elezioni.

Ieri il ministro degli Esteri Frattini ha definito "una buffonata" le indiscrezioni del "Guardian" su una supplenza degli Stati Uniti all'Italia nel lavoro preparatorio degli sherpa e Berlusconi nel pomeriggio ha rincarato la dose: "Una grande cantonata di un piccolo giornale". Come sempre, non è mancato l'attacco diretto a "Repubblica": "Prima mi gettate addosso delle calunnie, poi ve la prendete con me perché queste calunnie fanno male all'Italia".

Il presidente del Consiglio ha perfettamente ragione su un punto: mentre si apre un summit, il cui successo è importante per il nostro Paese che lo ospita, c'è qualcosa in queste settimane che fa molto male all'Italia: è il suo comportamento privato unito alle menzogne pubbliche che cercano di giustificarlo. I giornali stranieri e "Repubblica", com'è regola nel mondo libero, non fanno altro che dar conto di questo ai cittadini-lettori. Tutto il resto - campagne, manovre, eversioni - non è nemmeno un giudizio politico: semplicemente, come ha detto ieri il direttore del "Sunday Times", è una "stupidaggine".

(8 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:47:36 pm »

IL COMMENTO

L'ossessione

di EZIO MAURO

 
Il Presidente del Consiglio, dimenticandosi di essere il chairman del G8, ha esportato ieri in mondovisione la sua ossessione privata, e tipicamente italiana, nei confronti di "Repubblica". Prima ha cercato di non rispondere alla domanda di Gianluca Luzi (l'altroieri aveva accuratamente fatto togliere i microfoni ai giornalisti per garantirsi un monologo), cercando di interromperlo con evidenti segni di nervosismo, nel timore che l'ombra del "ciarpame politico" in cui affonda da due mesi venisse proiettata sul fondale dell'Aquila. Poi, parlando della buona immagine del summit, ha lanciato la solita accusa di disfattismo al nostro giornale: "Non avete raggiunto il risultato che volevate".

Avevamo scritto due giorni fa che per il bene dell'Italia, Paese ospite, il successo del vertice era importante. E ieri Vittorio Zucconi ha analizzato il primo esito, cioè l'assicurazione di Barack Obama sul nostro ruolo tra gli otto Grandi, scrivendo che "questo è il risultato vero che il nostro Paese, il governo Berlusconi e i futuri governi incassano al G8 e che l'Italia può riporre in cassaforte come un capitale".

Un giornale, com'è evidente, sa distinguere tra l'interesse del Paese e il clamoroso interesse negativo che in tutto il mondo suscitano le avventure del Capo del Governo. E' il Premier che non sa distinguere tra se stesso e la Nazione, come accade soltanto nei regimi.

Circondarsi dei Grandi della Terra, uniformandosi per una volta al loro stile e al loro standard, è un esercizio utile per lui e per il Paese, finalmente, e Berlusconi è stato un ottimo padrone politico di casa. Ma se pensa che i sette Grandi si portino via dall'Aquila anche i suoi problemi, s'inganna. In democrazia un leader ha un solo modo per risolvere i suoi guai che hanno fatto il giro del mondo: affrontarli davanti alla pubblica opinione, provando addirittura a dire la verità, e non nasconderli sotto le macerie del terremoto.

(10 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Agosto 08, 2009, 06:54:33 pm »

L'isteria del potere


di EZIO MAURO


Un uomo politico che di criminali se ne intende, come provano le condanne inflitte per reati molto gravi ad alcuni dei suoi più stretti amici, ieri si è permesso di attaccare i cronisti politici di Repubblica, indicandoli così: "Quelli sono dei delinquenti".

Bisogna risalire a Richard Nixon nei nastri del Watergate per trovare un simile giudizio nei confronti di un giornale.
Oppure bisogna pensare alla Russia dove impera a carissimo prezzo la verità ufficiale di Vladimir Putin, non a caso amico e modello del nostro premier.

Questa isteria del potere rivela la disperazione di un leader braccato da se stesso, con uno scandalo internazionale che lo sovrasta mandando a vuoto il tallone di ferro che schiaccia le televisioni e spaventa i giornali conformisti, incapaci persino di reagire agli insulti contro la libertà di stampa.

Quest'uomo che danneggia ogni giorno di più l'immagine del nostro Paese e toglie decoro e dignità alle istituzioni, farà ancora peggio, perché reagirà con ogni mezzo, anche illecito, al potere che gli sta sfuggendo di mano, un potere che per lui è un fine e non un mezzo.

