Il Cardinale Carlo Maria MARTINI
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IL RICORDO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Quella luce che ho visto in lui
Poche persone hanno influenzato i miei orientamenti e le mie scelte come Carlo Maria Martini.
Sull'Europa soprattutto
Caro direttore, la scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini priva la comunità dei credenti, ma anche le moltitudini di quanti non credono o non sono certi di credere, di un punto di riferimento dotato di eccezionale carisma e forte autorevolezza, uniti al profondo rispetto per ogni interlocutore. «Maestro dell'annuncio e della testimonianza del Vangelo nella nostra epoca», come è stato definito, Carlo Maria Martini lascia un vuoto incolmabile tra coloro che hanno trovato in lui una guida intellettuale e spirituale, attraverso la parola, gli scritti, l'esempio.
Ma va a prendere il posto che gli compete tra i grandi italiani ed europei che hanno contribuito a forgiare il pensiero religioso e la vita civile della nostra epoca.
Serberò per sempre la memoria, l'impronta e l'emozione degli incontri con il cardinale Martini, delle conversazioni con lui sull'educazione dei giovani, sui difficili momenti più volte vissuti dall'Italia negli ultimi trent'anni, sui ruoli della società civile e della comunità politica, sul valore dell'Europa unita, sull'impegno incessante necessario per avanzare verso quell'obiettivo, sulla forza d'animo che occorre per riprendersi dopo le inevitabili battute d'arresto. Poche persone, desidero riconoscerlo in questo momento, hanno influenzato i miei orientamenti e le mie scelte come Carlo Maria Martini.
Sull'Europa, soprattutto. Un tema che Martini ha sempre coltivato con passione, spesso in modo profetico. Sul Corriere della Sera del 1° maggio 1998, salutando la nascita dell'euro, egli esortava l'Europa a dare prova di un «supplemento di responsabilità». A cominciare da quella sfida che «consiste nel mostrare, con programmi concreti, che la moneta unica e lo stare insieme in un certo modo aumentano le prospettive di lavoro per tutti, in un quadro di autentica solidarietà».
Prima di quello storico passaggio, intervenendo al Parlamento Europeo a Strasburgo nel 1997, l'Arcivescovo di Milano rifletteva sul tema Suggestioni sull'Europa alla luce dell'opera di Sant'Ambrogio , in occasione del XVI centenario della morte del suo grande predecessore. «Ritengo si possa dire che l'Europa si trova di fronte a un bivio importante, forse decisivo, della sua storia. Da un lato, le si apre la strada di una più stretta integrazione: le linee per realizzarla sono molte e in gran parte sono incluse nella sua stessa storia. Dall'altro lato, la strada che può aprirsi è anche quella di un arresto del processo di unificazione o di una sua riduzione solo ad alcuni aspetti non pienamente rispettosi dei valori su cui deve fondarsi una vera Unione». «La scelta, dunque, sembra essere tra un'unità più stretta capace di coinvolgere un maggior numero di popoli e nazioni e una battuta d'arresto che potrebbe portare alla disgregazione dell'edificio europeo o alla identificazione di tale edificio con una sola parte del Continente».
Dilemmi drammatici, intravisti da Carlo Maria Martini con grande lucidità. Sta oggi a noi - sotto la sua perdurante guida, speriamo - batterci affinché gli aspetti negativi delle sue profezie non si avverino.
Mario Monti
1 settembre 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/12_settembre_01/monti-memoria-dilemma_eb9c4760-f3f8-11e1-8223-8f87a48260f4.shtml
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MARTINI, LA SCOMPARSA DI UN PADRE
Il mendicante con la porpora
Se lo avesse voluto, magari attenuando qualche sua posizione riformatrice, avrebbe potuto varcare il soglio pontificio. Ma a Roma preferì Gerusalemme. E al potere, gli studi e la gente. Martini non è stato soltanto un grande arcivescovo di Milano, negli anni difficili del terrorismo e dello sgretolamento morale della Prima Repubblica. Non è stato soltanto il tenace promotore della cattedra dei non credenti, il teologo raffinato e anticonformista, l'oppositore creativo pur nella disciplina delle gerarchie ecclesiastiche. È stato soprattutto un padre comprensivo in una società che di padri ne ha sempre meno, pur avendone un disperato bisogno.
