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Autore Discussione: Elisabetta GUALMINI  (Letto 21027 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 31, 2013, 05:02:58 pm »

Editoriali
28/10/2013

Le grandi intese aiutano Grillo alle europee

Elisabetta Gualmini

Mai più larghe intese ha detto ieri Renzi alla Leopolda. Il giorno prima aveva detto «No» a qualsiasi ipotesi di ritorno al sistema proporzionale. Tutto torna. Perché il progetto del Pd renziano, come quello originario di Veltroni, ha senso solo in una democrazia maggioritaria, dell’alternanza. 

E in quel quadro, ha le carte per tenere in scacco sia Berlusconi sia Grillo.

Il governo delle larghe intese non si è rivelato infatti così redditizio come forse pensava Berlusconi, ma è ancora la migliore delle garanzie per il Movimento 5 Stelle. Finché ci sono le larghe intese il partito di Grillo può accomodarsi e stare tranquillo. Non accennerà a sbiadirsi, perché ne è l’esatto complemento. Come lo Yin e lo Yang, la luce e il buio, la fiamma e l’acqua, come le forze della natura interdipendenti e a prima vista opposte che sono in realtà complementari perché danno forma all’insieme. Le due parti apparentemente collidono ma si alimentano a vicenda. 

Da un lato l’iperpolitica della grande coalizione in cui stanno dentro tutti, sono tutti amici e si va avanti a forza di negoziati e compromessi. Dall’altro l’ipopolitica o l’antipolitica dei neofiti della rappresentanza, i marziani catapultati in parlamento che non si alleano con nessuno, perché loro le contaminazioni le schifano. Due facce della stessa medaglia. Due sintomi della stessa sindrome: un sistema politico bloccato. 

E ora sono alle porte le elezioni europee, che si inseriscono a pennello dentro la cornice. Per molti motivi. Primo. Perché in quelle elezioni, considerate non decisive, si è più propensi a partecipare in maniera «espressiva» e non «strumentale»: si dà un voto sincero. Senza calcolare troppo gli effetti sulla tenuta del Governo. Non a caso, l’unica occasione in cui il Pci sorpassò la Dc fu sei giorni dopo la morte di Berlinguer alle europee del 1984. Quello fu un voto di omaggio, forse anche da parte di elettori ideologicamente distanti, verso una forma di moralità della politica. Stavolta la stessa libertà potrebbe essere usata per dare un messaggio completamente opposto.

L’Europa d’altronde è da tempo il bersaglio privilegiato dei partiti populisti, il nemico numero 1 del popolo-sovrano. Un bersaglio facile perché le sue istituzioni elette in secondo o terzo grado dai governi nazionali possono essere rappresentate come cricche privilegiate che emanano norme e opprimono i cittadini senza averne mandato. Grillo può dire non solo che il governo Monti è «stato messo lì dall’Europa», ma anche che Letta e Alfano obbediscono ai diktat della Merkel. E in una fase in cui cresce a dismisura la disaffezione verso l’Europa, c’è uno spazio immenso per gli strali del comico-politico. Dal 2003 a oggi, infatti, i cittadini italiani che hanno un’immagine positiva dell’Europa si sono pressoché dimezzati (dal 60% al 32%), mentre quelli che hanno un’immagine negativa sono più che raddoppiati (dal 10 al 24%). Terzo, il sistema proporzionale (con soglia al 4%) mette in difficoltà i partiti più piccoli protetti dalle coalizioni del Porcellum e favorisce quelli medio-grandi che non si alleano per principio. E infine l’astensionismo che da sempre caratterizza quel tipo di elezione colpirà di più i partiti tradizionali rispetto al popolo di Beppe, che se decide di mobilitarsi al grido di battaglia del capo, poi va dritto all’obiettivo. Saranno sicuramente più pigri gli elettori rimasti affezionati ai due principali partiti intenti a governare con l’avversario di sempre, immersi in giochi tutti parlamentari (scissioni, nuovi gruppi e altre alchimie) fatti sempre senza l’oste (cioè senza consenso elettorale). 

La morale è semplice. Grillo rischia di ottenere un risultato clamoroso alle europee. Tanto più alto quanto più la grande coalizione darà l’impressione di traccheggiare. Grillo lo ha capito benissimo. Armi e bagagli è già pronto dal palco del terzo V-Day a mandare a quel paese i partiti e i suoi leader, la destra e la sinistra. Una settimana prima delle primarie del Pd, non a caso. E ci racconterà che nel 2054 eleggeremo un governo mondiale nel giro di un clic, loggandoci tutti insieme e votandoci l’uno con l’altro perché tutti possiamo diventare Presidente. E noi finiremo per crederci un po’ di più, nel clima di rassegnazione che ci affligge tutti. 

Le larghe intese non possono dunque che darsi da fare. L’inconcludenza sulla revisione della legge elettorale a questo punto non è più accettabile. E ha ragione Renzi a sottolineare che alla Camera il Pd ha i numeri per fare un passo che impegnerebbe tutti, per dare un segnale netto subito, agli elettori e agli alleati. A Grillo invece basta stare fermo. Tanto, per ora, ci sono gli altri partiti «che lavorano per lui».

twitter@gualminielisa 
da - http://lastampa.it/2013/10/28/cultura/opinioni/editoriali/le-grandi-intese-aiutano-grillo-alle-europee-jSh65enU3exbFX0NMCBOIO/pagina.html
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:52:18 pm »

Editoriali
02/11/2013

Il doppio volto delle grandi coalizioni

Elisabetta Gualmini

Nell’intervista di ieri, il Presidente del Consiglio sembra autorevolmente condividere l’allarme che avevamo lanciato da questo giornale una settimana fa e cioè che la prossima competizione elettorale per il Parlamento europeo potrebbe costituire una straordinaria finestra di opportunità per partiti populisti e anti-europei. Quella che dovrebbe essere l’occasione di una legittimazione popolare delle istituzioni comunitarie rischia di diventare il treno su cui salgono in pompa magna forze politiche che dell’Europa non ne vogliono sapere. Per essere ancora più chiari, il partito di Grillo che prende a mazzate Bruxelles e Strasburgo tutti i santi giorni, la moneta unica a giorni alterni, potrebbe esprimere il maggior numero di eurodeputati della delegazione italiana.

I segnali di un possibile boom delle forze populiste e statocentriche ci sono tutti.

Il rallentamento della crescita economica, particolarmente acuto dal 2007, alimenta paure e inquietudini, teorie del complotto tecnocratico insieme a fantasiose narrazioni che disegnano le magnifiche sorti dell’isolazionismo. E poi la percezione ultimamente veicolata anche dall’amministrazione americana che il rigore finanziario europeo sia sino ad ora servito soprattutto in modo unilaterale alla rigogliosa stabilità economica della Germania. 

Ma ci sono anche fattori relativi alla politica interna dei singoli paesi europei che possono favorire oppure contenere le tendenze populiste anti-europee. Le forze anti-europeiste già oggi più che significative sono il partito dei «Veri Finlandesi», il «Partito della Libertà» austriaco, «Alternativa per la Germania». Per non parlare dello UK Independent Party che sta volando nei sondaggi e rischia di diventare il secondo partito britannico. Non a caso, proprio in questi paesi (Austria, Finlandia, Germania), come in Italia, ci sono al governo grandi coalizioni, alleanze e matrimoni per necessità composte dai principali partiti «del sistema», di norma antagonisti, ora costretti a prendersi per mano e a diventare amici. In Finlandia, i Socialisti sono insieme al Partito di centro, ai Verdi, alla Sinistra radicale e al Partito popolare. In Austria nel 2013, come nel 2006 e nel 2008, è tornata la Grande Coalizione tra socialdemocratici e popolari, anche se sempre più spompata (i due partiti arrivano appena al 51% insieme). In Germania sono in corso le trattative tra la Merkel e l’avversario di sempre, l’Spd, per un’altra Grande Coalizione dopo quella del 2005. 

 Se alcuni anni fa, come diceva il principale studioso di populismo Paul Taggart, l’euroscetticismo era una caratteristica limitata ad alcuni partiti estremisti (come la Lega in Italia o il partito di Le Pen in Francia), solo un tocco di dissenso (a touch of dissent), oggi il fossato che divide chi continua ad aver fiducia nelle istituzioni comunitarie e chi ne prende le distanze costituisce un elemento strutturale dei sistemi politici europei. Da un lato i partiti europeisti, dall’altro quelli anti-europei. Con la destra e la sinistra costrette ad allearsi e a costruire una santa alleanza contro la nuova ondata di barbari, decisi a farla finita con una eurotecnocrazia algida e inconcludente, anni luce lontana dai bisogni del popolo. I partiti insider contro gli outsider. Di questo passo, un inedito matrimonio tra socialisti e popolari europei potrebbe addirittura diventare, più di quanto non sia già adesso, la soluzione necessaria per il governo dell’Ue.