Noi continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale.

In fondo, questo stesso personaggio ha già cercato una volta di comperare il nostro giornale e il nostro gruppo editoriale, ed è stato sconfitto, dopo che - come prova una sentenza - con i suoi soldi è stato corrotto un magistrato: a proposito di delinquenti.

Non tutto si può comperare, con i soldi o con le minacce, persino nell'Italia berlusconiana.


da repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:43:25 pm »

IL REPORTAGE.

Il racconto di Titti e Hadengai due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all'Italia


di EZIO MAURO

 PALERMO - Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell'ospedale "Cervello". Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all'altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna - una vergogna della democrazia - darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell'Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un'amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con "L'Aurora". In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento obbligatorio nell'esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c'è l'Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient'altro.

"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l'acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: "Giù, giù, vai in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr'ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. "Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai" nella testa, c'è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E' arrivato - dice all'alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: "Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare, "bahari". Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L'acqua è un'ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d'uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all'amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa dov'è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev'essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott'acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, "Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E' un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c'è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago ricoverato al "Cervello", Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all'Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell'Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po' più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un'idea di che cosa sia davvero l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto "la vita è un bene prezioso".

(26 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Agosto 28, 2009, 11:22:18 am »

EDITORIALE

Insabbiare

di EZIO MAURO


Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così - almeno in Italia - la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.

E' la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l'estate dell'uomo più potente d'Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l'accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d'inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.

In questa svolta c'è l'insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d'indagine che sfugga al dominio proprietario o all'intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all'oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.

Tutto questo - la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l'accusa di eversione, l'attacco ai "delinquenti", la causa alle domande - da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l'Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest'uomo.

(28 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:12:57 pm »

IL COMMENTO

La strategia della menzogna

di EZIO MAURO

POICHE' la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l'inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l'ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all'estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un'ansia che sta diventando angoscia.

L'opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l'ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.

Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d'inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.

Poiché l'eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero "insolenti, offensive e diffamanti" e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è "un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale".

Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l'insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest'uomo meritano una risposta.

Partiamo da Carlo De Benedetti, l'editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un'allusione oscura? C'è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?

E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell'acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c'è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all'erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l'articolo 52 del D. P. R. 26 aprile 1986 numero 131, sull'imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.

Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l'elogio dell'evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l'esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.

Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l'estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie.
Siamo felici per lui se si sente in forze ("Superman mi fa ridere"). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?

Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall'attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza.
Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L'uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.

(2 settembre 2009)
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 16, 2009, 10:48:24 pm »

Il direttore replica agli attacchi del Cavaliere da Vespa

"Perdiamo copie? Il premier è disperato e calunnia"

Ezio Mauro: "Berlusconi ha perso la testa Repubblica è la sua ossessione"

"Cercano di intimidire Fini con dossier a sfondo sessuale"


ROMA - "Ancora una volta ha perso la testa, definendo farabutti politici, stampa e televisione. Ed ha attaccato Repubblica, la sua ossessione da mesi". Intervistato da Repubblica TV il direttore di Repubblica Ezio Mauro replica così a Silvio Berlusconi che ha pesantemente attaccato il nostro quotidiano nel corso di Porta a Porta in onda ieri sera. Uno show partito dalla consegna delle case ad Onna e proseguito con una serie di attacchi (senza contraddittorio) contro il nostro quotidiano. "Non è in grado di rispondere alle nostre domande e chiede al giudice di bloccarle. E' il primo leader politico al mondo che ha paura delle domande al punto di portarle in tribunale", dice Mauro ricordando le dieci domande a cui Berlusconi non ha mai risposto.

Vede un tentativo in atto per "normalizzare" Rai3, il direttore di Repubblica. Sostituire il direttore della rete e magari metterci uno "spaventapasseri di sinistra" che "decapiti i personaggi scomodi come Travaglio". Una manovra che, in questi giorni, ha visto cancellare la puntata di Ballarò e stendere un velo di incertezza su trasmissioni come Report e Annozero.

Poi l'attenzione torna su Repubblica e gli attacchi del Cavaliere. "Dice che perdiamo copie? Berlusconi è disperato e calunnia. E ieri sera il suo notaio personale (Bruno Vespa, ndr) si è ben guardato da dirgli qualcosa" continua Mauro. Che ricorda la manifestazione per la libertà di stampa che si terrà sabato a Roma.

