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Autore Discussione: IRENE TINAGLI  (Letto 37592 volte)
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« inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:16:36 pm »

7/10/2009

Italia una società bloccata
   
IRENE TINAGLI


Cosa spinge le persone a studiare, lavorare e impegnarsi ogni giorno per fare sempre un po’ di più? È la speranza di poter garantire a se stessi e ai propri figli un futuro migliore. Una speranza che si realizza quando in un Paese esiste mobilità sociale. È questa prospettiva di crescita personale che fa muovere un Paese, che stimola le persone a imparare, a produrre e a creare ricchezza, non l’obiettivo della pensione o quello di ridurre il debito pubblico.

Eppure, noi ci preoccupiamo solo delle pensioni e di escamotage contabili per far tornare i conti. Legittimo, anche questo è necessario. Ma abbiamo smesso di preoccuparci di ciò che davvero contribuisce alla costruzione del futuro, di quello che i cittadini sperano, sognano, temono. Abbiamo dismesso le loro paure, bollandole come «psicologiche», irrilevanti. Così facendo abbiamo commesso due gravi errori. Primo, abbiamo dimenticato quello che ormai tutti gli economisti sanno: che sono proprio le percezioni e i fattori psicologici che alla fine determinano le scelte e i comportamenti economici delle persone. Se le persone sono convinte che qualsiasi cosa facciano sarà inutile ai fini della loro crescita personale, smetteranno di investire in se stesse, di impegnarsi nello studio o nel lavoro che fanno.

Secondo, abbiamo rinunciato ad analizzare e capire la realtà in cui vive il Paese. Il sentire delle persone non nasce dal nulla, nasce da esperienze concrete e dalle dinamiche sociali ed economiche. È importante cogliere questi fenomeni con tempismo per adottare politiche e interventi adeguati. Un’analisi approfondita di queste dinamiche mostra che l’Italia è in effetti un Paese bloccato e che il rallentamento della mobilità sociale non è una percezione infondata. È invece legato a problemi reali del nostro sistema economico e sociale che si sono acutizzati nel tempo. Negli ultimi anni in Italia sono aumentate le diseguaglianze, e la povertà si è diffusa tra i giovani e le famiglie con i bambini piccoli, tanto che oggi l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di bambini a rischio di povertà. Non solo, ma l’Italia è anche uno dei Paesi in cui è più difficile uscire dal disagio. Questi sono tutti elementi che rendono la nostra società sempre più rigida e difficile da «scalare». Una società in cui la famiglia di origine è sempre più determinante nell’accesso alle opportunità e nella probabilità di successo delle nuove generazioni. Abbiamo uno dei tassi di «ereditarietà» della ricchezza più alti d’Europa: i dati sull’elasticità dei redditi tra padri e figli ci dicono che in Italia circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli, un dato altissimo se confrontato con altri Paesi europei in cui si aggira attorno al 20%.

Cosa significa questo? Significa che i figli dei ricchi tendono a restare ricchi e i figli dei poveri tendono a restare poveri. Non solo, ma è sempre più difficile per i ragazzi nati in famiglie umili avere la possibilità o la forza di riscattarsi. In Italia la probabilità che un giovane con padre non diplomato si laurei è solo del 10%, contro oltre il 40% dell’Inghilterra e il 35% della Francia, per fare un esempio. Questo ci dice che milioni di giovani in Italia stanno gettando la spugna. La situazione è particolarmente allarmante perché non esiste in Italia nessun piano o misura che si proponga di affrontare il problema in modo strategico e sistematico. Ed è proprio questo quello che più di ogni altra cosa ci distingue rispetto ad altri Paesi. Infatti, l’irrigidimento della società è un problema che non riguarda solo noi ma che, in vario grado e misura, caratterizza anche altri Paesi industrializzati come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Tuttavia in questi Paesi esiste una consapevolezza maggiore verso questi temi, che ha portato all’adozione di misure strutturali volte a recuperare dinamismo e restituire opportunità a ceti sempre più esclusi. Una strategia che in Italia manca completamente.

Ma quali sono le politiche attivabili per riattivare la mobilità sociale di un Paese? Da un lato politiche sociali efficaci per garantire a cittadini di ogni provenienza sociale pari accesso alle opportunità di crescita, dall’altro un sistema economico in grado di riconoscere i meriti e dare modo a chi è bravo di far carriera. I Paesi che stanno cercando di recuperare mobilità sociale intervengono in queste direzioni, soprattutto in quella su cui sono più carenti. Per esempio Inghilterra e Stati Uniti, che tradizionalmente hanno privilegiato i meccanismi meritocratici di mercato, stanno investendo pesantemente in politiche sociali per restituire ai ceti più deboli opportunità di crescere e migliorarsi. L’Italia invece è debole su entrambi i fronti. Ha un sistema economico ancora molto ingessato da protezioni di vario genere, e una spesa sociale dominata per il 60% dalle pensioni che non lascia spazio per lo sviluppo dei bambini, per i giovani, e per tutti quei servizi che aiutano le giovani famiglie a conciliare lavoro e carriera e a crescere. Possiamo continuare ad ignorare il problema e ad evitare le necessarie riforme ed investimenti, ma dobbiamo allora essere pronti a subirne le conseguenze. Conseguenze che sono visibili già oggi, ma che saranno ancora più gravi tra qualche anno. Perché se i dieci milioni di bambini e ragazzi che ci sono oggi in Italia non avranno l’opportunità o la motivazione di studiare, impegnarsi e migliorarsi, non riusciranno ad avere le competenze necessarie per competere su un mercato del lavoro sempre più agguerrito e globalizzato. E se non saranno competitivi loro, non lo sarà nemmeno l’Italia.

