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« inserito:: Febbraio 01, 2011, 12:15:50 pm » |
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LA PIAZZA E LA MOSSA DEI GENERALI
Quei ragazzi del Cairo
La dichiarazione delle Forze Armate egiziane, che considerano «legittime» le rivendicazioni del popolo, aggiunge un ulteriore elemento di novità e sorpresa nella concatenazione di rivolte in Medio Oriente. Se la repressione di proteste di piazza è spesso il motivo conduttore dei regimi dittatoriali, il passaggio dei soldati dalla parte dei cittadini può essere la svolta verso quella transizione morbida o il meno possibile violenta incoraggiata da Stati Uniti e in ordine sparso dalle capitali europee. Anche per garantire la stabilità del punto più nevralgico della regione. Da oggi, il destino personale di Mubarak è meno importante rispetto alle scelte che gli hanno imposto le piazze e nelle ultime ore i poteri forti del Paese. Potrebbe uscire di scena subito o essere per qualche tempo uno degli attori delle riforme, ma non sarà lui a guidare l'Egitto di domani.
Per valutare sviluppi positivi o rischiosi della situazione egiziana, e della rivoluzione in Medio Oriente - in particolare l'ipoteca del fondamentalismo islamico -, si è ricorsi questi giorni al confronto con eventi storici del recente passato. Alcuni ricordano la caduta del Muro di Berlino e l'effetto domino sui regimi comunisti. Altri riflettono sulle conseguenze disastrose della rivoluzione khomeinista. Se non si voglia sostenere che il mondo arabo e la religione musulmana siano incompatibili con la democrazia, sarebbe utile rievocare anche la rivoluzione indonesiana degli anni Novanta che abbattè il dittatore Suharto e avviò un processo democratico nel più grande Paese musulmano del mondo. Anche in Indonesia l'esercito rinunciò subito alla prova di forza.
Gli avvenimenti delle ultime ore dicono che l'Egitto si è fermato in tempo sull'orlo del baratro e che i generali non vogliono o non osano mandare i soldati - anch'essi figli del popolo - contro milioni di cittadini che nella grande maggioranza non hanno in testa svolte ideologiche di sistema o derive religiose ma il sogno di essere partecipi dello sviluppo e garantiti nelle libertà fondamentali dell'uomo. È una decisione coraggiosa, ma anche una presa d'atto del ricambio generazionale e culturale del proprio Paese e dei Paesi vicini.
Nessuno, nemmeno con i carri armati, può annullare gli effetti del rapporto stretto fra le popolazioni del Medio Oriente e i fenomeni sociali del nostro tempo: l'emigrazione di milioni di giovani in Europa, l'interagire delle comunicazioni sul web e in una certa misura lo sviluppo turistico. Fenomeni che sfuggono al controllo dei regimi. Milioni di emigrati in Europa trasmettono idee e valori occidentali a parenti e amici rimasti nei Paesi d'origine. Qui l'urbanesimo e la scolarizzazione di massa hanno favorito la ricezione e fatto crescere una middle class borghese e intellettuale che ritiene compatibili le tradizioni con le libertà civili.
Gli Stati Uniti hanno compreso, prima dell'Europa, l'importanza della posta in gioco. Incoraggiano riforme e ricambio delle oligarchie. Per quanto rischiosa, è l'unica strada possibile, perché connessa a principi di autodeterminazione dei popoli e sovranità. Il sostegno di dittature screditate e corrotte non è meno fallimentare del tentativo di esportare la democrazia con le bombe. I generali egiziani hanno colto in tempo il messaggio.
Massimo Nava
01 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_01/nava
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« Ultima modifica: Giugno 21, 2014, 12:24:20 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 20, 2011, 10:00:57 pm » |
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Il commento
Il commento
Una scelta inevitabile
È sintomatico che Gheddafi parli come Milosevic e Saddam, utilizzi le stesse minacce contro gli «aggressori», faccia previsioni funeste e denunci l'illegittimità dell'intervento internazionale come ingerenza negli affari interni. Inoltre, come accade nella mente dei dittatori che negano la realtà o ne perdono il contatto, continua a considerarsi amato da quel popolo che aggredisce con carri armati e mercenari. È evidente lo scopo di insinuare nelle coscienze interrogativi etici sulla giustezza di una guerra (perché di questo si tratta, dopo che la coalizione dei volenterosi ha già colpito obiettivi in Libia) e dubbi sulla sua utilità. Ma è altrettanto evidente che le cose stanno in modo diverso rispetto ai «bombardamenti umanitari» del recente passato.
