Carlo FLAMIGNI-
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di Carlo Flamigni*
Vita, morte e miracoli
Questa questione della morte sta diventando una sorta di rebus del quale il Magistero cattolico ha deciso di dare una interpretazione personale, la correttezza della quale sarà lui stesso a decidere: l’autoreferenzialità è privilegio dei poteri forti, inutile illudersi. Del resto mi sembra che questo Magistero – ma non è stato sempre così – sia particolarmente interessato a due tratti specifici della mia vita, quello che ha preceduto la mia nascita e quello che seguirà la mia morte , mentre prova scarso interessa per il tratto intermedio, l’unico che interessa a me. Pazienza.
Non mi dilungherei sul problema della definizione di morte, la signora Scaraffia, nel mettere in discussione la definizione universalmente accettata di morte cerebrale, ha fatto – fatemi usare una espressione che usavo quando ero ragazzo e che credo non sia più di moda – la pipì fuori dal vaso, il Vaticano l’ha già ripresa, i bioeticisti cattolici le hanno tirato le orecchie, tutto è rimasto come era. Sono abbastanza vecchio da ricordare quella discussione, ero personalmente favorevole alla scelta basata sull’accertamento di morte corticale, non credo che potrei intrattenere rapporti cordiali con individui talamici, ma debbo ammettere che la scelta si è alla fin fine rivelata utile, non vedo perché ritornarci sopra. Vale invece la pena ragionare, separatamente, sul tema che nessuno vuole affrontare, l’eutanasia, e su quello che vogliono discutere in troppi, il destino delle persone in stato vegetativo e, di conseguenza, la questione del testamento biologico.
La prima domanda che dobbiamo porci è se esista una giustificazione morale alla scelta dell’eutanasia come possibile termine del percorso terreno di un individuo.
Credo che si possa partire da un dato di fatto: la domanda di eutanasia è cresciuta via via che si sono modificate le circostanze del morire ed è per questo che l’etica medica è dovuta tornare a ragionare di temi sui quali sembrava fosse stato ormai detto tutto, si è dovuta rendere conto del fatto che le risposte tradizionali erano largamente insufficienti.
Credo che la parola eutanasia sia stata usata per la prima volta da Svetonio, che ne parlava riferendo il desiderio di Augusto di andare incontro a una morte serena e priva di sofferenza. Ma somministrare una morte pietosa a chi soffre è abitudine antica. Negli eserciti greci e in quelli romani c’era sempre un medico – o comunque un uomo che sapeva di medicina – che dopo le battaglie andava sul campo a verificare le condizioni dei feriti e dei moribondi e, con uno scalpello e un martelletto, causava una lesione mortale del midollo spinale, alla base del cranio, ogni qual volta si rendeva conto che per quel ferito non c’era speranza di sopravvivenza ma solo certezza di dolore e sofferenza. Gli storici raccontano che questi “portatori di morte” erano trattati con rispetto e deferenza dai soldati, che apprezzavano questi atti di pietà.
Bacone scriveva che i medici avrebbero dovuto imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con maggiore dolcezza e serenità, e nei secoli molti filosofi hanno giudicato criticamente il giuramento di Ippocrate.
Eppure, un tempo la morte arrivava rapidamente, sia perché sopraggiungevano complicazioni delle malattie che i medici non sapevano trattare, sia perché nessuno, in realtà, la contrastava. Il vitalismo medico era certamente velleitario, nella maggioranza dei casi il malato decedeva a casa sua, non sempre dolcemente e quietamente, certo, ma di solito molto rapidamente.
Nel 1928 Giuseppe Del Vecchio pubblicò un libro intitolato “Morte benefica” nel quale si schierava in favore della liceità degli interventi di eutanasia, ma nella prefazione Tullio Murri si chiedeva se valesse effettivamente la pena introdurre nell’ordinamento giuridico una norma tanto discutibile e controversa per evitare ai moribondi una sofferenza di poche ore o di pochissimi giorni. E’ però vero che nel 1903 moltissimi medici americani, riuniti in un congresso di oncologia, avevano chiesto l’eutanasia attiva per i malati di cancro terminali.
Oggi, nei paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario. Essendo in grado di vicariare le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo- per quella della persona il problema è diverso – la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?
Secondo molti critici, scelti tra quelli che ritengono che non ci sia molto da rallegrarsi per il fatto di avere una vita più lunga, ma una salute peggiore, malattie più lunghe e morti più lente, vecchiaia più lunga e demenza sempre crescente, la medicina ha sottratto il malato alla malattia, lo nasconde alla morte, tanto da creare una vittimizzazione da tecnologia.
L’etica medica si è formata in un’epoca nella quale il medico poteva far ben poco per i suoi pazienti, ma sapeva che quel poco andava fatto, a tutti i costi. Molte delle resistenze dei medici nei confronti delle varie forme di eutanasia si rifanno al vitalismo medico, che aveva assunto una importante valenza morale a partire dal 700 con il pensiero di Sthal, professore nell’Università di Halle, e aveva stabilito, come obiettivo prioritario dell’intervento sanitario il mantenimento in vita del paziente. Nella metà del secolo scorso il vitalismo era divenuto il paradigma guida di gran parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente. L’acerrima nemica era dunque la morte, la vita era considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non aveva in cura le persone, ma la vita in sé. Questa filosofia non ha più giustificazioni, la medicina non è più impotente, eppure qualcosa dell’antico vitalismo medico si respira ancora nell’aria degli ospedali.
Certamente oggi possiamo fare molto per prolungare la vita di una persona, anche si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire. Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?
Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. C’è che ritiene che sia arrivato il momento di rinunciare alla tecnologia, che è poi all’origine del problema. C’è chi si limita a chiedere regole per fermarla là dove cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma poi i criteri per definirlo non sono condivisi.
Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Banez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico, ed esistono, come vedremo, teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari (che è del 1994) si aggiunge “quando non divengano gravosi per il malato”. Ma quando mai si può verificare un evento del genere?
I giuristi pongono naturalmente molta attenzione al tipo di eutanasia al quale si fa ricorso, altro è parlare di una eutanasia attiva, altro è ragionare di una eutanasia passiva, cioè della sospensione di un trattamento che mantiene in vita un malato: in questo ultimo caso si tratta di un atto omissivo, la causa della morte di quel soggetto sarà la malattia, non la condotta del medico o dell’amico. Ma anche nel caso di eutanasia passiva bisogna saper distinguere gli eventi nei quali è stato comunque necessario un intervento – staccare una spina, togliere una fleboclisi – da quelli nei quali si è più semplicemente deciso di interrompere le cure prestate fino a quel momento, e bisogna distinguere tra i casi in cui la decisione è stata tutta del medico e quelli in cui è il paziente a richiedere la sospensione del trattamento. Non c’è bisogno che ricordi che nel nostro Paese l’eutanasia è vietata e configura il reato di omicidio, ma che alla faccia di tutte le leggi moltissimi medici sono disponibili a eseguire interventi di eutanasia indiretta, somministrando quantità di farmaci – usualmente antidolorifici – così elevate da avere come effetto secondario quello di anticipare la morte.
Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come “criteri di giustificazione delle credenze morali”. Ogni principio consiste in una affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento, nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.
Secondo il principio della inviolabilità della vita il valore della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare, e senza dare alcun peso ai desideri delle persone viventi. La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità, dal concepimento alla sua fine naturale (e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre, un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali i tedeschi torturavano i patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.
La vita umana è inviolabile, dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto, i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti, che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco credibili. Solo i dogmi fideistici rendono accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente è indifferente vivere o morire.
Dal punto di vista filosofico, la posizione di quanti sostengono l’obbligatorietà del trattamento medico di sostegno si rifà al vitalismo medico, che ha assunto valenza medica a partire dal 700 con il pensiero di Sthal, professore nell’Università di Halle. Il vitalismo pone il mantenimento della vita umana come obiettivo primario e prioritario dell’intervento del medico. Nella metà del secolo scorso il vitalismo divenne il paradigma guida della maggior parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente, di cui le malattie erano le manifestazioni. L’acerrima nemica è dunque la morte, la vita è considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non ha in cura le persone, ha in cura la vita umana in sé.
Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente, la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità che ognuno di noi desidera realizzare.
Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”. Dunque l’autonomia è il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato.
Secondo questo principio il valore delle scelte personali ha la sua valenza morale indipendentemente dai contenuti “nei limiti in cui le scelte derivano dall’autonoma deliberazione e decisione degli individui. Le singole credenze sono giustificate nei limiti in cui sono ricondotte a un principio morale di fondo”(Lecaldano).
Anton Leist definisce in modo diverso l’autonomia come diritto alla libertà sociale e l’autonomia come valore di realizzazione. La prima innesca meccanismi di tutela e impone il rispetto delle scelte altrui come vincolo nelle relazioni sociali; la seconda è il pilastro su cui fondare il senso della propria vita. L’unica limitazione è quella di riservare pari diritto agli altri L’autonomia è un valore in sé indipendentemente da ogni altro bene che procura e una scelta personale non può essere subordinata e delusa per nessuna altra motivazione che agli occhi altrui appaia moralmente più rilevante In questo modo si accetta il dominio dell’uomo sulla propria vita.
Scrive Giovanni Boniolo nel libro che ha recentemente curato sulla laicità e che è stato pubblicato da Einaudi che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.
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Nel mio mestiere si dà un grande rilievo alle definizioni, così che dovrò tentarne anche a proposito dei termini che ho appena utilizzato. Allora una cosa è vivente se è caratterizzata da processi biochimici di natura metabolica che attraverso l’utilizzazione di energia esterna permettano la costruzione, il mantenimento e, un grande numero di casi, la distruzione della sua struttura fisica e che ne condizionano il comportamento.
L’esistenza indica invece l’intera vita di una specie biologica, o un periodo di questa vita, o la vita di un membro di questa specie, cui è stato attribuito valore.
Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartiene la vita e a chi appartiene l’esistenza. Se si tiene conto delle definizioni che ho azzardato, la vita non è di nessuno; stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino.
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.
Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso, a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri. Se la vita non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio? Perché se non ci sono traghettatori coi quali trovare un accordo, questo problema me lo sbrigo io, è un fatto squisitamente personale.
Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: cosa è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poter ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanza può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza, vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.
Secondo me bisognerebbe rispondere no a entrambe queste domande, ma è ovvio che si tratta di un giudizio personale. So bene che le risposte possono essere del tutto diverse dalla mia: questo accade perché su questo e su molti altri temi ci comportiamo come stranieri morali.
A creare stranieri morali sono soprattutto le religioni, le stesse religioni che negano che stranieri morali possano esistere. In realtà, credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in un qualsiasi dio, crea inevitabilmente stranieri morali. E la cosa più peculiare e divertente è che le religioni, per evitare di dover accettare questa sin troppo evidente separazione, hanno fatto la scelta di considerare la loro l’unica morale esistente e possibile, ignorando, denigrando o insultando la morale degli altri. Ma i laici sono abituati a sentirsi chiamare persone che sbagliano, o infedeli, o a sentir definire debole il loro pensiero, e hanno persino smesso di chiedersi come si possa considerare forte il pensiero di chi, per tutto allenamento, si è abituato a credere nelle verità rivelate. In realtà posso immaginare la convivenza, nella stessa società, di persone che credono nel dio della bibbia o del corano, di persone che credono in una divinità diversa da queste, di uomini che non credono e di uomini che vorrebbero credere. Mi pare però premessa fondamentale a questa convivenza il fatto che tutte queste convinzioni siano ugualmente rispettate. Altrettanto importante è che lo stato si limiti a questo rispetto, e non conceda mai privilegi a questa o a quella ideologia. Abbagnano definiva immorale un governo che sceglieva la strada del privilegio.
Rispetto è una parola complessa, molto più di quanto possa sembrare a prima vista. Esige anzitutto laicità da parte di tutti, il che comporta la necessità che, quali che siano i nostri convincimenti, ci rendiamo ben conto del fatto che essi non ci danno il diritto di ritenerci gli unici a conoscere la verità, una forma di presunzione stupida, prima ancora che intollerabile per la sua arroganza. D’altra parte cose illuminate dalla verità ne esistono ben poche se pure ne esistono, e il nostro rapporto quotidiano è con cose che vivacchiano nella penombra dell’incertezza o del momentaneo consenso. Così siamo tutti stupiti dalla violenza che è presente nel pensiero ci certi fondamentalisti, che negano ostinatamente qualsiasi parvenza di verità nelle opinioni degli altri e che non si rendono conto della casualità dei loro sentimenti e delle loro convinzioni: eppure è straordinariamente evidente la casualità della loro fede, poiché sarebbe bastato che fossero nati nella casa di fronte per attribuirgliene una diversa.
Anche al di fuori della violenza che è implicita in ogni forma di fondamentalismo, persino il solo considerare gli altri come fratelli che vivono nell’errore non si può conciliare con il rispetto, ma solo con sentimenti di compassione e di pietà, che nella fattispecie sono gravemente offensivi. E a parte questo, chi è convinto di possedere la verità, è inevitabilmente portato a fare proseliti, anzi è addirittura disposto a soffrire e a rischiare per fare proseliti. Ma il proselitismo è pura violenza morale, denuncia la più totale mancanza di rispetto per le opinioni, la cultura e le scelte degli altri, e ciò in particolare quando il rapporto dialettico è improprio e sbilanciato per ragioni culturali, economiche o psicologiche.
Mi sembra allora di poter immaginare solo due soluzioni civili per questo problema della convivenza di stranieri morali: possiamo vivere separati, in colonie diverse, destinati a guardarci con sospetto, ma, forse, a non farci del male; oppure possiamo cercare di vivere insieme cercando di mediare sui temi più controversi, là dove questa ricerca dipende dalla nostra disponibilità. Non è invece civile una convivenza come quella attuale, nella quale alcuni sono costretti a vivere secondo norma ispirate a una ideologia che non condividono; nello stesso modo non sarebbe civile accettare l’esistenza di una religione o di una non religione di stato, imposta dall’altro. Se ci pensate, oltretutto, questo tipo di convivenza non garantisce nessuno, anzi crea le basi per le rivendicazioni e le ritorsioni.