Nessuno avrebbe mai immaginato che l'algido rettore gesuita, scelto da Giovanni Paolo II alla fine degli anni Settanta come successore di Sant'Ambrogio, così aristocratico e apparentemente freddo, avrebbe parlato al cuore di tutti, non solo dei fedeli, con tanta concreta semplicità. Delle molte lettere alle quali Martini rispose, negli anni in cui tenne la sua rubrica sul Corriere , fino al giugno scorso, rubrica che spiacque a Roma, ne vorrei ricordare una sola. Di un non credente, convinto però che «quella cosa bellissima che è la vita non ha potuto crearla nessun altro che un essere straordinario». Martini rispose così: «Nonostante la differenza tra il mio credere e la sua mancanza di fede siamo simili, lo siamo come uomini nello stupore davanti al creato e alla vita». Sono parole bellissime che disegnano il senso profondo di un destino comune.
E interrogano la nostra coscienza, un «muscolo», diceva Martini, che va allenato. Nel suo libro Le età della vita , il cardinale ricordava un proverbio indiano che divide la nostra esistenza in quattro parti. Nella prima si studia, nella seconda si insegna, nella terza si riflette. E nella quarta? Si mendica, anche senza accorgercene. Il mendicante con la porpora ha avuto l'umiltà di dismettere i suoi abiti curiali e di condividere con noi timori e fatiche. E come un padre ha tentato di aiutarci a sciogliere i dubbi che ci assalgono «la notte, quando l'oscurità affina i sensi e l'immaginazione».
A rispondere a quelle domande sui valori della vita che assomigliano a tanti «sassi che cadono nel buio del pozzo» e ad insegnarci, da grande comunicatore qual era, le insostituibili virtù del dialogo e dell'ascolto. In Conversazioni notturne a Gerusalemme , scritto con Georg Sporschill, Martini affrontò molti argomenti scomodi per la stessa Chiesa: dalla contraccezione all'adozione dei single , dalla comunione per i divorziati alle tematiche del fine vita, forse tra le cause del suo isolamento ecclesiastico. E il rifiuto finale di un accanimento terapeutico, quasi un testamento biologico, farà discutere e riflettere.
Nell'ultimo colloquio che avemmo, Martini, ormai senza voce, soffriva per gli scandali che scuotevano la Chiesa (indietro di 200 anni, dice nell'ultima intervista che pubblichiamo) e, pur su posizioni diverse, manifestava tutto il suo affetto e la sua vicinanza al Pontefice.
Sarebbe un gesto altamente simbolico per l'unità della Chiesa, persino rivoluzionario, se lunedì in Duomo, per l'estremo saluto, ci fosse anche Benedetto XVI.
1 settembre 2012 | 8:24
da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_01/de-bortoli-mendicante-porpora_23f7d6c8-f3f5-11e1-8223-8f87a48260f4.shtml
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La nipote «Così ci hai chiesto di essere addormentato»
La lettera al cardinal Martini della nipote Giulia: «Siamo stati assieme, nelle ultime 24 ore, tenendoti la mano»
(Imagoeconomica) (Imagoeconomica)
Caro zio,
zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti questo è il mio ultimo, intimo saluto.
Quando venerdì il tuo feretro è arrivato in Duomo la prima persona, tra i fedeli presenti, che ti è venuta incontro era un giovane in carrozzina, mi è parso affetto da Sla.
D'improvviso sono stata colta da una profondissima commozione, un'onda che saliva dal più profondo e mi diceva: «Lo devi fare per lui» e per tutti quei tantissimi uomini e donne che avevano iniziato a sfilare per darti l'estremo saluto, visibilmente carichi dei loro dolori e protesi verso la speranza.