Irene Tinagli, docente di Economia delle Imprese presso l’Università di Madrid, illustrerà oggi alle 15,30 il primo rapporto sulla mobilità sociale alla presentazione pubblica della fondazione «Italia Futura», che si svolgerà a Palazzo Colonna, a Roma.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Gennaio 22, 2010, 09:35:24 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:43:14 am »

08/10/2009 - maria vittoria - lavoravano come inservienti alle camere mortuarie

Mazzette anche sui cadaveri

Licenziati due dipendenti

Estate 2001: il giorno del blitz della finanza al Maria Vittoria

L’ospedale fa partire i controlli incrociati sui servizi svolti dalle pompe funebri

marco accossato
torino


I due dipendenti del Maria Vittoria coinvolti nello scandalo delle camere mortuarie sono stati licenziati dall’azienda. Dopo la Commissione di disciplina e il ricorso al Collegio arbitrale, l’Asl To2 ha deciso di interrompere ogni rapporto di lavoro: decorrenza 1° ottobre in un caso, 1° novembre nel secondo. L’unica possibilità per non perdere il posto che ancora resta ai due dipendenti allontanati è appellarsi ora al giudice del lavoro. Ma l’Asl To2, anche in questo caso, è pronta alla battaglia legale.

I fatti risalgono all’estate 2001. Pm Giuseppe Ferrando: gli incaricati di diverse morgue di più ospedali torinesi vennero sorpresi a prendere mazzette da impresari di onoranze funebri a cui segnalavano i decessi. Soldi in cambio di possibili funerali e biglietti da visita fatti scivolare nella mani dei parenti dei defunti: «Contatti questa impresa, dica che la mando io». Partirono intercettazioni audio e video, interrogatori e testimonianze, finché una mattina di luglio scattò il blitz della Guardia di Finanza. E con le Fiamme Gialle arrivarono le manette e il carcere.

Terminato il percorso giudiziario, per i due addetti alle camere mortuarie dell’ospedale di corso Tassoni è scattato anche il provvedimento dell’azienda. I due hanno inoltre già dovuto risarcire all’ospedale 68 mila euro per danno d’immagine.

Capitolo chiuso? Recenti inchieste avviate fuori Torino hanno rivelato che l’abitudine alla segnalazione non sembra completamente sconfitta, anche se molti degli ospedali coinvolti hanno deciso di affidare il servizio delle camere mortuarie a una ditta esterna specializzata. «In ogni caso - spiega il direttore amministrativo dell’Asl To2, Claudio Mellana - abbiamo deciso di attivare, da adesso e per sempre, una serie di controlli incrociati: monitoreremo chi svolge i servizi mortuari non solo al Maria Vittoria, ma anche negli altri due ospedali della nostra Asl, il San Giovanni Bosco e l’Amedeo di Savoia: monitorando le decisioni dei famigliari nella scelta delle onoranze funebri saremo in grado di osservare se ci sono anomalie, e accorgerci di eventuali “spartizioni” sospette dei reparti».

Fece clamore, la vicenda delle mazzette sui morti. Vicenda che si è rivissuta nel 2007 con altri arresti alle Molinette, già coinvolte nel primo scandalo del 2001. «Vicenda che non vogliamo più rivivere - conclude Mellana - e per questo abbiamo deciso di rendere pubblico il nostro controllo». Azione preventiva.

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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 23, 2009, 10:09:44 am »

23/10/2009

Il costo collettivo
   
IRENE TINAGLI


Mai preso una lira. La dichiarazione di Mastella all’indomani dell’indagine sui presunti favori e posti di lavoro all’Arpac fa riflettere.

Niente soldi, solo innocenti «segnalazioni»per aiutare della povera gente in difficoltà. Al di là della vicenda giudiziaria in sé, sulla quale indagherà la magistratura, questa reazione mette in luce un sistema di gestione della cosa pubblica e delle relazioni politiche che per decenni è stato considerato del tutto normalee innocuo. In Italia si pensa sempre che tutti i mali siano legati alle mazzette, alla corruzione «economica ».Mail funzionamento del nostro sistema non è corrotto solo da mazzette, ma anche da sistemi clientelari che spesso ci impongono impiegati, funzionari e dirigenti incapaci. È sempre stato così, non lo hannocerto inventato i coniugi

Mastella. Così sono nati i sistemi locali del pubblico impiego, e anche a questo in fondo sono serviti: a creare una base stabile di posti di lavoro con cui dare una mano a tanta «povera gente»: amici, vicini di casa, parenti, persone che avevano bisogno di una mano per sistemare se stessi o i propri figli. Nonera, di per sé, un sistema criminale. Nell’Italia del dopoguerra che si stava rimettendo in piedi è stato in un certo senso uno strumento di ricostruzione di tante comunità, di affermazione dello Stato, di gestione delconsenso. Oltretutto,affermandosi in un periodo di forte espansione e in un’economia ancora poco globalizzata in cui il ruolo del talento e delle competenze altamente specializzate eramenopervasivo di oggi, questo sistema generava inefficienze tutto sommato tollerabili.