In primo luogo non si tratta di un'invasione, ma di interventi mirati e circoscritti, finalizzati a impedire il bagno di sangue, prima ancora di discutere sbocchi politici. A Gheddafi il mondo, quasi all'unanimità, ha chiesto di rinsavire e forse gli lascia ancora un margine di manovra per consentire una transizione. In secondo luogo, l'intervento preventivato al vertice di Parigi è sostenuto da una coalizione internazionale che ha la copertura del Consiglio di Sicurezza, il placet della Lega araba, la partecipazione - per quanto in ordine sparso - dei maggiori Paesi europei, con l'eccezione della Germania.
Merito del presidente francese Sarkozy, il quale non si è curato di accuse di impulsività e protagonismo elettorale e ha superato inerzie europee e riserve americane. Meglio sarebbe stato vedere un'Europa più coesa fin da subito. E sarebbe stata utile un'iniziativa forte dell'Italia, con tempi di reazione adeguati al nostro Paese, che ha la storia e la posizione più complicate in rapporto alla Libia. Abbiamo subito la determinazione francese e siamo entrati in un'operazione che pochi immaginavano soltanto una settimana fa. A Parigi, si è avuta la sensazione di essere arrivati a cose fatte. Per la nostra immagine, come ha promesso il presidente Napolitano, speriamo che il Paese si prepari a fare la propria parte.
Se si ricordano le esperienze militari in Iraq e in Afghanistan (e sotto alcuni aspetti in Kosovo) dobbiamo anche riflettere sui rischi di pesanti conseguenze per la popolazione civile e di risultati opposti agli obiettivi conclamati. Se ci si interroga sulle alternative politiche a Gheddafi non ci si può nemmeno nascondere, come ha scritto ieri sul Corriere Sergio Romano, che sappiamo poco o nulla dei capi della ribellione che il solo Sarkozy ha voluto riconoscere. Un'azione internazionalmente condivisa non diventa moralmente giusta in assoluto. Ma non dovrebbe essere complicato, nel caso della Libia, sapere da che parte stare. Sia per il governo, sia per l'opposizione.
Ciò che rende diverso il confronto con interventi del passato è l'atteggiamento culturale, prima che politico, che si dovrebbe tenere nei confronti dei popoli arabi. La rivoluzione del Maghreb non brucia bandiere americane ma chiede libertà, democrazia, distribuzione delle ricchezze e un futuro di sviluppo che non può essere considerato alla stregua di minacce per le nostre coste o per le nostre economie. «I popoli arabi - ha promesso Sarkozy - devono essere padroni del proprio destino». Coloro che temono il dopo Gheddafi forse sottovalutano le insidie della sua permanenza al potere. Per il suo popolo e per le immense speranze dei popoli vicini.
Massimo Nava
20 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:22:44 pm » |
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ETICA E POLITICA
Oggi la Libia, ieri il Kosovo e l'Iraq
Perché questa guerra è giustificabile
Non è necessario essere pacifisti militanti per sostenere che la guerra sia una cosa orribile e ingiusta. Almeno sul piano etico, è difficile accettare che qualcuno possa decidere di bombardare e uccidere, anche quando i bersagli siano terroristi o dittatori. La guerra giusta è come il rischio zero nel nucleare: più grande è la falla nel sistema, più spazio c'è per polemiche e avvertenze prima dell'uso.
Ma l'orrore per la guerra non può tramutarsi in indifferenza verso massacri e impotenza della comunità internazionale di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Il mondo è lontano dall'ideale della pace universale di Kant: occorre quindi l'accettazione (anch'essa morale) di guerre giustificabili, se non giuste. È uno dei criteri fondanti delle Nazioni Unite: i diritti dei popoli sono più importanti della sovranità degli Stati. Le polemiche sull'intervento in Libia e il rinfacciarsi fra destra e sinistra il sostegno a questa guerra o la condanna di guerre precedenti (dal Kosovo all'Iraq) avrebbero meno senso se alcuni punti fossero condivisi.
