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Autore Discussione: Gabriel Bertinetto Liddle: "L'ascesa dei Lib-Dem è solo una bolla"  (Letto 2059 volte)
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« inserito:: Maggio 02, 2010, 12:36:09 am »

Liddle: "L'ascesa dei Lib-Dem è solo una bolla"

di Gabriel Bertinetto

Nella sede di Policy Network, serbatoio di idee laburista con sede a due passi da Westminster, non tira affatto aria di sconfitta. L’ascesa Lib-Dem è una bolla prodotta dalla fisiologica disaffezione verso chi governa da 13 anni e soprattutto dalla sfiducia in un’eventuale alternativa Tory. Naturale, in prospettiva, un’alleanza fra il Labour e il partito di Nick Clegg. Ne parla con l’Unità Roger Liddle, direttore dell’istituto, ideologo del New Labour, e in passato consigliere speciale di Tony Blair per gli affari europei.

L’improvvisa crescita di consensi verso il Partito liberaldemocratico (Pld)ha rivoluzionato la campagna elettorale. Come spiega tanta inattesa popolarità, signor Liddle?
«Il Pld incanala la diffusa sfiducia verso i conservatori, che si erano illusi di essere gli eredi naturali del governo. Avevano buoni motivi per pensarlo. Il Labour era in difficoltà per la pesante crisi economica, gli scandali sulle spese dei politici, ed anche per avere un leader come Gordon Brown, dirigente di grande qualità ma senza il fascino di una star del cinema. Tanti fattori insomma convergevano verso lo sbocco di un rafforzamento dei Tory. Ora per loro il fatto di trovarsi al 32% dei consensi rappresenta un disastro. L’ascesa dei Lib-Dem riflette quel fallimento.
Il rafforzamento del Pld è un fenomeno di lungo periodo, o un’esplosione legata alla contingenza politica?
«Guardi, già sarei sorpreso se il Labour davvero arrivasse terzo, come indicano alcuni sondaggi. Ritengo che ci siano ancora buone chances di vittoria e di risultare comunque primi per numero di deputati eletti. Per due ragioni il Pld potrebbe ridimensionarsi presto. Buona parte del suo attuale apparente successo deriva dalla simpatia dei giovani e di coloro che erano orientati ad astenersi. Sono categorie in cui molti alla fine finiranno comunque per disertare i seggi. Inoltre nel nostro sistema la scelta riguarda singoli individui la cui azione politica è legata alla circoscrizione in cui si presentano candidati. Nelle valutazioni dell’elettore il fattore individuale facilmente prevale sull’appartenenza partitica. In più, i laburisti hanno un’organizzazione molto più diffusa sul territorio nazionale. L’esito delle parlamentari si decide in cento collegi dove la partita è a due, fra Labour e Tory ed i Lib-Dem sono tagliati fuori. Lì credo che scatterà il meccanismo del voto tattico a vantaggio nostro da parte di coloro che comunque non vogliono David Cameron a Downing Street.

I Lib-Dem sono oggi quello che fu il New Labour nel 1997? Clegg è un nuovo Blair?
«Decisamente no. È vero, Clegg ha una personalità fresca ed energica che ricorda Blair. Ma il New Labour allora godeva di un sostegno molto più ampio e profondo. I Lib-Dem oggi si limitano a riempire lo spazio lasciato dalla normale disaffezione verso una formazione politica che governa da 13 anni. Aggiunto alla straordinariamente bassa credibilità dei Tory, ciò ha generato una bolla di popolarità per i Lib-Dem, che mancano però di un progetto politico di livello pari a quello del New Labour»

Le cito alcuni cavalli di battaglia Lib-Dem: economia verde, europeismo, priorità dell’istruzione, difesa dei diritti umani e civili, moralità in politica. Non sono punti su cui l’intesa con il Labour sarebbe quasi automatica?
«Certamente abbiamo un terreno comune. Anche per questo giudico inconcepibile che Clegg si allei con i Tory. Sull’Europa hanno visioni diametralmente opposte. In materia fiscale i Lib-Dem vogliono come noi un sistema di tassazione equo, mentre i Tory propongono sgravi ai ricchi. Sulla scuola non ci sono differenze fra noi e i lib-dem. Così pure sull’ecologia, seppure con un’importante distinzione, perché noi siamo per l’energia nucleare. Quanto agli investimenti nell’industria energetica pulita siamo favorevoli quanto loro, mentre fra i Tory abbonda lo scetticismo persino sul contrasto ai cambiamenti climatici. Anche sulla riforma dei meccanismi di voto e sulla trasformazione della Camera dei Lord in un organismo elettivo possiamo accordarci con i Lib-Dem, mentre i Tory su questi temi non propongono nulla.