D’altro canto rimane un quesito bello grosso, che proprio il Premier dovrebbe porsi. Se e a quali condizioni le grandi intese tra partiti main stream siano nel medio termine una soluzione o non siano invece solo l’altra faccia del problema. Se non rischino di alimentare il successo annunciato dei populisti, confermando nella percezione dell’opinione pubblica più sfiduciata la teoria che rappresenta i partiti del sistema abbarbicati al potere, la loro politica permeata da accordi trasversali indipendenti dal consenso popolare, incapaci di dare risposte concrete. 

Se la sveglia è davvero suonata, se il overno italiano vuole davvero sminare il pericolo imminente così lucidamente identificato da Enrico Letta, dovrebbe predisporsi a dare segnali robusti e concreti di un cambiamento di rotta ben prima del maggio 2013, certamente non dopo, quando sarà troppo tardi.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2013/11/02/cultura/opinioni/editoriali/il-doppio-volto-delle-grandi-coalizioni-vd3jwBrLQKRFWy5PLS5utI/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:38:51 pm »

Editoriali
19/11/2013

Moderati, contro la sinistra c’è un cartello

Elisabetta Gualmini

Non c’è nulla in comune tra lo strappo di Gianfranco Fini dal Pdl e la scissione lanciata da Alfano. Berlusconi ha cambiato il finale della rottura con l’erede designato e, invece di andare allo scontro frontale, ha preso tutti in contropiede. Ha rinculato preparandosi a un rilancio. Non ha rinnegato il figlio ingrato ma ha invece lasciato apertissima la porta per una futura alleanza elettorale. 

Non ha rotto, ma ha tenuto dentro tutti: chi rimane, chi forse non sta più e chi non è mai stato (Lega) nella strana maggioranza, i governativi e gli antigovernativi, chi non vede l’ora di far rotolare il governo e chi spera ancora nella grande riforma costituzionale, chi vuole riprovarci con le primarie e chi si affida solo al leader maximo. Tutti pronti per tornare uniti nel cartello dei moderati contro le sinistre, non appena verrà il momento di ripresentarsi davanti agli elettori. Un cartello pigliatutto che facilmente si allungherà centimetro dopo centimetro verso il centro dopo l’uscita da Scelta Civica dei «cattolici» guidati da Mario Mauro. 

In questo modo Berlusconi lascia che i governativi puntellino il governo, scrollandosi di dosso la responsabilità per una sua eventuale caduta. Anche se Forza Italia passerà all’opposizione, i numeri per Letta saranno garantiti. E, dall’opposizione, il Cavaliere potrà incalzare con maggiore vigore il suo popolo, giocando fino in fondo la partita populista verso i delusi dall’approccio incrementale della grande coalizione. Verso i moltissimi che non ne possono più dei «professionisti della politica» e di una politica lenta «che non decide mai». Potrà fare le pulci a Letta, sui provvedimenti economici e non solo, lasciando ai diversamente berlusconiani l’onore delle seggiole e l’onere di sostenerlo. Mentre il Pd continuerà a soffrire la contraddizione tra le alte aspirazioni riformiste declamate nelle mozioni congressuali e la pratica del compromesso permanente.

Il proto-cartello dei moderati, prima ancora che premessa per una futura alleanza elettorale, è peraltro un necessario accorgimento per tenere insieme le giunte comunali e regionali a cui nessuno dei partner, per ragioni varie, può rinunciare. Dopotutto anche il centrodestra ha una struttura territoriale da manutenere e serbatoi di voti da preservare. 

L’unica incognita, in questo quadro, è la tempistica. A un certo punto Berlusconi non potrà che giocare il tutto per tutto, provando ancora una volta a vincere le elezioni. Sa che per farlo o darlo a intendere avrà bisogno di una coalizione di taglia larga, come nel 2001 in cui stravinse e nel 2006 in cui perse per poco. Mettendo insieme, per l’appunto, «tutti i moderati contro le sinistre» e cavalcando ancora una volta il mito della rimonta all’ultimo minuto. A quel punto gli stracci non voleranno più. Nessuna «testa di rapa», nessun «stalinista», nessun «estremista». Non si sbraca più, si ritorna in famiglia. 

 
Certo, Berlusconi sta per uscire dall’arena parlamentare e anagraficamente è nella fase finale della sua esperienza politica, ma potrebbe ancora al prossimo giro essere il grande manovratore grazie a un accordo, forse già in atto, con Alfano, giocando su un mix di modernizzazione (forse le primarie magari tra Fitto, Alfano e Tosi) e di operazione nostalgia (il ritorno a Forza Italia e il richiamo imperituro alla lotta per la libertà). Con una federazione-ombrello tra partiti piccoletti che sommati insieme fanno la differenza. 

In queste condizioni il centrosinistra non può dormire sonni tranquilli. Anzi, non può permettersi nessun tipo di errore. Matteo Renzi, da ieri vincitore indiscusso tra gli iscritti, ha davanti una sfida bella grossa. La spinta propulsiva della rottamazione e di una leadership fuori dai giochi a questo punto si è consumata. Dal 9 dicembre, dovrà dimostrare che insieme a una buona dose di contagioso entusiasmo, ha pure una strategia, una squadra e una coalizione.

Se dovesse a un certo punto farsi largo il dubbio che il ricambio di cui è portabandiera è messo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio o di politici arciconsumati disposti a tutto pur di salire sul carro, che non è in grado di dirigere un’orchestra altrettanto articolata, il «cartello dei moderati», che ora appare la ridotta del leader al tramonto, potrebbe rivelarsi l’ennesimo colpo vincente del Cavaliere. Nel Pd, d’altro canto, ci sarà sicuramente qualcuno pronto a dargli una mano. 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/11/19/cultura/opinioni/editoriali/moderati-contro-la-sinistra-c-un-cartello-9Bm7YxvW20szUO3y0ioUBK/pagina.html
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 03, 2013, 04:29:50 pm »

Editoriali
02/12/2013

L’antipolitica corre verso Bruxelles
Elisabetta Gualmini

 
È un altro mondo quello di Grillo rispetto ai partiti tradizionali o a quel che resta di loro. Negli anni, maledettissimi, della democrazia depressa. 

È l’altra faccia di un sistema politico impallato e scassato dall’inerzia degli ultimi venti anni. Inutile sperare che la meteora sparisca lasciando solo una piccola scia o che le sconcertanti semplificazioni del comico-politico lascino insoddisfatti cittadini dai gusti raffinati. C’era una folla smisurata ieri ad ascoltare Grillo a Genova, una adunanza gigantesca di persone in carne e ossa (altro che partito virtuale) davanti al corpaccione mobile del leader-conduttore-presentatore. Un po’ concertone del 1° Maggio, un po’ comizione politico, non si poteva sperare di meglio per dare il calcio di inizio alla campagna elettorale per le europee. Grillo usa i temi e il metodo di sempre. Non cambia nulla nel suo messaggio. Ma il contesto della competizione europea gli sarà ancora più favorevole. 

La «rivoluzione culturale» da Roma a Bruxelles. Accantonata per un attimo la lotta contro la casta, e messa temporaneamente in naftalina l’armatura del guerriero (solo un timido tut-ti-a-ca-sa intonato dalla folla), Grillo rispolvera i temi classici delle origini, quelli che hanno segnato la nascita del Movimento. Da un lato la lotta contro la moneta unica e l’Europa delle tecno-burocrazie, che opprimono con i loro oscuri bizantinismi i popoli-sovrani; dall’altro la ricerca di un neo-ambientalismo sostenibile. Temi cari alla destra e cari alla sinistra, così che tutti possano stare dentro. Grillo torna a proporre il referendum sull’Euro, l’introduzione dei dazi sui prodotti, la difesa del made in Italy, il cartello dei Paesi del Sud contro la Germania dei ricchi e i Paesi del Nord. Martella poi sulle energie rinnovabili, la bioedilizia e la reinvenzione green del lavoro. Nulla di nuovo, se si pensa ai 20 punti del Febbraio 2013. Stesse convinzioni snocciolate come verità assolute, indiscutibili. Infarcite da grafici banali e citazioni sgangherate. Inutile chiedere al capo dei capi di sviscerare i pro e i contro. E’ tutto molto semplice. «Si va in Europa e si cambia tutto».

Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Torna l’utopia del Movimento 5 Stelle. L’appello al popolo-sovrano che deve riappropriarsi del potere. I cittadini comuni che scoperchiano il marcio delle istituzioni. «Io non mi sono messo a fare politica. Io facevo l’idrogeno in casa, sono curioso. Il falegname, l’elettricista tutti devono dare una mano». Più che una anti-democrazia quella dei 5 Stelle è una immaginifica democrazia perfetta, che realizza tutte le iniziative dei cittadini, restituendo, con ricette alla portata di tutti, una superiore etica pubblica, giustizia, benessere e libertà. E’ la visione «redentrice» della democrazia che garantisce la salvezza ai cittadini senza l’odiosa intermediazione dei partiti. 