In primo luogo il fatto che pochi interventi militari internazionali abbiano avuto un sostegno e una legittimazione così ampi quanto l'operazione «Odissea» in Libia, decisa dopo una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, con il sostegno della Lega araba e di molti Paesi europei. Si può argomentare sul «gallismo» dei francesi, sugli eccessi di protagonismo elettorale di Sarkozy, sulle divisioni non sorprendenti dell'Europa, sul recalcitrare della Lega araba dopo i primi missili, sull'opportunità o meno del comando Nato - necessario per il coordinamento delle operazioni, meno utile per le sensibilità dei Paesi arabi - ma sono appunti che non stravolgono la sostanza giuridica della decisione di bombardare la Libia. Tra l'altro, si tratta di un intervento multilaterale: non più soltanto occidentale, non più a guida americana. La Francia ha capito la posta in gioco e ha scommesso, con un occhio ai propri interessi, sul futuro della regione. Che potrà essere incerto, però sarà probabilmente senza alcuni dei dittatori di oggi.
Non è stato così per l'intervento in Iraq, deciso unilateralmente dagli Stati Uniti, con il falso pretesto delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam. Non è stato così nemmeno in Kosovo, poiché il bombardamento della Serbia di Milosevic fu deciso in ambito Nato, adottando la tesi di un intervento «difensivo». Solo successivamente intervennero le Nazioni Unite, con una risoluzione che fra l'altro rispettava l'integrità della Federazione jugoslava (così si chiamava ancora il Paese di Milosevic) e non prevedeva l'indipendenza del Kosovo.
L'intervento in Afghanistan fu legittimato dalle Nazioni Unite che dopo l'attentato alle Torri Gemelle affermarono la necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Valse per gli Usa il diritto all'autodifesa. Nella caduta di Kabul fu determinante l'Alleanza del Nord, la parte del popolo afghano che si opponeva ai talebani e che era doveroso aiutare. Furono sostenute dal consenso della comunità internazionale le operazioni in Somalia e a Timor Est. Purtroppo non si trovarono Paesi «volenterosi» per arrestare i genocidi in Ruanda e Cambogia.
Agli argomenti giuridici, si possono muovere obiezioni sul piano morale. Milosevic e Saddam erano meno rispettabili di Gheddafi? E nei confronti di Milosevic e di Saddam l'Occidente non aveva intrattenuto quel genere di rapporti ambigui (affari, forniture di armi, rispettabilità e riabilitazione politica) che oggi vengono ricordati a proposito del rais libico? Le vittime della pulizia etnica nella ex Jugoslavia o della dittatura di Saddam erano più innocenti dei cittadini di Bengasi? La risposta, per quanto insoddisfacente, non può che essere politica. Se motivazioni morali e legittimazione giuridica dovrebbero essere argomenti condivisi, è la politica che stabilisce una gerarchia che offre il fianco alla polemica. Ed è la politica che - sempre a posteriori - stabilisce in base ai risultati la «convenienza» di un intervento. Nel caso dell'Iraq, è arduo negare le conseguenze dei bombardamenti sulla popolazione civile, lo stillicidio di attentati seguito all'occupazione militare, l'instabilità, il prezzo pagato dall'America e dall'Occidente in termini d'immagine ed esposizione al terrorismo. Per fare la guerra a Saddam si è scoperto il fronte afghano, si è permesso che il terrorismo accentuasse la presenza nel Paese, si sono forniti argomenti al fondamentalismo islamico. Nel caso del Kosovo, le durissime operazioni della polizia serba avrebbero portato Milosevic al Tribunale dell'Aia per crimini di guerra. Si decise di appoggiare la secessione organizzata dai guerriglieri kosovari. Il distacco del Kosovo completò il processo di disgregazione della Jugoslavia. Chi scrive fu critico nei confronti di un intervento giuridicamente approssimativo, ma occorre riconoscere la preoccupazione morale di non veder ripetersi i massacri della Bosnia e l'obiettivo politico - non scritto in nessuna risoluzione, esattamente come oggi per Gheddafi - di sbarazzarsi di Milosevic, considerato un pericoloso e permanente fattore d'instabilità. Anche se poi fu la democratica rivoluzione dei serbi a cacciarlo. Nel caso della Libia, molte condizioni giuridiche, politiche e morali sembrano rispettate. Senza contare che in Libia, come in larga parte del mondo arabo, è in atto una rivoluzione per affermare libertà e diritti.
