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Autore Discussione: Walter TOBAGI. - Il libro di Benedetta Tobagi: Come mi batte forte il tuo cuore  (Letto 3903 volte)
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« inserito:: Novembre 02, 2009, 10:33:22 am »

Il libro di Benedetta Tobagi: «come mi batte forte il tuo cuore» (mondadori)

Una rosa per papà, giornalista libero

Quella mattina del 28 maggio 1980 i killer hanno ucciso anche la mia innocenza


Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto. In compenso sono cresciuta assediata dall’immagine pubblica di Walter Tobagi. A volte si trattava di rappresentazioni vere e proprie: ricordo il busto di bronzo inaugurato nel palazzo di un ente locale, che da piccola trovavo terrificante, oppure un ancor più terribile ritratto a olio di cui un artista sconosciuto aveva voluto omaggiare il nonno Tobagi. Era ricavato da una fotografia non molto riuscita di mio padre seduto alla macchina da scrivere.

Dalla vecchia Olivetti usciva un lunghis­simo foglio di carta bianco avorio che andava ad avvolgersi attorno al suo col­lo: non so se nelle intenzioni dell’auto­re dovesse simulare una stola vescovile, un regale ermellino o un cappio. In ogni caso, meglio la­sciar perdere. Essere al centro di una tragedia pubblica aveva molti risvolti spiacevoli. Primo, mi collocava in una scomoda posizione di visibilità, del tutto inde­siderata. Secondo, avevo l’impressione che l’inva­denza di questa immagine pubblica, anziché avvi­cinarmelo e aiutarmi a conoscerlo, non facesse che spingere mio padre un po’ più lontano da me, come quando insegui un pallone tra le onde. Chi era davvero Walter Tobagi? Perché lo han­no ucciso? Mi ha confortato il fatto di non trovarmi sola nella difficoltà di dare un senso agli eventi. Che un giornalista progressista come lui sia diventato obiettivo dei terroristi di sinistra desta a tutt’oggi sconcerto. Ritrovo l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che, guardando all’esperienza dei «com­pagni » italiani, si chiede perché mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedi­centi rivoluzionari caddero più spesso i riformisti. Con gli anni, gli elementi materiali del contesto diventavano per me più intelligibili, ma si faceva­no avanti problemi di comprensione più sottili e insidiosi. Vi è un fenomeno caratteristico che interferi­sce con la memoria delle vittime del terrorismo (ma il discorso può essere esteso anche ai «cada­veri eccellenti» delle mafie): una vita intera viene risucchiata, come in un buco nero, dalla potenza di una fine tanto drammatica. L’identità della vitti­ma è schiacciata. Quel che resta è solo il simula­cro scintillante, ma vuoto, dell’eroe; nel mio caso, un martire della libertà di stampa. Tutto ciò rende assai più difficile capire chi fosse realmente il de­funto e tracciare un bilancio obiettivo della sua at­tività.

In una professione in cui tutti urlano, arringa­no e calcano i toni, mio padre parlava piano, a vo­ce bassa (...). La voce pubblica di mio padre riposa tutta intera nei suoi articoli. Noto una fraseologia ricca di espressioni come: «A me pare», «Si po­trebbe convenire», «Se guardiamo ai fatti degli ul­timi mesi», «Se consideriamo»: i tecnici li defini­scono «atti linguistici di cortesia positiva». Non ha il gusto del paradosso, predilige il tono discor­sivo, l’ironia velata. È bravo, a raccontare. Le colo­riture efficaci sono divenute una cifra stilistica, co­me gli riconobbe anche Indro Montanelli. Negli articoli, una galleria di ritratti, freschi ed efficaci come schizzi a china. Papà la sente tutta la responsabilità di parlare a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Le sue convinzioni circa i compiti del giornalista si concentrano nella massima: «Poter capire, voler spiegare». Si sente vicino a quella che Bocca defi­nisce la funzione maieutica della stampa: «Aiuta­re la gente a tirar fuori quello che ha dentro», in­formare con l’intento di fornire al lettore gli stru­menti per ragionare e chiavi interpretative per in­tendere la realtà.

Scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verifica­bili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informa­zione. Questo tratto accomuna molte vicende di ter­rorismo. Occorre cautela e profondo scrupolo, nel muoversi su terreni tanto scivolosi. In Italia manca davvero la verità intorno a troppe morti; trovo im­perdonabile abusare della buona fede di tante per­sone indignate senza motivazioni più che solide.

L’unico risvolto positivo in questa vicenda sfi­brante sta nel fatto che mi ha portato a inciampare senza volerlo nell’unica vera lacuna nell’inchiesta sulla morte di mio padre. Questa volta la P2 c’entra sul serio, anche se non si capisce bene in che termini. Il volantino di rivendicazione è stato analizzato in ogni maniera possibile, eppure, in tanto clamo­re, è passato sotto silenzio un fatto venuto alla luce nel marzo del 1981: copia del famigerato dattilo­scritto fu ritrovata nientemeno che dentro alla vali­gia sequestrata nella ditta Giole di Licio Gelli, a Ca­stiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo. Stava in una bu­sta sigillata con la dicitura, molto generica, «Rizzo­li - lettera Brigate Rosse», insieme ad altre cartelle selezionate di documenti riservatissimi, riguardan­ti tra le altre cose i piani di ricapitalizzazione e rias­setto proprietario del gruppo Rizzoli - Corriere del­la Sera, elaborati nei primi mesi del 1980 da Bruno Tassan Din con Licio Gelli e l’avvocato Umberto Or­tolani.

Vengo a conoscenza di questo fatto grazie alla meticolosità del senatore Flamigni, che lo menzio­na nel suo libro sulla P2, Trame atlantiche. Provo stupore: in mezzo a tante polemiche, pro­prio sul volantino e sulla loggia P2, basate su indi­zi e suggestioni, com’è possibile che una notizia del genere non sia mai emersa? Temevo che la mia reazione nascesse da ingenuità. Quando ho visto le espressioni di sorpresa ogni volta che ho mostra­to i documenti a persone assai più esperte e smali­ziate di me, ho cominciato a preoccuparmi. Lo stupore cresce quando scopro che la magi­stratura lo seppe subito. Il giudice istruttore Giulia­no Turone, responsabile della perquisizione con Gherardo Colombo, aveva girato il materiale al col­lega milanese incaricato dell’istruttoria sull’omici­dio Tobagi, Giorgio Caimmi: ritrovo la lettera d’ac­compagnamento, controfirmata per ricevuta in da­ta 14 aprile 1981. Il magistrato Armando Spataro mostra sincera sorpresa: «Non ne sapevo niente, questa sembra effettivamente una lacuna», ammette. Mi mette su­bito in contatto col giudice istruttore. Caimmi se la ricorda, invece, la busta, ma all’epoca era impe­gnato a tempo pieno nel verificare con riscontri certosini le dichiarazioni dei pentiti. Caimmi si era occupato fino ad allora di cause di fallimento, do­po l’omicidio Galli dovette cominciare a occuparsi di terrorismo e gli toccò istruire il processo-mon­stre .

Del delitto Tobagi, ripete, si sapeva già tutto. «Non valutai che fosse un elemento rilevante», e la busta finì chissà dove. Nel fascicolo non riesco a trovarla. Mi viene spontaneo di obiettare che nel maggio dell’81 sulla vicenda P2 era caduto il gover­no, ma serve a poco. Spataro ha un’ironia triste ne­gli occhi mentre riflette ad alta voce: «Se anche avessimo voluto seguire la pista, cos’avremmo po­tuto fare, interrogare Gelli». Già. Poco dopo, il tribunale di Milano fu obbligato a trasmettere l’inchiesta penale sulla loggia deviata — e tutti i documenti relativi — a Roma, dove di fatto si arenò. A settembre dello stesso anno, ven­ne costituita un’apposita commissione d’inchie­sta parlamentare presieduta da Tina Anselmi. Tra i membri, salta all’occhio il socialista Salvo Andò, uno dei deputati condannati per diffamazione per la campagna stampa contro i magistrati milanesi per la verità sull’affaire Tobagi, esplosa nel conflit­to istituzionale del 1985 (nel 1987 ai reati fu appli­cata l’amnistia in grado di appello con la confer­ma del risarcimento dei danni disposto dal Tribu­nale in primo grado). Usarono ogni argomento possibile, tranne questo. Forse, come altri com­missari, non spese troppo tempo sui documenti acquisiti dalla commissione, nemmeno sul cor­pus centrale.

