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Autore Discussione: Stefano RIZZO Il diritto e la forza (perchè la Libia)  (Letto 3674 volte)
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« inserito:: Marzo 27, 2011, 06:29:20 pm »

Stefano Rizzo,   22 marzo 2011, 16:44

Il diritto e la forza (perchè la Libia)     

La fretta di intervenire e le questioni mai chiarite. Chi comanda, per fare cosa, per colpire dove? E il dopo Gheddafi, quando mai sarà, vecchie e nuove amicizie, alleanze strategiche, il suo petrolio. Ancora bombe sui rifugi del Colonnello a Tripoli. Aiuto alla popolazione libica insorta o far fuori il tiranno? L'alleanza dei "Volenterosi" si rivela un litigioso compromesso tra Paesi con interessi diversi se non opposti. Ma nel mentre che si vedono tutti i limiti di un intervento internazionale, tutte le sue ipocrisie e opportunismi, non si può negare che l'affermazione del principio della "responsabilità collettiva a proteggere" costituisce un valore


Nelle vicende umane diritto e forza sono strettamente uniti. All'interno di una comunità o di una nazione, il diritto, la legge uguale per tutti, nasce per contrastare un'altra legge, quella del più forte. In una società ben ordinata la forza come strumento per risolvere i conflitti personali recede ai margini, non scompare ma deve piegarsi di fronte alla forza del diritto. Che non è soltanto buone intenzioni, ma anche la capacità di imporre il rispetto delle sue norme seguendo determinate procedure. E se la legge non viene rispettata interviene un'altra violenza, non individuale ma in nome della collettività, che punisce il trasgressore, lo costringe a pagare una multa, lo priva della libertà, o addirittura (dove ciò è consentito) lo mette a morte. Questo è ciò che avviene in qualunque stato o nazione, democratico o dittatoriale, dove prevalga l'ordine sul disordine, il diritto sulla forza, la legge collettiva sulla legge individuale del più forte.

Nel contesto internazionale invece non c'è alcuna autorità in grado di fare rispettare la legge, nessuno che ne abbia la legittimità, cui si riconosca il diritto di intervenire. Qui prevale non l'ordine, ma l'anarchia, che è un altro modo per dire che ogni stato, entro i propri confini, ha il diritto di fare come più gli aggrada. E non solo nei propri confini. Se ha la forza, o ritiene di averla, interviene per proteggere un suo interesse, per vendicare un torto che afferma di avere subito, per conquistare un vantaggio, per esercitare il suo dominio, che diventa legittimo proprio perché ha la forza di imporlo. Lo strumento principe dell'ordine internazionale quindi non è il diritto, ma la forza nella sua forma estrema di violenza armata, di guerra.

Così è sempre stato nei rapporti tra gli stati, e i cinici e i pessimisti ritengono che così sempre sarà -- e citano esempi a non finire. E poi, aggiungono, la guerra non è poi una cosa così brutta: in guerra si coltivano virtù come l'onore, il valore, il coraggio, l'amor patrio, la solidarietà di gruppo. Chi vince non solo è il più forte, ma spesso anche il migliore: da lui verrà una nuova civiltà, un nuovo ordine mondiale migliore di quello di prima, il progresso, lo sviluppo economico, la democrazia. Così si diceva al tempo del colonialismo, così si è detto ancora pochi anni fa all'epoca della presidenza di Bush figlio.

Parole di cinici e di pessimisti che nascondono l'indifferenza nei confronti della morte delle persone e della distruzione delle cose che sono non gli effetti, ma gli strumenti necessari della guerra. Altro che valore, onore, amor patrio! rispondono gli idealisti. La guerra è carneficina, scatenamento del furore distruttivo, annientamento di ogni valore sociale, ritorno alla barbarie.

Eccetto che la barbarie cui si ritornerebbe è stata incomparabilmente meno violenta e sanguinaria delle guerre moderne. Con una bomba, una mitragliatrice, un carro armato, un missile atomico, si uccidono in pochi minuti più uomini (e donne e bambini), si distruggono più case, ponti e strade, di quanti non se ne uccidessero e distruggessero in anni di combattimenti nelle cosiddette guerre primitive.