Massimo Nava
24 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:40:07 pm » |
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LA SVOLTA IN LIBIA Con la sola eccezione della caduta del Muro di Berlino, non si ricorda un crollo di regime, in ogni angolo del pianeta, senza una coda di violenze e di più o meno lunga instabilità. È dunque prematuro parlare di futuro democratico per la Libia del dopo Gheddafi. Ciò che è certo, in queste ore convulse, fra l’euforia dei fuochi d’artificio e la pena di decine di cadaveri per le strade di Tripoli è che un’epoca si è chiusa. Probabilmente, gli amici di ieri e gli ultimi alleati di oggi del Raìs scriverebbero un’altra storia, per contestare quella che, nei secoli dei secoli, viene scritta dai vincitori o presunti tali, da coloro che hanno cominciato una rivoluzione appunto per vincerla e da quanti hanno compreso, più o meno rapidamente, da quale parte stare. Alcuni dati oggettivi. Il primo è che la fine della dittatura viene salutata dalla stragrande maggioranza della popolazione libica e non solo dai miliziani ribelli. Il secondo è che la caduta di Gheddafi rende meno sicuri altri dittatori, contribuendo a rendere irreversibile, sia pure fra molte incertezze, la primavera araba (durante la quale, è bene ricordarlo, non è stata bruciata una sola bandiera americana). Il terzo è che l’intervento militare «esterno» è stato deciso a sostegno di una rivoluzione in atto, che rischiava di essere stroncata nel sangue, spegnendo anche le speranze di milioni di giovani arabi. Si discuterà all’infinito sui margini di «legalità» delle risoluzioni internazionali e sulla «diversità» della missione libica rispetto ad esempio all’appoggio offerto alla secessione in Kosovo o al tragico tentativo di «esportazione» della democrazia in Iraq. E probabilmente si continuerà ad argomentare sugli interessi petroliferi in gioco, sui calcoli elettorali di Sarkozy, sulle titubanze italiane, sulla non nuova contraddizione fra ideali generalizzabili e la loro applicazione pratica: limitata, non estensibile ovunque e in ogni stagione, come limitate sono per forza di cose le vicende umane. È al tempo stesso banale e triste ricordare che non è possibile mettere sotto embargo la Cina per la libertà del Tibet o che un attacco militare alla Siria innescherebbe scenari più complessi che in Libia. Ma è un fatto che la Francia abbia compreso per prima la posta in gioco e agito di conseguenza, a braccetto con la Gran Bretagna. È un fatto che Barack Obama incassi il successo di una missione conseguito con costi e tempi infinitamente più ridotti della fallimentare operazione irachena. È un fatto che l’Europa e le Nazioni Unite abbiano saputo offrire una cornice di legalità e ottenere il via libera della Lega Araba. Ora dovremo dimostrare visione e saggezza nella difficile opera di ricostruzione. A cominciare dai primi contatti, come ieri a Milano e nei prossimi giorni a Parigi. È un fatto che l’Italia, nonostante imbarazzanti polemiche politiche, abbia saputo mettere in campo professionalità e competenze militari, d’intelligence e industriali. È infine un motivo di riflessione la neutralità della Germania, così rigorosa nel dettare da prima della classe le condizioni dell’economia europea, così timida nel comprendere che il futuro dell’Europa non è soltanto una questione di bond e tassi d’interessi. Eppure, proprio a Berlino, dovrebbe essere più facile sentire in quale direzione soffia il vento della Storia. Massimo Nava 26 agosto 2011 07:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_26/nava-paese-che-verra-editoriale_e06ef806-cfa0-11e0-8b29-ded5cf627aec.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:54:20 am » |
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L'apoteosi e le attese
Un leader normale per tempi eccezionali
I francesi si sono affidati al candidato che ha messo al primo posto giustizia sociale e salvaguardia del modello di diritti e servizi
La sinistra torna al potere in Francia. Per la seconda volta, dal dopoguerra, un socialista entra all'Eliseo, trentuno anni dopo François Mitterrand. La scelta dei francesi è consapevole e netta, come dimostrano l'altissima partecipazione al voto e il progressivo movimento di adesione al progetto e alla persona di François Hollande.