Tocca a Fini, al suo contrasto con Berlusconi e agli attacchi subito dal Giornale diretto da Feltri e di proprietà della famiglia Berlusconi. "Quello che è evidente è che stanno cercando di intimidirlo preventivamente con minacce di dossier a sfondo sessuale - continua Mauro - Si cerca di bloccare il pensiero di chi non è conforme al berlusconismo. Per questo mi chiedo si può governare l'Italia a colpi di dossier? Si possono usare servizi segreti per preparare dossier su persone non conformi? Si può sostituire alla politica la minaccia? E' questa la questione che riguarda la democrazia e che giustifica la manifestazione di sabato".

(16 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 03, 2009, 10:58:10 am »

L'EDITORIALE

Un'anomalia per l'Occidente

di EZIO MAURO


SE è ancora possibile, nel mezzo dello scontro politico che divide l'Italia, vorrei provare ad uscire dagli slogan per ragionare su qualcosa che non è di destra o di sinistra e fa parte dei fondamentali di ogni normale democrazia, così come tutti noi la intendiamo: il diritto dei cittadini di sapere, cui corrisponde il dovere dei giornali di informare. Questo diritto nella democrazia italiana di ogni giorno è a mio parere fortemente indebolito. Il controllo dell'intero universo televisivo da parte di un solo soggetto - che è anche capo di un partito, della maggioranza parlamentare e del governo - è un'anomalia in tutto l'Occidente.

Già questo dovrebbe farci riflettere come cittadini, così com'è anomalo il silenzio che ormai circonda il conflitto di interessi, quasi fosse un male incurabile, con cui convivere finché qualcuno inventerà il vaccino.
Stiamo parlando di lui, del cittadino. Non dei giornali o dei telegiornali, che sono soltanto strumenti della cittadinanza, in quanto libere imprese dell'informazione. Quel cittadino - in nome del quale si svolge oggi a Roma la manifestazione per la libertà di stampa - se esposto soltanto alla luce berlusconiana dei telegiornali pubblici e privati, sa solo ciò che vuole il potere.

Ad esempio, non sa nulla dello scandalo che da sei mesi circonda il Capo del governo, lo ossessiona portandolo ad insultare i giornali che ne parlano, e gli impedisce di far politica liberamente, ostaggio com'è delle sue contraddizioni e delle sue bugie. Qualunque medio lettore di qualsiasi giornale europeo ne sa molto di più. Soprattutto, essendo informato, è in condizione di formulare un'opinione consapevole sulla rilevanza o meno di questo scandalo, e di esprimere un giudizio avvertito e autonomo.

Nei grandi scandali sollevati dalla libera stampa in altri Paesi, infatti, il concerto spontaneo tra i giornali che indagavano e i grandi network televisivi che rilanciavano le notizie ha reso coscienti e partecipi i cittadini, finché i leader politici coinvolti nelle vicende - tra tutti, Richard Nixon - hanno dovuto rispondere e rendere conto non solo alle domande di un'inchiesta giornalistica permanente, ma alla pubblica opinione, il cui peso è stato determinante.

Da noi, è successo il contrario. Quando Repubblica ha notato contraddizioni e bugie nel racconto affannato e affannoso che Berlusconi ha via via fatto della vicenda, gli ha chiesto un'intervista e non avendola ottenuta gli ha rivolto in pubblico dieci domande, quelle bugie e quelle contraddizioni sono rimaste un problema di Repubblica e dei giornali stranieri. Eppure la menzogna del potere è un problema della democrazia, dunque di tutti e principalmente del cittadino elettore: oltre che uno spazio naturale e obbligatorio per ogni libero giornalismo.

Abbiamo dunque avuto di fronte - noi e i grandi giornali europei - una chiara e semplice questione di verità. Non so chiamarla altrimenti. Il silenzio del Premier, riempito da urla e insulti come non accade altrove, ingigantiva infatti un'ultima, definitiva domanda: signor Presidente, qual è la ragione oscura ma a lei ben nota, che le impedisce di dire la verità al suo stesso Paese, e la costringe a mentire ai suoi concittadini?

Sarebbe sufficiente tutto questo, e cioè l'incapacità-impossibilità del potere di spiegare i suoi abusi, per chiedere pubblicamente che il diritto-dovere d'informazione venga rispettato. Ma c'è molto di più. Costretto da se stesso al silenzio su ciò che non può chiarire, il Presidente del Consiglio ha cercato nel crescendo degli ultimi mesi di costringere al silenzio chi indaga su di lui.

