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Autore Discussione: Da Chiesa all’avviso a Berlusconi. I segreti dell’inchiesta e di uno scoop  (Letto 4598 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2012, 04:26:27 pm »

La storia

Da Chiesa all’avviso a Berlusconi

I segreti dell’inchiesta e di uno scoop

Protagonisti e retroscena dell'inchiesta che ha cambiato l'Italia

 di GOFFREDO BUCCINI

Eravamo giovani, pensavamo che il bene stesse tutto di qua e il male tutto di là. Mani pulite la vedemmo così, dall’inizio e per molto tempo. Mario Chiesa l’avevano preso del resto come un magliaro, mentre cercava di buttare nel water una mazzetta da sette milioni d’allora, lirette: il cattivo ridotto a caricatura per punizione. In quei primi giorni girava una battuta tra noi, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia: «Figuriamoci se parla!». Al tempo, non usava. Infatti l’ingegnere amico di Bettino Craxi, che si sognava sindaco di Milano ed era frattanto diventato signore e padrone della «Baggina», l’ospizio dei milanesi con un patrimonio immobiliare miliardario, se ne restò muto come un pesce nelle prime settimane a San Vittore. Aveva due insidiose spine nel fianco, è vero: Luca Magni, il piccolo imprenditore che, strangolato dalle tangenti, s’era rivolto al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani per disperazione e l’aveva inguaiato; e Laura Sala, che di Chiesa era la moglie separata, e aveva cominciato a raccogliere per la causa civile carte bancarie che sarebbero poi diventate micidiali in mano agli investigatori.

I cronisti che seguivano l'inchiesta riuniti in conferenza stampaI cronisti che seguivano l'inchiesta riuniti in conferenza stampa
Tutto sommato, però, il primo arrestato di Mani pulite aveva fondati motivi per essere fiducioso e per pensare che stavolta non fosse diversa dalle altre. Quando, sette anni prima, avevano portato in galera Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto delle tangenti per i partiti di maggioranza e opposizione, Craxi in persona s’era mosso, da presidente del Consiglio, per fargli coraggio con una calorosa visitina in cella. Poi lo aveva fatto eleggere senatore, e allorché Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra applausi da centro, destra e sinistra dell’emiciclo, raccontano i verbali della seduta. L’inchiesta Mani pulite poteva cominciare già nell’85, ma allora i partiti comandavano, gli imprenditori avevano il loro tornaconto, le ruberie finivano sotto la voce «costi della politica» e tutti facevano finta che fosse normale.

«Figuriamoci se parla!», ci dicevano quindi vecchie lenze della giudiziaria come Annibale Carenzo o Adriano Solazzo, al bar senza orpelli di via Freguglia che odorava di mensa aziendale, in un Palazzo di Giustizia che, come loro, ne aveva vissute tante ma era assolutamente marginale nella mappa del reale potere cittadino e mai aveva visto un politico finire e restare seriamente impigliato nella rete. Chiesa lo sapeva. E aspettava con calma che venisse qualcuno a liberarlo. Lo chiamavano «il Kennedy di Quarto Oggiaro» per via del ciuffo giovanilista. Dal Pio Albergo Trivulzio, la «Baggina» per la sua collocazione nella periferia grigia e dignitosa di Baggio, questo manager svelto di mano aveva distribuito case a prezzi stracciati ad amici e amici degli amici, giornalisti inclusi, e aveva tenuto la borsa aperta per le bustarelle socialiste del dopo-Natali. Ne sapeva insomma abbastanza per essere convinto di finire tra i salvati con un trattamento simile all’antico boss della Metro, che di Craxi era ritenuto da molti il papà politico.