La festa alla Bastiglia, il luogo simbolico della Rivoluzione, e lo sventolio di bandiere (molte tricolori, poche rosse) davanti alla sede di rue Solferino, non esaltano il senso di una svolta epocale, come fu quella del programma comune della gauche e delle nazionalizzazioni. Offrono però una bella suggestione rievocativa per il popolo socialista, dopo il lungo digiuno e tante sconfitte, e un sogno alle nuove generazioni cresciute con la destra al potere. Il messaggio di questo maggio francese, al tempo della crisi, del declino civile e dell'antipolitica, è dunque carico di speranza. Per la Francia, e per l'Europa che guarda la Francia.
Scegliendo l'uomo normale, il candidato di riserva, il leader senza carisma, la Francia ha voluto innanzi tutto chiudere la deludente stagione di Sarkozy (qualcuno l'ha definita esotica, rispetto ai canoni della politica dell'esagono) e affidarsi al candidato che ha messo al primo posto giustizia sociale e salvaguardia del modello di diritti e servizi che costituisce l'ossatura della società francese. Con calma e buon senso. Una scelta anche di difesa, contro l'Europa dei sacrifici senza equità, del rigore senza crescita. Poteva essere soltanto una scelta di paura e rigetto, come l'avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen lasciava temere. Alla fine, difese e paure si sono diluite in una vittoria tranquilla, in un progetto che rassicura una società inquieta e lacerata. Europeista convinto e maestro di mediazione, Hollande ha compiuto un capolavoro di sensibilità e strategia nel tenere insieme, in un'agenda che richiede anche risanamento dei conti pubblici, le aspettative della sinistra e almeno di una parte dell'elettorato moderato, quella che ha fatto la differenza nel voto di ieri.
La Francia di Hollande non sogna più il socialismo in un solo Paese, ma un po' più di socialdemocrazia in Europa. Trozkisti, comunisti e la galassia dell'estrema sinistra hanno sostenuto Hollande, ma non ci sono proclami ideologici, né patti elettorali da rispettare, salvo un accordo con i verdi in alcune circoscrizioni alle prossime legislative. Hollande è l'unico emulo di Mitterrand, ma pensa all'Europa di Delors e non vorrà farsi condizionare dal massimalismo giacobino riaffiorato durante la campagna elettorale. Nell'ipotesi probabile di una vittoria anche alle legislative di giugno, avrà le mani libere, in una Francia tutta rosa, dai municipi all'Eliseo. Uno scenario che aggraverebbe la sconfitta, ieri onorevole, di Sarkozy e della destra.
La Francia socialista dice che un'altra via è possibile, che esiste un'alternativa ai dogmi della finanza e delle agenzie di rating, che l'Europa di oggi non è per i cittadini e non ha futuro. Hollande, che ha promesso di ridiscutere il fiscal compact, avverte su di sé e sulla Francia le aspettative dei popoli europei e l'attenzione di molti governi, in primo luogo quello di Angela Merkel, che ha già avviato discreti contatti con il vincitore. Il largo consenso e l'approccio morbido ai problemi potranno aiutarlo, le difficoltà che lo attendono restano però enormi. L'elettorato che lo ha portato all'Eliseo è composto in maggioranza di impiegati pubblici e lavoratori garantiti, con un forte potere d'interdizione che è costato caro anche a Sarkozy.
Una parte della classe agiata teme più forti tassazioni ed è sul piede di guerra. L'imprenditoria chiede che la salvaguardia del modello sociale non penalizzi mercato e competitività. Ruolo dello Stato e intervento pubblico restano preponderanti nell'attuazione del programma, nonostante l'esplosione del debito e i costi della macchina amministrativa. Secondo molti osservatori, le misure annunciate - dalla scuola alle pensioni - sono incompatibili con il risanamento del bilancio dello Stato. Anche Hollande, come in parte è avvenuto per Sarkozy, dovrà mettere nel conto chiusure corporative, rischi di esplosione sociale, resistenze al cambiamento: i sintomi ricorrenti della malattia francese, l'immobilismo anche sotto un cielo rosa.
