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Autore Discussione: STEFANO LEPRI Se Paperone abita a Pechino  (Letto 2062 volte)
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« inserito:: Aprile 14, 2010, 02:46:01 pm »

14/4/2010
Se Paperone abita a Pechino
   
STEFANO LEPRI

Il deposito dei dollari di Paperon de’ Paperoni esiste davvero. Si trova a Zhongnanhai, l’inaccessibile quartiere di Pechino dove risiede il gruppo dirigente della Cina comunista. Spieghiamoci: quella immaginaria costruzione dove lo zio di Donald Duck fa il bagno tra le monete d’oro, nato nel 1951 alla Walt Disney dalla fantasia del grande fumettista Carl Barks, serve benissimo a spiegare di che cosa hanno parlato l’altra sera a Washington Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao.

Non per caso il deposito apparve nelle storie di Paperino e nipoti in una America intenta a temperare gli eccessivi squilibri di ricchezza che erano apparsi così dolorosi e stridenti nella Grande Depressione di vent’anni prima. Sia il presidente democratico Harry Truman sia il repubblicano Ike Eisenhower tassavano i redditi tipo Paperone con una aliquota del 91%, oggi assente perfino dai sogni dell’estrema sinistra. I soldi non andavano tesaurizzati, ma investiti, fatti fruttare; e oltre un certo limite apparivano francamente troppi.

Nel nostro mondo del 2010 le riserve valutarie dello Stato cinese ammontavano al 31 marzo a 2447 miliardi di dollari e prima dell’estate sorpasseranno i 2500. Immaginariamente convertite in monete d’oro e bigliettoni, occuperebbero uno spazio comparabile con i «tre acri cubici» del deposito di Zio Paperone. Agli attuali prezzi, basterebbero a comprare un quinto di tutte le aziende quotate a Wall Street. La richiesta di rivalutare lo yuan, che gli Stati Uniti, appoggiati dagli altri Paesi avanzati e dal Fmi, sperano sia accolta, è intesa solo a frenare la velocità di aumento del tesoro controllato dalla classe dirigente che vive attorno ai laghetti di un antico parco del Celeste Impero.

La Cina accumula quel tesoro vendendoci le sue merci a prezzi stracciati, grazie a una moneta sottovalutata, è la risposta che corre nell’Occidente e in Giappone. Giusto. Ma quella ricchezza di Stato è solo la frazione più evidente di una immensa accumulazione di capitali dentro la Cina, Paese che investe moltissimo (forse troppo, dicono gli economisti: troppe acciaierie, troppi cementifici) eppure risparmia talmente tanti soldi da averne in grande eccesso perfino ai suoi frenetici investimenti.

Il capitalismo, lo sappiamo, è saper risparmiare per investire, in modo da stare meglio domani. Il profitto ne è il motore. Ma se si accumulano capitali in grande eccesso rispetto alla quantità di investimenti produttivi che è concretamente possibile compiere, è la stessa pratica dell’economia che contribuisce a porre un problema etico; perché anche ai bambini, appunto, che uno solo faccia il bagno nelle monete d’oro non appare giusto. Liberandoci dagli stagnanti Anni 70, un quarto di secolo di accelerata globalizzazione ha infine ecceduto i limiti.

La complicazione aggiuntiva della realtà di oggi è che quei capitali, investiti nella finanza mondiale, hanno contribuito ai suoi eccessi; l’«eccesso di risparmio» (savings glut) ha dato alla testa ai banchieri di Wall Street. Quello che appare al mondo come il problema di una nazione (e casomai di altre nazioni che accumulano, quelle produttrici di petrolio) nell’immagine della piscina piena d’oro si rivela come un problema di distribuzione dei redditi. La Cina è un Paese abbastanza grande da esercitare una pressione al ribasso su tutto il pianeta. Quando i sindacati italiani lamentano che i salari perdono potere d’acquisto, gli industriali ribattono che già così abbiamo difficoltà a competere. La misura della competitività è nell’«officina del mondo», in Cina.

Il pensatore tedesco dell’Ottocento a cui il Partito comunista cinese pretende tuttora di rifarsi direbbe che lo sfruttamento capitalistico in Cina è al suo massimo. Senza bisogno di invocare Karl Marx, il semplice buonsenso economico ci dice che se non c’è nulla di utile in cui investirli, i soldi è meglio consumarli. La popolazione cinese dovrebbe godere di una maggior quota del frutto del proprio lavoro. La rivalutazione dello yuan aiuterebbe a tamponarne gli effetti inflazionistici, e metterebbe in grado i cinesi di comprare di più in Occidente, con guadagno anche nostro.

A proposito, all’ingresso di Zhongnanhai spicca un pannello con scritto, in ideogrammi tracciati da Mao Zedong, «Servire il popolo». La bizzarria della storia è che la comunità internazionale chiede a chi ci abita di prendere quello slogan un po’ più sul serio.

da lastampa.it
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