Fu di fronte alle immani distruzioni e scempio di vite umane della prima e, soprattutto, della seconda guerra mondiale - oltre cento milioni di morti in due guerre - che per la seconda volta nel corso del ‘900 (la prima fu dopo la prima guerra mondiale) i cinici e i pessimisti dovettero tacere, e gli idealisti poterono fare sentire la loro voce. Fu allora, alla fine del secondo conflitto mondiale, che si fece strada l'idea che anche a livello internazionale fosse necessario costituire una autorità in grado di arginare l'uso della forza, non un superstato al di sopra degli altri, ma una associazione di stati che accettassero di rinunciare alla guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti e che collettivamente imponessero il rispetto della pace. L'idea di fare prevalere, anche a livello internazionale, il diritto sulla forza, ma dotandolo al contempo degli strumenti per farlo rispettare.

E' la grande idea, il grande ideale su cui si basano le Nazioni Unite. Che riconoscono due sole forme legittime di guerra: la guerra di autodifesa, che ogni stato ha il diritto di condurre per respingere un aggressione, e la guerra disposta dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per reprimere "una violazione della pace o una minaccia alla pace internazionale". Grandi idee e grandi ideali che non trovarono attuazione (o ne trovarono diverse pretestuose) negli anni della guerra fredda a causa dei veti di una delle due superpotenze - Stati Uniti e Unione sovietica - che si dividevano il mondo in zone di influenza. E che dopo la fine della guerra fredda vennero piegate all'interesse dell'unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti.

A partire dagli anni '90 del secolo scorso venne però affermandosi un'altra idea, diversa dalla prima, ma anche questa legata alla condanna dell'uso indiscriminato della forza per risolvere i conflitti: il principio che nella comunità internazionale -- ormai non più divisa da mortali differenze ideologiche e sempre più legata da trattati, convenzioni, norme, istituzioni internazionali, oltre che da un intreccio sempre più stretto di interessi economici e finanziari - vi fosse l'obbligo di non stare a guardare quando il capo di uno stato perseguita, tortura, uccide arbitrariamente i propri cittadini: il principio di una "responsabilità a proteggere" gli esseri umani nei loro beni essenziali della vita e della integrità fisica anche all'interno degli stati, nonostante la sovranità e il diritto di non ingerenza degli stati sul proprio territorio ed entro i propri confini.

Teorie? Belle parole? Sogni di anime belle? In larga misura sì, perché di fatto ogni qual volta negli ultimi venti anni la comunità internazionale è intervenuta su mandato delle Nazioni Unite per porre fine a massacri e genocidi (e anche in questo caso lo ha fatto molto selettivamente), vi sono sempre stati in gioco anche interessi nazionali -- interessi economici, interessi militari o più in generale di egemonia; così come vi sono sempre state diffidenze e competizioni tra gli stati partecipanti e condizionamenti legati alla necessità del consenso interno e all'obbiettivo di accaparramento di risorse - prime fra tutte quelle energetiche.

Ma nel mentre che si vedono tutti i limiti di un intervento internazionale, tutte le sue ipocrisie e opportunismi, non si può negare che l'affermazione del principio della responsabilità collettiva a proteggere costituisce un valore, tanto quanto (e forse oggi di più proprio perché la maggior parte dei conflitti e i più sanguinosi sono conflitti interni) di quello della pace tra gli stati. Un principio giuridico che, come tutti i principi giuridici, ha il suo fondamento in una sensibilità diffusa, e cioè nella convinzione che tutto ciò che succede nel mondo, tra gli stati e negli stati, ci riguarda e che il rispetto dei diritti umani - definiti appunto universali - non si ferma al confine di uno stato.