Il 17 febbraio Ettore Botti, capocronista del Corriere, richiamò chi era di corta: al telefono di casa, perché i cellulari (giganteschi e pesanti, Fabio Poletti di Radio Popolare usava uno zaino per portare il suo, da campo...) ce li avrebbero «cuciti» addosso solo di lì a poco, quando l’inchiesta sarebbe diventata un lavoro senza pausa dalle nove di mattina alle due di notte. Ettore era un napoletano che aveva fatto strada a Milano: calvinista creativo, generoso e iracondo, detestava intrallazzi e intrallazzatori e s’era puntato già da un pezzo la fasulla icona della metropoli da bere che nascondeva party alla coca, modelle alla Terry Broome e tanta, tanta politica marcia. «Questo è uno grosso, ma chissà se parla», disse. Era già un passo avanti rispetto al «figuriamoci» di noi ingenui, Ettore aveva fiuto e talento. A Milano giravano del resto da anni barzellette sui socialisti ladri, e finivano per insozzare così la migliore tradizione d’una città governata per decenni da socialisti e socialdemocratici perbene, quelli come Bucalossi o Aniasi, che avevano fatto la Resistenza, creato una metropoli operosa e aperta, incoraggiato una cultura di cui Streheler e il Piccolo Teatro erano solo la manifestazione più visibile. Prima che arrestassero Chiesa un ragazzo di bottega della cronaca giudiziaria poteva imparare molto sull’inossidabilità di certa politica, assistere allo smantellamento del processo per le tangenti Icomec, agli inutili sforzi del sostituto procuratore Francesco Greco per acciuffare ancora e sempre Natali, reso inattaccabile dal Parlamento. Si intuiva una corruzione «sistemica», come nel caso delle bustarelle all’assessorato per l’Edilizia privata, con l’ufficetto parallelo da cui Sergio Sommazzi velocizzava le pratiche dei grandi costruttori milanesi. Di gente come Silvano Larini si parlava a mezza voce, come di una fantomatica foto di Craxi col boss Epaminonda che tutti cercammo e nessuno trovò mai: nelle notti di Brera balordi e politici, fandonie e perdizioni si mischiavano in un cocktail fascinoso come una canzone della Vanoni. Il primo squarcio davvero imbarazzante, e subito richiuso, venne da un’inchiesta pittoresca, cui pochi crederono davvero.

A fine anni Ottanta, nel nucleo operativo dei carabinieri di via Moscova lavorava un tenente toscano con una faccia da bambino che gli faceva dimostrare persino meno della sua età. Si chiamava Sergio De Caprio, tutta Italia l’avrebbe conosciuto più tardi come il Capitano Ultimo capace di piantare una Beretta sulla faccia di Totò Riina. A Milano s’inventò la Crimor, la squadretta specializzata contro boss e picciotti, mettendo insieme gli avanzi delle altre sezioni, mattocchi come lui che nessuno voleva tra i piedi. Usavano nomi di battaglia come Aspide o Vichingo, si mimetizzavano per settimane vivendo come i sospetti che pedinavano, piazzavano cimici ovunque. Seguendo Tonino Carollo, rampollo ripulito del clan Fidanzati che assieme a un gruppo di immobiliaristi sognava di lottizzare terreni a sud di Milano, finirono per inciampare in Attilio Schemmari, potente assessore all’Urbanistica, e a sfiorare Paolo Pillitteri, primo cittadino e cognato di Craxi, che quando entrava a San Siro si faceva precedere in tribuna vip da un portavoce capace di dire seriamente frasi come «fate largo, sta passando il sindaco». In Procura c’era una giovane pm, Ilda «la Rossa» Boccassini, che a volte superava per passione certi limiti e che, tanto per avviare l’interrogatorio della moglie d’un indagato, le chiese: «Signora, lo sa che suo marito ha un’amante?». L’inchiesta di Ilda e Ultimo la chiamammo Duomo Connection, senza molta fantasia, il grande intrigo di Pizza Connection era di pochi anni prima: costò il futuro politico a Schemmari (un altro che, come Chiesa, si sognava sindaco) ma arrivò meno lontano di quanto immaginassimo. Presero un po’ di colletti bianchi, qualche prestanome, Pillitteri fu lambito con cautela, nei giornali di Milano il Psi contava parecchio.

Questa era la città dove tutto incominciò. Tonino Di Pietro ha raccontato di recente a Marco Damilano che, prima delle vacanze di Natale del 1991, ci fu una riunione tra i rappresentanti degli imprenditori e i segretari amministrativi dei partiti nazionali. Le «migliori imprese», un centinaio, erano tutte coinvolte nel sistema, ha ricordato. Si stabilirono le percentuali, quella volta: 25 per cento alla Dc, 25 al Psi, 25 ai ministri in carica dei partiti minori, 25 al Pci-Pds non in forma di quattrini ma di quota lavoro per le cooperative. Un anno prima di pizzicare Chiesa, Tonino aveva descritto nel numero di maggio di Società Civile il sistema della dazione ambientale, dove salta il confine tra corruzione e concussione, e chi deve pagare non aspetta nemmeno la richiesta perché sa che in quell’ambiente così fan tutti. A Natale 1991, il sistema aveva ormai una sua contabilità condivisa. Ma i soldi stavano finendo, e con essi andava logorandosi il patto che tutto teneva.