Massimo Nava
7 maggio 2012 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 20, 2012, 09:41:11 am » |
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L'EUROCRISI DEI PIÙ «VIRTUOSI» Una nordica insofferenza Nella virtuosa Olanda della «tripla A», sale la stella di Roemer, socialista post maoista, che definisce «un'idiozia» il fiscal compact e potrebbe vincere le prossime elezioni cavalcando il malcontento degli olandesi per le misure d'austerità del governo liberale dimissionario. Il caso olandese conferma che il disagio delle opinioni pubbliche nazionali rispetto alle politiche europee e verso le classi dirigenti sia ormai condizione generalizzata, che può dare libero sfogo a movimenti nazionalisti di varia natura, in grado di condizionare e stravolgere anche le linee guida di partiti di tradizione europeista. Se questa è la conseguenza sociale e politica del dogma del rigore, varrebbe la pena di prestare ascolto al disagio, indipendentemente dal megafono che lo amplifica e lo strumentalizza. Magari per valutare se l'eventuale svolta a sinistra dell'Olanda - dopo quella francese e magari in vista di quella tedesca, sia pure con diversi approcci ideologici - possa rendere praticabili ricette alternative per la crisi dell'euro. Come ad esempio in Francia: non indifferenti alle urgenze del bilancio, ma più ridistributive e più attente a chi deve pagare il conto della crisi stessa. Il disagio coinvolge infatti Paesi virtuosi e Paesi in maggiore difficoltà, il Nord e il Sud del Vecchio Continente, le destre e le sinistre, i partiti e le loro correnti. In Germania, la crisi della moneta unica apre contraddizioni laceranti sia nella Cdu sia nella Spd. Non è difficile immaginare il risultato di un eventuale referendum sugli eurobond, al punto che la Merkel finisce per sembrare almeno oggi una preziosa sponda della Banca centrale e dei Paesi in maggiore difficoltà. Se anche la virtuosissima Finlandia fa apertamente sapere di avere preso in considerazione la rottura dell'euro - sia pure con contorno di smentite e correzioni a disastro mediatico avviato - è evidente la diffusione di altre forme di contagio (politico, sociale, ideale) oltre a quello della speculazione sulla moneta e di campagne di stampa contro l'euro. Intanto, nessuno sembra disposto a dare un'ulteriore boccata d'ossigeno alla Grecia, nonostante che proprio la disperata Grecia abbia voluto rimanere in Europa. In questo scenario, stanno emergendo con forza devastatrice i tre maggiori deficit della costruzione europea: deficit di governance istituzionale, deficit di coesione fra governi, deficit delle democrazie nazionali rispetto alle problematiche continentali. Un deficit, quest'ultimo, di funzionamento e adeguamento alle nuove sfide, che lascia irrisolti, o piuttosto in ostaggio di spinte centrifughe, le questioni del consenso, della sovranità, dell'interesse (e del bene) comune. Non casualmente viene spesso apprezzato il modello Francia, almeno fino a quando garantisce stabilità e maggioranze a un presidente con pieni poteri, comunque non al riparo da ondate di populismo e sovranismo, in passato costate care proprio alla costruzione europea. Non casualmente, la «grande coalizione» può apparire come una rassicurante scorciatoia per condurre in porto riforme altrimenti improponibili o prigioniere di veti incrociati. Purtroppo per l'Europa, i tempi della politica sono più lenti dei tempi dei mercati, ai quali stiamo cedendo davvero sovranità, autonomia decisionale e coesione sociale che molti ritengono di difendere voltando le spalle all'Europa. Almeno fino ad oggi si continua, con l'ottimismo della volontà, a discutere sul «come» andare avanti, ma è inutile nascondersi la seduzione del «come tornare indietro». Massimo Nava 18 agosto 2012 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_18/una-nordica-insofferenza-nava_b74d12b4-e8f4-11e1-b806-99ce9fc5f07d.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:47:32 am » |