Ma tutto è cambiato a partire dalla fine degli Anni Ottanta. L’avvento delle nuove tecnologie, la compressione inevitabile dei sistemi di impiego pubblico, la crescente globalizzazione e soprattutto la crescente complessità dei servizi e dellecompetenzecon cui si sono dovute misurare organizzazioni pubbliche e private hanno reso questi sistemi di assunzione localistica e clientelare insostenibili e dannosi. Insostenibili da un punto di vista economico e sociale. Economico, perché hanno rallentato la modernizzazione dei nostri servizi, hanno aumentato vertiginosamente i costi, costringendo spesso a ricorrere a consulenzepercompensare lamancanzadi competenzeinterne,hanno moltiplicato le inefficienze e i tempi di realizzazione di progetti.Ma insostenibili anche dal punto di vista sociale, perché il persistere di questi sistemi di «segnalazioni» e favori ha finito per minare la fiducia degli stessi cittadini nelle istituzioni e nello Stato. Perché anche loro sono cambiati. Tanti cittadini che prima vedevano nell’ente pubblico localeunrifugio eunaprotezione sociale, oggi vedononell’ente pubblico un erogatore di servizi importanti, e non accettano più inefficienze in nome di una protezione occupazionale che in ogni caso l'ente non è più in gradodi garantirecomeuntempo. Tantepersoneche primavedevanonel sistema clientelareunarisorsa sicura, abbondantee accessibile, oggi vi vedono un ostacolo alla propria realizzazione e al proprio benessere. Perchélamancanzadi servizi funzionali impedisce loro di realizzare legittime ambizioni personali e professionali, e perché le inefficienze delle pubbliche amministrazionisi ripercuotonosu di loro, il loro lavoro, le loro attività commerciali e professionali, nonché sulleopportunitàdi studioecrescita dei propri figli.

Insomma, in questi ultimi venti anni è cambiato radicalmente lo scenario economico e sociale in cui il nostro Paese si trova a competere e operare. Mai poveri coniugi Mastella sono rimasti all’Italia di 40 anni fa e pensano quindi di aver fatto poco danno. Fanno quasi tenerezza. Non si rendono conto che il problema non risiede tanto nell’eventuale guadagno privato che possono averne derivato o no, ma nel costo collettivo del loro comportamento. Il dramma è: quanti Mastella cisonoancorain giro perl’Italiaa «piazzare»amici econoscenti nelle nostre pubbliche amministrazioni ignari o noncuranti dei costi chequestocomportamentoinfliggeatutto il Paese?

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:29:54 pm »

30/12/2009

L'amore è una cosa da ricchi
   
IRENE TINAGLI


In questa fine dell’anno si parla molto di amore e di odio. E pur prendendo spunto da eventi pubblici, si finisce spesso per parlarne in chiave molto individuale e personalistica.

Se ne parla come di sentimenti quasi irrazionali che scoppiano all’improvviso da un gesto, una parola, e si punta il dito verso i comportamenti di alcune persone o le dichiarazioni di altre. E sempre in gesti e parole individuali si cerca la soluzione. Ma non è così semplice.

Funziona così, forse, tra le coppie di innamorati, ma non in una società organizzata. Quando si riferisce a intere comunità sociali anche l’amore, così come l’odio o la fiducia, ha una sua «economia», ovvero delle dinamiche che ne supportano lo sviluppo e la diffusione, degli elementi che lo favoriscono e altri che lo inibiscono. Ed è fermandosi ad analizzare il fenomeno in questa prospettiva che si possono capire, al di là degli individui, le condizioni necessarie a costruire una società fondata sull’amore e il rispetto reciproco.

Può sembrare un approccio romantico, ma in realtà esistono molti studi che da decenni monitorano le evoluzioni di numerosi Paesi in tutto il mondo e che aiutano a capire come si sviluppano società più pacate, più tolleranti e più aperte al dialogo. I lavori del sociologo Ronald Inglehart e dei suoi colleghi sono tra i più interessanti, anche perché supportati da dati internazionali molto affidabili raccolti in tutto il mondo da oltre trent’anni. Queste ricerche mostrano che i Paesi con i sistemi politici meno polarizzati e aggressivi, e i climi sociali più aperti, tolleranti e fiduciosi sono quelli che si sono spostati verso sistemi culturali e valoriali di tipo post-materialista, ovvero società in cui si è smesso di preoccuparsi delle cose essenziali - sopravvivenza materiale, lavoro, diritti e servizi di base ecc. - e si comincia a preoccuparsi di cose come sviluppo e crescita personale, emancipazione, autorealizzazione.

In altre parole i Paesi che mostrano i climi politici e sociali più «amorevoli» e concilianti sono quei Paesi in cui le istituzioni trasmettono - e ricevono - fiducia, in cui i servizi funzionano, in cui c’è più sicurezza sociale ed economica, Paesi in cui in sostanza si è smesso di preoccuparci troppo della sopravvivenza quotidiana, in cui non si ha paura che ci venga tolto il necessario per sopravvivere, e dove ci si può focalizzare su quello che serve per vivere bene e per auto-realizzarsi: cultura, istruzione, arte, libera espressione, e così via. Al contrario i Paesi in cui la gente è assorbita dalla paura di non farcela, di trovarsi sola di fronte alle insicurezze e alle difficoltà, senza certezza di assistenza, di aiuto, con la percezione di diritti sociali e civili incerti e fragili, sono Paesi in cui più facilmente si sviluppano paura e odio.