Oppure tacque, e non dovrei stupir­mene: intorno alla loggia P2 sembra vigere da sempre la consegna di minimizzare e riportare tut­to al silenzio, al più presto. La commissione fece un lavoro straordinario, considerando l’enormità del compito. Quella particolare busta non poté es­sere oggetto di analisi specifiche. È cominciata così l’ultima piccola odissea per ricostruire la storia di come e perché, tra i pochi e selezionati documenti che il maestro venerabile aveva impacchettato per portarseli via, ci fosse an­che il volantino di rivendicazione della «XXVIII Marzo». Sul come gli arrivò, c’è l’imbarazzo della scelta, tanto pervasiva era la presenza della P2 nel grup­po Rizzoli e al «Corriere». Mi sono concentrata al­lora sulle ragioni. «C’è un metodo. La logica che guida Gelli nella costruzione del suo archivio è quella del ricatto e della disinformazione», mi spiega Giuliano Turo­ne. È un uomo gentile, colto, limpido. In mezzo a tanti fantasmi, è uno di quegli incontri che mi ras­serenano. Mi serve a ricordarmi che l’Italia è fatta anche di tante persone come lui. Lo conferma il magistrato Elisabetta Cesqui, che riprese in mano l’inchiesta arenatasi, purtroppo con scarsa fortu­na. Se la ricorda bene, la busta: «Mi colpì che stes­se in mezzo a quei documenti sulla ricapitalizza­zione. Appariva incongrua».

Rifletto sul contesto. I piani finanziari segreti conservati nella valigia fu­rono tracciati a partire dai primi mesi del 1980. Il gruppo versava in condizioni disastrose per gli in­teressi passivi, gravato da testate deficitarie come «L’Occhio» e il «Corriere d’Informazione». Il diret­tore generale Tassan Din però rifugge ogni deci­sione riguardo a chiusure e licenziamenti: il sinda­cato del gruppo Rizzoli è forte e fa molta paura, può paralizzare il «Corriere» per giorni, provocan­do perdite ingenti (...). Mi tornano in mente i discorsi di mio padre, così vituperati: batteva sulle piccole grandi cose concrete, sui presupposti della libertà d’informa­zione, sulla necessità di affrontare sacrifici per avere testate dal bilancio sano, che non diventas­sero facile preda di «padrini» politici e finanziari. Per tenere a bada il sindacato poligrafici Tassan Din ricorre ad Adalberto Minucci, responsabile dell’informazione del Pci. Scelte vitali per il risanamento vengo­no colpevolmente rimandate, si batte la strada di manovre finan­ziarie illecite. Ai dirigenti allar­mati che lo invitano a tagliare i rami secchi, Angelo Rizzoli repli­ca: «Sto trattando la ricapitaliz­zazione del gruppo, non posso permettermi un Vietnam in azienda».

La loggia esercitava la pro­pria influenza alternando le lu­singhe all’intimidazione. Forse, quel documento tra gli incarta­menti Rizzoli tradisce il proget­to di utilizzare i dubbi suscitati da quella morte provvidenziale per intimidire un po’ quel sindacato rosso così po­co governabile, un aiuto per tenere a bada i temu­ti «vietcong» con una manovra diversiva. Accanto alle seduzioni del direttore generale poteva essere funzionale far cadere sui sindacati l’ombra di un’accusa infamante: aver istigato, assistito, o quantomeno ispirato, l’omicidio di Tobagi.