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La Francia delle riforme impossibili di Massimo Nava «Cheminots» e intermittents, più che categorie di lavoratori, stanno diventando in queste settimane la grande metafora della malattia francese, l’immagine di un Paese declinante e bloccato, incapace di riformarsi, in balia del populismo del Fronte nazionale e della drammatica crisi di leadership del partito socialista al governo e del partito gollista all’opposizione, quindi della classe dirigente nel suo insieme. Un Paese che per l’Europa sta diventando un problema non solo politico, ma anche economico, poiché la spinta populista si accompagna alla dilazione degli impegni comunitari. Mentre, ormai come ogni anno, suona l’allarme sulla spesa pubblica fuori controllo, i tentativi di riforme strutturali — peraltro mai davvero incisivi e dolorosi — cozzano contro la galassia delle corporazioni — sindacali, burocratiche, localistiche — ben aggrappate a vantaggi e privilegi. «Ogni francese vuole almeno un privilegio, è il suo modo di affermare la passione per l’uguaglianza», diceva de Gaulle. Così la Francia, anziché riformarsi, rinvia, si affida a commissioni e stati generali e ancora si compiace di un modello incompatibile con la competitività internazionale e incapace di garantire gli stessi francesi. Come del resto fa da decenni, nonostante diagnosi spietate e ricorrenti. Basti ricordare l’ammissione dell’ex premier Fillon: «Sono il primo ministro di uno Stato in fallimento». Cheminots e intermittents, ossia ferrovieri e lavoratori a part time dello spettacolo, tengono in ostaggio il Paese, peraltro nel pieno della stagione turistica, che è ancora una grande risorsa francese. Da quasi due settimane il traffico ferroviario è a singhiozzo, con pesanti ritardi e cancellazioni. Una ristretta minoranza, forte però di consenso e potere di blocco, si oppone al progetto di riforma del governo, apparentemente deciso ad andare avanti, sia pure con qualche concessione. In gioco, non ci sono aumenti salariali o condizioni di lavoro — argomenti su cui di solito si misura il sindacato —, bensì il tentativo di razionalizzazione di un sistema che ha accumulato 44 miliardi di debiti e che costa alla collettività un miliardo e mezzo d’interessi all’anno. Razionalizzare, nell’accezione francese pubblica, non significa tagliare posti di lavoro, ma riordinare servizi, guadagnare produttività, ridurre privilegi leggendari dei cheminots, quali la pensione a 50 anni, orari ridotti, indennità anacronistiche, viaggi per familiari e parenti, come ha denunciato la Corte dei conti che ha messo nel mirino anche altre categorie del pubblico che non pagano biglietti e bollette. Razionalizzare, nel linguaggio del governo socialista, significa almeno contenere il debito, che di questo passo salirà a 79 miliardi nel 2025, e assorbirlo in parte come debito dello Stato. Razionalizzare significa anche rendere più efficiente un sistema ferroviario che non è più un vanto della mano pubblica e che si è coperto di ridicolo per avere messo in produzione treni troppo larghi per transitare in un gran numero di stazioni. La «battaglia» degli intermittents, che compromette il calendario di concerti e spettacoli, si gioca sulla pretesa di circa 250 mila lavoratori dello spettacolo (erano centomila, ma la categoria si è allargata a varie tipologie di artigiani e professionisti) di ricevere un sussidio/salario annuale rispetto alle ore effettivamente richieste dalla produzione e dal cartellone. Anche in questo caso, la riforma non mette in discussione la particolarità della categoria (equiparata, per intenderci, ai lavoratori stagionali), ma pretende una minima riduzione del periodo d’integrazione salariale, al fine di non aumentare ulteriormente il deficit colossale del sistema di assistenza e indennità dei lavoratori. Ma gli intermittents insistono sulla loro «specificità», come sono «specifiche» o «speciali» molte altre categorie francesi, soprattutto nel pubblico impiego. Con furore ideologico o demagogico, l’estrema sinistra e l’estrema destra difendono gli scioperanti. Marine Le Pen ha denunciato il pericolo che correrebbe il servizio pubblico dei trasporti. L’opposizione gollista ha affossato la riforma delle ferrovie per affossare in realtà un governo già debolissimo. Ma anche gli oppositori per tornaconto sono ormai minoritari nella Francia che non vota più, nella Francia dei precari e dei non garantiti e dei ceti medi produttivi assediati dalle tasse, nella Francia che soffre davvero e si allontana dall’Europa. Nella Francia sull’orlo dell’esplosione, essendo un Paese che non ama le riforme, ma talvolta sa fare le rivoluzioni. mnava@corriere.it20 giugno 2014 | 12:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_20/francia-riforme-impossibili-94a6e11e-f84b-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:47:38 pm » |