Paesi in cui l’istinto di sopravvivenza prevale sul senso di comunità, dove la diffidenza finisce per uccidere la fiducia e la solidarietà, dove l’avversario diventa nemico, dove il confronto diventa scontro e aggressione. Come si posiziona l’Italia rispetto a queste dimensioni? I dati del World Value Survey ci mostrano due dati preoccupanti. Il primo è che l’Italia ha un livello di sviluppo di valori «postmaterialisti» molto basso (tra i Paesi della vecchia Europa fanno peggio di noi solo Spagna e Portogallo). Il secondo è che dopo un continuo miglioramento che ha consentito alla nostra società di crescere molto nel corso degli Anni Ottanta e Novanta, nell’ultimo sondaggio il nostro Paese registra un passo indietro, una regressione che ci riporta quasi ai livelli di venti anni fa. Questi dati richiamano inevitabilmente le difficoltà economiche e sociali esplose negli ultimi anni e l’incapacità di governarle: l’aumento della precarietà lavorativa, un’immigrazione crescente e mal gestita, il calo di competitività e della produttività. E’ in questo tipo di contesto che la società ha iniziato a ripiegarsi su se stessa e a sviluppare diffidenza, rancori, paure ed è da qui che occorre partire per costruire un Paese meno incattivito. Perché in una comunità non si può instillare amore per decreto, né con un gesto benevolo né con parole concilianti, ma si costruisce collettivamente e democraticamente lavorando su molti fronti: economico, sociale, culturale. E questa è una cosa che molti nostri politici, di governo e opposizione, dovrebbero tenere a mente.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 20, 2010, 05:44:29 pm »

20/1/2010

Bamboccioni, le soluzioni degli altri
   
IRENE TINAGLI

Un fatto di cronaca nuovo ha riportato in auge un dibattito vecchio: il tema dei bamboccioni, con tutti i luoghi comuni che si porta appresso. La nostra cultura familistica, i nostri figli viziati, le mamme che non mollano. Ma la questione non è meramente socio-culturale. La percentuale di ultratrentenni (30-34 anni) che vivono con i genitori è quasi triplicata in venticinque anni: per gli uomini si va dal 15.5 del 1981 al 41 dei giorni nostri, per le donne, più indipendenti, si passa dall'8.7 al 20.8 per cento.

Una società non cambia «cultura» così in fretta: questo fenomeno ha importanti radici economiche. Ciò non significa, attenzione, che questi «bamboccioni» siano davvero tutte vittime, costretti a stare a casa da una totale mancanza di lavoro. Significa però che, per come sono strutturati il mercato del lavoro e il mercato della casa, è economicamente più conveniente stare con i genitori piuttosto che fare tanta fatica per veder solo peggiorare il proprio stile di vita. E' pura razionalità economica.

Possiamo dare la colpa ai nostri ragazzi, che oggi sono più pigri, più viziati, più ignoranti e arroganti di un tempo, possiamo lamentarci perché non ci sono più i bravi giovani volenterosi di una volta e così via. Ma, a parte i casi estremi portati alla luce da certe sentenze (che non possono essere additati come rappresentativi di milioni di ragazzi), questi giovani non sono né pigri né presuntuosi: semplicemente fanno quello che possono, si arrangiano, si fanno due conti in tasca e si comportano di conseguenza. Il ragionamento è molto semplice: se sei un tirocinante che prende 5-600 euro al mese, o anche un operatore di call center che ne prende 800 (e i call center pullulano di laureati), difficilmente ti puoi permettere di spenderne altrettanti per l'affitto di un appartamento. O vai a vivere in condivisione con estranei (come fanno molti immigrati e anche molti dei nostri che emigrano in altre città), oppure, se hai una famiglia alle spalle, decidi di restare con i tuoi. E almeno su questo i nostri ragazzi sono bravi e capaci di fare i conti tanto quanto i loro colleghi stranieri.

Infatti, questo problema non affligge solo i giovani italiani. Basta alzare lo sguardo oltreconfine, per renderci conto che la questione dell’indipendenza dei giovani non è solo nostra. Proprio nel mese di Dicembre in Inghilterra ha fatto scalpore un report dell'Ufficio di Statistica Nazionale che ha rivelato come il numero di giovani che vivono con i genitori ha toccato un picco mai visto in venti anni. Negli Stati Uniti invece già da alcuni anni si parla del fenomeno dei "figli boomerang", ovvero quelli che se ne vanno da casa per andare all'università, ma che poi vi rientrano subito dopo la laurea perché incapaci di mantenersi da soli lavorando. Un fenomeno in forte aumento anche in Canada, dove il censimento del 2006 ha mostrato che il 43.5 per cento dei giovani sotto i 30 anni vive ancora con i genitori, contro il 32 per cento di venti anni prima. In Spagna l'età media in cui un giovane va a vivere da solo è costantemente aumentata fino a raggiungere, lo scorso anno, la drammatica soglia dei 30 anni.

Persino in Svezia, uno dei Paesi in cui tradizionalmente i figli se ne vanno a 18 anni, l'estate scorsa è scattato il primo l'allarme. Nuovi dati hanno mostrato che il 21 per cento dei giovani sotto i 27 vive ancora con i genitori, in netto aumento nel giro di pochi anni. E giusto un paio di settimane fa un sondaggio ha mostrato che il 70 per cento dei giovani svedesi tra i 20 e 25 anni vorrebbe andare a vivere da solo, ma non ce la fa economicamente. Non è un caso se i genitori svedesi sono già in agitazione e iniziano ad iscrivere i propri figli alle liste per accedere alle case «popolari» sin dall'adolescenza.