Il mare d’inverno è il mio rifugio. Ci vado da sola. Quando sono stanca, confusa, l’acqua e la lu­ce mi calmano sempre. Guardando l’orizzonte, pri­ma o dopo, penso sempre a papà. Mi sembra che sia più vicino. Chissà come mai: dall’Umbria a Mi­lano, mare niente. Poi ho capito. Una coincidenza curiosa come una conchiglia integra, perfetta, sbucata dalla sab­bia. Me l’ha regalata Marilisa, quasi una zia, men­tre mi portava in macchina alla stazione dopo una breve visita. Le chiedo a bruciapelo: «Papà preferiva il mare o la montagna?» «Il mare. Andare in montagna gli piaceva per la compagnia, ma lui amava di più il mare. Mi ricor­do che una volta ha detto che gli piaceva soprattut­to il mare d’inverno, quando è tutto vuoto, e si possono sentire le voci delle persone sulla spiag­gia, in lontananza». Ho pianto in silenzio mentre l’auto percorreva i tornanti al buio.

Un altro posto dove vado da sola è il cimitero. Anche lì mi sento in pace. Papà riposa nel paese d’origine della mia nonna materna, un cimitero piccolo, raccolto, lontano dai rumori, a misura d’uomo. Ci sono tanti alberi. Non è un posto tri­ste. Anche le lacrime, qui, sono un sollievo. Quando mi succede qualcosa di importante, ri­taglio il tempo per andare a dirlo a mio padre, co­me farei se fosse vivo e abitassimo in due città di­verse. Gli parlo. A volte parlo sul serio, seppure a bas­sa voce, per paura di esser presa per pazza. Biso­gna provare per capire che fa una grossa differen­za, lasciar uscire la voce. È un rito dolce e liberato­rio. Quando vado a trovare papà al cimitero mi pia­ce portargli una rosa, una sola, ma molto bella. In una delle infinite tonalità del rosa. La scelgo con cura prima di partire, ci metto del tempo, è impor­tante. Non la lascio nel vaso, ma la incastro nella gra­ta di ferro battuto perché sia più vicina alla sua fotografia. La lascio lì accanto, come una carezza.

Benedetta Tobagi

02 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 02, 2009, 03:49:10 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 02, 2009, 03:49:47 pm »

IL LIBRO

Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia

di ROBERTO SAVIANO


Molti libri iniziano davvero nel titolo. Il titolo non è lì a sintetizzare, a suggestionare, a indicare. Il titolo è già un capitolo, anzi è il primo capitolo del libro.
In questo caso, per il libro di Benedetta Tobagi, il titolo è davvero fondamentale.

Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito negli ultimi anni, ma perché è capace di suggerire senza tradire tutto quanto ci sarà dentro quelle pagine che protegge come un sigillo. Come mi batte forte il tuo cuore: il verso della poetessa Wislawa Szymborska. E il sottotitolo è Storia di mio padre. Il padre di Benedetta è Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso nel maggio del 1980 a Milano, dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.

Sciascia scrisse di lui "lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Benedetta non ricorda il padre, era piccolissima quando l'hanno ammazzato. Aveva tre anni. Ricorda il giorno della morte, ne ricorda le sensazioni. I bambini non hanno mediazione. A scuola nel cortile raccontava a increduli compagni: "papà è morto: gli hanno sparato bum bum!" Quando decide di occuparsi di suo padre, si ritrova ad occuparsi pure del suo Paese e ancor più a mettere le mani nella storia peggiore italiana, complicata, labirintica. Ma lei ha un obiettivo diverso. Capire se stessa, il suo dolore, non semplicemente sondare un frammento d'Italia. Benedetta diventa esperta d'archivi e addirittura porta nuovi elementi ai magistrati che dopo più di vent'anni dalla morte del padre non avevano colto passaggi importanti.