E’ un’offerta che oggi in Europa trova diversi pubblici disponibili a comprarla. In tutti i Paesi dell’Unione i movimenti populisti ed euroscettici vedono crescere i loro consensi grazie, più o meno, alle stesse rivendicazioni e utopie. Tuttavia il Movimento 5 Stelle gode di un consenso di gran lunga superiore ai cugini tedeschi, francesi, britannici o olandesi, perché non solo Grillo capitalizza sulla crisi economica (da noi più profonda che altrove) e sulla stanchezza nei confronti di un’Europa considerata opaca e occhiuta mandante di condizioni non più sopportabili. Da noi è la crisi della politica che ancora morde. E l’esistenza di un governo non espressione di un mandato elettorale facilita il gioco dell’accostamento tra un’Europa manovrata da oscure tecnocrazie e una politica domestica, nella narrazione di Grillo, governata dal Quirinale (contro cui non a caso ha rivolto l’ennesimo attacco). La sfiducia nei confronti di partiti arroccati in difesa continua a essere altissima. Grillo è sempre uguale a se stesso; i suoi parlamentari pure. Sono gli altri che devono recuperare terreno. Ma se continuano ad arretrare, intimoriti dal voto e al tempo stesso incapaci di prendere decisioni esemplari, la folla di Genova è destinata a ingrossarsi, fino al possibile epilogo di un risultato sonante alle elezioni europee.

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/12/02/cultura/opinioni/editoriali/lantipolitica-corre-verso-bruxelles-x0COGcKWHkGnXyfy3WaWbM/pagina.html
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 11, 2013, 11:23:55 am »

Editoriali
09/12/2013

Da oggi iniziano le vere sfide
Elisabetta Gualmini

Renzi si è preso il Pd. Ne ha conquistato la leadership in un modo e in tempi assolutamente inusitati rispetto all’intera storia dei partiti dell’Italia repubblicana. 

Con oltre il 65% dei voti, nel giro di un anno dalle primarie del 2012, ha fatto piazza pulita di un’intera generazione di dirigenti, ha ridimensionato i capibastone ed è diventato segretario.

Un trionfo, se si pensa che ha superato il 70% proprio nelle regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche), quelle in cui la tradizione post-comunista sembrava inscalfibile (dove Cuperlo paradossalmente va peggio che nelle altre regioni). 

Si tratta di un evento dirompente nell’Italia delle classi politiche inamovibili e aggrappate con le unghie alle rendite di posizione. Nell’Italia in cui nessuno va mai a casa. Basti pensare ai leader del Pci segretari a vita, ad Andreotti che era sottosegretario alla presidenza del consiglio nel 1947 e primo ministro nel 1990 (43 anni dopo!), o alla longevità politica di Berlusconi. Questa volta qualcuno ha perso. Senza ombra di dubbio.

Un cambiamento simile è stato possibile solo grazie alla particolare democrazia interna che si è dato il Pd nella fase fondativa: alle primarie, in senso lato, che prima hanno consentito al “ragazzo” di emergere come sindaco di Firenze, poi di affermarsi come leader nazionale nella sfida a Bersani e infine di insediarsi alla guida del partito. Per un lungo tratto, contro tutto l’establishment interno.

Il partito aperto ha aiutato Renzi e Renzi ha aiutato il partito aperto. Ha “conquistato” (nella doppia accezione) il Pd grazie all’enorme partecipazione del popolo degli elettori che ha travalicato di gran lunga il popolo degli iscritti. Gente di tutte le età pazientemente in coda ai gazebo, che vuole dire la sua, anche se ha ben poco in comune con i militanti delle sezioni e dei circoli, prevalentemente anziani. I quali, circoli, a loro volta, dimostrano quanto siano, soprattutto in alcune aree, troppo chiusi per essere rappresentativi anche solo della base elettorale più identificata. La media dell’età non sarà in linea con quella della popolazione, ma ieri si è abbassata parecchio rispetto al “primo turno”. Negli anni drammatici della sfiducia totale nella politica, di una credibilità dei partiti ormai sotto i piedi, oltre due milioni di persone si sono messe in fila per scegliere il segretario di un partito che si candida anche a governare il paese. 

Ma ora il punto è questo. Renzi si è preso la leadership del Pd, ma per fare cosa? Ora inizia la partita vera. Perché le resistenze saranno fortissime. Il primo scoglio lo ha posto la Corte Costituzionale con una (discutibile) sentenza che ha imposto il ritorno a un sistema elettorale puramente proporzionale (addirittura con le preferenze in circoscrizioni enormi), facendo tabula rasa di 20 anni di bipolarismo. E in parlamento sono già apparse varie tentazioni di approfittarne, assecondate dall’incapacità dei partiti dopo anni e anni di cambiare la legge elettorale. Ora ne va del destino del nostro paese, nel caso in cui rimanesse un sistema proporzionale, saremmo condannati alla ingovernabilità. Renzi che da oggi è a capo del partito più grande in Italia e del partito più forte nel governo non può aspettare nemmeno un giorno. L’unica soluzione, più che spostare la discussione alla Camera, è trovare subito al Senato una maggioranza per ripristinare il sistema elettorale precedente. Quello voluto dalla quasi totalità dei molti cittadini che votarono il referendum Segni del 1993 e che in più di un milione avevano chiesto di far rivivere firmando per il referendum nel 2011 che un’altra sentenza della Corte Costituzionale ha impedito si svolgesse. Ma lo deve fare ora, subito, adesso! Prima al Senato (dove il Pd non ha la maggioranza), cercando gli accordi necessari con chi ci sta e poi alla Camera (dove il testo potrebbe andare liscio). Senza traccheggiare, andando subito a segno.

Questa è la prima vera partita in cui non sarà in gioco solo la sua personale traiettoria: fin qui Renzi di strada ne ha fatta, la bicicletta del partito aperto che ha trovato sembrava fatta apposta per lui. Ora ci sarà ancora parecchio da pedalare e la strada sarà in salita, ma la missione potrebbe non essere impossibile. 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/12/09/cultura/opinioni/editoriali/da-oggi-iniziano-le-vere-sfide-zz0rlVddlThkrH1p7Vj7BJ/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 16, 2013, 04:44:49 pm »

Editoriali
16/12/2013

Un’agenda stile “prendere o lasciare”

Elisabetta Gualmini

Esattamente come aveva promesso, ieri Matteo Renzi a Milano ha preso in mano le sorti del governo. Ha dettato l’agenda all’esecutivo proponendo un accordo iper-dettagliato alla tedesca che gli consente di puntare a un duplice obiettivo. Se le riforme riusciranno, Renzi potrà presentarsi agli elettori con un primo pacchetto di misure popolari da rivendicare a proprio merito e una macchina dello Stato che decide più velocemente. Se invece tutto andrà a rotoli, sarà chiaro che il sindaco-segretario ci ha provato e ci sarà comunque qualcuno su cui scaricare il biasimo: da Alfano a Grillo, passando per Berlusconi. In piena campagna elettorale per le europee, Renzi non può permettersi di cincischiare. 

Passato il Natale, non si scherza più. Non si può ripetere la «brutta figura» dell’Imu, il prezzo altissimo pagato sull’altare delle larghe intese, con Berlusconi che ha pure rovesciato il tavolo passando all’opposizione. E così sul lavoro, sui diritti civili e le riforme istituzionali Renzi inanella le sue proposte ultimative, con annesse scadenze, i patti a cui é difficile dire di no, da prendere o lasciare.

Alcuni contenuti, se si va oltre le formule stentoree buone per la platea congressuale e per le tv, non sono a dire il vero proprio chiari. Parlando ai delegati del Pd, Renzi si tiene saldamente stretto ai capitoli più cari alla sinistra (come ha prontamente colto Alfano, per ridimensionare la portata del messaggio). Ma proprio sulla questione numero uno, sul lavoro, Renzi dovrà spiegare meglio in quale direzione intende andare. Se tornare a una visione assistenzialista, come quella incarnata (almeno fino a ieri) dalla neo-responsabile in segreteria Pd, Marianna Madia, sostenuta alle primarie dei parlamentari dalla Cgil (e, tra le altre cose, autrice di un libro sulla precarietà con prefazione di Susanna Camusso), che punta su sussidi e garanzie sociali per tutti (un non ben specificato reddito di inclusione universalistico finanziato togliendo risorse non si sa dove) e l’ennesima riforma dei centri per l’impiego che sino ad oggi hanno intermediato il 4% della forza lavoro, o quella opposta, orientata alla crescita della ricchezza come volano per redistribuire, che pensa piuttosto di investire le non molte risorse disponibili per ridurre le tasse sul lavoro (come ha chiesto Filippo Taddei, anche lui in segreteria Pd) e non criminalizza la flessibilità (come diceva Pietro Ichino, graditissimo a Renzi nelle primarie del 2012). Non si può tenere insieme tutto; attaccare il sindacato e poi proporre politiche del lavoro che ammiccano al sindacato. E poi lo ius soli e la patata bollente della riforma elettorale e dell’abolizione del Senato, con un ultimatum rivolto a Grillo. (E Beppe ha risposto in fretta: picche.) 