Lo sento, Tu vorresti che parlassimo dell'agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell'importanza della buona morte.
Morire è certo per noi tutti un passaggio ineludibile, come d'altro canto il nascere e, come la gravidanza dà, ogni giorno, piccoli nuovi segni della formazione di una vita, anche la morte si annuncia spesso da lontano. Anche tu la sentivi avvicinare e ce lo ripetevi, tanto che per questo, a volte, ti prendevamo affettuosamente in giro.
Poi le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi più a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell'atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede.
Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia.
Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l'hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato.
Seppure fisicamente non cosciente - ma il tuo spirito l'ho percepito ben presente e recettivo - l'agonia non è stata né facile, né breve. Ciò nonostante, è stato un tempo che io ho sentito necessario, per te e per noi che ti stavamo accanto, proprio come è ineludibile il tempo del travaglio per una nuova vita.
È di questo tempo dell'agonia che tanto ci spaventa, che sono certa tu vorresti dire e provo umilmente a dire per te. La chiave di volta - sia per te che per noi - è stata l'abbandono della pretesa di guarigione o di prosecuzione della vita nonostante tutto. Tu diresti «la resa alla volontà di Dio».
A parte le cure palliative di cui non ho competenza per dire è l'atmosfera intorno al moribondo che, come avevo già avuto modo di sperimentare, è fondamentale.
Chi era con te ha sentito nel profondo che era necessaria una presenza affettuosa e siamo stati insieme, nelle ultime ventiquattro ore, tenendoti a turno la mano, come tu stesso avevi chiesto. Ognuno, mentalmente, credo ti abbia chiesto perdono per eventuali manchevolezze e a sua volta ti abbia perdonato, sciogliendo così tutte le emozioni negative.
In alcuni momenti, mentre il tuo respiro si faceva, con il passare delle ore, più corto e difficile e la pressione sanguigna scendeva vertiginosamente, ho sperato per te che te ne andassi; ma nella notte, alzando gli occhi sopra il tuo letto, ho incontrato il crocefisso che mi ha ricordato come neppure il Gesù uomo ha avuto lo sconto sulla sua agonia.
Eppure quelle ore trascorse insieme tra silenzi e sussurri, la recita di rosari o letture dalla Bibbia che stava ai piedi del tuo letto, sono state per me e per noi tutti un momento di ricchezza e di pace profonda.
Si stava compiendo qualcosa di tanto naturale ed ineludibile quanto solenne e misterioso a cui non solo tu, ma nessuno di coloro che ti erano più vicini, poteva sottrarsi. Il silenzio interiore ed esteriore i movimenti misurati l'assenza di rumori ed emozioni gridate - ma soprattutto l'accettazione e l'attesa vigile - sono stati la cifra delle ore trascorse con te.
Quando è arrivato l'ultimo respiro ho percepito, e non è la prima volta che mi accade assistendo un moribondo, che qualcosa si staccava dal corpo, che lì sul letto rimaneva soltanto l'involucro fisico. Lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi. Grazie Zio per averci permesso di essere con te nel momento finale. Una richiesta: intercedi perché venga permesso a tutti coloro che lo desiderano di essere vicini ai loro cari nel momento del trapasso e di provare la dolce pienezza dell'accompagnamento.
Giulia Facchini Martini
4 settembre 2012 | 11:21© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/12_settembre_4/cosi-voleva-essere-addormantato-2111678973083.shtml#
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1 settembre 2012 - ore 06:59
Controversia su Martini
Storia di una grande vocazione, di un pastore riluttante, di una figura mediatica osannata dai beautiful people, e di un cardinale tormentato che votò Ratzinger
L’Aloisianum, la gloriosa casa dei Gesuiti a Gallarate, centro di studi filosofici e non biblici, è stata la sua ultima dimora.