Ho parlato del valore dell’esistenza e voglio tornare rapidamente su questo argomento. Alla mia età si tende a tirare le somme, a ragionare sul passato, anche perché ci si rende conto che il futuro è singolarmente breve. In realtà potrei giudicare il mio passato in differenti modi, basandomi sul criterio della eudamonia, o della quantità di felicità della quale ho potuto godere, o del rapporto tra quello che ho desiderato e quello che ho ottenuto. A me viene istintivo ricordare e calcolare le sere in cui mi sono addormentato serenamente, senza angosce, senza preoccupazioni e senza rimorsi. Credo che questo mi accada perché sono un animale sociale e provo rancore nei miei stessi confronti quando so di non essermi comportato bene con gli altri, così come provo rancore per gli altri quando sono convinto di essere stato vittima di una ingiustizia o di un sopruso. Come ogni animale sociale ho la capacità di giudicare i comportamenti in base a regole che ho appreso dalla morale di senso comune (che ha radici molto più antiche delle religioni cristiana e giudaica) e ho un forte senso della dignità personale, un sentimento molto complesso sul quale non ho il tempo di intrattenervi. In questo modo i conti sono semplici e sono presto fatti.
Essere un animale sociale non ha a che fare con la metafisica, ma è molto semplicemente il risultato di una constatazione: è conveniente per tutti essere (comportarsi) generosi e capaci di compassione, i due principi che stanno alla base della convivenza. In questo modo la società funziona meglio e i suoi membri ne sono avvantaggiati. E’ una scelta dettata dall’egoismo, cioè da una valutazione della convenienza, ma è ormai talmente radicata in noi che abbiamo finito per attribuirle valenze che non possiede. E non c’è niente di più fastidioso e di più inutile di mettere in discussione cose interiorizzate da secoli.
Ancora due brevi commenti, prima di passare al secondo tema, quello che riguarda le condizioni di stato vegetativo e il testamento biologico.
Vorrei anzitutto ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri.
L’origine della parola è oscura, ricalca tra l’altro la parola greca assioma, che aveva un duplice significato. In modo molto generico indica una condizione di nobiltà morale nella quale l’uomo si trova soprattutto in ragione della sua stessa natura umana e insieme fa riferimento al rispetto che per tale condizione gli è dovuto dagli altri e che egli deve a se stesso. Ma si può pensare alla dignità anche come una sorta di cenestesi dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Immaginate un uomo che per tutta la sua vita si è adoperato perché ai suoi cari giungesse una certa immagine di sé, e che questa immagine abbia cercato di rivestirla sempre e soprattutto di dignità. Il pensiero di vedersela strappare di dosso, questa veste misericordiosa, nel momento della sua morte, l’idea di lasciare ai figli e alla moglie come ultima immagine quella di un uomo privo di un qualsiasi controllo sul proprio corpo, completamente affidato agli altri, soffocato dal proprio vomito, sepolto dalle proprie feci, annegato dalle proprie urine, può essere intollerabile proprio perché incompatibile con il suo senso della dignità. Voi, nel nome di un dio al quale probabilmente lui ha smesso di credere o non ha mai creduto, potrete proibirgli di andarsene in un modo più decoroso e rapido, ma non potrete impedirgli di maledirvi.
Il secondo problema riguarda la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. A queste discussioni non possono partecipare preti, sacerdoti e cultori della metafisica, poiché l’esistenza di un dio, che è l’unico sostegno delle loro ipotesi, è una tesi interessante ma impossibile da dimostrare e rimarrà per sempre, per molte persone come me, una romantica menzogna.
L’eutanasia riguarda, almeno in linea di principio, persone gravemente ammalate, senza ragionevoli speranze di migliorare e guarire, afflitte da terribili sofferenze o gravate da altrettanto dolorose sensazioni di perdita della propria dignità, che sono però generalmente coscienti e consapevoli e comunque in grado di comunicare agli altri le proprie scelte razionali. Questa seconda parte dell’articolo riguarda però persone che questa possibilità di comunicare l’hanno perduta e giacciono in uno stato di incoscienza. Si tratta dunque di ragionare sulla irreversibilità di questa privazione della coscienza e della capacità di comunicare e insieme di chiederci come consentire a un comune cittadino, che ha idee molto precise sulle cure e sui trattamenti che è disposto a ricevere e a subire e sa di poter imporre le proprie scelte ai medici finché è in grado di comunicare con loro, di veder rispettate le proprie scelte anche se non riesce a comunicarle ai sanitari perché è giunto incosciente in ospedale.
Lo stato vegetativo permanente appartiene alla famiglia allargata dei coma, definita anche degli stati neurobiologici a basso livello – low level neurological state.
Attualmente per riferirsi a queste forme di patologia si usano tre espressioni: coma, sindrome locked in e stato vegetativo.
Il coma: è uno stato di areattività psicologica non suscettibile di risveglio in cui il soggetto giace a occhi chiusi in uno stato di incoscienza e di incapacità di reagire agli stimoli esterni. Simile al sonno, è il risultato di una sofferenza cerebrale, (brain failure, secondo gli anglosassoni) e viene classificato in rapporto alla sua gravità e alle probabilità di recupero delle funzioni cerebrali.
Lo stato vegetativo, forse il meno compreso e il più controverso disturbo della coscienza, segue in genere uno stato di coma causato da una grave lesione cerebrale di tipo traumatico, anossico, ischemico, emorragico, tossico, infettivo o da compressione di masse tumorali non trattabili. Più raramente è causato da malattie metaboliche degenerative come il morbo di Alzheimer, o da malformazioni dell’encefalo come l’anencefalia, uniche condizioni che non sono precedute dal coma.
E’ una condizione nella quale manca completamente la coscienza di sé e dell’ambiente, accompagnata dal mantenimento del ritmo sonno - veglia mentre sono mantenute, in modo completo o parziale, le funzioni autonomiche.
Esistono condizioni patologiche affini per le quali è necessaria una valutazione differenziale e che causano un tasso elevato di errori diagnostici: la sindrome di deafferentazione (locked-in syndrome), una apparente condizione di coma in cui le lesioni subite interrompono le vie motorie e le vie di comunicazione che dagli emisferi arrivano alle cellule nervose che innervano i muscoli periferici. Lo stato di coscienza viene mantenuto in quanto il sistema reticolare attivatore non è intaccato, per cui il paziente ha piena percezione di sé e dell’ambiente e le funzioni cognitive e intellettive rimangono integre. Il danno non riguarda diffusamente la corteccia ma il tronco encefalico. Di questa sindrome esistono diverse forme classificate a seconda del tipo di movimenti volontari residui.
Lo stato minimamente responsivo, o minimally conscious state, è uno stadio intermedio tra lo stato vegetativo e la condizione di piena coscienza. Può essere transitorio o permanente. Ci sono limitati e intermittenti segni di consapevolezza e i soggetti riescono a compiere ogni tanto alcune semplici azioni, come rispondere a un comando e anche comunicare con parole semplici. Queste persone possono provare dolore e sofferenza e avere qualche consapevolezza della propria immobilità, della dipendenza dagli altri, della perdita del controllo degli sfinteri.