Insomma, si tratta di un fenomeno serio e di portata internazionale, legato principalmente a due fattori. L'andamento del mercato immobiliare da un lato - con la bolla speculativa degli ultimi dieci anni che ha portato costi e affitti alle stelle. E la progressiva frammentazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro dall'altro, che ha colpito soprattutto i più giovani, in Italia come altrove. Gli altri Paesi stanno iniziando a pensarci e a muoversi. La Spagna ha istituito gli affitti di emancipazione, un contributo all'affitto per i giovani lavoratori che escono da casa. A Parigi si stanno progettando case per la condivisione, ovvero appartamenti pensati per accogliere in modo decente più di un inquilino, in modo che ciascuno abbia il proprio bagno e i propri spazi vitali, senza mortificare la dignità. In Svezia si sta parlando di una sorta di «piano casa» che porti a costruire nuovi alloggi specificatamente per i giovani, con affitti controllati. Sono misure recenti, ne valuteremo gli effetti, ma intanto in questi Paesi c'è la consapevolezza di un problema serio da affrontare con misure concrete di politica economica, edilizia e di Welfare. Da noi nulla, ci si focalizza sulla pigrizia, ma non stupiamoci poi se tra altri venti anni anziché averne il quaranta per cento a casa ne avremo il sessanta.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:34:22 am »

22/1/2010

Per la scuola una scelta miope
   
IRENE TINAGLI

La proposta del ministro Sacconi di abbassare l’obbligo scolastico da 16 a 15 anni nasce da un problema reale: i tanti giovani che interrompono gli studi prima dei 16 anni e che cadono nell’inattività o nel lavoro nero. Il problema quindi esiste, ed è importante affrontarlo. Quello che lascia perplessi però è il tipo di risposta, perché ha il sapore di una sconfitta.

Una risposta che prende atto di un fallimento e si adegua al ribasso. Anziché pensare a misure che stimolino e incentivino la frequenza della scuola, magari attraverso sistemi di borse di studio e di coinvolgimento e supporto alle famiglie, o una riorganizzazione vera dei sistemi di formazione lavoro, si lascia perdere. In un certo senso si getta la spugna. Perché affidare i giovani di quindici anni ai sistemi «formativi» extrascolastici significa lasciare soli, vista la totale inconsistenza della formazione extrascolastica in Italia. È vero, le imprese potranno beneficiare di un anno di manovalanza a basso costo e i giovani avranno un anno di esperienza lavorativa (che, attenzione, è ben diversa da vera «formazione»), ma tutto questo è un ripiego terribilmente di breve periodo e poco lungimirante. È come chi si brucia la casa per vendersi le ceneri. Oggi ci si guadagna un pochino, ma si perde un patrimonio molto maggiore per il futuro.

Uno dei problemi più grandi del sistema economico e produttivo italiano è proprio la scarsa qualificazione di tanti lavoratori, che entrati in azienda a quattordici o quindici anni, hanno maturato degli skills talmente specifici a un certo tipo di produzione, che poi diventa difficilissimo riconvertirli o sottoporli a nuova formazione molti anni dopo. È per questo che quando chiude una fabbrica si mettono in ginocchio intere economie locali. Un maggior livello di istruzione serve a questo: a rendere il lavoratore più flessibile, e più ricettivo a programmi di formazione futura.

Questo non significa che ci sia bisogno di avere tutti laureati o premi Nobel, ma solo che occorre maggiore attenzione ai percorsi formativi e di avviamento al lavoro delle nuove generazioni, per assicurarci che il giovane non venga semplicemente abbandonato dietro una catena di montaggio. Perché un quindicenne che oggi, nel 2010, lascia la scuola per mettersi dietro una macchina, si scontrerà prima o poi con problemi che sarà poco attrezzato ad affrontare, e con lui la società in cui vive. Altri Paesi si stanno ponendo questo problema. Come l’Inghilterra, che negli ultimi dieci anni ha più che raddoppiato la spesa per la formazione professionale dei giovani riorganizzandola pesantemente: sono state create numerose «National Skills Academies», guidate da aziende e datori di lavoro, che oltre a formare migliaia di ragazzi hanno stimolato le aziende stesse ad investire di più, facendo lievitare a 38 milioni di sterline (+16% in soli due anni) la spesa delle aziende in formazione giovanile. Un intervento peraltro integrato da un programma di welfare per i giovani, un «New Deal for Young People» che supporta ed incentiva la formazione e il lavoro, di cui hanno già beneficiato un milione e trecentomila ragazzi tra i sedici e i diciotto anni.

Ecco, la proposta di Sacconi ha il merito di affrontare un problema reale da noi troppo spesso ignorato, per ignavia o ipocrisia, ma ha il limite di farlo con uno spirito che trasmette una sensazione di rinuncia, che rischia di negare una prospettiva ai figli dei più poveri che di fatto vedranno disegnarsi di fronte a loro l’orizzonte di fine del percorso formativo alla scuola media, una logica del «meglio di niente». Mentre oggi più che mai il Paese avrebbe bisogno di una politica capace di dare segnali forti, che riconosca i problemi, certo, ma anziché abbassare l’asticella l’alzi continuamente, rilanciando con proposte innovative proprio sulle sfide più difficili. Una politica che ci dica che possiamo fare meglio di così e puntare più in alto.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 25, 2010, 09:56:19 am »

25/1/2010

Un'idea sbagliata di Welfare
   
IRENE TINAGLI


Dopo la battuta sulla legge per buttare fuori casa i ragazzi dopo i diciotto anni, il ministro Brunetta ha proposto di prendere risorse dalle pensioni di anzianità per dare ai giovani «non 200, ma 500 euro al mese».

I contorni operativi della proposta sono molto fumosi (salario sociale? borse di studio o sgravi?). Ma, di fatto, la proposta che milioni di italiani hanno ascoltato davanti ai teleschermi è quella di dare 500 euro al mese ai giovani togliendoli ai pensionati. Una cifra alta, più del doppio rispetto al supporto all'affitto per i giovani di 200 euro già in vigore in Spagna e che inizia a circolare come ipotesi anche in Italia (non è un caso se Brunetta cita proprio 200 euro come elemento di confronto). Ma anche per questo la proposta lascia molto perplessi. Una cifra così alta richiede risorse enormi che, guardacaso, al momento non sono reperibili. Perché dunque non prendere in seria considerazione quello che è stato fatto altrove e che potrebbe essere fatto adesso? La proposta dei 200 euro ai giovani lavoratori avrebbe potuto essere fattibile sin dai primi giorni di insediamento del governo. Sarebbe costata all’incirca due miliardi e mezzo: più o meno la stessa cifra che è costato eliminare l'Ici per i ceti più abbienti.