Globalizzazione non è solo circolazione delle merci, outsourcing, internet, viaggi. Globalizzazione è anche il formarsi di una coscienza civile globale, di una società civile mondiale definita anche attraverso i suoi valori. Quando, dove, come e fino a che punto intervenire per affermare questi valori è ovviamente questione sulla quale ci si può dividere. Ma un dibattito serio sull'intervento in Libia dovrebbe partire da qui.

da - paneacqua.eu/notizia
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:30:50 pm »

Stefano Rizzo,   02 novembre 2011, 21:28

Il sindacato americano alla riscossa     

Firmato il contratto dei lavoratori dell'industria, in particolare di quella metalmeccanica dopo oltre tre mesi di un durissimo confronto. In cambio di aumenti salariali minimi, la United Automobile Workers ha ottenuto garanzie sui posti di lavoro, sugli investimenti e sulle nuove assunzioni (20.000 nuovi posti di lavoro nei prossimi anni e ad investimenti per oltre 10 miliardi di dollari). Sul fronte salariale i contratti prevedono un aumento medio dell'uno per cento all'anno del monte salari, ma distribuito così da premiare i giovani e i neoassunti: nessun aumento alle fasce di lavoratori con maggiore anzianità e un cospicuo aumento -- dell'ordine del 20 per cento - agli operai dei primi livelli


Negli Stati Uniti i sindacati non sono molto forti. Rispetto ad una media europea di sindacalizzazione del 50 per cento (in Italia il 35 per cento) sul numero complessivo degli occupati, negli Stati Uniti soltanto 13 lavoratori su 100 sono iscritti ad un sindacato. Va un po' meglio nel settore pubblico dove sono il 36 per cento e decisamente peggio in quello privato dove sono appena il 7,5 per cento. Non è sempre stato così. Nel dopoguerra i sindacati erano molto più rappresentativi, ma a partire dalla "rivoluzione" (o controrivoluzione) reaganiana degli anni '80 iniziò un attacco a tutto campo contro le tutele sindacali e contro la contrattazione collettiva, che ancora non è terminato. Oggi, su una forza lavoro di circa 150 milioni, gli iscritti alle diverse organizzazioni sindacali che fanno capo alle due grandi confederazioni, la AFL-CIO e la CWF (Change to Win Federation), sono appena 16 milioni.

Un'eccezione da sempre è rappresentata dai lavoratori dell'industria, in particolare di quella metalmeccanica, i meglio pagati e i più sindacalizzati. Il loro sindacato, la United Automobile Workers (UAW), è il più attivo e meglio organizzato. Inoltre, è anche il più impegnato politicamente e socialmente: non solo sostiene i candidati del partito democratico nelle elezioni con cospicui finanziamenti, ma esercita anche un ruolo significativo nelle battaglie per i diritti civili, la tutela dell'ambiente e in genere per la giustizia sociale, negli Stati Uniti, in Africa e nei paesi in via di sviluppo.
Anche la UAW tuttavia ha registrato negli anni una cospicua perdita di iscritti, ma questa volta a causa della crisi del settore automobilistico che, già prima della crisi economico-fiananziaria del 2008 (che portò l'anno successivo al fallimento della General Motors e al salvataggio della Chrysler, con massicci interventi dell'amministrazione Obama per salvarle), ha più che dimezzato gli addetti del settore: dai 305.000 del 2005 ai meno di 140.000 oggi.

Con lo scoppio della crisi economica, di fronte al tracollo dell'industria automobilistica nazionale, la UAW assunse una posizione di collaborazione con l'amministrazione Obama e con le tre grandi - GM, Ford, Chrysler - accettando, in cambio del salvataggio (sotto forma di prestiti) da parte del governo, di bloccare gli aumenti salariali e di non scioperare per cinque anni. Una concessione enorme per un sindacato che era abituato a strappare con scioperi durissimi aumenti fino al 5 per cento all'anno. La ristrutturazione del settore che ne è seguita, con conseguente perdita di posti di lavoro e chiusura di fabbriche, ha però dato i suoi frutti.
La General Motors si è ripresa e ha restituito il prestito al governo. La Chrysler, tuttora in difficoltà nonostante l'attivismo del suo nuovo amministratore delegato Marchionne, ha registrato un forte aumento delle vendite, e ancora meglio è andata alla Ford che si è risollevata da sola senza avvalersi dell'aiuto pubblico. Il risultato è stato che il settore automobilistico ha registrato nella prima metà del 2011 forti utili e ha ricominciato a distribuire profitti agli azionisti e bonus milionari ai suoi dirigenti.