Insomma Renzi detta le sue condizioni, ed è credibile, sul palcoscenico dell’Assemblea Nazionale, perché ha davanti a sé una platea oggi disposta a seguirlo su tutto. Un partito che sembra docile e addomesticato in cui gli antagonisti sono stati ridotti a minoranze deboli e leali. Bisognerà vedere se i gruppi parlamentari suoneranno ordinatamente lo stesso spartito. Ma questa oggi appare la novità del Pd. C’entra poco la sfida generazionale (di trentenni o quarantenni, balzati sotto i riflettori della politica, che replicano malamente i contenuti diramati dal leader). E’ la forza personale di Renzi che forse riuscirà a dare una scossa. Il Pd ha trovato un leader e il leader ha trovato il partito. E il Pd rompe non pochi tabù. Ha un segretario che cura la comunicazione quanto la strategia, la scena quanto la piattaforma. Una roba che deve aver fatto venire l’orticaria ai dirigenti più anziani. Qualcuno si rivolterebbe nella tomba a sentire gli applausi scroscianti dell’assemblea agli incitamenti motivazionali del segretario, da «rimaniamo ribelli» a «resta speciale e non ti buttare via». Con quella strizzatina d’occhio che Renzi fa sempre prima di cominciare a parlare (ma a chi?) e la girandola di nomi propri che fanno venire il mal di testa, da Enrico, Guglielmo, Pierluigi a Gianni&Pippo, passando per le undicenni Fatima e Barbara, a Katia e Paolo (ma Katia chi?). Insomma il Pd ha cambiato pelle. Se starà sulla frontiera e non nel museo delle cere lo vedremo tra poco. Anzi tra pochissimo. Entro gennaio.

twitter@gualminielisa 

DA - http://lastampa.it/2013/12/16/cultura/opinioni/editoriali/unagenda-stile-prendere-o-lasciare-fAFEQPbo8F57JYVE18LYlL/pagina.html
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 30, 2013, 05:56:50 pm »

Editoriali
30/12/2013

Matteo contro tutti
Elisabetta Gualmini

L’intervista di ieri di Renzi sulla Stampa contiene cinque proposizioni che fanno capire molto bene qual è la postura del nuovo leader Pd nei confronti del governo e immaginare quali saranno le sue prossime mosse.

Primo. Io non sono come Letta e Alfano. Renzi, senza giri di parole, marca la completa discontinuità della sua storia rispetto a quella del premier e del vicepremier. E questo nessuno lo può mettere in dubbio. Sono due mondi e due visioni della politica sideralmente opposte che hanno ben poco in comune. Non basta l’età a tenerle agganciate. Letta e Alfano sono arrivati a ricoprire vari incarichi politici, e certamente il più elevato della loro carriera, quello attuale, per nomina dall’alto, da parte di politici parecchio più anziani di loro. Renzi ci è arrivato con voti conquistati dal basso, ponendosi in aperto contrasto con chi ha mandato avanti i primi due. Renzi può far pesare voti, non generiche dichiarazioni di stima, già presi o attesi, che i coinquilini di Palazzo Chigi non hanno. 

Secondo. Il governo va facendo marchette. In effetti i giri di valzer sull’Imu e la carrettata di nomine di neo-prefetti sono opera sua (del governo). 

Le mille mance della legge di stabilità sono passate con la sua approvazione, benevola o succube nei confronti dei battaglioni parlamentari senza guida che lo sostengono. 

Terzo. Non negozio con Letta sui sottosegretari. Il sindaco-segretario ci dice chiaro e tondo che non gli interessa il rimpasto, una pratica consolidatissima della prima repubblica, dopo aver accettato la quale, crollerebbe tutto il castello della sua diversità. Un altro modo per dire: le piccole intese non sono cosa mia e non mi faccio includere in giochi di palazzo destinati a durare poco. Un Renzi che fa il verso a Grillo, rigettando scambi e accordicchi con chi ha una visione diversa dalla sua. 

Quarto. Datemi una legge elettorale maggioritaria. Oggi, in effetti, una priorità assoluta: per la democrazia italiana e per il Renzi medesimo. Senza una legge elettorale che consente a chi vince di governare, continueremo a tenerci, nella migliore delle ipotesi, governi di decantazione, incaponiti nel voler durare, mentre il Paese si arrabatta declinando. Senza una legge maggioritaria i partiti non avrebbero più bisogno di un leader che faccia loro vincere le elezioni. La forza di Renzi, il suo approccio alla leadership e il suo primo messaggio, perderebbero peso. Per questo dice chiaramente (e giustamente) che ne parlerà con chiunque, a cominciare da Berlusconi, forse l’unico interessato a questo accordo, a dimostrazione che è ancora quello che prende i voti nel centrodestra. 

Quinto. A chi scalpita per andare alle elezioni, Renzi dice: «State calmi, ragazzi».

Per interpretare le prime quattro affermazioni non servono supposizioni e dietrologie. Sono una la conseguenza dell’altra. Semmai ci si potrebbe chiedere: perché dire le prime tre con così poca grazia nei confronti di Letta e Alfano, così a brutto muso? Ma solo se non si fosse ancora capito il carattere del ragazzo («the boy», si diceva di Tony Blair), il suo parlar chiaro e la sua dichiarata ambizione. Uno che ha capito che nella melassa melliflua della politica italiana, che ha disgustato anche il più paziente dei cittadini, è meglio colpire piuttosto che tentennare, sparare e incalzare piuttosto che rassicurare. 

L’unica cosa su cui si possono nutrire dubbi è se sia realmente disposto, dopo aver ottenuto la legge elettorale, semmai gli riuscisse, ad aspettare ancora un anno e mezzo. Dovendo nel frattempo affrontare il test insidiosissimo delle Europee, con il Pd compresso tra l’esplosione dei sentimenti euroscettici, mobilitati da Berlusconi, Salvini, Vendola, Grillo, e una miriade di partitini suoi alleati nelle ristrette intese. 

Finora Renzi è parso credibile nel dire che sosterrà il governo Letta fino al 2015, affinché e purché si facciano le riforme (legge elettorale e abolizione del Senato). D’altro canto non è facile far correre la bicicletta delle intese di taglia mini come una Ferrari, infiocchettando una scelta epocale dietro l’altra dopo 20 anni di inerzia totale. E’ una sfida che rasenta l’impossibile. Il primo test è a gennaio. Se Alfano si metterà di traverso, per prendere tempo e sostenere una legge non abbastanza maggioritaria, sarà già molto chiaro che la road map delle riforme è arrivata al capolinea. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/30/cultura/opinioni/editoriali/matteo-contro-tutti-4eL5AC3lTbXhWBJBIcwY8K/pagina.html
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 21, 2014, 05:58:11 pm »

Editoriali
21/01/2014

Riforma importante
Compromesso ragionevole

Elisabetta Gualmini

Alla ricerca della «dignità perduta», il caterpillar Renzi ha messo sul tavolo della segreteria Pd un pacchetto di riforme istituzionali già chiuso. Nel giro di due direzioni e di 4 giorni, il neo-segretario ha portato a casa il sì di Berlusconi, Alfano e Letta. E’ un pacchetto all inclusive, prendere o lasciare, senza vie di mezzo, con tempi e scadenze fissate, proprio come nel famoso foglio Excel. Ma se si vuole fare gli schizzinosi e cambiare qualche ingrediente (come chi chiede di farsi togliere la cipolla dall’hamburger) tutto si sfarina e si rimane a mani vuote. E il Pd ha colto l’offerta al volo, con una stragrande maggioranza.

E’ un doppio successo per il segretario del Pd. Primo. Ha rimesso in moto un pachiderma che da decenni pareva privo di vita, disegnando una riforma su tre livelli che, se tenuta tutta insieme, potrebbe davvero segnare l’inizio di una stagione nuova. Secondo: ha dimostrato, se ci fossero ancora dubbi, che la leadership conta, che in politica le cose si fanno se qualcuno tira e dà la spinta, ed è capace di negoziare da posizioni di forza. Se c’è un leader. Punto.

Certo, il contenuto dell’accordo sul sistema elettorale non è esaltante. Però raggiunge gli obiettivi, a fronte di un contesto insidioso e di attori in gioco recalcitranti ad autoriformarsi. Come un compito ben fatto, corregge il Porcellum seguendo punto per punto le indicazioni della Consulta. Tutto quello che ha chiesto la Corte c’è. 

L’assegnazione del premio è condizionata al superamento di una soglia minima (35%) o alla vittoria in un eventuale secondo turno di ballottaggio. Le liste bloccate si accorciano fino a rendere i nomi dei candidati di collegio ben visibili per gli elettori, come in Spagna, com’era per la quota proporzionale della Mattarella e com’è nella gran parte dei Paesi europei. Ma la vera novità, non richiesta dalla Corte, è che vengono alzate le soglie di sbarramento anti-partitini, se é vero che pure queste sono parte non più negoziabile dell’accordo: salgono al 5% per i partiti connessi a coalizioni che prendano almeno il 12; all’8% per i partiti solitari. Per intendersi, oggi come oggi, Scelta Civica, Lega, Sel, Udc e Ncd (che non può dirlo) sarebbero tagliate fuori!