Tobagi non era un giornalista d'inchiesta. I terroristi non uccisero giornalisti d'inchiesta, ma giornalisti come Carlo Casalegno e, appunto, Walter Tobagi che analizzavano le questioni, davano nomi e interpretazioni. Non rivelazioni di nuovi elementi. E questo li condannava a morte. "Scrivere chiaro è difficile" diceva Walter Tobagi. Lo sa anche sua figlia. Difatti cerca di lavorare sulla parola, sulla narrazione dei fatti, sul racconto di se stessa, della sua famiglia. La cosa più difficile possibile è raccontare e insieme rispettare, mostrare ma non sbirciare, urlare ma non gridare. Il suo libro non è un saggio, non è un romanzo, non è un trattato scientifico, non è nemmeno un omaggio. E' scritto come un romanzo ma con contenuto privo d'invenzione e con disciplina dei dati.

Quello che Benedetta Tobagi fa è togliere al padre l'elmo da eroe. Proprio nei modi raccontati da Omero. Ettore, prima della battaglia, si avvicina a salutare il piccolo Astianatte che però scoppia a piangere perché non lo riconosce. Ettore allora si toglie l'elmo e Astianatte gli salta al collo. Benedetta Tobagi fa lo stesso: "Imbarcarmi in una duplice ricerca intorno alla persona pubblica e privata di mio padre è stato il modo di sfilargli l'elmo impostogli dalla retorica postuma".

Chiama spesso in questo libro suo padre semplicemente Walter e cerca di sottrarlo a tutti i commenti, alle commemorazioni, persino alle carezze postume. E ricorda invece tutto ciò che dal suo ambiente gli arrivò in vita come accuse, la sua presunta sudditanza a Craxi, l'accusa di essere diventato direttore dell'Associazione Lombarda Giornalisti brigando e orchestrando chissà quali manovre. E' raccontato assai bene in questo libro l'ambiente dei giornalisti subito pronti a stringersi intorno al martire, ma che un attimo prima e subito dopo si dilanieranno in invidie, insulti, discredito gettato l'un contro l'altro. La madre di Bendetta "vedeva il giornale come uno strumento di potere e la redazione come un ricettacolo di rancori, gelosie, e lotte intestine sotto lo smalto del prestigio". Tobagi era un riformista e un uomo capace di leggere il suo tempo con analisi profonde. C'è una frase che mi ha colpito per la sua attualità "a me pare che si corra il rischio di dire che è democratico il giornale che dice quello che mi piace".

La copertina del libro della Tobagi

Benedetta è severissima nel rileggere gli articoli del padre. Quando per la prima volta, grazie a Giovanni Minoli che per primo dedicò uno spazio televisivo alla vicenda Tobagi in anni dove sembrava si volesse rimuoverla, ascolta la voce di suo padre, dichiara addirittura di esserne rimasta delusa. Si aspettava un'altra voce. L'onestà di Benedetta in questo libro non sta nel cercare la distanza obiettiva che non esiste se non in matematica, e qui si parla di uomini e non di algoritmi. Ma riesce a raccogliere tutte le possibili sfumature, i dati, le problematiche. Questo libro è il contrario di una celebrazione. La lotta sindacale di Tobagi per avere giornalisti più liberi ossia meno condizionati da chi gli dava lo stipendio e meno anche punibili dai direttori, era un modalità d'intervento che coltivava l'utopia di far coincidere la propria ambizione con la possibilità di migliorare le cose per tutti.

All'interno del Corriere della Sera, Walter Tobagi ha combattuto contro le infiltrazioni piduiste. Benedetta scova che in una valigetta di Gelli era stato ritrovato il documento di rivendicazione della morte di suo padre. E Benedetta fa senza problemi nomi e cognomi delle firme, degli azionisti, dei progetti di controllo del Corsera a cui il padre continuamente si era opposto. Benedetta nelle carte del padre ritrova un giovanissimo Ferruccio de Bortoli che Tobagi considerava un suo allievo.