Ché a Gerusalemme, che aveva scelto per sé e per tornare ai suoi studi – più di Roma e meglio di Roma: Gerusalemme come l’altra Roma – e dove aveva trascorso sei anni dopo essersi ritirato, aveva dovuto rinunciare. In attesa di tornarci per sempre, nella valle di Josafat. In uno dei suoi ultimi libri aveva citato per una volta non la Bibbia, ma un proverbio indiano: “Dapprima impariamo, poi insegniamo, poi ci ritiriamo e impariamo a tacere. E nella quarta fase, l’uomo impara a mendicare”. La mendicanza della malattia, certo, il Parkinson. E la mendicanza umana della preghiera: “Un tempo avevo sogni sulla chiesa… Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare con la chiesa”. Ma non è affatto vero che abbia mai smesso di parlare, e di sognare la sua chiesa. Anzi Carlo Maria Martini non ha mai voluto farsi sentire così tanto come nei suoi ultimi anni. Da quando nel 2006 l’Espresso pubblicò il suo dialogo con Ignazio Marino, in cui chiedeva alla chiesa “il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale”, per superare il “doloroso divario tra la prassi ammessa comunemente dalla gente e anche sancita dalle leggi e l’atteggiamento almeno teorico di molti credenti”. Oppure da quando nel 2008 aveva pubblicato le sue “Conversazioni notturne a Gerusalemme” col gesuita tedesco Georg Sporschill, dedicate al “rischio della fede”.
Qualcuno si era limitato a liquidarle con un “Gesù non è cattolico”. In realtà erano una summa teologica di tutte le zone grigie, i chiaroscuri, i detti e non detti del pensiero Martiniano. Che qui diventavano espliciti, ad esempio sulla bioetica: “Dopo l’Humanae Vitae, i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, hanno seguito, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti. Quasi quarant’anni di distanza (un periodo lungo quanto il passaggio di Israele nel deserto) potrebbero consentirci una nuova visione”.
Entrato nei gesuiti a diciassette anni, nel 1944 (ma la scelta avvenne ancora prima: “Ho compiuto allora la decisione della mia vocazione.
Ho dei ricordi, tra i dieci e i dodici anni: una scelta assoluta, già chiarissima”, riporta Marco Garzonio nel saggio biografico del Meridiano che Mondadori ha dedicato al cardinale, “Martini - Le ragioni del credere”), l’arcivescovo emerito di Milano e cardinale Carlo Maria Martini ha attraversato nella chiesa e nella Compagnia di Gesù quasi sette decenni, molti da protagonista, molti con l’immagine del bastian contrario, dell’antipapa, dell’ante-papa, come preferì definirsi lui. E in questa lunga vita c’è ovviamente di tutto. Ma non il contrario di tutto.
Figlio di un ingegnere edile di Orbassano, ordinata e religiosa borghesia piemontese, talentuoso studente di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, la Harvard dei gesuiti a Roma, il 29 settembre 1969, a soli quarant’anni, ne venne nominato rettore.
E’ il capitolo meno conosciuto della sua vita, eppure cruciale, perché poi, in fin dei conti, tutte le vicende e gli scontri notevoli nella chiesa dell’ultimo mezzo secolo partono da lì, da Roma e in gran parte dai gesuiti, dalla primavera conciliare e dalla lotta tra conservatori e nuovi teologi che si consuma negli anni Sessanta nell’apparente quiete sonnacchiosa di una Roma ancora antropologicamente papalina.
Martini c’era. Il quarantenne gesuita divenne rettore del Biblico giusto nell’anno in cui il suo glorioso ordine, sotto i più forsennati venti della contestazione e la garibaldina profetica guida di Padre Pedro Arrupe stava per tracollare definitivamente (“un basco ci ha fondato, un basco ci chiuderà”).