Cosí Renzi ha tenuto dentro tutti: Alfano, Berlusconi e l’opposizione del suo stesso partito. Berlusconi ha incassato le liste corte e la soglia al 5% anti-frammentazione, mandando giù l’amaro calice del doppio turno, Alfano ha incassato la logica delle coalizioni pluripartitiche e una assicurazione sulla vita del governo di almeno un anno per la riforma costituzionale. E si ripristina comunque una dinamica bipolare che di fatto rende la vita difficile a Grillo, il quale farà fatica a vincere sia al primo turno (è dura raggiungere il 35% in solitaria) sia al secondo (è assai improbabile che gli elettori mandino il Grillo anti-sistema a Palazzo Chigi, se c’è una alternativa un po’ più rassicurante). 

 

Certo, sarebbe stato meglio tornare ai collegi uninominali: una soluzione che avrebbe reso più trasparente il rapporto dei singoli candidati con i cittadini e più nitida la scelta della forza politica chiamata a governare. Ma l’ottimo paretiano è difficile da raggiungere se vuoi coinvolgere maggioranza e opposizione. 

E così la riforma del sistema elettorale si accompagna alla abolizione del senato elettivo, che diventerebbe una camera delle autonomie locali con innesti illustri dalla società civile. E poi la riforma del titolo V, che dovrebbe rimettere ordine alle competenze (troppe) in mano alle regioni, ridando a Cesare ciò che è di Cesare (turismo ed energia rispedite allo stato) e ricondurre le regioni (ai minimi storici di credibilità) a quello che possono e sanno fare. 

Niente male se tutto va per il meglio. Se i senatori non ci ripensano e si mettono di traverso al proprio suicidio assistito e se tutti stanno ai patti. Ma anche se così non fosse, Renzi ci ha comunque provato, mettendo tutti davanti alle proprie responsabilità. Saranno gli elettori a giudicare. Se invece tutto va per il verso giusto, avremo una riforma importante nata da un compromesso ragionevole. Una soluzione pragmatica. Nessun seminario, nessuna commissione di cattedratici decadenti. Una decisione. Non è poco.

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/01/21/cultura/opinioni/editoriali/riforma-importante-compromesso-ragionevole-OUmWOjqn8ljnQTDHW4zFvN/pagina.html
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 29, 2014, 04:56:41 pm »

Editoriali
29/01/2014

La corsa a ostacoli di Matteo

Elisabetta Gualmini

La vera scommessa di Matteo Renzi non è tanto (o solo) portare a casa la riforma del sistema elettorale, ma è soprattutto vincere la sua prima battaglia contro la politica lenta e inconcludente. Che se non parlassimo di Matteo, penseremmo tutti a Beppe. «Non mi farò ingabbiare dalle liturgie della politica», ha detto ieri Renzi-Perseo, deciso a rincorrere e ad annientare la Politica-Medusa, prima che questa lo faccia diventare, anche lui, di pietra.

Renzi cerca dunque di evitare il sortilegio, giocando da bordo campo, dando dritte, dettando schemi di gioco e urlando come un forsennato, all’occorrenza, per spingere gli inquilini del palazzo, riluttanti, ad auto-riformarsi. E non c’è dubbio che la velocità è dalla sua parte; perché ha capito che negli anni più tremendi della democrazia impaludata, occorre correre e correre, senza prendere fiato. Essere più rapidi degli altri, fulminei. Perché gli italiani hanno un disperato bisogno di risposte concrete. Subito. Non sopportano la complessità dei processi politici, non credono più alla forza delle decisioni negoziate a lungo. 

E così Matteo prende le distanze: preferisce Firenze a Roma, la bicicletta all’auto blu, il maglioncino rosso shocking alla giacca, il panino di Eataly ai ristoranti romani. Ha capito lo spirito dei tempi e ci vive dentro benissimo. Non ci si può più permettere la lentezza. «Fuori dalle stanze dei palazzi c’è un Paese che ha bisogno di gesti concreti di cambiamento. Ora, non tra qualche anno». Ripete. Ma ci sono cose che Renzi non può controllare. ll Parlamento ha le sue regole, e le istituzioni sono resilienti. 

La guerra di trincea è iniziata. I pericoli e le possibili trappole vengono da quattro fronti. Nell’ordine, per primo, l’ostruzionismo grillino. Ovvio. Inevitabile che si mettesse in moto. E’ già all’opera in commissione Affari Costituzionali con interventi fiume di ciascuno degli otto componenti pentastellati, sui prolegomeni, nella discussione generale sugli emendamenti: ancora prima di cominciare a votarli. Potrebbe continuare con lo stesso ritmo e la stessa tecnica su ognuno di essi, fino alle calende greche. I seguaci di Grillo d’altro canto non hanno nulla da perdere in questa partita. Si sono tagliati fuori dalle trattative sulla riforma elettorale e hanno deciso per l’ennesima volta di giocare in solitaria. E mentre Grillo lancia il secondo mirabolante referendum on line sulle diverse forme di collegio uninominale, i più temerari, ormai privi di qualsiasi strategia, si muovono alla rinfusa e fanno a gara a chi la spara più grossa (come l’insulto intollerabile di ieri a Napolitano). Come ha incredibilmente riconosciuto proprio ieri Adriano Celentano, un uomo certamente non ostile alla protesta grillina, che ha lodato senza mezzi termini l’accordo tra Renzi e Berlusconi. 

La trincea grillina (secondo) potrebbe essere contrastata, proprio oggi, se il presidente berlusconiano della Commissione, Sisto, si avvalesse di uno strumento che il regolamento mette a sua disposizione, la cosiddetta tagliola, decidendo di mandare in aula il testo base così come è stato inizialmente approvato, senza nemmeno iniziare l’esame degli emendamenti. Mossa cruciale, perché se il testo arriva in aula prima che finisca il mese di gennaio, allora (terzo) la presidente vendoliana dell’Aula, Laura Boldrini, potrebbe decidere di fissare un termine ultimo per la votazione entro il mese di febbraio. Scavallato gennaio, il termine, a norma del regolamento, potrebbe essere fissato solo per il mese di marzo. Fin qui i possibili vincoli esterni: i grillini, il presidente berlusconiano, la presidente eletta da SeL. Se e quando si arriverà in aula, (quarto) i tranelli potrebbero venire dall’interno dello stesso Pd, con il voto segreto. Magari giocando sulla materia molto popolare delle preferenze, strombazzata anche da chi in cuor suo non la condivide, che consente ai dissidenti di strizzare l’occhio ai cittadini là fuori e di rompere l’accordo con Forza Italia.

Vedremo in questa settimana se la strategia del segretario-veloce andrà a buon fine. Giocare a Rischiatutto con la politica è un’operazione ardita. Ma in certi casi è davvero meglio correre e darsi da fare, piuttosto che stare fermi.

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/01/29/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-a-ostacoli-di-matteo-pzHvLlZaANkZIjZSgYUw0H/pagina.html
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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:37:05 pm »

Editoriali
14/02/2014

La soluzione per salvare la legislatura
Elisabetta Gualmini

Nasce il Renzi 1. Da ieri il sindaco-segretario è diventato di fatto primo ministro di un nuovo governo politico di coalizione a guida Pd. Ha detronizzato Enrico Letta e ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. Lo ha fatto con una spregiudicatezza non superiore a quella mostrata dagli accaniti sostenitori delle larghe e poi piccole intese rapidamente saliti sul nuovo carro, ma con molto coraggio in più. 

Renzi vuole cambiare direzione, velocità e ritmo. Per rianimare una legislatura in stato comatoso, che tuttavia - guarda caso - nessuno dei suoi protagonisti vuole interrompere. In assenza di una prospettiva chiara sui destini della legge elettorale e, ancora di più, sulle altre riforme istituzionali (Senato e Titolo V), il leader Pd scommette e rilancia. Senza la consacrazione salvifica delle urne e senza staffetta. Nessuno scambio aggraziato del testimone tra atleti della stessa squadra, nessun passaggio di mano consensuale; tra il segretario e Letta è stata guerra aperta, uno scontro frontale con annesse randellate furenti. Tra due che non si possono vedere. Al confronto quelle tra Veltroni e D’Alema erano sberleffi e baruffe, lizzi e lazze tra educandi. 

C’è da chiedersi se questa sia l’unica soluzione possibile. Nel metodo e nel merito. In un Paese ormai ai minimi storici di credibilità e di fiducia nella politica (ci siamo giocati praticamente tutto, i comuni, le regioni, l’Europa, figuriamoci i partiti). E cioè se la terza soluzione di palazzo, infiocchettata e servita già pronta ai cittadini-spettatori, sia la strada corretta da cavalcare. L’ultima possibilità che resta per dare un senso a una legislatura che, francamente, un senso non ce l’ha, dando davvero corpo alle riforme, che ancora sono scritte sull’acqua, nonostante le promesse, le scadenze e i file excel.