In questa Milano, Di Pietro era l’archetipo dell’outsider furbo e deciso a salire in alto. Stava nella stanza 254 della Procura, esattamente all’altro capo del lunghissimo corridoio che si dipanava dagli uffici del procuratore Borrelli: un segno di marginalità, perché il peso dei sostituti si misurava con la prossimità al capo. Eppure Tonino ne faceva anche un tratto di indipendenza. Andava per le spicce. Quattro anni prima, indagando sulle patenti facili, aveva arrestato un centinaio di esaminatori e esaminandi, li aveva fatti portare in una caserma della stradale e li interrogava sbraitando, agitandosi, passando a grandi falcate da un terzo grado all’altro, con un innato senso scenico. Aveva messo in piedi anche lui una squadretta come quella di De Caprio. Ma i suoi moschettieri, raccolti in prevalenza tra poliziotti e vigili urbani, non sembravano pervasi dal sacro fuoco come i carabinieri di Ultimo. Comunicavano un senso di trattativa. Come Tonino. Rocco Stragapede, il più fedele, ciabattava come Tonino, come Tonino ammiccava, lasciandoci passare infine con il sussiego d’un maggiordomo fidatissimo. Lui ci riceveva nella 254 coi piedi sulla scrivania, si tirava su i calzoni e si grattava le caviglie con voluttà: chiamava tutti noi, ragazzini borghesi dagli studi facili, «dottori», un po’ con rispetto e un po’ con ironia. Faceva il Bertoldo, stava sperimentando un personaggio, il figliolo di mamma Annina, il contadino di Montenero di Bisaccia emigrato al nord, laureato chissà come mentre faceva mille lavori e assurto infine alla gloria della toga: noi non sapevamo nemmeno dove fosse Montenero di Bisaccia. Se recalcitrava nel darci qualche notizia talvolta banale, lo punivamo storpiandogli il cognome tutti insieme, nei pezzi del giorno dopo: diventava per refuso Antonio Di Dietro, e allora borbottava senza prendersela più di tanto. Eravamo tutti attorno ai trent’anni, la sala stampa non era ancora affollata dai colleghi delle tv, i vecchi marpioni della giudiziaria non credevano s’andasse lontano e lasciavano fare a noi ragazzini. In quei primi giorni d’inchiesta, la scoperta di una seconda cassaforte segreta di Chiesa ci apparve una notizia clamorosa e definitiva. Nemmeno Di Pietro immaginava fino in fondo dove si sarebbe arrivati. Borrelli, figlio d’arte (il padre Manlio era stato presidente di corte d’appello), napoletano raffinato e certo non inviso dapprincipio ai salotti politici della città, l’aveva sempre guardato dalla siderale distanza del corridoio, entomologo illustre che contempla una curiosa specie d’insetto: continuava a gravarlo di processetti per droga, finché una parola sbagliata cambiò il corso degli eventi come una valanga.

