Dc e Pci, così muoiono le due chiese nel Pd non c'è posto per le reliquie
il: Ottobre 15, 2007, 10:11:18 »
POLITICA
La nuova formazione nasce all'insegna di una netta cesura
Ma tanti frammenti di tradizione vivono in chi ieri ha votato
Dc e Pci, così muoiono le due chiese nel Pd non c'è posto per le reliquie
I capi comunisti amavano il latino. Il primo poster del Pd usava "party"per festa e partito
Il cappotto rovesciato di De Gasperi in Usa e Amendola che elogia lo studio "a tavolino"
di FILIPPO CECCARELLI
I comizi di Di Vittorio, i sandali di La Pira, il Quaderno dell'attivista, il manuale Cencelli, i silenzi di Longo, le sfumature lessicali di Moro, il centralismo democratico, i caminetti dei capi corrente, l'energia di Enrico Mattei, l'umorismo di Giancarlo Pajetta, le sigarette russe dal lungo bocchino, le sciarpette bianche al collo di Scalfaro, il fico che si arrampicava nel cortile di piazza del Gesù, il posto di guardia della Vigilanza alle Botteghe Oscure, i pallori di Dossetti, i rossori di Berlinguer...
Ma c'è traccia, di tutto questo, nel Partito democratico? Ecco: boh. Forse bisogna davvero raspare sotto la patina delle litanie, delle frasi fatte, delle citazioni ad effetto, dei video di circostanza; forse bisogna farsi coraggio e scoperchiare i sepolcri del cosiddetto Pantheon per trovare qualche vestigia o i rimasugli delle due chiese secolari che oggi si sono fuse in questa specie di partito un po' leaderistico, un po' oligarchico, ma nato anche sotto la spinta di una autentica partecipazione.
Così viene da chiedersi se gli elettori si sono recati ai seggi condizionati dal ricordo di un mondo, anzi di due mondi che non ci sono più. Don Camillo e Peppone, il cappotto rovesciato di De Gasperi in Usa e l'elogio dello studio "a tavolino" di Amendola, le mani tra i capelli di Zaccagnini e il saggio di Ingrao su Charlie Chaplin, il festival dell'Unità e l'archivio di Andreotti, la dignità di Scelba con l'ambasciatrice Usa e quella pagata a caro prezzo da Terracini nei confronti dell'Urss, il cadavere di Guido Rossa e il perdono dei Bachelet. Cose dell'altro secolo...
Perché già era difficile, dopo la crisi del partito di massa, all'indomani del tracollo della Prima Repubblica, riconoscere qualche residuo segno di vitalità nell'esperienza post-comunista e tardo-popolare o democristiana che sia. Ma l'impressione è che in questa domenica sta per essere abolito anche il compito minimo che quelle due culture politiche si erano assegnate: perpetuare simboli, nomi, tradizioni, memoria, immagini.
Qualche mese fa sui muri di Roma sono comparsi dei manifesti del Pd che mostravano un invitante bicchiere con liquido arancione e una fetta di limone ornamentale. Era il classico cocktail e la scritta reclamizzava: "Democratic party". I dirigenti comunisti, da Togliatti a Natta passando per Bufalini, amavano il latino; mentre ai capi tribù democristiani, dai veneti ai siciliani, capitava spesso e volentieri di parlare in dialetto. Ma di quel poster non colpiva solo l'intonazione orgogliosamente pubblicitaria o il ricorso all'inglese, che del resto si ripete nel modo in cui taluni nei media chiamano gli aderenti al nascente partito: "democrats". E' che "party", oltre che partito, vuol dire anche festa: e basti questa pretesa festevolezza a dimostrare come si sia rovesciata l'intera concezione della politica. E non si torna più indietro.
Dalle salamelle arrosto al cocktail gelato e virtuale si misura lo scarto tra il consumo gioioso delle tifoserie e l'impegno civico e penitenziale della militanza. Più o meno la stessa vertigine che separa la vecchia sezione dal volatile gazebo, la scuola-quadri dal talk-show o le antiche discussioni su laicità e confessionalismo dalle polemiche suscitate dall'intervento di qualche comico contro il Papa ai margini di un concerto.