Questo non significa che la riforma delle pensioni non sia necessaria, ma che la storia della coperta corta non deve diventare una scusa per rimandare cose importanti o, ancora peggio, per scatenare guerre tra classi deboli. Ma c’è un altro motivo di perplessità che riguarda la logica della misura stessa, almeno così come è stata lanciata in TV. Far passare, volutamente o no, il messaggio che togliendo le pensioni agli anziani si potrebbe dare una sorta di salario sociale ai giovani, non fa che perpetuare l’immagine di un welfare che «assiste» e protegge delle categorie ritenute più deboli di altre. Una cultura assistenzialista già dannosa tra i più anziani, figuriamoci se inizia a diffondersi tra i giovani. Per questo sono più utili misure magari più contenute ma che supportano il perseguimento di determinate opportunità. Il vero problema del welfare, oggi, non è tanto quello di includere o escludere certe categorie dall'assistenza, ma di un ripensamento di criteri di allocazione di risorse, in modo da bilanciare necessità e meriti, equità ed opportunità. È certamente una sfida difficile, ma non più rimandabile, su cui c’è bisogno di elaborare un piano serio, che venga poi illustrato al paese in modo chiaro, dettagliato, e non scaglionato a suon di annunci e rettifiche fatti alla radio o in Tv.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:01:54 am »

8/2/2010

Il circolo vizioso tra caste e amicizie
   
IRENE TINAGLI

I dati appena rilasciati dal ministero mostrano un quadro molto netto: diminuiscono le iscrizioni all’Università. Quasi settemila matricole in meno rispetto all’anno scorso. Potrebbe sembrare un piccolo assestamento in un anno di crisi, ma non è così.

Non è una flessione temporanea: questo dato si inserisce in un trend negativo che si protrae ormai da diversi anni. Rispetto all’anno accademico 2003-04 le immatricolazioni sono calate di quasi 52.000 unità, un dato impressionante, sia in termini assoluti che percentuali. Infatti, se nel 2003 si sono iscritti all’Università il 74,4% dei ragazzi usciti dalla superiori, quest’anno solo il 59% lo ha fatto. Un calo di oltre 15 punti percentuali in poco più di un quinquennio. Un trend che sta impoverendo la nostra società e che mina pesantemente le basi della nostra economia.

Negli anni in cui tutti parlano dell’importanza del capitale umano, di saperi sempre più sofisticati, anni in cui la maggior parte dei Paesi occidentali ha quasi raddoppiato la quota di popolazione in possesso di una laurea, da noi si torna indietro. Le conseguenze sulla nostra competitività economica sono e saranno devastanti, ma forse adesso conviene fermarsi a riflettere sulle cause. Perché da questa riflessione si riescono a capire meglio i contorni e la portata del fenomeno. Questa situazione è conseguenza di un meccanismo sociale che si è inceppato: tanti giovani non studiano più perché pensano che non serva, che l’Università non funzioni più come ascensore sociale.

Il meccanismo si è inceppato in parte per colpa di un sistema universitario incapace di trasmettere competenze al passo con i tempi e con le esigenze del sistema produttivo di oggi. Ma anche per colpa di un panorama delle opportunità che è sempre più chiuso e cristallizzato. Il nostro mercato del lavoro funziona ancora in modo molto informale, localistico e personalistico. Come ci mostrano i dati dell’ultima indagine Excelsior sulle assunzioni delle imprese, circa il 54% delle assunzioni avvengono per conoscenza diretta o per segnalazione di conoscenti. Un altro 25% da banche dati interne alle aziende. Questo significa che chi non ha conoscenze personali o non è già inserito in azienda ha davvero poche probabilità di trovare lavoro. Centri d’impiego, Internet e mezzi stampa coprono una percentuale irrisoria delle assunzioni. La storia che ai giorni nostri si può trovare lavoro semplicemente mandando un curriculum in Italia pare sia davvero un mito.

La cosa drammatica è che questo sistema non solo non viene combattuto ma in alcuni casi viene persino legittimato e difeso. Come per la vicenda di alcune banche che pochi mesi fa hanno formalizzato un accordo con i sindacati per prepensionare i dipendenti ed assumerne i figli. Certo, i figli avrebbero dovuto avere certe caratteristiche, ma resta il fatto che, a parità di laurea in economia, essere figli di un bancario fa la differenza. Cosa dovrebbero quindi fare di fronte a questo scenario i figli degli operai, ma anche di molti impiegati, commesse o commercianti, che non possono contare su nessuna garanzia basata su famiglia e censo? La cosa più semplice: abbandonare velleità universitarie e far leva sul capitale relazionale che hanno a disposizione per fare, a loro volta, l’operaio, il commesso, il commerciante.

È questo infatti che ci dicono gli ultimi dati di Almalaurea: tra gli iscritti all’Università aumenta la percentuale di chi è figlio di laureati e diminuisce la percentuale di chi invece ha genitori che si sono fermati alla scuola dell’obbligo. E questo non farà che alimentare un circolo vizioso che irrigidirà ulteriormente la nostra società e la nostra economia. Perché se i giovani provenienti dai ceti più poveri perdono anche l’università come occasione di confrontarsi con un mondo diverso dal loro, di mescolarsi con persone di varia estrazione, saranno davvero condannati a restare inchiodati ai blocchi di partenza, e non saranno in grado di offrire né a se stessi né ai propri figli orizzonti e prospettive migliori.