Sul metodo ci sarebbe da discutere. A prescindere da quali saranno le liturgie parlamentari per gestire la crisi, sta di fatto che sarebbe stato meglio per Renzi arrivare a Palazzo Chigi passando per le urne, magari subito dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, come promesso durante le primarie: mai a capo delle larghe intese, mai senza passare per il voto. Ed evitando di mettere in scena l’ennesima puntata della telenovela sulle divisioni interne al Pd, per la gioia degli altri partiti.

Nel merito, invece, il Renzi 1 è probabilmente l’unica soluzione ragionevole a fronte del contesto. Un governo by default, in mancanza di alternative. Perché non è possibile andare al voto con questa legge elettorale. E perché i tempi per portarne a casa una nuova potrebbero, secondo Renzi, allungarsi un bel po’, rendendo ancora più alto il rischio che l’attesa sia vana.

Come abbiamo sostenuto in diversi, non solo su questo giornale, c’è da dubitare che la strada del «governo di necessità» sia quella giusta per realizzare «grandi riforme costituzionali». Anche l’esperienza di altri Paesi europei ci dice che di fronte a un Parlamento paralizzato dall’assenza di una maggioranza politicamente coesa, sarebbe stato meglio darsi pochi obiettivi concreti, per rammendare il rammendabile, e tornare a votare. Fare il meno possibile, per evitare disastri. Si è invece seguita, sin dall’inizio, la strada della massima ambizione e della massima propensione al rischio, confidando sull’attaccamento dei parlamentari alla seggiola.

Ora Renzi si metterà a capo di un governo sostenuto da partiti elettoralmente minuscoli (Scelta Civica, Ncd e forse Sel) mentre continuerà ad aver bisogno dell’intesa con Berlusconi sulle riforme, dalla legge elettorale al bicameralismo. In un contesto economico che non appare certamente florido, mentre i bilanci pubblici sono pieni di buchi, al centro e nelle casse degli amati sindaci. 

Solo un fuoriclasse può far uscire da un governo debolissimo il coniglio, la colomba e anche un mazzo di rose. Renzi pare intenzionato a provarci e di coraggio, si sa, ne ha da vendere. Certo c’è anche il rischio che i tempi della legge elettorale da domani invece di accorciarsi riprendano ad allungarsi, che tutti si rilassino e che il neo-premier cominci a farsi logorare. Ma rivendicando una ambizione smisurata, Matteo ci prova. E già da oggi si metterà a correre come un forsennato. Archiviato velocemente Letta che oggi si dimetterà, Renzi-il-furioso riprende la volata. Ce la farà? Visti i precedenti, può darsi. E a questo punto, c’è proprio da sperarlo.

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/02/14/cultura/opinioni/editoriali/la-soluzione-per-salvare-la-legislatura-SRx54N2P0cobNNXIEM9K5I/pagina.html
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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 20, 2014, 11:24:11 am »

Editoriali
20/02/2014

Matteo innova e Beppe diventa “conservatore”
Elisabetta Gualmini

Mannaggia alla rete… Si sarà detto Beppe Grillo dopo aver letto i risultati del referendum-lampo lanciato al popolo del web per scegliere se andare o no a colloquio con Renzi. Per 446 voti in più, hanno vinto i sì. Beppe ha dovuto abbozzare e molto di controvoglia ha trascinato se stesso alla «consultazione farsa». 

E via con l’ennesimo comizio in solitaria, per la prima volta proprio dentro al teatrino della politica, sbrodolando però il medesimo copione della guerra contro tutti. Con meno parolacce, meno sudore, ma con il ritmo di sempre. Altrettanto di controvoglia, il premier incaricato è stato al gioco, non perdendo il controllo e pure provando a cambiare registro dopo i tentativi (assai tristi, soprattutto il primo) dei suoi predecessori. Non vi chiediamo nessun accordo alla vecchia maniera, vi raccontiamo quello che vogliamo fare. Niente da fare. Grillo per un po’ ha resistito e poi ha sbroccato: non sei credibile, rappresenti il marcio, sei l’uomo delle banche, dei poteri forti e pure dei rinfreschi, noi vogliamo disinfettare e azzerare tutto. Fine del match. 

Essendo stato del tutto inutile, per fortuna l’incontro è stato veloce. Avrà anche appassionato noi addetti ai lavori e gli smanettoni più incalliti dell’esercito di Grillo, indecisi se prendere a sassate il capo per l’ennesima occasione mancata o se proporne la santificazione con rito abbreviato per aver ribadito ancora una volta la brutale diversità dei 5 Stelle rispetto al resto del mondo, ma la gente là fuori probabilmente no. 

Non cambierà dunque molto dopo il duello Renzi-Grillo. Né Renzi avrà una vita più facile col suo governo, né Grillo pur continuando a non-dialogare porterà il suo movimento alla rovina. Più che le elucubrazioni sulla «fenomenologia dello streaming», ce lo dicono i segnali che emergono qua e là dalle elezioni e dai sondaggi. Il voto in Sardegna rivela tendenze non scontate, anche perché in quel caso il M5Stelle, primo partito nel 2013, non si è presentato. Si scopre in primo luogo l’enorme difficoltà dei partiti tradizionali a recuperare i voti degli arrabbiati. Su 100 elettori del M5Stelle nel 2013, la maggior parte, circa 60, si è rifugiato nell’astensionismo. Per il resto, circa in 15 hanno votato per il centro-sinistra e pochi di più per il centro-destra (se si considerano Cagliari e Sassari, dati Istituto Cattaneo). La lista anti-establishment della Murgia non ha intercettato nulla. La stessa tendenza era emersa dall’analisi di un altro tipo di elezione, le amministrative a Roma. Anche lì il Movimento 5 Stelle aveva ceduto all’astensione una quota rilevantissima di elettori (i quali avevano scelto addirittura di non votare il loro candidato a 5 stelle). Il partito anti-sistema di Grillo tiene incredibilmente, anche quando non è sulla scheda. Si segnala così, in prospettiva, come un traghettatore verso l’astensionismo, più che come una zattera per elettori in attesa che i vecchi partiti tornino a offrire qualcosa di convincente. Si conferma poi la trasversalità piena di questa forza politica. Non solo gli elettori vengono sia dalla destra che dalla sinistra, ma i pochi che rientrano nei partiti tradizionali, vanno da una parte e dall’altra, più o meno nella stessa misura. D’altro canto quando Beppe dice a Renzi «siamo conservatori», proprio ora che Matteo è diventato l’innovatore, guarda a destra (difendiamo la sovranità nazionale) e guarda a sinistra (acqua pubblica e no alle privatizzazioni), tenendo dentro tutti. 

 La spiegazione migliore che io abbia letto - di una tenuta così pervicace e resistente, pur in assenza di risultati – me l’ha scritta un lettore, Bruno, che sintetizza in maniera perfetta perché interi pezzi di classe media continuino a votare Grillo-il-guerriero. «Ho 64 anni e sono un funzionario pubblico. Schifato dalla politica, mi sono sentito dire dai miei figli laureati: abbiamo votato sempre chi ci hai consigliato, ma per noi non c’è futuro, voteremo M5S per azzerare un sistema che garantisce sempre i soliti noti. Ho detto: fate bene, vi appoggerò. Così noi classe media con stipendi bloccati, tasse in aumento, figli super-acculturati, ma disoccupati, abbiamo deciso di votare M5S. E ci aspettiamo che il M5S usi tutti i mezzi democratici per abbattere il sistema chiuso di potere creato dalla mia generazione. Ci devono mettere in pensione e ci deve essere più giustizia sociale. E naturalmente continueremo a votare M5S». 

È passato un anno dalle elezioni del 2013 e ancora non abbiamo una legge elettorale decente, non ci sono misure significative in campo economico, per non parlare delle riforme costituzionali. Quanti Bruno ci saranno in giro? Date retta a me. Moltissimi.

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/02/20/cultura/opinioni/editoriali/matteo-innova-e-beppe-diventa-conservatore-tkoW4GLeSCzOdi5owNDN7O/pagina.html
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 07, 2014, 09:04:12 am »

Editoriali
06/03/2014 - le legge elettorale

Una riforma che per ora resta a metà

Elisabetta Gualmini

Aspettavamo una scossa e la scossa c’è stata. Siamo un po’ tutti sotto shock per il mezzo-Italicum che oggi o domani dovrebbe ricevere il primo suggello parlamentare. 

Con un colpo a sorpresa Matteo Renzi ha dato il via libera (tirandosi dietro, con doppia sorpresa, pure Berlusconi) alla proposta dei soci di minoranza dello strano governo (Ncd e cuperlian-dalemiani) di applicare la riforma solo alla Camera, dando per assodato che il Senato quanto prima scomparirà. Anzi, facendo come se fosse già scomparso. Da ieri l’altro. Game over, direbbe Matteo. 

L’azzardo è dunque massimo, e pur essendo abituati alle corse senza respiro del Premier e alle vittorie al fotofinish molti elementi della sceneggiatura destano preoccupazioni che forse dovrebbero impensierire lui stesso.