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Lo stato vegetativo è stato descritto per la prima volta da Kretschner nel 1940, come uno stato post- comatoso in cui il paziente, apparentemente vigile, non è cosciente. Kretschner chiamò questa condizione sindrome apallica, la parola vegetativo è stata utilizzata per la prima volta da Arnaud nel 1963 con l’espressione vie vegetative e qualche anno dopo da Troupp con il termine vegetative survival.
L’espressione stato vegetativo persistente è del 1973 (fu suggerita da Fred Plum, un neurologo americano, e da Bryan Jennet, un medico scozzese) per descrivere una nuova sindrome che sembrava comparire grazie alla possibilità della medicina moderna di mantenere in vita il corpo dei pazienti che avevano subito gravi lesioni encefaliche. Plum constatò che non erano necessarie gravi o estese lesioni corticali e che la corteccia poteva essere totalmente disattivata senza essere strutturalmente danneggiata: esisteva invece molto spesso un danno irreversibile della sostanza bianca o del talamo.
Ecco la sua descrizione: il paziente ha gli occhi aperti o li apre dopo intensa stimolazione nervosa, mostra movimenti oculari erratici, ma non di inseguimento, muove gli arti, ma non intenzionalmente, emette suoni, ma non parole. Sono presenti alcuni atti motori involontari (il paziente cerca di afferrare oggetti inesistenti, mostra i denti in una sorta di trisma facciale) ma riesce a masticare e a deglutire. Ecco insomma cosa accade: in linea di massima le attività cognitive e vegetative, da sempre connesse tra loro – e che alla morte vengono meno tutte insieme – si dissociano: le funzioni vegetative, quelle necessarie alla sopravvivenza dell’organismo, vengono ripristinate e mantenute mentre gli apparati sensitivo, cognitivo e motorio perdono, in alcuni casi definitivamente, la loro funzionalità. Insieme all’abolizione della coscienza viene meno la possibilità di relazione interiore con se stessi e con l’ambiente.
Forse è bene ricordare che per coscienza si intende la presenza contemporanea di almeno due componenti, e cioè:
- la vigilanza, lo stare ad occhi aperti, lo stato di veglia
- la consapevolezza, l’insieme delle funzioni cognitive e affettive, delle attività mentali che occupano in un determinato momento la mente (il contenuto).
La vigilanza è necessaria per la manifestazione dei contenuti, nel senso che è necessario superare la soglia della veglia per esplicare e assorbire contenuti. Nello stesso tempo essa può essere presente senza alcun contenuto esplorabile della coscienza.
Entrambe le componenti, vigilanza e consapevolezza, sottintendono un substrato anatomo-funzionale perché i processi cerebrali necessari per una attività cosciente siano realizzabili. Se questi vengono meno, si determinano patologie diverse a seconda della parte traumatizzata. Nello stato vegetativo persistente il tronco, o meglio il sistema reticolare che presiede alla funzione della vigilanza, rimane integro mentre la connettività tra aree cerebrali normalmente interconnesse viene meno, come vengono meno le interazioni tra talamo, corteccia e tronco, responsabili dei contenuti di coscienza. Lo stato vegetativo persistente è una interconnession syndrome, possono esistere solo isole di attività neuronale isolate, che non consentono però uno stato di coscienza.
Esistono alcune alte proprietà dello stato di coscienza che sono:
-la possibilità di avere relazione con il mondo (però nella locked in syndrome questa capacità risulta persa senza che la coscienza ne risulti alterata);
-la memoria, il raffronto continuo tra esperienze passate e dati sensoriali appena acquisiti;
-l’attenzione selettiva, la volontaria concentrazione della coscienza su uno stimolo.
E’ difficile verificare in alcuni casi fino a che punto la coscienza sia soppressa, e se lo sia definitivamente, ma si conviene che la persistenza di isolati focolai di attività corticale, anche se associati con alcuni schemi comportamentali stereotipati, non indicano la persistenza di un livello anche minimo di coscienza. Insomma per essere coscienti non è sufficiente avere alcune parti anatomiche isolate che accidentalmente reagiscono agli stimoli, ma serve l’interazione complessa di diverse sezioni encefaliche.
I medici sono da tempo giunti a un consenso per quanto riguarda le condizioni necessarie perché si possa perfezionare la diagnosi di stato vegetativo persistente:
- nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente;
- incapacità di interagire;
- nessuna evidenza di comportamenti riproducibili,
finalizzati o volontari in risposta a stimoli uditivi, tattili o
dolorosi;
- nessun segno di comprensione o espressione verbale;
- uno stato di intermittente vigilanza compatibile con il ritmo
sonno veglia;
- il parziale mantenimento delle funzioni del tronco e
dell’ipotalamo sufficienti a garantire la sopravvivenza in
presenza di cure mediche;
- incontinenza;
- variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi
cranici.
Immaginiamo adesso di lavorare in un istituto di neurologia e di avere ricoverato un paziente che è, da un certo periodo di tempo, in uno stato neurovegetativo persistente. Avremo anzitutto preoccupazioni di ordine clinico, come ho detto non sempre la diagnosi è semplice e in alcuni casi è richiesta molta attenzione perché la diagnosi differenziale con condizioni patologiche consimili può presentare difficoltà. Una volta accertato che si tratta di uno stato vegetativo e valutata l’entità delle lesioni, sarà poi nostra preoccupazione cercare di formulare una prognosi, cioè stabilire se esistono probabilità che il paziente possa uscire da quella condizione di incoscienza o se lo stato vegetativo debba invece essere considerato permanente, cioè definitivo. Certamente verremo molto aiutati dai consensi che esistono su questi temi, ma dovremo avere ben presente il fatto che i consensi non sono verità rivelate e che la medicina non è una scienza esatta, ma solo una disciplina biologica. Ma ammettiamo di trovarci di fronte a un caso in cui il tempo trascorso in condizioni di incoscienza, il tipo di lesioni, gli accertamenti strumentali tutti, ci confermano nella certezza che per quella persona non esiste la possibilità di un recupero. E, per intenderci, quello che è successo nel caso di Eluana Englaro.
Immagino che in una situazione siffatta dovremmo chiedere ai parenti e agli amici più cari del paziente se lo avevano mai sentito esprimersi su questo argomento, se aveva mai dichiarato, quando poteva farlo, la propria indisponibilità alle cure mediche nel caso fosse stato evidente che si trattava di interventi inutili, rivolti solo a mantenere un vita il suo corpo dopo che tutto quello che faceva di lui una persona – intelligenza, sensibilità, capacità di comunicare e di entrare in relazione con il mondo, dite voi - se ne era andato per sempre. E immaginate di scoprire che sì, in effetti quel paziente aveva dichiarato, più volte, di voler rifiutare, in quelle condizioni, ogni specie di trattamento e di cura.