Discepolo del grande cardinale e gesuita tedesco Augustin Bea, direttore del Biblico, patrono del nuovo metodo storico-critico e avversario della nouvelle théologie di cui erano esponenti Jean Daniélou e Henri de Lubac (che invece molto affascinava un talentuoso teologo tedesco, coetaneo di Martini, Joseph Ratzinger) e che sosteneva un’esegesi spirituale separata dal senso storico-letterale.
Al Biblico si compivano gli studi più spericolati del nuovo metodo, era sotto il fuoco dei conservatori: “Ci accusavano di leggere la Bibbia come degli increduli”, ricordò molti anni dopo Martini (del resto era stato Pio XII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu ad aprire la strada alla nuova esegesi). Martini seppe tenere una barra mediana e riformista. Finché fu Paolo VI a “ridare l’onore al Biblico”, riconoscerà molti anni dopo Martini. E fu Montini a chiamarlo, fra gli ultimi atti del pontificato, nel 1978, alla guida della Pontificia Università Gregoriana.
E fu lì che lo conobbe, traendone ottima impressione, Karol Wojtyla. Comunque sia nata, tra gli esiti misteriosi di quella scelta c’è il dato di fatto che Giovanni Paolo II si costruì da solo, per così dire, il proprio alter ego nella gerarchia, un antipapa perfetto, a uso soprattutto dei media e del sempre più frustrato cattolicesimo progressista. Ha funzionato per trent’anni, tra contrapposizioni vere e presunte e richieste “profetiche” di indire un Concilio Vaticano III.
Quando Giovanni Paolo II, con una mossa la cui sorpresa, per molti, non è cessata neppure oggi, lo scelse come nuovo arcivescovo di Milano, Martini tra le sue qualità “non poteva annoverare il governo di una parrocchia”, come scrive Garzonio. Giovane studioso a Roma, il suo unico contatto con la pastorale era stato un privatissimo apostolato, ma propiziato dalla Comunità di Sant’Egidio, nel carcere minorile di Casal del Marmo e nelle borgate di Primavalle”.
Per Garzonio ovviamente la cosa non rileva: “Ma la novità martiniana era stata quella di aver costruito una formazione scientifico-culturale e religiosa complessa”. Collaboratore e suo massimo biografo, Garzonio ancora lo scorso anno aveva provato con tenacia a mobilitare una sua piccola lobby del Corriere della Sera per propiziare un successore di Dionigi Tettamanzi che si collocasse nel solco martiniano.
La scelta di mandare un gesuita piemontese e fine biblista a guidare la diocesi più vasta del mondo, e cruciale per la chiesa italiana, e proprio all’inizio di un pontificato che aveva già iniziato a scuotere tutto dalle fondamenta è, comunque la si voglia leggere, uno dei passaggi chiave per la chiesa (e il suo rapporto con il mondo laico) degli ultimi decenni. Probabile, come ritengono molti informati, che per il Papa polacco Martini fosse semplicemente un gesuita d’ordine, un uomo di studi, fuori dalle pesanti logiche di schieramento della chiesa italiana. Secondo alcuni, nella coloritura “ante-papale” e progressista che il suo episcopato assunse quasi da subito avrebbero giocato fattori esterni, come l’influenza fondamentale del segretario, quasi un segretario di stato, monsignor Erminio De Scalzi, o il rapporto con la intellighenzia cattolica ambrosiana, di matrice dossettiana-maritainiana e molto aperta a sinistra. Nella sua biografia di Martini, intitolata con trasparente forzatura antonomastica “Il Cardinale”, uscita qualche anno fa per Mondadori, Garzonio infila un aneddoto dossettiano tanto perfetto da sembrare costruito. Salendo verso Milano, il nuovo cardinale fece sosta a Monteveglio, sull’Appennino. Non trovò Dossetti nel suo eremo, a meditare sui destini progressivi della chiesa e dell’Italia: era partito per la Palestina (il luogo dell’anima, per entrambi). Gli aveva però lasciato un biglietto: “Le raccomando che da lei Milano senta solo vangelo, nient’altro che vangelo”.