L'omicidio Moro lo fece molto riflettere sul suo destino, in una lettera alla moglie scrive: "Se un giorno non dovessi più esserci ti prego di spiegargli di ricordare.
Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che mi sono stati affidati". Ricorda. E' ciò cui Tobagi tiene, "ricorda ciò che non sono riuscito a spiegare ai miei figli". Ricorda. Perché è diverso sapere di rischiare di morire se si ha la certezza che qualcuno proteggerà le persone che più ami dalle migliaia di versioni che gli altri daranno sulla tua vita. Tobagi venne ucciso con cinque colpi di pistola da un gruppo di circa sei terroristi, Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano, volevano accreditarsi nel mondo della lotta armata, un omicidio di promozione nella massima serie dei banditi rossi. Figli di famiglie della borghesia milanese, due membri del commando in particolare appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Morando Morandini. A sparare sono Mario Marano e Marco Barbone. Barbone, quando Tobagi si accascia per terra, gli dà il colpo di grazia.

Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone inizia a collaborare con gli inquirenti. Grazie alle sue rivelazioni l'intera Brigata 28 marzo finisce in carcere insieme a più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone è venuto in contatto nel corso della sua breve carriera da terrorista. Loro adesso hanno l'età matura che avrebbe avuto suo padre, ma quando l'hanno ucciso avevano la stessa età di Benedetta. Nelle pagine si vede il tormento di una donna che lavora su se stessa e si ripete che deve capire, da storica, le ragioni che hanno spinto questi ragazzi a uccidere "per dimostrare di essere vivi". Poi a volte cede. Non ce la fa, vorrebbe gridare: ma vi rendete conto che cosa avete fatto. Vorrebbe andare a vederli uno per uno ora divenuti cattolici di Comunione e Liberazione. O, come i capi di Prima Linea, profeti vegani dell'impegno sociale. E dopo aver massacrato, oggi ripetono, con le facce contrite, la solita omelia del "voi oggi non potete capire".

Invece il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi possiamo capire; che anzi abbiamo capito benissimo cosa hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese. I giudici che vengono uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti, democratici, capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale e di vedere la legge come difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto.

Benedetta Tobagi è bravissima nel raccontare le perversioni dei terroristi di quegli anni: la concorrenza tra chi uccideva di più e i nomi più "organici al sistema".
E di come lo Stato all'epoca sottovalutava tutto, quando il nome di Walter Tobagi viene trovato in una schedatura di un terrorista. Consigliano a Tobagi di uscire di casa dopo le nove perché "quelli uccidono dalle sette alle otto". Incredibile ma questo fu la ricetta per salvarsi la vita. Le pagine più dure di Benedetta sono su Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Giocava a fare la terrorista.