Alla fine delle vostre indagini, dunque, vi trovate a dover gestire un corpo che è stato abbandonato dalla persona che lo ha abitato a lungo, un corpo nel quale tutte le cellule sono in grado di sopravvivere, ma che è ormai e per sempre privo di intelligenza, coscienza, sensibilità, di tutto quello per cui le persone che ora piangono fuori dalla porta gli hanno voluto bene, lo hanno amato e apprezzato. E quella persona che se ne è andata per sempre vi invia anche, tramite i suoi amici, il suo ultimo messaggio, la sua ultima richiesta: rispetta il mio povero involucro, lascialo morire in pace.
Credo che una gran parte di noi, in queste circostanze, non avrebbe perplessità, saprebbe chiaramente come comportarsi. Nella realtà e nella pratica, però, non è così, e la maggioranza dei medici si ritiene obbligata a mantenere in vita quell’involucro, per permettere all’intestino di avere la sua peristalsi, alla barba di crescere, ai reni di filtrare urina. Per capire perché bisogna leggere il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica approvato a maggioranza nel 2007.
Questo documento esordisce con una descrizione dello stato vegetativo persistente che non differisce da quella che ho dato nelle pagine precedenti. Sottolinea che il problema etico è dato dalla dipendenza di queste persone da altre; dice ancora che non sono necessarie tecnologie sofisticate costose e di difficile accesso, che questi “pazienti” hanno bisogno solo di cura, intesa non solo come terapia ma soprattutto di care: essi hanno il diritto di essere accuditi, e perciò richiedono una assistenza di altissimo contenuto umano e di modesto contenuto tecnologico.
Secondo il documento non sono né le probabilità di guarigione né la qualità della patologia a giustificare la cura che trova la sua ragion d’essere nel bisogno che il malato ha, come soggetto debole, di essere accudito.
Ciò che va garantito a queste persone è il sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale. Queste attenzioni non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico Interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.
In questa attenzione esiste dunque una valenza umana che è un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole: si tratta di sollecitudine per l’altro. Sospendere alimentazione e idratazione si configura come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, la vita umana è un bene indisponibile, indipendentemente dalla percezione della qualità della vita, dell’autonomia e della capacità di intendere e di volere; qualsiasi distinzione tra vita degna e vita indegna di essere vissuta è arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita in modo variabile in base alle condizioni di esistenza; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico ed è invece illecita quando viene effettuata sulla base delle percezioni che altri hanno della qualità di vita del paziente.
Si sono dichiarati contrari a questo documento tredici membri del CNB che hanno anche firmato una postilla di dissenso, che riporto qui di seguito integralmente. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che le postille di dissenso, che pur dovrebbero avere peso e significato nella discussione sui temi della bioetica in quanto corrispondono al parere della componente laica del Comitato, vengono generalmente ignorate in tutte le sedi nella quali la discussione trova, in proseguo di tempo, la sua naturale collocazione.
“
Rammaricandosi per il fatto che non sia stato possibile perseguire fino in fondo la via della redazione di un documento unico anche se non unitario, i Proff. Mauro Barni, Luisella Battaglia, Cinzia Caporale, Isabella Maria Coghi, Lorenzo D’Avack, Renata De Benedetti Gaddini, Carlo Flamigni, Silvio Garattini, Laura Guidoni, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Marco Lorenzo Scarpelli, Michele Schiavone, si esprimono favorevolmente rispetto all’ipotesi di sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP, in determinate circostanze e con opportune garanzie. Gli stessi Professori dichiarano quindi il proprio voto contrario al Documento approvato dalla maggioranza dei Componenti del CNB, motivando tale scelta con le seguenti considerazioni.
1. Tralasciando i primi tre paragrafi del Documento che, opportunamente modificati nella discussione svoltasi nella seduta plenaria del 16 settembre, sono condivisibili in quanto descrizione del quadro clinico denominato «stato vegetativo» (par.2) e introduzione al tipo di problemi da affrontare (par.3), un primo punto di dissenso riguarda il contenuto dei paragrafi 4-5-6 e 7, in particolare relativamente alla tesi secondo cui l’alimentazione e l’idratazione artificiali non possono essere considerati trattamenti medici in senso proprio.
segue...
Admin:
A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ventilazione meccanica che viceversa il Documento ritiene inopportuno evocare come elemento di paragone: quasi che fornire meccanicamente aria a un paziente che non può assumerla da sé, non fosse altrettanto «indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere», quanto, secondo il Documento, lo è il fornirgli alimentazione e idratazione artificiali.
Sono, queste ultime, trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti «cibo e acqua» – come affermato dal Documento – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al «fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)» (par.7). Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i paragrafi in esame sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del «forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro» (par.7) rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di «cibo e acqua». Tuttavia, di nuovo, resta incomprensibile – nel senso che nel Documento non viene fornita alcuna motivazione in proposito – perché nello stesso contesto si sostenga che «tale valenza non riguarda ad esempio la respirazione artificiale o la dialisi». In un’etica dell’aver cura non può essere discriminante la natura più o meno tecnologica dei trattamenti: qualunque trattamento medico o non medico, anche il più banale, può e dovrebbe rivestire la valenza della sollecitudine per l’altro.
2. In ogni caso, pur tenendo fermo che se si ragiona sulla natura di questo o quel trattamento non si possono ignorare i pareri delle società scientifiche, chi sottoscrive questa nota integrativa al Documento sottolinea che il giudizio sull’appropriatezza bioetica di tali trattamenti dipende soltanto in parte – o persino affatto, come sostengono alcuni tra gli scriventi – dalla loro catalogazione come trattamenti medici, come del resto in una certa misura ammette lo stesso Documento nella frase che chiude il par. 4.
Potrebbe forse dipendere da tale catalogazione la soluzione di problemi medico-legali e deontologici, ma non ne dipende certo, e comunque non automaticamente, il giudizio di appropriatezza bioetica, il quale – esattamente come nel caso di qualunque altro trattamento – deve prendere in considerazione altri fattori. Tra questi: la condizione in cui versa il paziente e la concezione della propria vita che il paziente stesso può aver manifestato, in varie forme, prima dell’ingresso in SVP.
Non si tratta di formulare giudizi o di ammettere «giudizi di altri» – come paventato dal Documento – sulla «qualità della vita attuale e/o futura» di questi pazienti, ma, al contrario, di esplorare la possibilità di ricostruire il giudizio che il paziente stesso avrebbe formulato circa la propria condizione, oppure di verificare quali preferenze il paziente stesso abbia esplicitamente e chiaramente espresso sotto forma di direttive anticipate. Le due diverse strade si aprono a seconda del principio bioetico cui si fa riferimento: in Gran Bretagna, ad esempio, si punta in genere a stabilire se la permanenza in quella condizione sia nel «miglior interesse» del paziente; mentre negli USA viene considerato prevalente l’interesse del rispetto dell’autonomia del paziente, anche nel caso in cui egli non possa più esercitarla in modo attuale. Queste e altre possibili vie possono essere seguite per trovare soluzioni umanamente accettabili a queste drammatiche situazioni. I firmatari della presente nota integrativa si augurano che il CNB riesamini la tematica, la cui analisi è già iniziata nel precedente mandato, trattandosi di questioni che richiedono ben altro approfondimento.