Il vescovo ambrosiano trapiantato a Bologna Giacomo Biffi, al netto di una qualche umanissima sensibilità personale alla vicenda, anni fa ha scritto quel che mai nessuno aveva osato esprimere così esplicitamente: con la nomina di Martini a Milano “è arrivata alla sua conclusione, dopo quasi novant’anni, l’epoca che nella chiesa ambrosiana era iniziata nel 1891 con la venuta del beato cardinale Andrea Carlo Ferrari. Un’epoca tra le più luminose e feconde per il calore e la certezza della fede, per la concretezza delle iniziative e delle opere, per la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità… Sempre con
l’ispirazione e lo slancio attinti alla grande tradizione di san Carlo Borromeo e al ricchissimo, sereno e rasserenante magistero di
sant’Ambrogio”. Non suonò come un’approvazione della lunga guida martiniana della chiesa di Milano.
Nel suo lunghissimo episcopato, e in misura quasi maggiore negli anni successivi, Carlo Maria Martini ha goduto, tolta una solida piccola schiera di critici e oppositori, di grande credito da parte dei fedeli e del mondo laico, di grande ammirazione da parte dell’establishment culturale, di grande stampa. Il problema di qualsiasi abbozzo di bilancio è verificare che uso abbia fatto, il cardinale, di tutto questo ben di Dio.
L’ascetico Martini, il sobrio intellettuale, è stato un cardinale molto mediatico. “Il lembo del mantello”, la lettera famosa pastorale del 1991 si concludeva parafrasando san Francesco e inneggiando a “sorella televisione” e “fratello giornale”. Quella testarda, o forse un po’ ottusa, apertura fiduciosa, o piuttosto questa disponibilità arrendevole ai media, senza mai farsi venire un dubbio francofortese sul ruolo dei media, senza mai rileggersi il Sillabo, senza mai interrogarsi sui danni che un sistema di pensiero pervasivo possono produrre sulla “formazione della retta coscienza cristiana” sono significativi. Anche Wojtyla non aveva paura dei media, anzi li dominava con la forza del gesto e della parola. Ma quando c’era da scagliarsi contro i loro contenuti, lo faceva eccome. Invece, come scrive Ferruccio Parazzoli nel citato Meridiano Mondadori, “Martini non esorta: si informa, dialoga”, scrive. E’ il riassunto più banale, ma a suo modo perfetto, del rapporto tra Martini e “la cultura”. Con tutti i limiti.
Martini ha frequentato e coltivato a lungo la zona grigia della coscienza, quella che, negli ultimi anni, ne aveva fatto un nume tutelare della conventicola di liberi pensatori dell’Università Vita e Salute del San Raffaele. Tanto più quando, a inizio 2007, già malato, sul Sole 24 Ore con un articolo titolato “Io, Welby e la morte” era entrato a gamba tesa, sebbene con babbucce felpate, in uno dei contenziosi più gravi che la chiesa cattolica italiana avesse in corso. La messa per Welby l’avrebbe celebrata, sul sottile confine della coscienza bisogna saper discernere. Sono questi atteggiamenti – oltre va da sé la cultura e la postura professorale, da misurato accademico più che da uomo di chiesa – che gli hanno sempre garantito un’audience plaudente tra i laici. Tanto più, ogni volta che le sue parole potevano essere usate come contraltare alle posizioni ufficiali della gerarchia wojtyliana-ruiniana-ratzingeriana. Le forzature mediatiche, e un ben dissimulato compiacimento di fronte a esse, fanno del resto data dai tempi della Cattedra dei non credenti, la serie di conferenze aperte al mondo culturale ateo o agnostico che per lunghi anni fu il fiore all’occhiello del “dialogo” della diocesi ambrosiana.