Prima ha parlato di complotto della stampa, come se esistesse un'internazionale del giornalismo ispirata dalle cancellerie. Poi di una manovra eversiva per farlo cadere, come se le critiche fossero un golpe. Quindi ha insultato i giornalisti di Repubblica ("delinquenti") che tentavano di rivolgergli una domanda, le poche volte in cui non sfugge ai cronisti. Dalla tribuna di un convegno di Confindustria ha ufficialmente invitato gli imprenditori a non far pubblicità sui giornali che lo criticano e cioè ha tentato di sovvertire il libero mercato per soffocare economicamente Repubblica, come ha spiegato la sera stessa ai cronisti.

Al corrispondente del Paìs colpevole di chiedergli conto del danno provocato all'Italia da questi scandali ha augurato il fallimento del suo giornale. In tre occasioni ha invitato gli italiani a non leggere i quotidiani, denigrandoli, in una quarta ha spiegato che la televisione è la parte buona dell'informazione e la stampa quella cattiva. Sulla sua poltrona più comoda, quella di Porta a Porta, ha proclamato che ci sono troppi "farabutti" nei giornali e in televisione, ovviamente al riparo dalle querele grazie allo scudo che si è costruito con le sue mani.

Davanti alle telecamere della Rai ha definito "inaccettabile" che il servizio pubblico possa criticare il governo, indicando poi per nome le trasmissioni colpevoli. Ha annunciato che risponderà solo a domande di suo gradimento. E ha certificato, definitivamente, che chi lo critica è anti-italiano: come se fosse italiano, e patriottico, registrare in silenzio tutto questo, e far finta di niente.

Veniamo poi all'ultimo atto. Non potendo rispondere alle dieci domande di Repubblica, il Premier le ha portate in tribunale, chiedendo al giudice di farle tacere, cancellandole. Ha denunciato i grandi giornali europei e Repubblica per aver ripreso le loro inchieste, quasi fosse possibile alzare un muro alla libera circolazione in Europa delle idee, delle opinioni e del giornalismo, purché gli italiani non sappiano, rimangano all'oscuro e non possano giudicare. Ha querelato l'Unità per aver riportato sullo scandalo giudizi del senatore Guzzanti che invece non è mai stato querelato, forse perché ha annunciato di avere molte cose da raccontare ai magistrati.

Infine, il killeraggio attraverso i giornali. Ad agosto il direttore del Giornale - di proprietà della famiglia Berlusconi - viene licenziato e spiega nel suo ultimo articolo il perché: ha fatto tutte le battaglie, ma si è rifiutato di rovistare "nei letti di direttori ed editori" di altri quotidiani. Ecco la concezione della stampa e del giornalismo del Presidente editore ed imprenditore. Infatti, col nuovo corso quel giornale colpisce a tutte colonne il direttore di Avvenire (il giornale dei vescovi) colpevole di aver criticato il Premier, rilanciando una vecchia vicenda già pubblicata un anno prima e spacciando per documento paragiudiziario una velina anonima che parla di omosessualità, scritta nel linguaggio dei servizi.

È un ammonimento alla Chiesa, perché non dia giudizi sullo scandalo berlusconiano, e ai direttori di giornale, perché girino al largo, se non vogliono finire nel mirino. Poco dopo, lo stesso giornale lancia un avvertimento con minaccia preventiva a Fini, perché si rimetta in riga se non vuole che si ripeschino vecchie vicende che si fanno balenare con esplicite allusioni sessuali.

Fermiamoci un momento, visto che discutiamo di informazione. Tutti hanno parlato di character assassination, ma nessun giornale ha illuminato la figura gigantesca del mandante. Eppure in ogni criminal story che si rispetti chi preme il grilletto merita poche righe, conta l'ispiratore e il movente. Allora diciamo le cose come stanno. Si è cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato, e lo si è fatto non solo per ciò che Fini ha detto fin qui, ma soprattutto per ciò che potrebbe dire e fare. Colpendo lui, si lavora già per l'agonia berlusconiana, sparando nel buio del futuro per spaventare tutti.