3. Si deve inoltre osservare – con particolare riferimento ai paragrafi 5 e 6 – che l’idratazione e l’alimentazione artificiali non possono quasi mai trasformarsi in una forma di accanimento terapeutico (sebbene possano diventare accanimento puro e semplice), neppure nei casi, rari ma ipotizzabili, di cui al par.6.
Rispetto a questo paragrafo, c’è però da rilevare che non è realistico, né scientificamente adeguato, parlare di un organismo che «non è più» in grado di assimilare le sostanze fornite (in questo caso il trattamento diverrebbe tra l’altro del tutto futile). È viceversa realistico parlare di un organismo che presenta una sempre più ridotta capacità di assimilazione senza che sia possibile in astratto indicare la soglia al di sotto della quale la capacità di assimilazione diventa insufficiente e, quindi, i nutrienti artificialmente somministrati non raggiungono più il loro scopo biologico di modificare, sia pure in misura sempre più limitata, i parametri bio-umorali.
Non si comprende quindi per quale ragione la sospensione di tali trattamenti nel caso di pazienti in SVP – che in ogni caso non hanno consapevolezza del fatto di essere nutriti e idratati – costituirebbe «una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di «abbandono» del malato» (che, secondo il Documento approvato, esigerebbe, in chi la proponesse, la coerenza di richiedere anche la soppressione eutanasica di questi pazienti), mentre tale «abbandono», secondo lo stesso Documento, non si verificherebbe nel caso di pazienti con ridotta o ridottissima (ma presumibilmente mai nulla, almeno finché i pazienti sono in vita) capacità di assimilazione, per i quali il Documento prospetta addirittura la «doverosità» della sospensione. E neppure si comprende perché la difficoltà psicologica e umana di lasciar «morire di fame e di sete» un paziente, venga fatta valere nel caso dei pazienti in SVP e non anche nel caso di altro tipo di pazienti gravi con altrettanto ridotta capacità di assimilazione: conta forse il fatto che nel primo caso il processo del morire potrebbe protrarsi anche per due settimane, mentre nel secondo caso «solo» per pochi giorni o poche ore?
Lasciando da parte il fatto che quel che accade nella realtà non è certo riconducibile alle immagini strazianti che il linguaggio usato nel Documento indurrebbe a pensare, se il problema è costituito dal disagio psicologico e umano di chi ha in cura i pazienti (sempre che ciò costituisca un valido motivo), allora – una volta decisa la sospensione di quei trattamenti – in fase terminale si potrebbe procedere nell’uno come nell’altro caso, alla sedazione; nel secondo caso ovviamente col consenso del paziente, se consapevole.
Non c’è quindi alcun bisogno di chiamare in causa il tema dell’eutanasia attiva: nel panorama del dibattito etico in materia è possibile argomentare a favore dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ivi comprese l’idratazione e l’alimentazione artificiale) senza dover per ciò stesso accettare l’ipotesi dell’intervento eutanasico diretto.
4. Un ulteriore punto di dissenso riguarda il contenuto del par.8, relativamente alla possibilità di inserire la richiesta di non inizio o sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiali nella redazione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il Documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato all’unanimità dal CNB il 18 dicembre 2003, recita testualmente: «Ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale». A giudizio degli scriventi da questa formulazione discende per logica conseguenza che qualunque trattamento o intervento rientra nella disponibilità della persona, indipendentemente dal fatto che sia ordinario o straordinario, che dia luogo o meno ad accanimento terapeutico, oppure – e a maggior ragione, costituendo l’alimentazione artificiale un intervento la cui cessazione comporta degli effetti perfettamente comprensibili dal paziente senza alcuna necessità di particolari informazioni o nozioni – che sia «ordinaria assistenza di base». Non si vede, infatti, come sia possibile argomentare che una persona consapevole, che rifiutasse uno qualunque di questi interventi, possa essere costretta a subirne la somministrazione. E in relazione al tema in discussione, conviene anche ricordare che l’art. 51 del Codice italiano di deontologia medica recita: «Quando una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla» (corsivi degli scriventi).
Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale, allora, in forza del principio sopra ricordato, non è possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato vegetativo.
5. Quanto alle considerazioni conclusive esposte nel par. 9, esse ovviamente discendono dal contenuto dei paragrafi precedenti e non sono quindi accettabili per coloro che sottoscrivono questa nota integrativa al Documento.
In conclusione appare tuttavia doveroso osservare che per ragionare bioeticamente sul caso dello SVP non è strettamente necessario chiamare in causa la controversia sul valore della vita umana, anche perché così facendo la discussione si sposta sul livello delle più complessive e, spesso, incomponibili concezioni del mondo e dell’uomo, sulle quali non dovrebbe essere compito del CNB prendere posizione. Si potrebbe semmai provare a ragionare sull’oggetto della controversia, chiedendosi, ad esempio, se l’indisponibilità o la disponibilità vada riferita alla vita come mera esistenza biologica o alla vita come biografia, all’essere vivi o all’avere una vita, un’esistenza.
Infine, non pare agli scriventi che sia il caso di richiamare la distinzione tra vite degne o non degne di essere vissute, poiché è sempre vero che la dignità delle persone non dipende dalle condizioni in cui le persone si trovano: possono invece essere le condizioni in cui le persone si trovano a essere più o meno degne delle persone. E, in questo caso, è convinzione degli scriventi – per alcuni subordinando sempre tale decisione al consenso esplicitamente espresso dal paziente in un momento precedente –, che è semmai da considerare come un estremo omaggio alla dignità della persona interrompere i trattamenti che mantengono tali condizioni non degne.”
Non mi pare che il documento abbia bisogno di commenti. Aggiungo solo la dichiarazione della Società Italiana di nutrizione parenterale, citata ma non riportata nel documento , che è tra le altre cose in perfetta linea con i documenti delle società scientifiche internazionali:
La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale, non essendo un prodotto preconfezionato in commercio. Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante.
E’ possibile che nei prossimi mesi – o nei prossimi anni – si sviluppi in Parlamento una discussione sul problema del cosiddetto testamento biologico, allo scopo di preparare una legge che regoli una materia complessa e che, come avete letto, divide in modo apparentemente inconciliabile laici e cattolici. E’ possibile immaginare che la maggior ragione del contendere sarà l’interpretazione dell’alimentazione e della idratazione artificiali, ma esistono altre ragioni di dissenso, come potrete ben capire da questa breve storia con la quale concludo questo scritto.
La necessità di affiancare al testamento tradizionale, quello che contiene le ultime volontà patrimoniali, anche un documento che contenga le decisioni in merito alla propria vita e al modo in cui si desidera che essa si spenga sono soprattutto frutto della cultura giuridica americana e risalgono a più di un secolo fa, e precisamente a una proposta di legge presentata nello Stato dell’Ohio nel 1906 che intendeva legalizzare l’eutanasia. Nel 1950 un altro Stato americano, la Virginia, approvò una legge ( alla quale i testi fanno riferimento come Law of agency) che prevedeva una revisione del potere di procura delineando una differente figura alla quale si poteva affidare non solo la tutela degli interessi patrimoniali, ma anche la cura di problemi personali tra i quali erano comprese le prestazioni sanitarie. La logica di queste nuove leggi risponde sempre di più a bisogni personali e privati per risolvere i quali si ricorre a interventi volontari e che trova punti di contatto ed esigenze comuni anche dove nessuno li aveva mai scorti prima, l’aborto e l’eutanasia, la contraccezione.
