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Autore Discussione: Emma Fattorini - La vera libertà supera i rischi del moralismo  (Letto 2068 volte)
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« inserito:: Febbraio 07, 2011, 05:34:16 pm »

IL CONFRONTO - LE DONNE

La vera libertà supera i rischi del moralismo

   
Tante amiche che stimo hanno contestato la proposta di esprimere pubblicamente il proprio sdegno. Le argomentazioni più pertinenti le hanno espresse sul sito femminista donnaltri.it. Due sono critiche circostanziate e condivisibili, quella di moralismo e di strumentalizzazione. Mentre altre due obiezioni mi lasciano alquanto perplessa e riguardano la natura della prostituzione e il concetto di libertà femminile della donna che offre il suo corpo. Sulla strumentalizzazione solo poche parole. La furia che vede in Berlusconi il male assoluto - mentre, purtroppo è la massima espressione di un clima generale -, nasconde i limiti di una certa opposizione che non riesce a scalzarlo politicamente e si nasconde, letteralmente, dietro le toghe o le sottane dei magistrati, della Chiesa e, ora, delle donne. Usando la Chiesa e le donne di chiesa, mai altrimenti prese in considerazione, sempre ignorate e che rispuntano, invece, come risorse al momento del bisogno. E qui non ci sarebbe niente di nuovo se non fosse che anche e proprio una simile strumentale miopia ci ha portati a questo punto.

L'accusa di moralismo va presa molto sul serio: non solo perché è profondamente sbagliato dividere le donne «perbene» da quelle «permale», - contravvenendo al principio di fondo del femminismo sulla libertà del soggetto femminile - ma perché qui il pensiero di alcune donne, fatto in libertà, sine glossa, coglie un punto che riguarda tutti e tutte. Il moralismo è stato ed è veramente il peccato mortale e la causa reale dell'esaurirsi progressivo di quella parte della cultura di opposizione che si è consumata internamente proprio consolandosi con il moralismo. Un vero e proprio surrogato di quella che un tempo era una vera diversità morale, il moralismo è stato innalzato a vessillo mentre, in un lento processo di metabolizzazione, una certa opposizione ha finito con l'interiorizzare, anche inconsapevolmente, gli stessi modelli che demonizzava. Molti contribuiscono a fare, del moralismo, quello spirito del tempo, speculare e incongruo all'assoluta decadenza morale. Certo un male minore, rispetto al degrado attuale, ma che, come tutte le emozioni e i sentimenti non autentici, è insinuante perché mitridatizza, assuefa e si limita a ri-pulire le coscienze. Ma, così come prendere sul serio i danni del moralismo consente di porci il problema morale, altrettanto prendere sul serio la libertà ci permette di distinguerla dal libertinismo. Questo è veramente il punto in discussione: la libertà del soggetto femminile.

Intangibile è la libertà di scegliere il bene e il male, quella che ci fa essere uomini e donne. Lì sta la nostra origine, lì la nostra caduta, lì, in quella scelta, la nostra irriducibile libertà. E cosa c'è di diverso per le donne? Quale è, secondo loro, la scelta «giusta»? E, ancora, come fare a tradurre le scelte morali che cambiano nel tempo? Accettarle per come sono, solo perché esprimono un cambiamento della soggettività femminile? E, altrimenti, come fa una donna a capire cosa è male o non è più male? O, addirittura, come dicono alcune: «A noi non interessa questa domanda perché la scelta morale si risolve e si esaurisce tutta nella libera e soggettiva scelta femminile consapevole»? Non sono assolutamente d'accordo con questo ragionamento, né teoricamente né sul piano pratico. Non sono d'accordo con questo «indifferentismo». Intanto perché la «scelta»(?) di prostituire il proprio corpo non avviene mai nel vuoto pneumatico della soggettività. Non solo, ovviamente, per la moltitudine di disgraziate che fuggono dall'inferno dei mondi disperati ma anche e non di meno per quella zona grigia, sempre più in crescita, di prostituzione «consapevole» che coinvolge proprio la soggettività femminile. Non basta dire che è un affare degli uomini e delle loro miserie il fatto che le donne si offrano chi per arrotondare, chi per migliore il proprio status, chi per comprarsi la borsa Prada, chi per aiutare i maschi di famiglia, padri, fratelli, cognati, secondo una antica tradizione italiana (i primi appassionati amplessi della innamoratissima Claretta Petacci erano associati a suppliche per favorire gli uomini di famiglia, mentre la favorita contemporanea chiede un avanzamento di carriera politica per se stessa.)

Non si tratta di colpe morali ma di capire le novità: non più solo quelle relative alle polimorfe forme della sessualità maschile, insieme compulsive e mai coinvolte nella relazione. Ma occorre vedere anche l'orgogliosa disinvoltura con la quale sempre più donne non si limitano a «lavorare con il corpo» ma lo considerino una vera e propria fortuna, un miraggio. Cambiano solo le forme della perenne accoppiata sesso e potere o c'è qualcosa di nuovo? E, infine, non «giudicare» la prostituzione deve significare che quello è davvero un «lavoro» come un altro? Da tempo le donne discutono di tutto ciò e certo dobbiamo continuare a farlo coinvolgendo gli uomini. Ma quando ho sentito alcuni studenti, nel liceo di mio figlio, discutere sulla inutilità che quella loro compagna, così bella, dalle gambe così lunghe, continuasse a studiare greco, e li ho sentiti ragionare sullo «spreco» di quelle loro compagne - quasi sempre molto carine e molto più brave di loro - ad «andare così bene a scuola» ho pensato che non fosse sbagliato firmare quell'appello dai rischi moralistici. E quando una mia laureanda, bellissima anche secondo i canoni estetici di Arcore, la quale si consuma sulle ricerche d'archivio, con una prospettiva del tutto incerta, mi ha chiesto quale sia la vera libertà per la donna, io le ho risposto che non tutte le scelte sono uguali. Perché penso di avere, senza alcuna spocchia di superiorità, ma molto semplicemente, il dovere di testimoniare una strada concreta alle mie studentesse. «Le disgraziate si sono vendute per una lira, per un grembial» recitavano le dolenti parole dei canti del primo socialismo, «né puttane né madonne, solo donne» gridavano le femministe negli anni Settanta. E ora? Cosa diciamo ora ai nostri figli e alle nostre studentesse?

Emma Fattorini

07 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/11_febbraio_07
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