Ed è molto triste pensare che nell’era in cui Paesi come l’India o la Cina stanno sperimentando l’abbattimento di vecchie caste e un nuovo senso di libertà e opportunità, in Italia i giovani stanno scivolando verso nuove gabbie e soffrendo frustrazioni e rinunce che nessun Paese sano e moderno dovrebbe tollerare.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:35:43 am »

11/3/2010

L'emergenza dei giovani senza lavoro
   
IRENE TINAGLI

Mentre l’Italia è distratta dai vari pasticci pre-elettorali il resto del mondo si interroga sull’emergenza economica più drammatica di questi ultimi tempi: la disoccupazione, che non dà cenni di miglioramento nemmeno di fronte ai timidi segnali di ripresa. Ma soprattutto si sta accorgendo che esiste un’emergenza dentro l’emergenza: la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli più che doppi della disoccupazione complessiva ed è in continuo aumento.

Mentre nell’ultimo anno la disoccupazione complessiva in Europa è passata dall’8% al 10%, quella giovanile è balzata dal 16,6% al 21,4%. Un aumento di circa il 30% in media, con punte del 50-60% in paesi come la Spagna (+49%), la Grecia (+56%), e persino in un paese tradizionalmente virtuoso su questo fronte come la Danimarca (+49%, anche se il tasso assoluto in questo paese resta tra i più bassi in Europa). Anche negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti: nel luglio scorso si contavano 4,4 milioni di giovani senza lavoro, contro un milione del luglio 2008. Questo ha aperto dibattiti serrati in molti paesi. Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra o in Spagna, il tema viene costantemente affrontato sui giornali e sui media da economisti e politici, mentre in Danimarca è stato appena pubblicato uno studio ad hoc, commissionato all’Ocse, in cui viene analizzato il problema e sono valutate una serie di misure, inclusa una possibile revisione del loro «Welfare Agreement».

In Italia invece il fenomeno della disoccupazione giovanile non sembra destare troppi allarmi tra i policy makers. In parte perché vi è spesso la tentazione di attribuire questo fenomeno ad aspetti culturali, legati a scelte specifiche delle nuove generazioni (rimandare volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, restare a carico dei genitori ecc.) oppure a loro carenze intrinseche (minori competenze, scarsa determinazione o flessibilità) che li renderebbero meno appetibili sul mercato del lavoro. In parte perché la disoccupazione giovanile ha minor impatto sociale nell’immediato. I giovani tipicamente non hanno figli a carico, e possono invece contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore sociale, quindi la loro inattività ha, nel brevissimo periodo, effetti meno devastanti di quella di uomini e donne in età adulta. Ma queste considerazioni hanno un orizzonte molto limitato e non valutano fino in fondo la portata e le conseguenze del fenomeno sulla competitività futura del paese. Siamo di fronte a un’intera generazione che entrerà nel mercato del lavoro con gravi ritardi, in condizioni sub-ottimali, sia da un punto di vista economico che psicologico e motivazionale.

Giovani adulti che sono costretti ad accettare posizioni mal retribuite, poco gratificanti e poco formative. Un cattivo inizio che avrà ripercussioni su tutta la loro traiettoria professionale, come mostrano anche recenti ricerche condotte negli Stati Uniti.

L’economista di Yale Lisa Kahn, dopo una serie di studi su centinaia di giovani entrati nel mercato del lavoro dagli Anni Settanta in poi, dimostra che le generazioni che iniziano a lavorare in periodi di recessione restano penalizzate per tutto il resto della loro vita: carriere più lente, lavori meno gratificanti, salari significativamente inferiori persino a distanza di anni dal primo lavoro, con gap retributivi rispetto alle generazioni più fortunate che toccano punte del 25%. Non solo, ma i giovani che hanno dovuto fare i conti con un ingresso nel mondo del lavoro più difficile sviluppano anche una maggiore avversione al rischio che si portano dietro per tutta la loro carriera, diffidenza nel cambiare lavoro (che è invece uno degli strumenti migliori per progredire e guadagnare di più), minori ambizioni. Questo si riflette non solo sulle sorti personali di questi individui, ma avrà conseguenze su tutta la collettività, soprattutto nei paesi occidentali. In questi paesi infatti l’invecchiamento costante della popolazione, e con essa i costi crescenti di pensioni, assistenza sociale e sanità, richiederanno una forza lavoro sempre più dinamica, produttiva, capace di generare innovazioni e redditi più alti, insomma: di contribuire di più all’economia del paese. Ma la forza lavoro di domani è fatta dai giovani di oggi: più svalutate sono le loro carriere, le loro competenze, i loro salari e le loro motivazioni, e meno saranno capaci di contribuire alla crescita del paese, mettendo quindi a rischio un equilibrio sociale ed economico già abbastanza fragile. Per questo dovremmo smetterla di trattare il tema della disoccupazione giovanile come una mera «questione generazionale» e affrontarlo come vera e propria questione nazionale, così come altri paesi stanno iniziando a fare.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:41:09 am »

15/3/2010

La fantasia è un bene ma non basta

IRENE TINAGLI

Le tante storie di giovani che sfruttano la rete per realizzare delle idee imprenditoriali e per trovare un po’ di gratificazione personale ed economica non possono che mettere di buonumore.