Primo. Il Senato c’è ancora. A dirla tutta, dovrebbe anche approvare la non-riforma del sistema di elezione che lo riguarda, prima di decretare la sua buona morte. 

Con una classe politica caduta al minimo della sua credibilità, cosa ci fa pensare che tra un anno e mezzo (referendum compreso) saremo approdati gioiosi e felici alla Terra Promessa? (Cioè alla Terza Repubblica?) 

Non solo il testo base della riforma del Senato ancora non c’è. Manca pure l’algoritmo che dica, nero su bianco, come si fa, con il mezzo-Italicum, a trasformare i voti in seggi: non proprio un «dettaglio da addetti ai lavori». Non c’è nemmeno l’accordo tra i partiti della maggioranza su tutto il percorso, se Schifani può dire ai microfoni di Skytg24 e ad Avvenire - non due mesi fa, ma ieri l’altro - che è contrario alla riforma proposta da Renzi e che loro pensano a un Senato con funzioni differenziate rispetto alla Camera, che non dà e toglie la fiducia al governo, ma comunque elettivo. Quindi eletto con la proporzionale pura? Quando ne parleranno con il Pd e si metteranno d’accordo? 

Se tira quest’aria nella maggioranza, figuriamoci all’opposizione. Il Movimento 5 Stelle è da sempre per mantenere per intero la doppia casta di senatori e deputati, ma con stipendi ridotti, benché a decidere sarà come sempre l’amatissima Rete. Le resistenze saranno fortissime. Rispunteranno le barricate contro l’eccessiva concentrazione di poteri come nel modello Westminster: una camera sola che decide, con la maggioranza nelle mani del leader del maggiore partito. E prepariamoci a rivedere l’eterno film della contrapposizione tra gli appassionati sostenitori della «più bella Costituzione del mondo» e i pasdaran del semi-presidenzialismo (già che ci siamo perché non cambiare tutto? mah si, rimescoliamo le carte e ricominciamo tutto daccapo…).

Secondo. Fare le cose a metà non equivale a «fare le cose». Bisogna prendere atto che questo governo non è riuscito a mettere in sicurezza la legge elettorale. Punto. L’Italicum-Consultellum è la perfetta combinazione degli opposti (premio e liste bloccate in piccoli collegi accanto a un proporzionale puro e preferenze in grandi circoscrizioni). Dopo eventuali elezioni tenute con quel sistema, la maggioranza fabbricata alla Camera sarebbe del tutto inutile e bisognerebbe negoziarne un’altra molto più larga al Senato. Per non entrare in altri dettagli, tipo il voto di preferenza che la Corte ha preteso di imporre ma che nella legge per il Senato non c’é, o le strampalate soglie differenziate per partiti coalizzati e non coalizzati che sono invece rimaste.

Dopo il tragico errore da parte del Pd di non votare la mozione Giachetti sul ritorno alla Mattarella, siamo ancora alla dimostrazione che non vi è un accordo su un sistema elettorale decente. Si è dunque scelto un rischio massimo e una soluzione pasticciata che per un anno e mezzo ci lascia sospesi in uno strano limbo che offende le istituzioni e sottrae ai cittadini il loro sacrosanto diritto, che dovrebbe essere in qualsiasi momento potenzialmente esigibile, di tornare a votare per scegliere da chi vogliono essere governati.

Siamo abituati con Matteo Renzi a viaggiare sulle montagne russe e a confidare sull’intuito, l’abilità e la fortuna che aiuta gli audaci. Continuiamo quindi a contare sul suo coraggio e ad attendere fiduciosi che il governo faccia le cose. Questa cosa qui, però, per ora zoppica.

twitter@gualminielisa 

da  - http://lastampa.it/2014/03/06/cultura/opinioni/editoriali/una-riforma-che-per-ora-resta-a-met-Ee2FbHCNUHCPqiUrOJoALK/pagina.html
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 09, 2014, 06:25:04 pm »

08/04/2014
Come rendere democratici i tagli di spesa

Elisabetta Gualmini

La revisione della spesa pubblica che ha finalmente preso corpo nel nostro paese non può essere solo un’operazione contabile, una sadica ossessione da ragionieri pulp di dare colpi di accetta qua e là sull’inerme progenie di Monsù Travet. Il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione non passa solo per la riduzione chirurgica degli sprechi ma anche, allo stesso tempo, per nuovi investimenti sul personale. Sembra un paradosso ma non è così. Se ben gestita, la spending review potrebbe essere la più equa e «democratica» delle riforme: si liberano risorse dai settori dove ce ne sono troppe per evitare che altri settori di particolare rilevanza per i cittadini debbano essere ulteriormente degradati. Non si può dire ai dipendenti pubblici: ti tolgo risorse, ti blocco lo stipendio, e siccome sei un po’ fannullone può anche darsi che ti tagli la testa, ma comunque tu preparati a partecipare con entusiasmo a una straordinaria avventura di cambiamento e modernizzazione. 

In un paese in cui il personale pubblico è uno dei più vecchi al mondo questa sfida è ancora più difficile.

Anzi, è proprio questo il nodo più intricato da sciogliere se si vuole riformare sul serio la pubblica amministrazione e mettere in moto una spending review permanente. Il ministro Madia ha fatto quindi bene a metterlo in agenda e a tenere il punto. 

Il confronto internazionale è impietoso. L’amministrazione centrale italiana ha il tasso più alto di dipendenti pubblici con oltre 50 anni tra tutti i paesi Ocse, Giappone incluso: circa il 50% contro il 30% della Francia e il 31% del Regno Unito. Una burocrazia così anziana fa fatica a recuperare produttività e a elaborare visioni rivoluzionarie che guardino al futuro.

Altre cose che in tanti pensano invece non sono vere. Non è vero che i funzionari pubblici sono troppi. Nel decennio compreso tra il 2001 e il 2010 la diminuzione del pubblico impiego in Italia è stata di 4,4 punti percentuali (-160.000 unità), contro l’aumento del 5,1% in Francia e del 2,5% in Germania. Si contano da noi 58,4 dipendenti ogni 1.000 cittadini, un po’ più della Germania (55,4) ma molto di meno della Francia (80,8). Nessun elefante, nessun Leviatano, checché se ne dica. Semmai rimane il problema di retribuzioni dirigenziali completamente squilibrate e sproporzionate tra i diversi comparti; pensiamo a un dirigente scolastico che guadagna 6 volte in meno di alcuni direttori generali. 

Ho recentemente partecipato a una ricerca sulla dematerializzazione dei procedimenti amministrativi. Le frasi che ci siamo sentiti ripetere in tutti gli enti coinvolti nella sperimentazione riflettono la consapevolezza della necessità dell’innovazione, ma anche l’impossibilità del cambiamento in un’organizzazione vecchia. «Se non si darà ai giovani la possibilità di entrare, le pubbliche amministrazioni saranno lasciate alla buona volontà dei cinquantenni. Possiamo fare tutti i corsi di formazione che volete, ma senza un ricambio generazionale le organizzazioni invecchiano». E ancora: «Io, che sono il solo qui a occuparmi di innovazione, ho 59 anni». Oppure «Molti colleghi pur avendo imparato a gestire i flussi documentali digitali, si fanno ancora una copia cartacea di tutti gli atti così si sentono più sicuri».

Siamo dunque nel mezzo della terza spending review dal 2011 ad oggi, dopo il tentativo di autoriforma dall’interno (Giarda), di riforma eterodiretta (Bondi) e dopo il mix, giustamente messo in atto da Cottarelli tra coinvolgimento dei dipendenti interni e guida esterna. Siamo in ritardo di vent’anni rispetto agli Stati Uniti e alla «Reinvenzione del governo» di Al Gore (1992) e di trenta anni rispetto al restyling fatto a forza di verifiche e «scrutini» della Thatcher (1982).

Ma per la prima volta il governo sembra aver preso di petto la questione decidendo finalmente di decidere. Ha iniziato, opportunamente, dagli enti più che dai servizi e dalle persone. 

La proposta poi del ministro Madia di assumere nuove leve almeno con un rapporto 1 a 3 (rispetto ai prepensionamenti) è ragionevole. D’altro canto non ci sono alternative: inaugurare il cambiamento del settore pubblico e sperare in un paese semplice e accogliente non si può fare a risorse umane invariate. Si rischia altrimenti di avere un’anziana e bella signora con una silhouette perfetta. Ma che comunque non può correre i cento metri.

twitter@gualminielisa 

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« Risposta #28 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:06:20 pm »

Editoriali
23/04/2014

Per il Senato ci vorrà un miracolo
Elisabetta Gualmini

D’altronde non può fare miracoli. Nonostante la velocità, il ritmo e il carisma, Matteo Renzi è pur sempre a capo di un governo di compromesso. Un governo di coalizione tenuto in piedi da una strana maggioranza di partiti e correnti Pd, che sono tuttavia fondamentali per farlo sopravvivere. 