La questione di verità, così, è diventata per forza di cose una questione di libertà. Perché è un vero e proprio problema di libertà - anche se molti fingono di non accorgersene - doversi domandare se il Presidente del Consiglio stia usando i servizi e le polizie contro le ragazze che testimoniano dopo gli incontri con lui, i magistrati che indagano, i giornalisti che fanno le domande. È un problema di libertà il fatto che un gruppo di cittadini in questo Paese usi nelle telefonate, negli incontri, negli spostamenti le stesse cautele che si usavano in altri tempi e in altri Paesi non liberi. C'è un problema di libertà se i giornalisti intimiditi a mezzo stampa devono pensare alla loro sorte personale quando accendono il computer per scrivere un articolo che contenga qualche critica, magari timida, al Presidente del Consiglio.

In ogni Paese, un leader che si sente attaccato ha il diritto di difendersi. Negli altri Paesi, ci si difende usando le armi delle idee, della politica, del ruolo straordinario che una grande leadership ha davanti all'opinione pubblica quando si presenta a dire la sua verità su una questione controversa, e sa assumersene la responsabilità: come ha suggerito più volte a Berlusconi Giuliano Ferrara. In nessun Paese libero si colpisce personalmente o si minaccia esplicitamente di colpire chi critica il potere, riducendo la stampa di proprietà ad arma impropria: salvo dissociarsi alle cinque del pomeriggio, ad esequie della vittima avvenute.

Resta dunque l'ultima questione: si può governare una grande democrazia, nel cuore dell'Europa e del 2009, a colpi di dossier? Che immagine dà di sé un potere spaventato e spaventoso che sostituisce la leadership con l'intimidazione? Che futuro può avere un Premier che annulla la politica con le minacce? E fin dove arriverà, fin dove arriva già oggi, la rete dei ricatti e dei veleni che si allarga sotto il doppiopetto presidenziale?
Insomma, a furia di non rispondere restano solo le domande. E non finiscono mai.

(3 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:51:45 am »

IL COMMENTO / Lodo Alfano, Berlusconi accusa la Corte, la magistratura e il capo dello Stato

Un gesto di disperazione ma anche la prova della sua instabilità istituzionale

La forza della democrazia

di EZIO MAURO


ERA dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un Paese dove è saltata l'intercapedine liberale, e l'estremismo del potere viene benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell'autonoma e libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell'instabilità istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto d'onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni dopo, in uomo di Stato.

Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una condanna. Prima che la grande mistificazione d'abitudine cali sui cittadini dal kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.

Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo, combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione, com'è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l'articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per questa ragione - e siamo al metodo - se si vuole sottrarre alla legge il Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale, e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli articoli 3 e 138 della Costituzione.

Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente dei doveri: semplicemente, e com'è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva provvidamente sospeso.

Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto - e non è cosa da poco - torna da oggi uguale per tutti.

Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è lex, anzi "non c'è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla terra", come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica.

In una formula - aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia - si potrebbe dire che il Capo dell'esecutivo ha in questo caso usato il legislativo per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.

La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell'autorevolezza politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso questa procedura d'eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale, prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l'autonomia.

Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà. Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati, nell'Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori dall'equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo status nuovissimo di "primus super pares", vige ancora la Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora, anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale elettorale in più.

E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al popolo di destra - aizzato irresponsabilmente - come un uomo di parte ("sapete tutti da che parte sta") in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di "sinistre", "rossi" e "comunisti": per concludere con il titanismo spaventato di un urlo ("Viva l'Italia, viva Berlusconi") che rivela la concezione grottesca di un Premier che vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte, poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo, rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono designati altera l'equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il Quirinale e la Corte. E siamo solo all'inizio.

Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne, come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli scandali dell'estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com'è di una vicenda di verità e di libertà.

Non è la Corte che lo denuda: è l'incapacità politica di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi e piccoli vengono al pettine e l'unica reazione è la furia contro certi giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di un'assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.

Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri: quando non c'è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia è il dispotismo.

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 06, 2009, 04:34:26 pm »

L'EDITORIALE

La responsabilità del potere

di EZIO MAURO


Per le vie tortuose che ritiene evidentemente più comode, in forma obliqua e non diretta, senza mai citare un fatto concreto e incontestabile, il presidente del Consiglio dopo sei mesi ha finalmente deciso di rispondere alle dieci domande che Repubblica gli rivolge dal 14 maggio, rilanciate dai giornali di tutto il mondo.