Benedetta non sopporta le commemorazioni vuote del martire che serve ad allontanare la sua figura umana: come a dire che è impossibile vivere come lui. Invece bisogna avvicinare, mostrare le fragilità, le contraddizioni. E così la targa sul posto dove è morto Tobagi, non è retorica. Dice poeticamente usando le parole bibliche: "Più tenace della paura, più profonda del tuo dolore nel silenzio dell'essere, la vita canta".
Questo libro non poteva essere scritto che da una persona nata in una famiglia di persone che si amavano. E' una fesseria credere che le famiglie felici si somiglino tutte e quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo. Anche la felicità ha una declinazione tutta sua. E questa famiglia di cui scrive Benedetta, una famiglia schiacciata per sempre sul nascere da un lutto assurdo, fatto da terroristi dell'ultima ora, ma tenuta insieme dal ricordo di un tempo felice. La felicità del fratello Luca, il rigore della madre. Ebbene questa famiglia riesce a non sfaldarsi. Nel mio paese si dice che la malta buona non fa cadere nessuna casa. Credo sia proprio così. Nei diari di Walter Tobagi c'è un passaggio che dedica alla moglie. "Stasera mi sento solo le poltrone vuote ma sono felice. Penso a te e mi sento felice". Ma l'amore che prova per lui dev'essere immobile e non dinamico come è la vita. E questo libro è la declinazione del suo amore, vivo, fluido e non museale. Alla fine è il desiderio di una figlia che parla al padre, certa che da qualche parte quel padre la sta ascoltando. C'è una scena che non ti dimentichi più dopo averla letta. Benedetta mentre spulcia negli archivi, cassetti, nell'ordine postumo che la madre aveva dato alla vita di suo marito, trova una cassetta. Una registrazione di pochi minuti fatta il giorno del compleanno di Walter.
E' una registrazione gioco, Walter accende il registratore, il piccolo Luca parla e non smette e la piccola Benedetta è timida e tace. Ma poi il padre riesce miracolosamente a convincerla. Allora si fa coraggio si avvicina e dice con la vocina "tanti auguri papà". Ed è il simbolo di un padre che aiuta a parlare. Questo libro da spazio a chi ha dato voce al meglio di questo paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra aver perso quella voce. Ma queste parole scritte da Benedetta Tobagi permettono di accorgerci che in molti di noi batte ancora forte il loro cuore.

© 2009 Roberto Saviano Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (2 novembre 2009)

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« Risposta #2 inserito:: Novembre 03, 2009, 06:30:50 pm »

«Mio padre capì che il terrorismo avrebbe bloccato l'Italia»

di Jolanda Bufalini


Ha la voce emozionata, ha appena ricevutouna e mail di Stefano, quell’unico «amico di papà» che c’è sempre stato, che «veniva a cena ». Che a cena l’ha portata in un buon ristorante di Londra dopo una camminata in Abbey Road, quelle cose che ti fanno «immaginare per unmomentocomesi sente una figlia quando un padre indaffarato riesce a ritagliarsi una giornata per viziarla un po’ e farsi perdonare le tante assenze». Stefano si è riconosciuto in tutto e Benedetta Tobagi ne è felice. Lei aveva 3 anni quel maledetto giorno.

È riuscita nell’impresa di restituire la memoria di suo padre vivo. Immagino non sia stato facile.
«È qualcosa che è cominciato molto prima del libro. Difficile sì, però è anche un’esperienza molto bella in cui metti cuore e impegno e in cambio ricevi qualcosa di immenso. È stato persino divertente ritrovare le lettere, ripercorre un tempo con lui che non c’era stato prima. Avevo la motivazione fortissima di restituire la sua voce».

C’è stato un libro importante, di Miguel Gotor sulle lettere diAldo Moro che si è posto lo stesso problema.
«È un libro che ho molto amato che si fonda sull’idea della possibilità dell’uso del discorso nella condizione di prigionia in cui si trovava Moro. Succede che le persone assassinate diventano solo vittime e si perde ciò che avevano detto e ciò per cui sono vissute. Io mi sono affidata alle parole che, nel caso di persone dell’intelligenza di mio padre, restano vive. C’è un capitolo nel mio libro in cui Guido Rossa e Giorgio Ambrosoli sono raccontati in parallelo con Walter. Erano persone diversissime ma dimostrano che gli anni Settanta non sono solo gli Anni di piombo e gli anni degli scandali. Allora c’erano anche modelli di azione civile e di impegno che oggi ci mancano».

La sua non è solo memoria privata della figlia di una vittima del terrorismo...
«Le persone come mio padre non sono state tolte solo alle famiglie ma a tutti. Senza storia la distruzione delle persone si perpetua. In Italia le memorie divise, falsificazioni e le rimozioni pesano sul presente: nel terrorismo degli anni Settanta pesava l’idea dello stragismo impunito. Ma in quegli stessi anni c’era chi lavorava per dare un volto pulito allo Stato».