A Milano arrivò il 10 febbraio 1980. Una delle prime incombenze pubbliche, solo tre mesi dopo, furono i i funerali di Walter Tobagi. Uno dei primi gesti pubblici fu accogliere in curia le armi dei brigatisti che avevano deciso di arrendersi a lui, e non allo stato, per chiudere la loro guerra. Un gesto politico. Sarebbe piaciuto a Dossetti. Divenne un punto di riferimento ideale stabile in una certa parte di città che cercava disperatamente un punto di fuga, negli anni difficili degli scontri e delle grandi ristrutturazioni industriali, da una vita politica che aveva già iniziato a gripparsi. E questo per quel che riguarda la Città degli uomini.
Per quel che riguarda la Città di Dio, i nodi che spesso si è provato a tagliare con l’accetta sono in realtà sottili. Il teologo Bruno Forte ritiene che il pensiero teologico di Martini abbia per riferimento principale quello di un altro grande gesuita, Karl Rahner. Già questo, basterebbe a segnare quanta distanza, quanto stacco con la tradizione teologica e pastorale precedente, l’arrivo in Cattedra del dotto biblista gesuita abbia prodotto. Dell’influsso del nuovo vento teologico e pastorale hanno risentito i sacerdoti, hanno risentito le parrocchie, hanno risentito i seminari. Se c’è una cosa che gli è stata rimproverata, e non solo da conservatori delusi, è ad esempio di aver trasformato il rapporto personale e di direzione spirituale con i suoi sacerdoti in un rapporto più formale, al limite del burocratico, da professore a discepolo al più. Di non aver insomma allevato un tipo umano, il tipo umano del prete ambrosiano, ma di aver contribuito alla fabbricazione del cliché del prete anodino e ammodino, colto, che parla per parabole e citazioni bibliche, solitamente senza farsi capire dai suoi parrocchiani. Di aver trasformato le catechesi del vescovo, la guida dei fedeli condotta in prima persona, in una sorta di sistema formativo fatto di lectio bibliche. Una delle sue prime iniziative, nel novembre 1980, fu non a caso l’introduzione nella diocesi della Scuola della Parola.
L’ammodernamento delle antiche “missioni” e del catechismo, l’estensione alla massa dei fedeli di quel mondo di raffinatezze esegetiche finora sconosciute e che veniva da lontano, dagli anni del Biblico e della lotta per la riforma modernizzatrice, i nemici dicevano protestante, della chiesa.
A Milano incrociò giocoforza anche le due anime più inconciliabili e vivaci della chiesa italiana di quei decenni. Milano era la madre
dell’Azione cattolica che aveva fatto la sua scelta religiosa, del cattolicesimo maritainiano e progressista che aveva casa nell’Università Cattolica di Lazzati e radici in un divorzio ormai consumato dalla politica. Milano era stata anche la culla, e ormai qualcosa di più, del movimento di don Luigi Giussani che a cavallo degli anni del Concilio, e in perfetta controtendenza con gli indirizzi di molta chiesa italiana, aveva provato a riproporre, e proprio sulla scorta della più autentica tradizione ambrosiana, il cristianesimo come esperienza praticabile, poco incline alla mediazione, molto incline alla politica, per nulla affascinata dalle sfumature del linguaggio, dai chiaroscuri della lingua martiniana.
Il rapporto con Cl non fu sempre idilliaco. Il tumultuoso movimento ha sempre lamentato di trovare poco spazio, soprattutto nella sua zona
d’azione privilegiata, il campo educativo e della pastorale giovanile, in cui lo scontro di impostazioni tra le varie componenti ecclesiali era esplosivo. Martini, forse più che equilibrato, ha cercato sempre di essere equidistante, qualche volta al limite dell’assenza.