È positivo che un leader di governo senta infine la responsabilità di rendere conto all'opinione pubblica, o almeno a quella parte di opinione che lo interroga.
Anche se questo avviene con un ritardo politicamente di grande significato, dopo insulti rivolti ai cronisti del nostro giornale che gli ponevano in pubblico le domande, dopo l'invito alle aziende a non fare pubblicità sui giornali "catastrofisti", dopo l'appello agli imprenditori perché boicottassero Repubblica, dopo l'accusa esplicita di eversione, dopo la decisione di citare le dieci domande per un milione di euro di danni, portandole in tribunale perché un giudice le facesse tacere. Questa strategia del Premier, accompagnata dai violenti attacchi personali - a colpi di dossier - della stampa di famiglia a chiunque criticasse il suo operato, non ha evidentemente pagato.
Le dieci domande sono rimaste al loro posto per il semplice motivo giornalistico per cui erano nate, e cioè per chiedere conto di contraddizioni e bugie sugli scandali che da sei mesi circondano il Capo del governo, dopo la denuncia del "ciarpame politico" da parte della first lady: lo scambio di favori di giovani ragazze in cambio di candidature politiche.

Molto semplicemente, avevamo chiesto al Premier di cancellare quei dubbi, rispondendo alle domande con un'intervista. Dopo i quattro giorni di attesa concordati, non avendo ricevuto una risposta, abbiamo pubblicato le domande. Da allora, le abbiamo ripresentate ogni giorno per la buona ragione che non c'era stata alcuna risposta. Il bisogno di capire, il diritto di sapere, ci hanno autorizzati ad andare avanti, nella convinzione che là dove si aprono spazi di opacità e di menzogna nel potere pubblico, si apre anche uno spazio che noi consideriamo naturale e obbligatorio per il giornalismo.

Questa indagine giornalistica permanente ha provocato molte reazioni in Italia. I lettori hanno risposto con grandissimo interesse, prendendo parte in ogni modo come cittadini a questa richiesta di rendiconto del potere. Alcuni giornali ci hanno spiegato invece che non si fa così, in Italia non usa: e si vede. Più significative due accuse - tra le tante - che in questi mesi sono state lanciate contro Repubblica. La prima sostiene che la critica di un giornale ad un leader è un atto contro la sovranità popolare, contro l'unione in un solo corpo mistico tra il Capo e il suo popolo, intangibile e insindacabile: basta rispondere che nei Paesi democratici il potere è sottoposto ogni giorno al giudizio della stampa e della pubblica opinione, e il voto non è un salvacondotto, anche perché nella nostra Costituzione la sovranità appartiene al popolo, non "emana" dal popolo verso il leader. Ma questa prima accusa prepara la seconda: l'antipatriottismo, l'azione anti-nazionale di chi criticando il potere indebolisce la sacra unzione che consacra l'unione carismatica tra leader e popolo nel destino della nazione.

È ovvio che chi critica il legittimo potere - di fronte a ciò che ritiene un errore, una menzogna, un abuso - ama il suo Paese almeno quanto chi detiene quel potere, o chi sta a guardare: lo ama attraverso la democrazia, la Costituzione, il rispetto delle istituzioni, della regola civica dei diritti e dei doveri che deve valere per tutti, governanti e cittadini. In più, il proprio Paese si serve quando ognuno realizza in libertà e coscienza il proprio compito svolgendo il proprio ruolo. E le democrazie contemplano e annoverano i casi molteplici in cui - nello svolgere ognuno le sue libere funzioni - stampa e potere giungono ad un confronto anche duro, che spesso diventa conflitto.
Con una differenza: negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna le inchieste e le campagne sul potere di giornali che nessuno si è sognato di definire "nemici" o "fabbriche di odio" non sono mai state tacciate di antipatriottismo né di violazione della volontà popolare. Nemmeno quando i leader messi sotto accusa erano eletti dal popolo davvero.

La realtà e la verità sanno comunque farsi strada, in questo falso rumore italiano di comodo. Lo scandalo berlusconiano ha posto prima una questione di verità, con le bugie non spiegate, poi una questione di libertà, con gli attacchi ai giornali. La reazione violenta ha fatto vittime. Il direttore di Avvenire ha perso il posto e il lavoro dopo aver criticato il Premier perché un giornale di famiglia ha pubblicato un foglio anonimo scritto nel linguaggio dei servizi che lo tacciava di omosessualità. Il presidente della Camera, per le sue opinioni costituzionali e dunque non ortodosse è stato ammonito a mettersi in riga, pena il ricorso a presunte vecchie dicerie a sfondo sessuale: si è cioè cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato. Il giudice Mesiano, colpevole di aver pronunciato una sentenza civile non favorevole a Fininvest nella causa con la Cir in seguito all'accertata corruzione che ha deviato fraudolentemente il corso imprenditoriale della Mondadori, è stato pestato mediaticamente, con l'arma del dileggio, sulle televisioni di proprietà del Premier.