Per la prima volta dunque, nei tribunali americani, si discute del diritto di morire, di morire cioè secondo certe regole, e se ne parla come di un corollario del diritto di vivere.
In una sentenza di quegli anni si legge che il cuore della libertà è rappresentato dal diritto di definire il proprio concetto di esistenza e di esprimersi nei confronti del mistero della vita umana e del suo significato: se le opinioni su questi argomenti fossero imposte dallo stato con leggi specifiche, i cittadini non potrebbero più determinare la propria personalità.
Nel 1991 viene approvata una legge federale, il Patient self-determination act, che contiene norme che hanno a che fare con il consenso informato e il diritto alla salute e altre che riguardano più direttamente l’eutanasia e il diritto di morire: si tratta di una legge ambigua, che contiene non poche contraddizioni, destinate ad emergere negli anni successivi. Ad esempio autorizza la stesura di disposizioni anticipate che contengono il rifiuto dell’alimentazione artificiale, ignorando che su questo specifico punto altri stati hanno già legiferato in senso contrario.
In Europa la discussione sul testamento biologico comincia agli inizi degli anni’90 in Olanda e in Danimarca, ma si tratta di un vero e proprio corollario alla legge sull’eutanasia; in Belgio, nel 2002, le dichiarazioni anticipate di trattamento sono contenute all’interno della legge sull’eutanasia.
Sempre nel 2002 la Spagna approva una legge sulle Istruzioni anticipate che ha per oggetto l’autonomia del malato e l’obbligo di informarlo compiutamente sulle sue condizioni di salute. L’argomento è oggetto di un serrato dibattito anche in Inghilterra, dove però non si riesce a trovare un accordo e il tema, alla fine, viene accantonato.
Italia e Germania cominciano a mostrare interesse sul testamento biologico quasi nello stesso periodo, più o meno agli inizi degli anni). Per quanto riguarda la Germania, l’unica cosa cui si può fare riferimento è una sentenza della corte di appello di Francoforte che riguarda l’eutanasia dei malati in coma irreversibile, autorizzabile da un magistrato solo se esistono prove che il paziente si era espresso in favore di quella soluzione. Per quanto ci riguarda, è noto che esistono varie proposte di legge, ma la maggior parte dei laici è convinta che se il Parlamento deciderà di approvarne una sceglierà certamente la peggiore possibile.
Tutti i Paesi che hanno legiferato su questo tema si sono dovuti confrontare con due difficoltà: la prima, di ordine squisitamente etico, riguarda l’interpretazione complessiva dei suoi contenuti, aspetti peculiari del grande capitolo dell’eutanasia o regole per normare meglio il consenso informato? La seconda difficoltà è di tipo giuridico e riguarda il modo di convertire la logica patrimoniale del testamento in una scelta personale ed esistenziale. Pensato solo a quanto è difficile tradurre living will senza tradirne il significato originale e a quanti differenti tentativi sono stati fatti: testamento di vita, testamento per la vita, testamento biologico, documento per la vita, biocard, direttive anticipate di trattamento, volontà previe di trattamento, dichiarazioni di volontà anticipate, procura sanitaria, carta di autodeterminazione.
Il primo problema è stato affrontato dalla Convenzione di Oviedo (2001) che ha imposto di prendere in esame i desideri precedentemente espressi dal paziente e ha inserito questo punto all’interno del capitolo dedicato al consenso informato. Secondo la Convenzione, dunque, si tratta di rispettare le richieste del malato e di trovare il modo perché esse siano conosciute e attribuite a lui senza possibilità di errore quando non sarà più in grado di esprimerle. Si tratta, fondamentalmente, di colmare un grave vuoto di tutela e, di conseguenza, una grave mancanza di sensibilità morale, consentendo a che si trova in una grave condizione di incapacità di pretendere quegli atti che avrebbe potuto legittimamente esigere e solo fosse stato cosciente. Il documento non fa alcuna concessione alla richiesta di eutanasia, che oltretutto non è contemplata nel documento di Oviedo ed è vietata da molte leggi nazionali, e si limita a sollecitare il riconoscimento del diritto di rifiutare l’accanimento terapeutico o le cure sproporzionate o infine, nel caso dei testimoni di Geova, le trasfusioni.
Il secondo problema ha minore intensità etica ma è più complicato e più difficile da risolvere. Il testamento biologico rappresenta, nel suo complesso, un atto eterogeneo che presenta risvolti e implicazioni differenti: il malato manifesta in modo esplicito la propria volontà e al contempo attribuisce a una persona specifica poteri delicati e importanti. La prima parte può limitarsi all’espressione di un desiderio, o può entrare in una dettagliata descrizione delle proprie volontà, con un minuzioso elenco delle cure rifiutate o di quelle pretese. Queste decisioni possono prevedere l’attribuzione di uno specifico potere di decisione e di controllo a una terza persona, o non avere uno specifico destinatario, la delega può essere assolutamente priva di indirizzo. Si possono così configurare procure sanitarie senza alcuna indicazione di trattamento e indicazioni di trattamento che non si rivolgono a un procuratore specifico.
Chi porrà mano alla preparazione di una legge nel nostro Paese non potrà trascurare i documenti che l’ordine dei medici ha in varie occasioni approvato su questo tema o su temi consimili. Ne cito uno, che copio dal Codice di deontologia Medica del 1998: “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità e della indipendenza professionale, alla volontà di cura liberamente espressa dalla persona e….. non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente”. Dichiarazione molto esplicita, certamente, ma che non aiuta a risolvere il nodo vero del problema, come comportarsi quando si tratta di richieste relative alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali.
Non v’è d’altra parte alcun dubbio sul fatto che il ruolo del medico viene scosso dalle fondamenta quando si trattano problemi come questo. Egli può essere uno strumento subalterno fino a mettere in crisi la propria posizione di garanzia, o accentuarla fino a tradire il proprio rapporto fiduciario con il suo paziente, correndo sempre il rischio di violare obblighi rigorosi per adempierne altri.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha tentato una via originale, cercando di garantire l’incontro tra due sensibilità, quella di chi soffre e quella di chi cura. La rilevanza giuridica del consenso informato dovrebbe consistere nella capacità di coinvolgere il medico nella condizione di sofferenza del paziente e il paziente nell’apparato tecnico del medico. Il desiderabile e il possibile si dovrebbero saldare nelle medesime scelte di vita. L’eticità del testamento biologico consiste allora nel garantire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente proprio quando è esclusa ogni prospettiva di dialogo consentendo alla solitudine dell’incapace che non può decidere di incontrare la solitudine del medico che non sa decidere e non sa come rispettare i desideri del paziente.
