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Autore Discussione: ANDREA MANZELLA. L'abuso di potere / 9  (Letto 2704 volte)
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« inserito:: Novembre 14, 2010, 08:57:54 am »

IL COMMENTO

L'abuso di potere / 9

di ANDREA MANZELLA

IL PEGGIOR nemico dell'attuale governo è il suo stesso premier. È lui il primo fattore della generale paralisi, denunciata da sindacati e produttori. E che aggrava "la fatica a crescere" del Paese come dice la Banca d'Italia. Lo stesso "federalismo fiscale"  -  che è diventato una specie di patto di sopravvivenza con i leghisti  -  è finora solo un castello di pezzi di carta: senza le cifre che contano e che non si possono determinare nell'incertezza del percorso di ripresa economica. La legislatura oscilla tra immobilismo e confusione, come al Palio di Siena quando il mossiere non trova il momento buono per la partenza.

Vi è una causa che rende impossibile l'allineamento della sua stessa maggioranza. Ed è non solo e non tanto nella chiave giuridica di sospensione dei processi penali del premier, quanto nella recidività della sua condotta in border line con ogni norma. Quando un barlume di compromesso si intravede, è lui stesso a spegnerlo con nuovi "casi" personali. La Corte costituzionale, con tanta buona volontà, ha detto da anni che, con legge di revisione, si può tutelare l'interesse al "sereno svolgimento" delle funzioni proprie alle più alte cariche dello Stato. Ed ecco che la "serenità" dell'istituto presidenza-del-consiglio non è rotta dall'esterno per interventi giudiziari. Ma dall'interno con pratiche e giustificazioni di pubblico libertinaggio, di omofobia, di sviamento di indagini di polizia, di linguaggio blasfemo.

Non sono cose che si possono fare senza incorrere in responsabilità. Basta leggere la Costituzione al semplicissimo art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con onore". Quando, in epoche non sospette, i giuristi l'hanno interpretato, hanno scritto che "onore" è parola che riassume le regole di buon costume politico e sociale, le tradizioni di comune rispetto per le religioni, gli orientamenti sessuali, il colore della pelle degli "altri". Sono valori che ritroviamo oggi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Violarli significa perciò fare atto non solo anti-italiano ma anche anti-europeo.

La mancanza del "senso dell'onore" - si scrisse ben prima del 1994 - significa la rottura di "norme di etica politica che non sono disponibili: nel senso che non possono essere lasciate al libero apprezzamento dei soggetti politici". Perché appartengono alla dignità non del singolo, che vi rinuncia, ma della Repubblica che ne è, temporaneamente, rappresentata. E si scrisse ancora che l'offesa all'"onore" repubblicano si verifica anche per "ipotesi che riguardano la sfera privata" di chi svolge in "affidamento" (come dice la Costituzione: cioè non in "proprietà") funzioni pubbliche.

Certo, ci possono essere comportamenti disonorevoli che non provocano immediate sanzioni giuridiche, ma soltanto riprovazione sociale: nazionale e internazionale. La stessa responsabilità istituzionale può incontrare difficoltà ad essere fatta valere con una sfiducia parlamentare pura e semplice, di portata politica generale. Basti pensare all'estrema fluidità della attuale situazione alle Camere (più sull'orlo di una crisi di nervi che di voti); alla perdurante pericolosità della nostra situazione economico-finanziaria.

Ma le responsabilità del premier possono essere sanzionate in altro modo. Dalle viscere della nostra esperienza costituzionale può venir fuori un altro rimedio per ristabilire il decoro nazionale. Un rimedio che, senza ricorrere a sentenze di giudici, inibisca, per censura personale all'attuale premier, la prosecuzione delle sue pubbliche funzioni. È la conventio ad excludendum, una "convenzione" politica di esclusione.

I paragoni valgono per quel che valgono gli strumenti oggettivi che richiamano: non certo per le situazioni e i protagonisti (oggi, di opposta caratura etico-politica). Ma sarebbe il riadattamento di quello strumento che per decenni impedì ai comunisti di partecipare al governo, pur prendendo una marea di voti. Il suo fondamento costituzionale era nella concezione di democrazia delle libertà che è propria della nostra Legge fondamentale. Il legame ideologico e organizzativo con l'impero sovietico negava, di per sé, che questa concezione potesse essere la stessa. Così il Pci - nonostante il suo decisivo contributo alla approvazione e alla attuazione della Costituzione repubblicana e alla tenuta degli equilibri profondi del Paese - era escluso dai governi. Un rifiuto che non si affidò, come altrove, a clausole di sbarramento elettorale né a decisioni di tribunali costituzionali. Ma fu un accordo di natura politica, di fatto. Anche l'attuale premier ha avuto (e probabilmente conserva) una marea di voti. Anche lui vanta qualche merito politico nel suo passato. Ma oggi la incompatibilità alla presidenza del consiglio deriva semplicemente dalla abituale trasgressione del dovere costituzionale d'"onore" nei suoi compiti pubblici. Trasgressioni che provocano, a catena, sperpero di tempi politici, arresto di efficacia e di credibilità nell'azione di governo.

La confusione tra libertà e libertinaggio; la contemporanea rivendicazione di una propria privacy e l'offesa alla "privacy" degli altri (specie dei minori) con deteriori "stili di vita" propagandati come esemplari per l'intera Nazione; la palese ansia di complicità e di connivenze populiste nel banalizzare e normalizzare strappi comportamentali che nella stragrande parte di mondo non sono né banali né normali. Tutto questo non è in contrasto con una morale tipizzata o religiosa: è in contrasto con il laico modo di intendere le pubbliche funzioni nella Costituzione e nell'intera Unione europea. Non è una condanna moralistica o di costume. Ma una constatazione oggettiva. Come un macchinista ubriaco non può condurre un treno, così un premier sregolato non può guidare una Nazione. Nell'un caso e nell'altro non sono le condizioni personali che preoccupano, ma le loro ricadute sul diritto della collettività al buon governo della cosa pubblica.

Per questo, un accordo politico di tutti, o della maggior parte di tutti, troverebbe il suo fondamento costituzionale nella regola che impone un "onorevole" esercizio delle funzioni della Repubblica. Sarebbe una sfiducia "personale": ricostruttiva della soglia di decenza della politica, prima ancora che un accordo su comuni principi di azione pubblica nell'emergenza.

Sarebbe, per singolare contrappasso, una intesa ad personam, per la prima volta conclusa contro di lui. Ma nel pubblico e non nel privato interesse.

(06 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/06/news/abuso_potere_9-8805161/?ref=HREA-1
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