È un panorama impressionante, sullo sfondo delle 10 domande. Lo ha disegnato il Capo del governo, pur di non rispondere, pur di non chiarire, pur di non assumersi una responsabilità. Come se una grande democrazia, in mezzo all'Europa e al 2009, si potesse governare a colpi di dossier, di intimidazioni, di minacce, seminando la paura al posto dell'autorevolezza, usando i telegiornali sotto dominio per occultare e re-inventare la realtà, i giornali per colpire non le idee avverse, ma gli avversari fisicamente, togliendoli di mezzo, se possibile rovistando nei loro letti.

Di fronte a questo quadro italiano, i giornali di ogni Paese (di altri Paesi) hanno usato lo stesso canone di Repubblica, con il medesimo allarme, uguali interrogativi e giudizi assai simili. Si sono mossi intellettuali, giuristi, migliaia di cittadini. Roberto Saviano ha spiegato che "la libertà di stampa significa anche libertà di non avere la vita distrutta, senza un clima di minaccia, senza avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime". Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero e Stefano Rodotà hanno raccolto mezzo milione di firme denunciando l'"intimidazione" contro chi esercita il diritto dovere di informare.
Il direttore del Guardian ha scritto che Repubblica ha "tutti i diritti del mondo" di fare le sue 10 domande. La Nieman Foundation per il giornalismo e la Kennedy School di Harvard hanno spiegato che "il governo deve essere responsabile nei confronti dei cittadini e il ruolo della stampa è pretendere questa responsabilità".

La ragione delle dieci domande, per tutti questi mesi, sta infatti proprio qui: la responsabilità del potere davanti alla pubblica opinione. Ed è la stessa ragione che infine ha sopravanzato - per ora - gli insulti e i dossier, le querele e gli attacchi, costringendo il Premier a rispondere. Lo ha fatto in forma obliqua, evitando il confronto con Repubblica, in forma ambigua, facendosi riformulare le domande dal suo intervistatore-notaio, in un libro edito dalla casa editrice di sua proprietà. Un'operazione politica controllata e protetta, dunque. Dove l'interesse del Premier non è la verità da chiarire, ma la pressione dei giornali da allentare.

Il risultato, come i lettori possono constatare, è una prudentissima navigazione al largo delle vere questioni, senza fatti, senza veri chiarimenti, senza circostanze che possano spiegare la verità ai cittadini. È come la denuncia - tutta politica, esplicita, certificata dal suo notaio, che ieri ha annunciato alle agenzie "la risposta alle dieci domande di Repubblica" - di un limite. Dobbiamo prendere atto di ciò che il Premier ha fatto, e anche del modo in cui ha voluto e potuto farlo: ha dovuto infine rispondere, dopo sei mesi, dimostrando che le domande erano legittime e doverose, com'era doveroso affrontarle, tanto che il ritardo nei confronti dei nostri lettori è politicamente colpevole. E ha risposto nell'unico modo imbarazzato, generico e circospetto che può oggi permettersi. La vera risposta - ecco il punto - è la coscienza politica di questo limite, che mentre il Premier replica, lascia la questione fondamentale della verità intatta, e irrisolta.

Questo è un problema aperto non con Repubblica, ma con il Paese, insieme con un'ultima inevitabile domanda: signor Presidente, qual è la ragione che su queste vicende le impedisce di dire davvero la verità ai suoi concittadini? Come se fossimo in un Paese normale, noi continueremo a chiederlo, finché lo capiremo.

(6 novembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:31:14 pm »

IL COMMENTO

Dove ci porta lo stato d'eccezione

di EZIO MAURO

IERI è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d'eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.

Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l'intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi.

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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 16, 2009, 03:15:09 pm »

L'EDITORIALE

Il dovere di un giornale

di EZIO MAURO


Servono due parole per rispondere all'onorevole Cicchitto, che scambiando l'aula di Montecitorio per un bivacco piduista si è permesso di accostare il nome di Repubblica a quello dell'aggressore di Berlusconi in piazza Duomo.