C'è un salto culturale nel senso più epocale del termine. E' tutto più veloce, anzi più fast. C'è un baratro a suo modo tecnologico nella caccia al Vip sviluppatasi in modo così pervasivo, con tanto di Alba Parietti e Califano, che perfino Pippo Baudo ha sentito il bisogno di denunciare i "giullari" del Pd.
E si capisce - è umano e in certa misura anche giusto - come i protagonisti si sforzino di collegare fili nella storia, o cerchino di stabilire parentele ed eredità, cercandosele pure all'estero, coltivando a volte una vera e propria retorica dell'incontro fra riformismi all'insegna della indispensabile continuità. Ma anche senza arrivare all'impietosa immagine di Guido Ceronetti - il Pd come "una grande illuminatissima vetrina di moda per esporre due o tre camicette con buchi prese da una discarica e un paio di vecchie pantofole affezionate ai piedi di una pensionata che si circonda di consunto" - ecco, anche senza evocare questa esposizione di vane reliquie il sospetto è che tutto, intorno al nascente Partito democratico, sia troppo e irrimediabilmente mutato. E ancora una volta lo si capisce più dalle forme che dagli enigmatici ed evanescenti contenuti del messaggio "democrat": come se a travolgere e poi a seppellire le culture politiche dell'altro secolo, quelle che resero possibile l'anomalia italiana nell'aggrovigliatissimo contesto geopolitico della guerra fredda, fossero i volti stessi dei leader del Pd, i loro linguaggi, gli stili di vita. Così diversi, questi ultimi, non solo da quelli dei vecchi padri, ma anche dalle abitudini quotidiane dei loro odierni elettori, che però nel frattempo sono divenuti in massima parte contatti televisivi, pubblico non pagante, consumatori di spettacoli politici.
Perché sì, certo, le primarie. Ma "la politica ormai si fa così" diceva l'altro giorno alla presentazione in forma di talk-show della biografia veltroniana Il Piccolo Principe (autori: Marco Damilano, Maria Grazia Gerina e Fabio Martini per la Sperling&Kupfer) Massimo Micucci, uno che è cresciuto alla Fgci romana con Walter, ha lavorato con D'Alema a Palazzo Chigi e ora sta con Velardi a "Reti" e "Running". Ecco, sì: oggi la politica si fa (anche) rifiutando come Veltroni il faccia a faccia con gli altri candidati, ma andando a cena con Afef; o presentandosi, è il caso di Letta, come fan del Milan o giocatore di subbuteo; o smettendo come Rosi Bindi di vestirsi da novizia per indossare completini che la Stampa ha qualificato "look democrats".
Adinolfi si è preso lo sfizio di filmare col telefonino una riunione con Prodi; Gawronsky di presentare una lista tutta di cinesi. Cannoni spara-coriandoli e hostess sui palchi, aliscafi o catamarani ribattezzati "MotoPd", playlist giocherellone e a sorpresa, scioperi della fame, piacioni e lacrime a rotta di collo. Un ex comunista solitamente misurato come Sergio Chiamparino, sindaco di quella Torino che per quasi un secolo si è riconosciuta nella sobrietà operaia, si è augurato che il Partito democratico diventi "sexy".
Sono modalità che possono piacere o non piacere. Forse si adattano ai tempi, o forse esse stesse contribuiscono a costruirne lo spirito. Qualcuno le ritiene indispensabili e qualcun altro ha dei dubbi. Ma di certo non appartengono alla tradizione comunista o democristiana, quali milioni di italiani ancora le ricordano, sia pure a brandelli.
I funerali di Togliatti di Guttuso, la riforma agraria di Segni, l'asilo nido modello di Reggio Emilia, l'orologio donato dal Papa a Gedda dopo il 18 aprile. Senza sentirsene erede, il Partito democratico tributi onore alla Dc e al Pci che non ci sono più. "Onore a quanti in vita/ si ergono a difesa delle Termopili" recitano i versi di una poesia di Kavafis che il politologo Mauro Calise pose per primo a epigrafe della scomparsa dei partiti: "E un onore più grande gli è dovuto/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e che i Medi finiranno per passare".
(15 ottobre 2007)
da repubblica.it
RIPRESO DA -
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