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Autore Discussione: ALBERTO MATTIOLI. I discorsi che costruiscono una democrazia  (Letto 2283 volte)
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« inserito:: Luglio 21, 2011, 05:59:08 pm »

21/7/2011 - LA FRANCIA E I CADUTI

I discorsi che costruiscono una democrazia


ALBERTO MATTIOLI

Martedì, cortile degli Invalides, «omaggio nazionale» ai sette soldati caduti in Afghanistan in quattro giorni. I francesi queste cose le sanno fare e infatti la cerimonia, di una nobile semplicità, commuove anche chi francese non è. Fra una Marcia funebre di Chopin e una Marsigliese, a capo scoperto sotto una pioggia battente Nicolas Sarkozy promuove post mortem i caduti al grado superiore e li nomina cavalieri della Legion d’Onore.

E soprattutto, pronuncia un discorso memorabile. Chi gliel’ha scritto sa il fatto suo e conosce bene la lunga tradizione classica dell’omaggio funebre. Dal discorso di Pericle dopo il primo anno della guerra del Peloponneso al «Gettysburg address» di Lincoln, le democrazie onorano i morti per parlare ai vivi. E così ha fatto Sarkò, senza paura di usare grandi parole, evocando le virtù militari di «disciplina, fedeltà, coraggio, onore», spiegando che l’Armée è l’«espressione più compiuta della continuità della Nazione francese nella Storia» e rivolgendosi direttamente a quei sette ragazzi mandati a morire così lontano, e mandatici da lui: «Voi non siete morti per niente, perché vi siete sacrificati per una grande causa. Voi avete difeso i più bei valori del nostro Paese. Voi siete morti per la grande causa dei popoli liberi che hanno pagato la loro libertà con il sangue dei loro soldati. I vostri padri, le vostre madri, le vostre mogli, i vostri figli possono essere fieri di voi come voi potete essere fieri del loro coraggio e della loro dignità».

Insomma, quest’ometto con i tacchi, d’ordinario discusso e magari sfottuto, per il tempo di un’ora è stato davvero non il capo di un partito, ma di una grande Nazione che piangeva i suoi morti. E infatti il suo omaggio è stato accolto da un consenso generale, da destra e da sinistra, senza distinguo, eccezioni, sofismi, «sì, ma».

Retorica? Certo. Autogiustificazione davanti all’opinione pubblica per una guerra discutibile e soprattutto interminabile? Forse. Però ascoltando Sarkozy veniva da pensare all’avvilente cicaleccio della politica italiana, a un «discorso» pubblico ridotto all’invettiva, alla povertà di linguaggio che è sintomo di quella di idee, all’incapacità permanente di elevarsi da una parte al tutto. Non è solo il fatto che i francesi hanno uno Stato e gli italiani no, o se l’hanno preferiscono dimenticarlo. E’, soprattutto, la paura di usare grandi parole per esprimere grandi ideali. E’ quella «retorica della piccolezza» contro la quale già nel Dopoguerra metteva in guardia Alberto Savinio, reazione uguale e contraria alla grandezza di cartapesta del fascismo. La paura della retorica ingenera la meschinità, un perenne piccolo cabotaggio fatto di piccole discussioni, piccoli interessi, piccole polemiche. Piccoli uomini. Un politico che evocasse, per una volta, grandi idee, grandi valori, grandi speranze e lo facesse con grandi parole sarebbe sbeffeggiato dal sarcasmo o sommerso dal cinismo. Anzi, non si sentirebbe nemmeno, diluito nello sgrammaticato bla-bla quotidiano.

Per carità, nessuno vuole Berlusconi o Bersani affacciati al balcone a indicare alla folla gli immancabili destini. Però le democrazie non vivono solo dell’ordinaria amministrazione, magari buona (e poi si sa che in Italia non c’è nulla di più straordinario di un’ordinaria amministrazione appena decente). Vivono anche di valori, di ideali, di speranze, di sogni. E, quand’è il momento, sanno inventare un Churchill o un Kennedy o un de Gaulle che trovano le parole per esprimerli. Per tutti, non solo per chi li ha votati. Altrimenti, le democrazie muoiono. Infatti la nostra non sta per niente bene.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9002
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