L’ingegnere della Baggina aveva resistito quando Di Pietro gli aveva scovato in Svizzera i conti Levissima e Fiuggi e, beffardo, aveva sibilato all’avvocato Diodà: «Riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita». Crollò quando Craxi, sotto una pressione popolare inattesa che di lì a poco sarebbe sfociata nel terremoto elettorale del 5 aprile (crollo del pentapartito, primo boom della Lega), gli affibbiò il famoso epiteto di «mariuolo»: una mela marcia isolata, insomma. C’era un prefabbricato giallo al centro del cortile della procura: attorno carabinieri e poliziotti, dentro Tonino e il «mariuolo». Ogni tanto Nerio Diodà faceva capolino per prendere aria, e aveva una faccia diversa. Chiesa stava parlando, parlò per sette giorni. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo all’ingordo ingegnere. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Noi stavamo nei giardinetti davanti al carcere, basiti, a prendere appunti, quando spuntò Vittorio D’Ajello, difensore di uno degli otto, un vecchio avvocato chiacchierone e affabile che ne aveva viste di cotte e di crude, e quasi strillò: «Andranno avanti per anni! Faranno centinaia di arresti!». Verso sera, Di Pietro si lasciò andare a una confessione con Paolo Colonnello, il cronista del Giorno, che tra noi gli era più vicino: «Potrei arrivare a Craxi… ma bisogna andarci piano». Quella notte, chiusi i giornali, noi ragazzi della giudiziaria la tirammo lunga in una trattoria di via Moscova vicino al Corriere. Il pool dei giornalisti nacque così, quando capimmo che ci sarebbero stati da raccontare dieci avvisi di garanzia e cinque arresti al giorno, e bisognava controllare che le notizie fossero tutte vere e non inquinate, in un contesto dove già si vedevano all’opera i primi avvelenatori di pozzi: non vale la pena di evocare qui la corte dei miracoli di faccendieri, cialtroni, spie a mezzo servizio e finti giornalisti che già da quel ’92 hanno messo le loro mani sporche dentro e sopra Mani pulite, sarebbe un’altra storia. E si è detto fin troppo su quel gruppetto di ragazzi che fummo; ma per il tempo che durò la nostra leale collaborazione tra cronisti di testate rivali – meno d’un anno – nessuna notizia fu occultata, ciascuna fu verificata almeno due volte, i colleghi dei giornali più deboli e quindi più esposti a pressioni politiche furono protetti dal fatto che tutti gli altri giornali avrebbero dato quella notizia e dunque capiredattori e direttori non avrebbero avuto motivo di censurare il loro lavoro.

Il salto di Mani pulite avvenne perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, gli «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: così il muro del silenzio si incrinò. Uno del calibro Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Un’autentica reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista. E tuttavia perfettamente legali. Roberto Mongini, presidente milanese della Dc, capace di emergere da San Vittore indossando una maglietta «Mani Pulite Team» che fece furore, ha di recente spiegato a Federico Ferrero come, se non fosse stata usata la carcerazione preventiva «con mano piuttosto pesante», è chiaro che avrebbe parlato il 10 per cento di chi ha invece confessato. Si potrà discutere altri vent’anni sull’accettabilità di una procedura del genere (sempre avallata da un gip, sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Quasi tutte le grandi aziende finirono nei guai, la Fiat tra le prime: il Corriere di Ugo Stille, allora affidato di fatto al vicedirettore Giulio Anselmi, aveva Fiat nella proprietà ma tenne la barra dritta.

Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli capì che Tonino non poteva restare solo, e gli affiancò due pm di cui aveva grande fiducia, Colombo e Davigo. Gherardo Colombo era un colto cattolico di sinistra che aveva guardato in faccia il drago, avendo scoperto col collega Turone gli elenchi della P2 e lavorato sui fondi neri dell’Iri. Piercamillo Davigo era un giurista affilato, incorruttibile, prodotto di una destra perbenista e militaresca. I nemici lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. A conoscerlo, lo si sarebbe detto più simile a Javert, il drammatico sbirro dei Miserabili. «Non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti», usava dire, ed era difficile capire fin dove scherzasse. Dietro di loro, il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, «zio Jerry», da molti sospettato di essere una quinta colonna del Pci che gli avrebbe pagato gli studi da ragazzo povero, in realtà giudice espertissimo dai tempi di piazza Fontana, amico di Galli e Alessandrini ammazzati dal terrorismo rosso. Il Primo maggio caddero sotto gli avvisi di garanzia il sindaco in carica e il suo predecessore, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli. Si aprì ufficialmente la caccia a Craxi, che al bar del tribunale presero a chiamare «Cinghialone»: la 2021 dimensione umana degli indagati era già passata in un tritacarne e dimenticata. Anche da noi giornalisti.