Nell’affresco tendenzioso che ne fa Garzonio in 400 pagine di biografia, Martini sembra avere avuto due soli nemici a Milano, don Giussani e Giovanni Testori. Il che ovviamente non è. Anche se proprio al grande critico e artista si deve la demolizione più esplicita a un cristianesimo giudicato troppo acquiescente e troppo muto, quando in una intervista molto polemica definì Martini “cardinale camomilla”, rimproverandogli di “tradire la fede”, e di arrendersi “ai figli della rivolta dell’illuminismo contro la religione”. In realtà, il rapporto tra Martini e Giussani, oltre che rispettoso e di reciproca stima, fu meno conflittuale di come spesso è rappresentato. Fu del resto Martini a presiedere la piccola cerimonia di conferimento del titolo di monsignore a Giussani, nella cappella delle Cappellette, la storica sede di fianco a Santa Maria Maggiore, a Roma. E la nuova edizione del “Senso religioso” reca la dedica “al mio Vescovo”. A Milano è stato forse più che altro, forse pure malgré lui, il garante di quella chiesa combriccolare, autoriferita, intellettualizzante, schifata del potere e della presenza pubblica.
Cosa ha rappresentato Martini per la chiesa universale? La stima mondiale, il lavoro per la commissione teologica sull’ecumenismo, l’insigne biblismo, il culto gerosolimitano, sono le caratteristiche che lo hanno fatto amare ai protestanti. Del resto, la sua posizione nell’arco costituzionale della gerarchia cattolica è sempre stata sfumata: “Non è mai stato un progressista alla Edward Schillebeeckx o alla Hans Küng – aveva detto di lui tempo fa Massimo Introvigne, che lo conosce fin dai tempi di Torino –. Martini, a differenza di altri, non pensa che l’etica cattolica sia sbagliata. Non pensa che la morale cattolica debba essere demolita. Semplicemente egli vede innanzi a sé la deriva secolarista che rifiuta e rigetta la morale cattolica. E allora ritiene che adattare la morale in cui anch’egli crede fermamente alla morale secolare possa aiutare la chiesa”.
Era piaciuta e non piaciuta la sua omelia di Sant’Ambrogio del 2001, dopo l’11 settembre, con quel titolo che evitava nell’elencazione la presa di posizione: “Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace”. Lui, che pure aveva dedicato l’omelia di sant’Ambrogio del 1990
all’islam, anche meno acquiescente di quel che si penserebbe, e in anticipo su molti vescovi d’Italia e d’Europa. L’11 settembre finì in una “apocalisse in senso etimologico”, un “alzare il velo” sul male in vista di una “conversione”. Anche sulla bruciante questione del decennio,
l’atteggiamento di Martini è sempre stato la ricerca della zona grigia, del bilanciamento, del filo del confine: “Dobbiamo impedire l’ipotesi drammatica di uno scontro fra civiltà”, bilanciato da un “non si deve togliere legittimità al diritto di difesa dal terrorismo e alla necessità di spegnerne i focolai”. La massima pulizia formale nel giudizio di condanna e la ricerca insistita, a tratti faticosa (era lo stile dell’uomo), di una metafisica terzietà. Utile comunque ad apparire, forse anche al di là delle intenzioni, come il naturale alter ego ogni volta che da Roma arrivavano segnali più espliciti. E più esplicite si erano fatte, con gli anni, le sue prese di posizione, fino a dare l’impressione di essere coscientemente diventato una sorta di “voce collettiva” di un dissenso episcopale che non si arrischiava a esporsi.
Eppure, lui che personalmente coniò per sé la definizione di “ante-Papa”, “un precursore e preparatore per il Santo Padre”, un saggio che da pari a pari detta la linea al Papa, aveva detto di recente, nei momenti più duri della contestazione anti ratzingeriana, che invece la chiesa di Benedetto XVI, “non è mai stata così fiorente come essa è ora”, e che “può esibire una serie di Papi di altissimo livello”, e che “la chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia”.
Da biblista, ha dedicato recensioni puntutamente critiche ai volumi del “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger. Benedetto XVI, che lo ha spesso spesso elogiato pubblicamente, non dimentica che, da punto di riferimento dell’ala progressista nel Conclave del 2005, fu il gesuita a far convergere sul suo nome i cardinali progressisti.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Maurizio Crippa
da - http://www.ilfoglio.it/soloqui/14766
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