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« inserito:: Giugno 15, 2011, 06:28:17 pm » |
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Retroscena
I numeri della riforma: per tagliare il Fisco servono 15-20 miliardi
Nel 2003. La revisione del 2003 che toccò i redditi più bassi costò come minori entrate circa 5,5 miliardi di euro
ROMA - La riforma fiscale, dice Giulio Tremonti, non può essere fatta in deficit. Per recuperare risorse da destinare alla riduzione delle tasse bisognerà tagliare la spesa pubblica, ma ci vorrebbero almeno tra i 15 ed i 20 miliardi di euro per arrivare ad un taglio delle imposte avvertibile da tutti i contribuenti, e molti di più se si volesse abbattere sensibilmente anche il carico fiscale sulle imprese. Calcoli precisi sono impossibili da fare in questa fase, anche se la riforma fiscale varata nel 2002 e mai completata, la stessa cui ha fatto riferimento ieri il ministro dell'Economia, offre qualche buon riferimento a riguardo.
Il costo del passaggio dalle cinque aliquote esistenti allora alle tre previste dalla riforma, attuata solo nel suo primo modulo, venne stimato allora, dallo stesso governo Berlusconi, tra i 21 ed i 24 miliardi di euro. Il primo pezzo della riforma, attuato nel 2003, costò 5,5 miliardi di euro e toccò solo i redditi minori. Venne introdotta un'area di completa esenzione fiscale per i redditi fino a 3 mila euro. Le due aliquote più basse, il 18% che valeva fino a 10 mila euro, e il 23% che si applicava sulla parte eccedente fino a 15.500 euro, vennero poi accorpate in un'unica aliquota, il 23% per tutti i redditi fino a 15 mila euro. Poi si ritoccò anche quella immediatamente superiore, portandola dal 32 al 31%. L'impatto finanziario dell'operazione, che se fosse rimasta in questi termini avrebbe beneficiato tutti i redditi e sarebbe costata moltissimo (quasi il doppio), venne mitigato da un sistema di detrazioni e deduzioni che decrescevano fino ad annullarsi intorno ai 40 mila di reddito annuo.
Se ne giovarono circa 28 milioni di contribuenti italiani, i più poveri (per i quali fu calcolato allora una riduzione delle imposte in media del 42%), e tutto filò liscio. Molto più difficile fu il parto del secondo modulo, che doveva invece tagliare le imposte al ceto medio. Venne impostato dal successore di Tremonti, Domenico Siniscalco, ma ebbe assai poca fortuna visto che non entrò mai in vigore, cancellato dal centrosinistra, che nonostante la riduzione delle tasse avviata da Berlusconi, vinse le elezioni. Quel secondo pezzetto di riforma valeva altri 6 miliardi di euro. Doveva servire ad estendere la prima aliquota del 23% a tutti i redditi fino a 26 mila euro, ad abolire quella del 29% e a ritoccare le altre, portando quella intermedia dal 31 al 33% e riducendo la più alta, che allora era il 45% al 43% (anzi al 39 cui si sommava un contributo di solidarietà del 4% per i redditi oltre i 100 mila euro).
Successe però un putiferio quando ci si accorse che di quel modulo della riforma fiscale avrebbero tratto vantaggi, enormi vantaggi, solo i redditi molto elevati. La riforma venne approvata dal Parlamento, ma fu stravolta dal governo Prodi, che stabilì le cinque aliquote Irpef attuali e ritrasformò le deduzioni in detrazioni. Dagli sgravi fiscali, allora, restarono fuori anche le imprese, che beneficiarono solo di un abbattimento dell'Irpeg di 2 punti nel 2003. Intervenire anche su quel fronte, oggi, farebbe aumentare sensibilmente il conto della spesa. L'Irap tanto odiata, e che tutti i governi hanno promesso di cancellare, da sola, vale 37 miliardi di euro l'anno.
Rispetto al 2002, oggi il governo avrebbe anche meno strumenti per fare cassa e finanziare la riforma, che allora venne coperta dai condoni e dagli scudi fiscali. Anche se Tremonti non dispera. Tecnicamente basterebbe tagliare il 20% delle agevolazioni fiscali esistenti, che valgono 160 miliardi l'anno, per spesare il taglio delle tasse. Politicamente, però, è tutto un altro discorso.
Mario Sensini
15 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/economia/11_giugno_15/
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