Nato un metodo, molto controverso, nato il pool Mani pulite, l’Italia impazzì. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivono a Tonino da ogni parte dello Stivale. Nascono comitati, si fanno fiaccolate, manifestazioni di sostegno sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolano le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. Escono agiografie in cui si racconta seriamente che l’estate prima Di Pietro ha salvato una donna che stava affogando in mare, portandola al sicuro con poche maschie bracciate, acclamato «come un Dio» dagli altri bagnanti. Va a ruba il poster degli Intoccabili con le facce del pool in fotomontaggio, Borrelli e i suoi si concedono due passi in Galleria e l’evento diventa un bagno di folla. In capo a un anno le televisioni renderanno permanente questo show, con il bravo Andrea Pamparana a seguire i processi per il nuovo tg di Mentana e il surreale Paolo Brosio piantato da Fede davanti alle rotaie del tram ad annunciare la fine del mondo: tv berlusconiane, perché a lungo il Cavaliere tentò, se non di andar d’accordo coi pm, di farli suoi, come fuoriclasse stranieri che è meglio giochino nella tua squadra. Mi capitò di scendere a Montenero di Bisaccia per la morte di mamma Annina, la madre di Di Pietro, e di portare da Milano in macchina con me Davigo e Colombo: fu come avere sui sedili il Gigi Riva dei mondiali messicani e il Mussolini della conquista d’Etiopia, alle stazioni di servizio la gente cercava di entrarmi nell’abitacolo dai finestrini. Molto, e molto di male, si può dire adesso di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e omaggiato potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire come tricoteuse coloro che stavano mozzandone la testa. E tuttavia nella garagista che dalle parti del tribunale ci implorava, «dite a Tonino che sto con lui», c’era anche altro, una voglia di cambiare genuina, poi andata persa.

Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio e affossato da una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader di partito (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono. Dalla Mercedes facile ai cento milioni in prestito a costo zero, dai rapporti con D’Adamo e Gorrini all’abitudine che Pillitteri aveva di chiamarlo simpaticamente «Ninì» quando non era ancora un pm spaccamontagne, dall’amicizia con il discusso ex capo della Mobile Eleuterio Rea fino all’ambiguo Chicchi Pacini Battaglia sulla cui intercettazione («sbancato» o «sbiancato» da Tonino?) si interrogheranno i posteri se ne avranno voglia, va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi: anche se non ama ricordare che il proscioglimento a Brescia conteneva rilievi deontologici abbastanza insidiosi da porre in una luce meno romantica il suo successivo abbandono della magistratura, con la toga sfilata per l’ultima volta davanti alle telecamere, in diretta come tutto quello che avveniva ormai in tribunale, il 6 dicembre ’94.

Tuttavia, se in questa parte della vicenda non tutti gli angoli sono stati illuminati è anche colpa di noi giornalisti, di quegli stessi che seguirono l’inchiesta dalle prime battute. Giovani entusiasti com’eravamo, non ci demmo pena di guardare se in tanto fango ci fosse qualche fiorellino di verità. Manichei come chi trova in ogni atto giudiziario la conferma di ciò che ha sempre pensato, derubricammo alla voce «veleni» quanto di dissonante poteva emergere dal 22 23 passato di Di Pietro, perdendo così qualcosa della nostra funzione. Fu un grave errore, perché lasciammo per mesi il monopolio di questi filoni a un giornalismo di parte, preso in una logica di scontro tra fazioni, e dunque non consentimmo ai lettori indipendenti e moderati di formarsi sin da subito un’opinione in proposito. Ma più grave, perché avveniva sotto i nostri occhi ogni giorno, fu non dare peso alla processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in procura non per difendere il cliente ma soltanto per farlo confessare in fretta ciò che i pm volevano: grave fu non interrogarci subito sull’archetipo di questa stravagante categoria forense, il mercuriale e quasi ignoto Geppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, diventato in un attimo e per lungo tempo l’avvocato che con più certezza garantiva all’indagato un veloce disbrigo della pratica e spesso gli evitava il fastidioso passaggio all’ufficio matricola del carcere milanese. Il 15 dicembre del ’92 si levarono infine grida di giubilo in sala stampa quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Troppi erano, ormai da troppo, troppo vicini all’inchiesta.

Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: non un personaggio di primo piano, ma la dignità non presuppone appeal da copertina. «Mi hanno sputtanato», disse. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzo il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione e siede in Parlamento, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio recente di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. In un’Italia che festeggiava, come liberata dall’invasore, l’azione dei pm che annunciavano di dovere «rovesciare il Paese come un calzino», c’era chi, abbandonato in un cono d’ombra con le proprie paure e i propri rimorsi, decideva di non poter sopravvivere in questo mondo sottosopra.

La sensazione di uno smottamento complessivo era tangibile. A dicembre del ’93, un anno dopo il primo avviso di garanzia a Craxi e un anno prima dell’addio di Di Pietro alla toga, Saverio Borrelli accettò di darmi una delle tre interviste che, in nemmeno dieci mesi, gli avrebbero attirato l’astio di una bella fetta di mondo politico o di ciò che ne sarebbe rimasto. Mancava poco alle nuove elezioni legislative, che si sarebbero poi tenute a marzo del ’94. I partiti tradizionali affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra», sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Alla domanda «non temete di influenzare pesantemente il voto?», Borrelli mi rispose: «Vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani: prendete consapevolezza di questa situazione, dico io. Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che ci arriviamo noi…». È difficile capire perché un magistrato introverso, che da ragazzo si sognava pianista e aveva indossato la toga solo cedendo al padre, uno che se n’era stato zitto fino ai sessant’anni e oltre, decidesse di colpo di uscire allo scoperto così clamorosamente.