Nel suo libro ha usato non solo le parole ma anche le fotografie di suo padre.
«Ho voluto fare un libro anche materico, raccontare le fatiche, le paure, le soddisfazioni, la quotidianità nella sua concretezza. Mi è sembrato di valorizzare meglio il talento di mio padre descrivendo anche questi aspetti. C’è una sua frase per me molto importante, detta quando fu eletto presidente dei giornalisti della Lombardia: “costi personali altissimi”. Altri rappresentavano quell’impegnocome una scalata al potere ».

Roberto Saviano ha colto la metafora di Ettore e Astianatte. Il bambino si spaventa di fronte al guerriero con l’elmo e l’eroe, di fronte al figlio, si toglie l’elmo. Lei dice: “ho voluto togliere l’elmo a mio padre”...
«È una metafora a cui sono affezionatissima. Uno dei problemi che mi sono posta è quello di delineare cosa sia un padre in generale, anche se è un po’ strano che lo spieghi io che un padre non l’ho avuto. Ecco, in quel calco vuoto si delinea una figura paterna e Ettore è una metafora perfetta. In più c’è che quell’incontro, nel sesto canto dell’Iliade, è sulle mura di Troia. Uno spazio al tempo stesso privato e pubblico, che quello dove io mi colloco insieme a mio padre».

Suo padre era un riformista che voleva cambiare le cose con gradualità ma era molto curioso delle posizioni estreme. Perché?
«Gad Lerner, Gianni Riotta mi hanno raccontato di aver percepito la sua ricerca di dialogo. Lui sentiva le loro motivazioni forti. Discuteva il metodo. Ebbe chiarissimo che si doveva disinnescare la violenza e captare le istanze positive. Nelsuoultimo articolo sul terrorismo, dopoi fatti di via Fracchia a Genova, è molto duro. Racconta di gente modesta ecomune che non ha pietà verso i terroristi uccisi in cui il terrorismo ha di fatto incagliato il paese e lo sviluppo democratico, racconta l’indurimento delle persone, il diffondersi di idee favorevoli alla pena di morte- E’ la legge del taglione che si fa strada. Lui era per una democrazia inclusiva, come quella che propugnavano Moro e Pertini. E’ in questo, io penso, che la politica ha mancato. Questa è stata la dissipazione di quegli anni».

Sua mamma si è rifugiata nella spiritualità. Lei ha scelto di non seguirla. Lo racconta nelle pagine iniziali del libro, molto sofferte. Forse assomiglia più a suo padre, che era credente ma molto legato alla concretezza?
«Io mi sono dovuta confrontare con cose di cui di solito si parla poco. La spiritualità, la morte. Ti trovi di fronte un deserto e devi riuscire a trovare ragioni di fiducia nella vita. Non sono credente ma mi è stato molto di aiuto il cardinale Martini. Attraverso di lui ho capito anche Camus e il valore dell’impegno nel quotidiano. Martini haraccolto molte confidenze dai terroristi in carcere. È stato lui a riferirmi quella frase straordinaria di uno di loro: “Eravamo accecati dalle luci della ribalta e sparavamo su una platea al buio”. In quel buio si sparava sulla voglia di costruire un paese migliore.

La figura di suo padre è stata anche strumentalizzata da una parte e ignorata dall’altra. Lei ricorda come solo dopo la Bolognina venne un esponente post-Pci, Giuseppe Giulietti, alla commemorazione di suo padre.
«Il caso di mio padre è significativo di quella memoria divisa che in Italia si trasforma in conflittualità politica. Influì, allora, la conflittualità crescente e sempre più esacerbata fra Pci e Psi. Noi viviamo ancora con i frutti avvelenati di quella stagione. Per esempio una certa retorica contro la magistratura risale a quegli anni». Lei ha scelto di impegnarsi in politica, èconsigliere provincialedelPdaMilano. Perché? «Ai miei amici, con una battuta, dico che mi hanno rovinato gli Anni Settanta.Aforza di studiarli ti torna la voglia di mettere energia nella politica ».

03 novembre 2009
da unita.it
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