Il presidente Napolitano aveva appena invitato tutti, davanti alla gravità dell'episodio di Milano, a fermare la pericolosa esasperazione della polemica politica. E Berlusconi aveva ricevuto la solidarietà di amici e avversari - da Fini a Casini a Bersani, a Repubblica naturalmente - nella condanna senza riserve, da posizioni che sono e restano diverse, di un gesto folle e criminale.

Ieri Cicchitto si è incaricato di ripristinare immediatamente il clima di guerra, senza il quale l'anima più ideologica e rivoluzionaria (nel senso di Licio Gelli, non di Mussolini) della destra non riesce a sopravvivere e ad esprimersi. Per lui, la mano dell'aggressore di Berlusconi "è stata armata da una spietata campagna di odio, il cui obiettivo è il rovesciamento di un legittimo risultato elettorale". A condurre questa campagna secondo Cicchitto è il network dell'odio composto dal gruppo Repubblica-Espresso, dal Fatto, da Santoro, da Travaglio (definito in Parlamento "terrorista mediatico") dal partito di Di Pietro e dai pubblici ministeri che indagano su Berlusconi.
Poche ore dopo Cicchitto insieme con la Lega e con Tremonti è partito all'assalto del presidente della Camera Fini, che si era permesso di definire la scelta del governo di porre la fiducia sulla legge finanziaria certo legittima, ma "deprecabile" perché impedisce all'aula di esprimersi sulla manovra. Anche il ministro Bondi si è immediatamente accodato all'attacco pubblico a Fini. Chi critica il governo, chi manifesta un'opinione non conforme, sui giornali, in Parlamento o in televisione, diventa un nemico del Paese, un avversario della sovranità popolare, un fomentatore d'odio, e arma fisicamente la mano degli aggressori.

Cicchitto invece è un uomo delle istituzioni. Non sa concepire una via repubblicana al berlusconismo, una declinazione costituzionale del potere, una fisiologia democratica del rapporto tra governo e contropoteri, che preveda un confronto anche duro con l'opposizione e con la stampa. Non conosce il concetto laico di pubblica opinione, solo la raffigurazione mistica del popolo che soppianta i cittadini, con la sacralità e il sacrilegio dei sentimenti contrapposti di amore e odio che prendono il posto del consenso e del dissenso, categorie politiche dell'Occidente, ma non dell'Italia berlusconiana.
A questo avvelenatore di pozzi, piccolo imprenditore dell'odio ideologico che attribuisce ad altri, dobbiamo soltanto ricordare quel che abbiamo scritto domenica sera, quando uno squilibrato ha colpito il presidente del Consiglio: nel discorso pubblico democratico la piena libertà di Berlusconi di dispiegare le sue politiche e le sue idee (che difendiamo senza riserve da ogni assalto violento) coincide con la nostra piena libertà di criticarlo. Lo abbiamo fatto davanti alle sue contraddizioni negli scandali estivi, davanti alle sue menzogne chiedendogliene conto ogni giorno, davanti agli attacchi al nostro giornale e ai grandi media stranieri, davanti agli insulti alla Consulta e al Quirinale, davanti al progetto di squilibrare la Costituzione sovraordinando il suo potere per liberarsi dagli istituti di garanzia. Cicchitto si rassicuri. Lo rifaremo, appena le forzature ripartiranno, com'è inevitabile visto che servono a sfuggire i giudici e la giustizia.

Chi scambia la critica per odio e il lavoro giornalistico per violenza è soltanto un irresponsabile antidemocratico, mimetizzato dietro la connivenza di chi tacendo acconsente. Chi poi vuole usare la debolezza momentanea di Berlusconi colpito al volto e la solidarietà repubblicana che è arrivata al leader per trarne un miserabile vantaggio politico, non merita nemmeno una risposta. Stringere la mano al Premier ferito è doveroso, condannare l'aggressione è obbligatorio, far passare le leggi ad personam è impossibile. Tutto qui. Le mozioni vanno distinte dalle emozioni. Il populismo non può pensare che uno choc emotivo centrifughi tutto, il diritto, la costituzionalità, i doveri dell'opposizione.

Se Cicchitto pensa che questo momento delicato della vita repubblicana possa imbavagliare Repubblica, annacquando il suo giornalismo, si sbaglia. Il Paese, soprattutto nei momenti di confusione, si serve facendo ognuno la sua parte. La nostra è quella di informare: soprattutto degli abusi del potere, nell'interesse dei cittadini.

© Riproduzione riservata (16 dicembre 2009)
da repubblica.it
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