Pubblicazione: 15-11-2005, STAMPA, NAZIONALE, pag.27
Sezione: Societa' e Cultura
Autore: RIZZO RENATO
INCONTRO CON IL PREMIO NOBEL PORTOGHESE CHE PUBBLICA IL SUO ROMANZO-TESTAMENTO Saramago «Immortali? Si salvi chi puo'»
inviato a LISBONA OTTANTATRE' anni, il fisico asciutto e svelto dei suoi avi contadini, lo sguardo limpido - appena offuscato, di tanto in tanto, da una scheggia d'ombra pensosa - di chi attraversa la vita portando con se' il regalo di un grande, giovane amore: Jose' Saramago abbraccia la moglie Pilar, ne accarezza le mani, ne cerca la complicita'. Quasi a scusarsi d'averla assillata, mentre scriveva questo suo ultimo libro, «con le lente cantate di Leonard Cohen o i quartetti di Be'la Bartok» che invadevano la casa di Lanzarote scivolando dalla scala a chiocciola dello studio-mansarda. L'ultimo libro, appunto. Un testamento spirituale e letterario perche' - confessa il Premio Nobel senza apparente dolore - «ha forse segnato l'arrivo del giorno in cui non ho piu' nulla da dire». S'intitola Le intermittenze della morte questo romanzo, edito in Italia da Einaudi (pp. 206, e17), che Saramago ha presentato all'Europa nella sua Lisbona. Storia che, come spesso nelle opere dello scrittore portoghese, parte da un'«idea-catapulta»: in un paese immaginario, improvvisamente, la morte smette di uccidere lasciando la gente in una sorta d'eternita' transitoria che manda in corto circuito le istituzioni, mette in crisi la Chiesa, illude provvisoriamente gli ingenui per poi gettarli nello sconforto piu' profondo. Un universo capovolto, insomma: come un firmamento che si rifletta nello specchio d'un lago e perda, per chi lo guarda, i consueti punti di riferimento. Sino a quando in un intreccio di humour nero, paradossi, drammi, implacabile logicita' di cause ed effetti, la morte torna al suo lavoro. Ma l'Atropo dagli atteggiamenti meccanici, la fredda contabile delle lapidi, ha una de'faillance emotiva: ora e' un essere dolente, incalzata da un sentimento. Thanatos ed Eros, una lotta impari tra poesia della speranza e impossibile immortalita'. Tra i tanti temi proposti dal libro s'affaccia con prepotenza quello che, forse, piu' assilla la societa' moderna: la paura d'invecchiare e di morire. «La vicenda si svolge in un paese di fantasia e anche i personaggi sono senza un nome perche' oggi i nomi non hanno piu' importanza. Contano semmai i numeri: quelli della carta di credito. Noi, la societa', abbiamo paura della vecchiaia piu' ancora che della morte: possiamo utilizzare la chirurgia estetica, la cosmesi per illuderci, ma dobbiamo arrenderci all'idea che non e' possibile rinviare d'un solo secondo la nostra fine». Paura della vecchiaia: nel suo libro lei parla delle «dimore del felice occaso», eufemistici ospizi dove vengono messi gli anziani che la morte in sciopero ha rispamiato e che, comunque, continuano a viaggiare verso la senilita' piu' devastante. «E' un segno del nostro tempo: eliminare i vecchi dal paesaggio della nostra vita. Li chiudiamo in quei luoghi dove entrano in una sorta di invisibilita' che e' il vero inizio della morte». Il filo rosso che percorre tutto il libro sembra essere questo: viviamo per morire e non vivremmo se non ci fosse la morte. «L'immortalita' sarebbe terribile. Ci pensi: 20 anni d'infanzia, 50 di adolescenza, 90 di maturita'. Meglio non immaginare neppure una vecchiaia cosi' estrema. La vita e' organizzata come le onde del mare: l'una segue inesorabilmente l'altra. E, poi, morire non e' un atto d'eroismo, ma una cosa normale. La mia morte, insomma, e' nata con me. Quando mi uccidera' non potra' piu' uccidere nessun altro. E' solo mia, intrasmissibile». Nelle «Intermittenze della morte» lei, oltre a mettere sotto accusa l'ottusa boria dei politici e l'accondiscendenza dei mass media, punta il dito sulla Chiesa sostenendo che e' proprio la morte, la paura della morte da parte dell'uomo, a renderne duraturo il potere nel tempo. «Ci pensi. La Chiesa ha bisogno della morte per vivere: senza la morte non ci sarebbe Chiesa, perche' non ci sarebbe Resurrezione. E cosi' la religione si alimenta della fine dell'uomo, fonda su