Il CNB ha ritenuto che fosse possibile realizzare questo difficile incontro di sensibilità, prevedendo che le richieste contenuto nel testamento biologico siano vincolanti per il medico, che deve prenderle in esame costruendo su di esse qualsiasi progetto terapeutico ma non sufficienti a determinare un dovere assoluto, lasciando quindi al medico la possibilità di prendere decisioni diverse, purché adeguatamente motivate. Questo è comprensibile e legittimo se il medico può provare, senza possibilità di errore, che il paziente ha dettato volontà che non hanno tenuto conto o non hanno potuto tenere conto, solo per fare un esempio, del progresso delle conoscenze mediche e delle nuove soluzioni terapeutiche che, con indubbio vantaggio per lui, la medicina può offrirgli: in questo caso il medico potrebbe diventare un obiettore di conoscenza, cioè contestare la quantità di conoscenza che il malato possedeva al momento della stesura del documento e che lui considera insufficiente, inadeguata e perciò destinata a far commettere errori. Sempre secondo il CNB si tratta inoltre di creare un equilibrio tra la bioetica dei desideri e la bioetica dei valori, che può coincidere con il contenuto del documento ma può anche, in certi casi, andare oltre. Il medico capisce che il paziente non aveva una adeguata conoscenza dei problemi e che, se adeguatamente informato, avrebbe preso una differente decisione. In questo modo il testamento biologico assumerebbe una carattere che non è assolutamente vincolante ma neppure meramente orientativo e in cui l’autonomia del medico è strettamente correlata alla sua responsabilità Il medico ha quindi l’obbligo di valutare l’attualità delle richieste in base alle circostanze cliniche e allo sviluppo delle conoscenze.
Ho cercato di dare il maggior numero di informazioni utili a chi voglia intervenire nel dibattito che, già in corso, diventerà sempre più frenetico nei mesi avvenire e ho cercato di chiarire quali saranno i punti di avvio della discussione parlamentare, senza entrare troppo in dettagli di biologia e di medicina. Non mi dispiacerebbe se i compagni che leggono questo documento intervenissero, inviando a questo sito opinioni, critiche, domande. Chiedo anche a chi legge di tenere conto del fatto che per scrivere questo lungo articolo sono andato a saccheggiare gli scritti dei miei amici che si occupano di bioetica, da Eugenio Lecaldano a Demetrio Neri, a Maurizio Mori, a Carlo Augusto Viano, e ho potuto tener ben presente una lunga e bella monografia su Eluana Englaro scritta da Elena Nave e attualmente in corso di pubblicazione. Non mi dispiacerebbe se anche loro scegliessero di contribuire alla discussione, sono i maggiori filosofi laici di cui si possa vantare il Paese.
*docente universitario, ginecolo, della Direzione di Sd
da sinistra-democratica.it
Admin:
Una proposta concreta: diamo vita ad una grande camera di mediazione e approfondimento cultura
Cara Sinistra non marciare sul posto
di Carlo Flamigni*
Nella riunione che si è tenuta a Roma sabato scorso, ho ritenuto di dover dare il mio appoggio alle iniziative proposte da Fava, convinto come sono che eventuali errori si possono correggere in corso d’opera e che uno dei difetti che la sinistra italiana ha dimostrato di possedere in questi ultimi decenni è stata appunto la tendenza a marciare sul posto, frenata abitualmente da una capacità confabulatoria che apparentemente resiste a tutte le critiche. Ho anche promesso che avrei mandato qualche appunto su quelli che ritengo momenti prioritari nel percorso verso la ricostituzione di un grande partito di sinistra.
Ho letto con attenzione il documento che ci è stato sottoposto e l’ho trovato carente in un punto, lo scarso apprezzamento dell’importanza della laicità, inaccettabile per un movimento che si ispira ai più importanti valori della sinistra storica. Credo che meriti un paragrafo un richiamo alla laicità dello stato, almeno nella parte che sottolinea la necessità dell’autonomia delle funzioni pubbliche e della società civile dalle ingerenze di qualsivoglia organizzazione confessionale nonché dalle direttive di tutti i poteri che si sono costituiti senza ricorrere alle regole imposte dalla democrazia (non so a chi si riferisse Abbagnano quando scrisse queste righe, mi piace pensare che avesse in mente massoneria e Opus Dei).
Sono molto turbato dal fatto che col passare del tempo e malgrado l’accumularsi degli errori e delle sciocchezze, il Presidente Berlusconi stia accumulando un vantaggio sempre più vistoso, sembra che attualmente goda delle simpatie del 60% degli italiani. Immagino che questa sia una conseguenza della mancanza attuale di una forma civile e politicamente apprezzabile di opposizione e penso che l’incapacità della sinistra parlamentare di mostrare agli italiani il vero, vergognoso volto dell’attuale governo giustifichi la scelta di un grande numero di vecchi compagni che si dichiarano indisponibili a votare alle prossime elezioni. D’altra parte era facile immaginare che cambiando così bruscamente e vistosamente il suo simbolo, passando cioè dalla falce e martello al cilicio e al martello, il PD non sarebbe stato in grado di esercitare un’azione critica efficace. Penso che sia sotto gli occhi di tutti l’imbarazzo dei suoi dirigenti quando si tratta di intervenire sui temi del lavoro, della laicità, della bioetica, dei diritti dei cittadini, della sanità, della scuola, della immigrazione, della sicurezza.
C’è dunque bisogno di una opposizione vera, onesta, trasparente, credibile, ferma, sui temi che ai cittadini sembrano al momento più importanti, e ritengo che il primo compito che dobbiamo affrontare sia proprio quello di mostrarci capaci di elaborare progetti di elevato valore morale e politico. Dunque serietà, trasparenza, innovazione.
Mi limito a un solo esempio, tra i molti che si potrebbero fare. Viviamo, penso che sia chiaro a tutti, in un Paese di stranieri morali, e prima o poi dovremo affrontare le conseguenze che questa convivenza inevitabilmente determina. Difficile ad esempio immaginare che i musulmani, ormai molto numerosi, continueranno a vivere la loro religione all’interno delle proprie case, o nelle povere moschee che ci siamo degnati di costruire per loro. Sono immaginabili quindi nuovi conflitti, simili a quelli di cui hanno fatto esperienza altri paesi europei, su temi di grande rilievo sociale, dalla famiglia alla scuola, al lavoro.
Sarebbe molto utile per tutti se riuscissimo a costruire una grande camera di mediazione e di approfondimento, nella quale ammettere tutte le persone più sagge e credibili che in Italia rappresentano le differenti posizioni culturali e religiose, per affrontare i temi dei conflitti che si creeranno via via e insieme per assumere iniziative che possano facilitare l’incontro tra le culture.
In un’epoca di conflitti di faglia, nella quale la ricerca dell’identità ha dato un nuovo rilievo alle religioni, la ricerca di mediazioni utili per la convivenza ha senso solo se affidata alle persone più rappresentative e carismatiche disponibili a ricercare strade per la crescita sociale di tutti coloro che vivono e lavorano nel Paese.
Poiché non siamo un partito ma un movimento politico e culturale, ritengo che molte tra le persone migliori potrebbero rivelarsi sensibili al nostro appello.
*della Direzione di Sd
da sinistra-democratica.it
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