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L’IRRAZIONALITÀ DEI CONFLITTI Cancellare un’identità con la guerra. Così la pace è sempre più difficile di Massimo Nava I conflitti che stanno insanguinando diversi angoli del pianeta (Iraq, Gaza, Siria, Libia, Ucraina), oltre a quelli di cui le cronache riferiscono notizie ormai scarne e ripetitive (Afghanistan, Nigeria, Mali, eccetera) hanno un dato comune che sconvolge le categorie di analisi e rivela purtroppo una sostanziale impotenza della diplomazia a qualsiasi livello. Si evidenzia e si denuncia a turno il silenzio dell’Europa, la paralisi dell’Onu, la titubanza degli Usa e così via. Ma l’impotenza non è solo questione di veti, strategie e interessi contrapposti: è anche determinata dalla natura dei conflitti. Al di là del contesto specifico e degli interessi economici in gioco, impliciti in ogni guerra o guerriglia, il carattere religioso e/o religioso/nazionalistico è il fattore scatenante che rende sempre più ardua la ricerca di soluzioni accettabili da tutte le parti coinvolte. Di fronte all’irrazionalità di categorie dello spirito — la religione usata come una scimitarra, la presunta superiorità di una razza, una identità nazionale che ritiene di avere diritti atavici — diventa quasi impossibile discutere di convivenza e tolleranza e quindi di pace duratura, poiché in questo genere di scontri è cambiata la posta in gioco e si è modificata la logica, per quanto deprecabile, di una guerra. Non si combatte soltanto per una vittoria militare, peraltro difficilmente conseguibile in modo definitivo. E nemmeno per la speranza di costruire la pace dopo i lutti e le distruzioni. Si combatte per la supremazia di un’identità culturale e religiosa, e quindi per l’annientamento di un’altra in conflitto. Annientamento che, quand’anche possibile (come teorizzavano i nazisti) è nella realtà previsto in un futuro indefinito. Per questo i conflitti di questo tipo diventano endemici e ripetitivi. Come raggiungere compromessi accettabili e onorevoli quando non si tratta di ridisegnare un confine o garantire i diritti di una minoranza o riaffermare una giurisdizione su risorse naturali, bensì di riportare alla ragione un immaginario collettivo che prevede la scomparsa fisica del nemico, compresa la popolazione non combattente, donne e bambini inclusi? La guerra di Gaza è la più emblematica conferma di questo genere di conflitti, essendo anche una sorta di rimozione delle esperienze precedenti, simili ma mai servite alla costruzione di un compromesso. Israeliani e palestinesi lottano per la sopravvivenza e rimandano a un indefinito futuro la vittoria impossibile. Hamas sogna la distruzione d’Israele. E Israele pensa di guadagnare tempo occupando territori. Israele alza muri. Hamas costruisce tunnel. Anche in Ucraina si combatte un conflitto identitario senza soluzione, salvo ipotizzare uno smembramento del Paese con conseguenze devastanti sugli equilibri del Vecchio Continente. In alternativa, si continua a combattere per un’ipotetica e irrazionale supremazia di un’identità. In Libia e Siria non sono più in gioco la fine tragica di una dittatura o la scomparsa auspicata di un’altra, né la ricostruzione di nuove società nel cuore del Mediterraneo, ma la supremazia di tribù o di fazioni religiose. È un disperante paradosso che nell’era della globalizzazione, della modernità tecnologica, della laicità persino esagerata, che a volte fa perdere di vista il senso ultimo dell’esistenza, il fattore religioso moltiplichi notizie di cristiani perseguitati, di minoranze umiliate, di simboli religiosi distrutti, di un fondamentalismo islamico che pretende di instaurare antichi califfati, del sangue che scorre all’interno dello stesso mondo arabo/musulmano. È tragico che i valori di solidarietà e rispetto della persona umana cui fanno generalmente riferimento tutte le religioni siano così diffusamente calpestati. Ed è drammatico constatare che in aree del mondo in cui il tasso di democrazia è piuttosto basso, il consenso popolare di leader religiosi e carismatici sia forte e crescente. Non si tratta nemmeno più di convertire gli eretici. La parola d’ordine delle guerre «moderne» è cancellazione. Un passo indietro, rispetto alla Crociate. mnava@corriere.it5 agosto 2014 | 18:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_05/cancellare-un-identita-la-guerra-cosi-pace-diventa-sempre-piu-difficile-353edc22-1c6d-11e4-af0c-e165f39759ba.shtml
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