Può darsi, come insinuano molti, che le luci della ribalta abbagliarono l’antico giurista secchione. Può darsi anche, però, che il procuratore sentì davvero come compito suo quello di esporsi per mettere al riparo i propri sostituti: la sua successiva uscita di scena, in punta di piedi, con il solo incarico di presidente dell’amato Conservatorio di Milano che poi gli sarebbe stato tolto dalla Gelmini senza troppi complimenti, farebbe propendere per questa seconda ipotesi. Alcuni eventi avevano infatti caricato sulle spalle dei magistrati milanesi un fardello pesante come mai. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli relativi avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana Parenti, detta Titti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G.» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. Titti non aveva grande esperienza, pareva spaesata nella macchina ormai rodata del pool, dal suo buen retiro all’Elba accusò i colleghi più anziani di «isolarla»; il tifo della stampa di destra non l’aiutava di certo. L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi: Titti avrà un seggio con Forza Italia e poi mollerà la politica, D’Ambrosio è attualmente un senatore del Partito democratico.

È ormai il tempo dei grandi latitanti. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, Silvano Larini, l’architetto amico di Craxi, l’uomo delle notti al Giamaica di Brera, detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo.

La via della latitanza l’aveva presa anche Giovanni Manzi. Meno picaresco dell’architetto, Manzi era presidente della società aeroportuale e soprattutto veniva considerato uno dei grandi collettori delle tangenti socialiste. A metà gennaio, pochi giorni prima della resa di Larini, Ettore Botti nel suo ufficio da capocronista del Corriere ebbe una dritta buona da Adriano Solazzo, il decano dei cronisti giudiziari, ormai pensionato ma sempre informatissimo: Manzi era stato visto qualche settimana addietro a Santo Domingo, puerto escondido dei fuggiaschi di mezzo mondo. Ettore volle mandare me, che avevo pochissima esperienza di estero. Il direttore Paolo Mieli mi mise accanto Alessandro Sallusti, a quel tempo formidabile collega dell’ufficio centrale. Sandro e io partimmo con l’incarico di trovare almeno una foto, una ricevuta, insomma una prova non taroccata del passaggio di Manzi nell’isola dove vero e falso s’acquistavano per un pugno di banconote. Sbarcati in quella specie di lunapark del sesso gremito di italiani pieni di voglie, ci dividemmo andando dove vanno due cronisti che non sanno che pesci pigliare: Sandro in ambasciata, io nel giornale locale. Entrambi con una domanda cauta ma chiara: dove potrebbe sistemarsi un connazionale danaroso che desidera riservatezza? La sera ci ritrovammo in albergo con la medesima risposta: Casa de Campo, un resort di lusso con cinquecento ville, a un’ora e mezzo di macchina dalla capitale. Ci mettemmo una settimana, villa dopo villa, cancello dopo cancello, con un pacco di foto del «señor Giovanni» e un pacchetto di dollari da distribuire ai giardinieri. All’ultima villa, quella giusta, dietro un ennesimo cancello sbattuto in faccia, sentimmo parlare italiano. Restammo acquattati nell’erba davanti al muro di cinta per tutta la mattina. Quando Manzi ci mandò fuori il suo gigantesco guardaspalle, Julio, cominciò la trattativa: avevamo ricostruito i suoi quattro indirizzi precedenti, Santo Domingo era un’isola cara ai socialisti, se voleva lasciar fuori chi l’aveva aiutato doveva incontrarci. La mattina 26 27 dopo «el señor Giovanni» si lasciò intervistare nel nostro albergo. I poliziotti non l’avevano trovato per mesi; due giornalisti qualsiasi, venuti da Milano, ci misero sette giorni. Fu uno scandalo, i dominicani non poterono più far finta di nulla: dovettero arrestarlo, rimpatriarlo. Manzi scese dall’aereo a Malpensa e trovò i carabinieri, noi trovammo Botti che «corrompendo» il personale di terra era venuto a prenderci sotto la scaletta dell’aereo per festeggiarci.

Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori »: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea.

Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori »: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea.

Era pronto all’ultimo grande salto, in politica. Il nuovo padrone dell’Italia, Silvio Berlusconi, uscito trionfatore dalle elezioni del 27 marzo 1994, pensò di offrirgli il trampolino del ministero degli Interni, invitandolo a parlarne a Roma, in via Cicerone, nello studio di Cesare Previti. Tonino ha raccontato di avere cortesemente rifiutato, avendo un lavoro da finire (quello di ripulire l’Italia, evidentemente). Io ho sempre saputo che fu fermato in corsa da Borrelli e da Davigo, altro oggetto dei desideri del nuovo centrodestra berlusconiano.

Il clima, tra politica e magistratura, era, se possibile, perfino peggiorato. In un’intervista agli inizi di maggio, Borrelli mi disse che, ove tutto fosse precipitato, loro avrebbero accettato un incarico di governo «se Scalfaro gliel’avesse chiesto». Gli diedero del golpista. In realtà la risposta venne dopo mie estenuanti insistenze e molte ipotetiche e subordinate, ma il titolo uscì secco: essendo il procuratore un galantuomo, non smentì una virgola. Ben più grave, dal punto di vista dei rapporti tra poteri dello Stato, il pronunciamento di Di Pietro e dei suoi colleghi a luglio, che affossò il decreto del neoministro Biondi sui limiti alla carcerazione preventiva: ancora e sempre in diretta tv, si minacciarono dimissioni di massa, forzando la mano al presidente Scalfaro che non firmò il decreto. La pausa estiva non placò le acque. Tra governo e pm si andava allo scontro finale. Il 5 ottobre Borrelli si lasciò intervistare di nuovo e mi disse che sarebbero arrivati «a livelli altissimi». Si riferiva all’inchiesta su Telepiù, ma tutti lessero quella frase come un preavviso di garanzia a Berlusconi. Che il Cavaliere fosse ormai nel mirino era un segreto di Pulcinella. Quando successe ero a Roma, alla Camera: Paolo Mieli mi aveva fatto inviato e spedito a seguire anche la politica, era il 21 novembre. Gianluca Di Feo, il mio socio di quegli anni, da figlio di carabiniere qual era, capì che quel movimento di generali in procura non poteva spiegarsi, come gli dissero, con la festa della Virgo Fidelis, protettrice dell’Arma: sapeva che non erano quelli i giorni giusti. Si attivò così la macchina dei nostri controlli, in poche ore Gianluca ed io arrivammo all’invito a comparire che i pm di Milano avevano mandato a Berlusconi mentre presiedeva a Napoli una conferenza mondiale sulla criminalità. Una storia molte volte raccontata, compreso l’abbraccio con Mieli prima di andare a scrivere, il suo scaramantico fondo di dimissioni pronto nel cassetto, la notte insonne che io e Gianluca passammo nel timore di avere preso un abbaglio. Molte volte ci chiesero chi fosse la nostra fonte. Gianluca e io siamo gli unici a conoscerne l’identità. Non l’abbiamo ovviamente mai rivelata allora, anche protetti da un direttore galantuomo come Mieli, non lo faremo certo adesso. Fece bene la Procura a mandare quell’atto al presidente del Consiglio mentre era impegnato su un palcoscenico mondiale? Penso di no. Dovevamo pubblicare la notizia noi, quando l’avemmo? Sono sicuro di sì. Il resto non credo sia così importante in un Paese che vent’anni dopo ancora non ha riportato il proprio tasso di corruzione a livelli fisiologici. Pochi mesi fa, è tornata al disonore delle cronache l’autostrada Milano-Serravalle. Fu uno dei piatti forti dell’estate 1992. Bruno Binasco, un imprenditore ora indagato, lo era anche allora, sia pure come braccio destro di Marcellino Gavio, che nel frattempo è morto. Con qualche ragione, questo decano dell’intrallazzo racconta di avere conosciuto tutti i politici. Tutti. Mani pulite non ci ha salvato, forse perché dovevamo salvarci da soli. Dovremo farlo, prima o poi: per non restare ingabbiati altri vent’anni in un déjà vu collettivo peggiore di qualsiasi galera.

Goffredo Buccini

15 febbraio 2012 (modifica il 16 febbraio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

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