Con la scadenza ad ottobre dei contratti di categoria, la UAW ha chiesto che venissero rinegoziati gli accordi degli anni precedenti e che anche i lavoratori beneficiassero delle migliori condizioni dell'industria automobilistica. E' iniziata una lunga trattativa con ciascuna delle tre grandi case produttrici, che è durata più di tre mesi, e che a fine ottobre ha portato alla stipula di nuovi contratti, che sono stati poi sottoposti alle assemblee di fabbrica. Per tutto questo periodo ci sono state agitazioni e anche contestazioni dei dirigenti sindacali da parte della base, ma alla fine i nuovi contratti sono stati approvati dal 65 per cento dei lavoratori di Ford e GM e da poco più del 50 per cento di quelli di Chrysler.

Anche se riflettono la situazioni di perdurante incertezza del settore e di conseguenza la oggettiva debolezza del sindacato, si tratta di contratti per molti versi innovativi. In cambio di aumenti salariali minimi, il sindacato ha ottenuto garanzie sui posti di lavoro, sugli investimenti e sulle nuove assunzioni. Le tre grandi si sono impegnate complessivamente a creare 20.000 nuovi posti di lavoro nei prossimi anni e ad investimenti per oltre 10 miliardi di dollari (la sola Ford ha stanziato 6 miliardi). Sul fronte salariale i contratti prevedono un aumento medio dell'uno per cento all'anno del monte salari, ma distribuito così da premiare i giovani e i neoassunti: nessun aumento alle fasce di lavoratori con maggiore anzianità e un cospicuo aumento -- dell'ordine del 20 per cento - agli operai dei primi livelli, che in precedenza ricevevano una busta paga di meno della metà dei loro colleghi più anziani. Inoltre, in cambio del blocco dei licenziamenti il sindacato ha accettato incentivi al prepensionamento volontario mediamente di 30.000 dollari - anche se è dubbio che nella attuale situazione di crisi occupazionale saranno in molti a volerne fruire.

Interessante il capitolo che riguarda le una tantum a chiusura del contratto e soprattutto la partecipazione agli utili aziendali da parte dei lavoratori. Con realismo, cioè tenendo conto della situazione finanziaria e commerciale delle singole aziende, il sindacato ha ottenuto l'esborso di un bonus di 6000 dollari per ciascun lavoratore alla Ford, di 5500 alla GM e di 3500 alla Chrysler. Anche dalla partecipazione agli utili dovrebbero arrivare a fine anno mediamente 2000 dollari in più l'anno (3750 dollari alla Ford) per dipendente - di fatto una sorta di tredicesima, un istituto sconosciuto negli Stati Uniti. Si tratta beninteso di somme enormemente inferiori rispetto ai profitti di 6 miliardi per il primo trimestre 2011 dichiarati dalle aziende, soprattutto se raffrontate con i bonus milionari (fino a 26 milioni di dollari) elargiti ai dirigenti, ma si tratta pur sempre di un primo passo significativo.

Il nuovo contratto non copre i lavoratori delle case automobilistiche straniere che producono negli Stati Uniti (segnatamente la Toyota e la Volkswagen), che mediamente percepiscono salari inferiori di circa il 20 per cento dei loro colleghi "nazionali"; e che, soprattutto, ricevono minori benefici in termini di pensioni e di assistenza sanitaria. La maggior parte di costoro non sono sindacalizzati e in base alla normativa americana non possono essere rappresentati dalla UAW. Negli Stati Uniti l'idea di un contratto unico nazionale appare ancora una peculiarità dell'Europa "socialista", mentre i sindacati americani vengono generalmente considerati, in Europa , meno combattivi di quelli del vecchio continente. Eccetto che questa volta sono i sindacati "capitalisti" ad avere difeso meglio i lavoratori -- soprattutto in termini di difesa dell'occupazione e di migliori condizioni per i giovani lavoratori -- di quanto non stia avvenendo in Europa e, in particolar modo in Italia.

da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18950
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