Nel partito di Clegg l’anima social-liberale convive con quella liberista. Entreranno in conflitto?
«In realtà è una formazione diversa da altri partiti liberali europei per cui conta solo il libero mercato. Sostanzialmente è un partito socialdemocratico, che crede fermamente nella redistribuzione della ricchezza e nell’erogazione di servizi pubblici ai cittadini. Tradizionalmente non accettano il legame del Labour con i sindacati. Questa è la principale distinzione fra noi e loro. La scissione in passato avvenne proprio per l’accusa al Labour di essere dominato dalle Unions. Credo che l’idea blairiana di un’alleanza progressista fosse giusta. La maggior parte dei militanti liberaldemocratici sono su posizioni di centrosinistra. Con un unico caveat, che può creare problemi ad accordi di cooperazione, ed è la competizione che ci ha diviso in questi anni nelle elezioni amministrative, spesso vinte fra l’altro dai Lib-Dem anche in roccaforti laburiste. Alcuni dirigenti e militanti locali liberaldemocratici, nostri antagonisti in quelle recenti battaglie, potrebbero essere riluttanti ora a collaborare in un’eventuale azione di governo comune.

Rinnovamento è una sorta di password politica generale. I conservatori stessi parlano di conservatorismo “compassionate” (compassionevole, dal volto umano). C’è sostanza dietro le etichette?
«Cameron si è spinto a parlare di “conservatorismo progressista”. I Tory prendono in prestito il linguaggio della sinistra per dimostrare di essere cambiati. C’è sempre stata tensione nel loro partito fra la tendenza “one-nation” (una sorta di ideologia interclassista cristiano-democratica senza l’aspetto religioso) e quella liberal-nazionalista che viene solitamente definita “free-market”. Muovendosi all’interno della prima tendenza Cameron ha cercato di ammodernarla, ma non ci è riuscito anche se ha lavorato duro con il vocabolario.I limiti della sua leadership sono emersi quando nel pieno della recessione ha accentuato esageratamente il problema del debito pubblico, facendo della sua drastica riduzione un’assoluta priorità. La gente teme eccessivi tagli di spesa, è preoccupata per la fragilità della ripresa. Cameron ha lanciato messaggi confusi. La rigidità sulle questioni del debito e della spesa contraddice l’invito alla coesione sociale tipica dell’impostazione one-nation. L’impressione è che i Tory non sappiano bene dove stare.

Perché la ricetta laburista per uscire dalla crisi sarebbe migliore?
«Perché abbiamo una strategia, alla cui elaborazione ho contribuito personalmente assieme a Mendelson. In una prima fase adottando metodi di tipo keynesiano per il sostegno all’economia nei momenti difficili. Nel medio periodo puntando alla crescita sempre attraverso un ruolo attivo dello Stato nello stimolare gli investimenti.

Il potere logora. La regola vale anche per il Labour. Ma la crisi del partito ha altre e più profonde ragioni?
«La società è scossa da cambiamenti strutturali. Abbiamo problemi nei rapporti con la classe lavoratrice tradizionale. Il calo occupazionale alimenta tensioni nei confronti degli immigrati, così come accade nel resto d’Europa. In alcune zone operaie tentano di approfittarne gruppi fascisti come il British National Party. Allo stesso tempo la crescita dei livelli di istruzione e conoscenza favorisce un maggiore sostegno al Labour fra i ceti medi. Il vero problema per noi è stata la partecipazione alla guerra in Iraq, che ci ha alienato i favori di gran parte della società civile progressista già ai tempi di Blair. Ciò detto, la nostra non è una crisi irreversibile. Anche se perdessimo le elezioni, sapremo reagire. Non c’è alcun cataclisma in arrivo per il Labour».

Il New Labour non è diventato vecchio allora…
«No, ma deve cambiare. Peter Mandelson ha coniato il termine “New Labour plus”. Vale a dire andiamo oltre il New Labour. Il ché significa anche maggiore intervento dello Stato in economia di quanto non ritenessimo necessario negli anni ‘90. Ma una cosa è certa. Nessuno propone un programma che richiami gli schemi socialisti del passato».

30 aprile 2010
da unita.it
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