essa il suo monumento teologico e repressivo». Nel romanzo ha un forte peso la presenza della mafia, che lei scrive sarcasticamente «maphia», capace di adeguarsi alle diverse circostanze. Prima, durante lo sciopero della morte, portando la gente, con un fruttuoso contrabbando, a morire oltre frontiera. Poi, con il ritorno alla normalita', imponendo il «pizzo» alle rifiorite imprese di pompe funebri. «Questa ''maphia'', certo, non ha nulla a che vedere con la Sicilia o la Calabria: e' il simbolo del crimine organizzato che governa il mondo. Droga, prostituzione, traffico di carne umana». Lei ha sostenuto: «Non sono io a essere pessimista, e' il mondo che e' pessimo...». «Penso alle Canarie, dove vivo da anni: le poche miglia che ci separano dalla Mauritania sono in cimitero di almeno 3 mila persone che fuggivano dalla miseria e si sono rovesciate con i loro barconi. Gente nata in questo pianeta per non vivere». A proposito di immigrazione: in Francia, proprio in queste ore, divampa la protesta delle banlieues. «Parigi, Parigi. Quando sono nato io e l'aspettativa di vita, nel mio paesino, arrivava a 33 anni, era la seconda citta' portoghese dopo Lisbona. Siamo stati un popolo di emigranti. Secondo me bisogna cercare di comprendere le ragioni di questo disagio scoppiato nelle periferie abbandonate a se stesse. E l'Europa? Che cosa fa per migliorare certe situazioni?». Nel racconto i primi a rendersi conto di quanto sia fatua l'ubriacatura d'eternita' che colpisce una societa' improvvisamente senza morte sono i contadini che, di notte, varcano la frontiera perche' il piu' anziano di loro possa finalmente liberarsi da questa morte sospesa e andarsene in pace. Sembra la rivalutazione della vita semplice, essenziale. Come quando lei ricorda: l'«uomo piu' saggio che ho conosciuto non sapeva ne' leggere ne' scrivere: mio nonno». «Chiunque conosca la mia storia lo sa: sono un creatore di personaggi, ma anche loro creatura. Il vecchio che nel romanzo dice ''voglio morire'' e' probabilmente il mio vecchio Jeronimo». Il libro si divide in due «tempi». Il primo descrive il caos che deriva dallo sciopero della morte e dal suo improvviso ritorno al lavoro. Il secondo narra della grande falciatrice che veste di carne il suo scheletro e scende in mezzo alla gente come donna. Qual e' la parte che piu' si e' «divertito» a scrivere? «Quella iniziale, certamente. Quando si parla direttamente della morte la faccenda non e' piu' uno scherzo. Mica si puo' ridere di lei: e' sempre lei che ride di noi, alla fine. La storia raccontata dal romanzo, con Atropo di fronte alla scoperta del sentimento, ricambiato, per l'unico uomo che casualmente l'ha beffata e non muore alla data stabilita, fatte le debite proporzioni e' un po' come la vicenda del Paradiso terrestre: tutto diventa serio dopo che Eva fa mangiare la mela a Adamo». Perche' ha deciso di attribuire alla morte una figura di donna? (Ride) «Molto banalmente perche' in portoghese, come in italiano, del resto, questa parola e' femminile. In tedesco il termine e' maschile: sara' un bel problema per i traduttori spiegare che non si tratta d'un rapporto con risvolti gay...». Torniamo all'attualita': lei e' un intellettuale da sempre impegnato a sinistra che ha vissuto anche l'esperienza della clandestinita'. Come vede la situazione del suo Portogallo dove, tra l'altro, a inizio 2006, si terranno le elezioni presidenziali? «Io sono e resto ormonalmente comunista. Quanto all'impegno, mi lasci dire una cosa: noi scrittori siamo un po' come buffoni di corte perche' la liberta' di parola e' quella che compromette meno. Ben piu' impegnativo e' conquistarsi la liberta' di fare. Il mio paese? Sembra che la sinistra, qui come altrove, non abbia idee e, quindi, sia incapace di unita': quattro candidati contro uno della destra. Ma cio' che mi preoccupa di piu' e' l'apatia della gente. Un tempo potevamo consolarci guardandoci alle spalle e dicendo: ''Meno male che c'e' la Grecia''. Oggi quello che 30 anni fa era lo Stato piu' combattivo d'Europa vive una preoccupante crisi d'indifferenza».
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