La politica industriale che serve all’Europa
Di Adriana Cerretelli
20 settembre 2017
Dieci anni fa gli addetti ai lavori ci ridevano sopra: l’idea di un treno carico di container che partiva dalla Cina per scaricare, 11mila km dopo, merci in Europa sembrava uno scherzo, l’iperbole della fantasia e anche dell’irrazionalità.
L’anno scorso sulla nuova via della seta, come la chiamano i cinesi, sono transitate 500mila tonnellate di manufatti destinati all’Unione. Nel primo semestre di quest’anno la cifra è già cresciuta più del 140% rispetto allo stesso periodo 2016. Per i vantaggi nel confronto con il tradizionale trasporto via porti e aeroporti: in quanto meno costosa e più accessibile a tutti, la rotaia apre il mercato europeo anche alla concorrenza delle aree più povere della Cina, quelle finora tagliate fuori dalla grande corsa all’Ovest.
Ma i cinesi sono noti per il puntiglio con cui elaborano le strategie di lungo termine: la ferrovia di Marco Polo è il corollario logico del programma Made in China 2025 con i suoi colossali investimenti per far compiere all’industria manifatturiera il balzo in avanti verso l’innovazione tecnologica più spinta, il viaggio verso il 4.0 e il G5 per conquistare nuovi primati globali nella robotica e intelligenza artificiale applicata, passando per l’industria militare.
Nasce da qui, dalla grande paura di ritrovarsi nel giro di qualche anno completamente schiacciati dalla concorrenza di Pechino, l’improvvisa conversione dell’Europa all’idea di una politica industriale ambiziosa e strutturata, che le permetta di tener testa all’avanzata del “bulldozer” in parte ricalcandone lo schema di battaglia.
La settimana scorsa, nel discorso sullo Stato dell’Unione, ci ha pensato il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker a sdoganarla ufficialmente. Muovendosi peraltro nel solco aperto da Antonio Tajani , quando era commissario Ue all’Industria e anche ora da presidente dell’europarlamento.
L’Europa ha una base industriale forte che, con i suoi 32 milioni di addetti, sta uscendo dal buio della grande crisi: il suo valore aggiunto lordo è cresciuto del 6,4% tra il 2009 e il 2016, quello del manifatturiero del 25% in termini reali tanto che la sua quota nel Pil Ue è passata dal 15,5 % al 17,1%. Nello stesso periodo la produttività del lavoro è salita in media del 2,7% contro lo 0,7% degli Stati Uniti e il 3,4% del Giappone. Anche la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro si è rovesciata: ne sono stati persi 1,8 milioni tra il 2009 e il 2013 ma dal 2013 ne sono stati creati 1,5 milioni di nuovi. Gli investimenti tornano a crescere anche se restano bassi quelli nell’innovazione del futuro, il tessuto della nuova rivoluzione industriale globale che avanza a passi rapidissimi.
Di qui l’estrema precarietà dell’attuale pedigree europeo, se l’Unione non si mette quanto prima al passo con gli enormi cambiamenti in atto: scelta obbligata perché, in quanto volano di produttività e crescita, cioè di prosperità condivisa, l’industria non è un patrimonio fungibile ma irrinunciabile.
In piena sintonia con l’approccio italo-franco-tedesco, la dottrina Juncker punta a sostenere vecchie e nuove leadership industriali europee, portando al 20% entro il 2020 la quota del manifatturiero nel Pil, puntando su innovazione, decarbonizzazione e digitalizzazione a tappeto, perché oggi nell’Ue solo un quinto delle imprese è sufficientemente digitalizzato ed è urgente il passaggio alla nuova generazione di connettività 5G, la chiave dell’intelligenza artificiale applicata alla produzione.
Se questo è l’obiettivo, i mezzi per raggiungerlo sono: completamento del mercato unico, unione bancaria e unione dei mercato dei capitali per facilitare la raccolta degli enormi capitali necessari a vincere la sfida, investimenti massicci in istruzione e formazione continua, un fondo per stimolare la cooperazione militare europea, una riforma della politica di concorrenza in quanto a sua volta motore di innovazione e investimenti tramite la spinta alla produttività. Infine una politica commerciale che, ribadendo il credo negli scambi aperti ne pretende anche equità e sostenibilità attraverso il rafforzamento degli strumenti di difesa commerciale e un nuovo sistema di valutazione degli investimenti extra-Ue nei settori industriali strategici (tecnologie di punta, infrastrutture, difesa).
Finalmente l’Europa s’è desta. O almeno sembra. Tutti i suoi Stati membri, Italia in testa con il secondo manifatturiero dell’Unione dopo la Germania, dovranno comunque fare molto seriamente la propria parte per poter vincere ciascuno la scommessa della sopravvivenza. La Cina è sempre più vicina, perché ha saputo cavalcare le libere frontiere della globalizzazione economica prima e meglio dei suoi concorrenti europei. Anche se l’Europa siamo noi, soltanto ora, in ritardo e purtroppo dopo i cinesi, cominciamo a scoprire e sfruttare le grandi potenzialità del suo ricco mercato e della sua massa critica. Vietati i ripensamenti e le solite logiche dell’ognun per sé. Questa volta sarebbero letali per tutti.
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