Al momento del cambio a Palazzo Chigi, sia il nuovo centrodestra di Alfano sia la sinistra post-bersaniana del Pd hanno festeggiato (pur senza applaudire), perché Renzi garantiva una zattera di salvataggio alla legislatura. Non ci hanno pensato un attimo a scaricare Letta in cambio di un po’ di ossigeno. 

Ma ora che Renzi detta l’agenda, su una sua linea molto netta, rischiano di scomparire: i primi, palesemente, alle elezioni europee e i secondi, senza che nessuno se ne accorga, dentro al Pd. Hanno quindi un ovvio bisogno di comunicare ai rispettivi constituencies la loro esistenza in vita e un punto di vista che li distingua, senza poter mettere d’altro canto in discussione il governo. Perché, è ovvio che, caduto Matteo, non resterebbe che tornare al voto. E allora sì, che rischierebbero di rimanere davvero senza fiato!

Questa «naturale» dinamica di un governo di coalizione, in Italia si svolge secondo le liturgie e i canoni del nostro scombinato assetto istituzionale. Con un Parlamento caotico, poco autorevole e vociferante che si è già abituato da un bel pezzo al gioco delle parti che prevede la moltiplicazione degli emendamenti civetta, senza speranze, presentati per parlare a segmenti organizzati dell’elettorato, in attesa che il governo tolga tutti dall’imbarazzo con il ricorso alla fiducia. 

Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. A meno che le due questioni oggi in ballo non aprano una crepa o non creino un alibi, dopo le Europee, per una rottura.

Quindi entrando nel merito della prima questione – il lavoro – siamo al solito conflitto divisivo tra difensori della flessibilità e i paladini delle garanzie a tutti i costi (un teatrino che va in scena da quasi vent’anni, dal Pacchetto Treu in avanti). Che tuttavia dà esiti molto deludenti, provvedimenti zoppi e annacquati senza alcun impatto di tipo strutturale. Come il decreto legge su cui ieri Renzi ha messo la fiducia dopo il compromesso raggiunto con la minoranza Pd. L’ennesimo (e modesto) maquillage alle regole sui contratti di impiego (diminuzione delle proroghe per i contratti a termine e più vincoli all’uso dell’apprendistato) che, sia nella formulazione originaria sia in quella addomesticata di ieri, non avrà un grande effetto sulla creazione di posti di lavoro. 

 

La crepa sulla riforma del Senato è ancora più insidiosa. Perché su questo punto Renzi ha realmente innovato rispetto a tutte le proposte precedenti, le quali partivano dall’assunto di conservare due distinti corpi di parlamentari eletti, e di conseguenza una doppia filiera di incarichi e strutture burocratiche: il vero costo finanziario e decisionale del bicameralismo. E’ sempre stato un assunto non detto ma rigorosamente intoccabile, da cui discendeva poi, di conseguenza, la necessità di dare al Senato un ruolo, se non identico, equipollente a quello della Camera, finendo per costruire architetture ancora più bizantine dell’attuale. Gli oppositori interni di Renzi, da ultimo il senatore Chiti, mentre enunciano grandi principi, si appendono in realtà a questa consolidata resistenza corporativa e si sono infilati nella consueta traiettoria. Con il Movimento 5 Stelle che, messo in difficoltà ormai ogni giorno dall’antipolitica di Renzi, non può che andare a sposare una battaglia di retroguardia. Ma il mancato superamento del bicameralismo, al di là della sua intrinseca irragionevolezza, si porterebbe dietro anche l’inapplicabilità o l’inutilità dell’Italicum. Perché un Senato eletto (magari con la proporzionale) verrebbe sicuramente dotato di poteri in grado di intralciare il percorso del governo, che abbia o no formalmente il potere di votare la fiducia.

Quindi, sul lavoro Renzi può anche muoversi come hanno già fatto quasi tutti i governi degli ultimi anni. La rivoluzione «gigantesca» che ogni giorno ci promette, nel caso che qualcuno si distragga, non passerà da lì. Non sarà per lui o per il ritocco all’impianto giuridico che ripartirà il mercato del lavoro. Sul Senato invece si gioca la partita della vita, del suo governo e dei governi delle prossime legislature. Qui sì, pensandoci meglio, il miracolo ci vorrebbe davvero. 

twitter@gualminielisa 

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« Risposta #29 inserito:: Maggio 12, 2014, 11:27:17 am »

Editoriali
11/05/2014

Il guitto, i figuranti e i colonnelli

Elisabetta Gualmini

Ieri si è capito qualcosa in più del partito di Grillo. Bologna d’altro canto è la città da cui l’avventura a 5 stelle è partita, con il primo V-Day del 2007. Quando Grillo si buttava col canotto sopra le teste dei simpatizzanti in delirio, urlando come un forsennato contro il Parlamento dei corrotti, dei pregiudicati e dei morti viventi. 

E proprio nella stessa città, ieri, Beppe-Robespierre-non-violento è tornato a impugnare le armi della rivoluzione contro tutti, e in particolare contro «il sistema di potere» della forza da sempre egemone in Emilia Romagna, oggi ereditato dal Pd. Un attacco frontale alla «mafia politica che controlla il territorio», tanto che i temi europei sono scivolati in fondo alla scaletta, come una parte dello spartito ormai obbligatoriamente da recitare, senza troppa passione. La battaglia vera, da qui al 25 maggio, se vi erano ancora dei dubbi, è tra il principale partito al governo e il principale partito di opposizione.

I candidati grillini ancora più del capo sparano a palle incatenate, prendono frammenti di realtà e fanno a gara a chi la dice più grossa: i poltronifici e i postifici, Hera, Unipol e le Coop, le partecipate e i consorzi, il controllo terroristico su tutto e tutti, pure i baffi di D’Alema che hanno occupato a lungo l’agenda politica, un sistema marcio da spazzare via.

L’attacco alla peste rossa è un registro perfetto per rievocare il mito fondativo. Un abito che Grillo indossa benissimo, un monologo che gli è del tutto congeniale, più dell’Europa dell’euro e del fiscal compact. Gli onesti contro i corrotti, i puri contro gli impuri. «E’ un tic essere onesti per noi», urla Beppe ai cyber-militanti di ogni età per l’occasione radunatisi in terra. Mentre impazzano i video sugli scambi di mazzette tra politica e affari per l’Expo, a Grillo non sembra vero di poter mettere in mostra, per contrasto, tutto il rigore della sua ortodossia. Sospende De Franceschi, l’unico rappresentante del M5Stelle in Regione, per un illecito amministrativo. Mentre il Pd, nelle parole di Grillo (e anche di Di Battista) tace su Genovese per il quale c’è un mandato di arresto (ma entrambi non sanno che la Commissione di garanzia del Pd ha già tolto a Genovese la tessera, seppure senza i clamori di una lapidazione pubblica). Torna tutta la visione manichea e dicotomica di Beppe, i buoni e i cattivi, noi e loro. 

Ma a Bologna si è intravista anche un’altra cosa: com’è fatta la struttura del «partito di Grillo». Esilissima, minimalista, ma non proprio del tutto liquida. Non ci sono, per scelta, amministratori professionali e quadri interni. La quasi totalità del suo ceto politico, dei candidati-portavoce, è composta da figuranti, da personaggi tra l’iper-normale e l’improbabile, destinati a dare fiato alla voce per una sola portata. Ma, in mezzo a loro, come reclutatori e coach, si sta creando una selezionata filiera di pochi fidatissimi colonnelli, sopravvissuti a prove ripetute e alle epurazioni degli altri ex pupilli dimostratisi troppo intraprendenti.



A Bologna c’è rimasto Massimo Bugani, che pare avere senso politico, controllo della situazione e capacità di stare sul palco. Grillo di fronte alla piazza non ha pari, però sta creando una filiera selezionatissima di luogotenenti. Quanto basta a reclutare e tenere in ordine il plotone delle comparse. Tutti, comunque, a una distanza abissale dal carisma del capo. «Ciao sono Franco e faccio il geometra», «Ciao sono Luca e voglio cambiare il paese», ci dicono i candidati-sconosciuti. C’è pure chi si stupisce di essere arrivato sino a lì (figurarsi noi…), chi confessa di non essere un gran oratore (era tra l’altro evidente), e chi per fortuna taglia corto limitandosi a un «Ciao, siete bellissimi». Una gara al ribasso sui contenuti e i programmi che fa pensare al Casaleggio che sentenzia «questi qui non sono dei De Gaulle, sono cittadini come tutti gli altri». Uno vale davvero uno. O forse, come recitava il sarcastico striscione firmato «peste rossa», rivolto al popolo pentastellato da un paio di finestre ben in vista sulla piazza: «Grillo vale uno, tu vali zero». C’è il leader-guitto-comunicatore, c’è il popolo, ci sono i candidati-figuranti e ora anche i colonnelli. Le elezioni europee potrebbero andare bene. Che sia sufficiente a dare continuità e respiro al Movimento per ora c’è da dubitarne.

twitter@gualminielisa

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