Uno spiraglio di ottimismo contro tutti quelli che dicono che alla crisi non c'è scampo, e contro tutti quelli che dicono che i giovani di oggi sono pigri e incapaci di arrangiarsi. Ma al di là dell'istintiva simpatia questo fenomeno lascia trasparire una serie di elementi che dovrebbero stimolare una riflessione più approfondita soprattutto da parte dei nostri policy makers.

Il fenomeno dei wwworkers ci dice che tra i giovani c’è voglia di imprenditorialità, voglia di mettersi in gioco, e che questi ragazzi hanno idee, curiosità, che sanno usare le tecnologie non solo per chattare ma anche per tirarci fuori qualcosa di utile. Però ci dice anche che l'orizzonte di queste iniziative è molto limitato e che l'impatto che esse possono avere sulla struttura o il futuro dell’economia italiana sarà probabilmente di scarsa rilevanza. Si tratta per lo più di minibusiness che usano tecnologia e innovazioni, ma che non ne producono. In altre parole: non siamo di fronte alle famose storie di ragazzi che nel garage di casa sviluppavano nuovi software, sistemi operativi o motori di ricerca. Siamo di fronte a persone che usano una piattaforma Internet per vendere forme di pecorino o fissare appuntamenti per portare a spasso i cani dei vicini. Sono due cose molto diverse. Nel primo caso, c’è il potenziale per creare imperi economici che generano migliaia di posti di lavoro e che spostano di qualche metro le frontiere tecnologiche mondiali. Nel secondo caso, se va tutto bene, si creano le basi di un buon business familiare, che certo non è poco, ma che non darà all'economia e alla società del Paese quel contributo che hanno dato i giovani fondatori di Google, Facebook, Skype e simili.

Questo non significa che in Italia non ci siano giovani in grado di inventare una nuova tecnologia che possa cambiare il mondo, o di mettere in piedi un business innovativo o di creare un prodotto di respiro internazionale. Significa solo che i giovani che potrebbero o vorrebbero cimentarsi con queste imprese non vedono davanti a loro la possibilità di farlo. Non vedono interlocutori, non vedono intermediari, o forse semplicemente non hanno le informazioni e la formazione necessaria e non sanno come fare. Vedono solo muri, burocrazia e costi altissimi anche per muovere i primi passi. Meglio allora ridimensionare le ambizioni, saltare intermediari, banche e finanziatori e affidarsi alla rete. Meno promettente, ma più veloce, economica, senza bisogno di troppi permessi e carte bollate: se va va, se non va si cambia rotta subito. Questa è in molti casi la realtà italiana: ogni volta che un progetto importante richiederebbe il coinvolgimento di banche, pubblica amministrazione e di determinate «condizioni di sistema» si preferisce ridimensionare le ambizioni e ci si arrangia da soli. Ed è un vero peccato. Perché si potrebbe convogliare tutta questa energia, curiosità e voglia di fare in attività imprenditoriali più strutturate, con maggiori potenziali di crescita. Si potrebbero aiutare i giovani che abbiano questo desiderio di mettersi in gioco ad imparare come davvero si mette in piedi un'impresa a 360 gradi, così come ha fatto quella generazione di imprenditori che ha reso grande l'Italia. Una generazione che oggi, forse scoraggiata dalla crisi e da un sistema politico inerme, appare un po’ chiusa in se stessa e incapace di rigenerarsi per aprire una nuova stagione di prosperità, innovazione e ottimismo. E d'altronde è difficile pensare che il nuovo made in Italy sia rappresentato da un sito che vende prosciutti o cappellini fatti in casa. Questi ragazzi sono bravi, coraggiosi e ingegnosi, ma i loro piccoli o grandi successi personali, che ci auspichiamo sempre più gratificanti, non fanno che mettere a nudo un fallimento collettivo.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 23, 2010, 08:58:42 am »

23/3/2010

Il recupero dell'identità americana

IRENE TINAGLI

L’approvazione della riforma sanitaria non è solo un’importante vittoria politica per un Obama un po’ indebolito dalla crisi economica. È un passo importante verso la costruzione di quella nuova America che Obama aveva in mente quando si è candidato alla Casa Bianca.

È una riforma che non tocca solo la sanità, ma tutta la società americana, ed è coerente con altre misure prese in questo anno di mandato, dal raddoppio degli investimenti nell’istruzione primaria alla recente riforma dei programmi scolastici. L’obiettivo di Obama non è, come gridano allarmati alcuni repubblicani, quello di fare un’America socialista ed egualitaria, ma di farla tornare ad essere una terra di opportunità per tutti, un Paese in cui il sogno americano torni ad essere possibile. Perché negli ultimi quindici anni l’America ha fatto, sì, un grande balzo in avanti, cavalcando la straordinaria rivoluzione tecnologica e scientifica partita negli Anni Ottanta, e riuscendo ad attrarre, motivare e premiare i talenti più brillanti da ogni angolo del mondo. Ma in questa enorme rincorsa ne ha lasciati moltissimi indietro. Tanti, troppi.

I 46 milioni di cittadini senza assicurazione medica con cui l’America si trova a fare i conti oggi (una cifra spaventosa pari quasi al 15% dell’intera popolazione) non sono vagabondi, alcolizzati o incapaci; sono per lo più cittadini normali, con un lavoro e una famiglia. Secondo un rapporto rilasciato l’anno scorso dalla Kaiser Family Foundation, il 70% dei non assicurati vive in famiglie in cui almeno un componente ha un lavoro full time. E, dato ancora più sconcertante, il 40% dei non assicurati sono ragazzi tra i 19 e i 29 anni.

Se questi giovani non hanno neppure i soldi per badare alla loro salute, come potranno avere le risorse necessarie per istruirsi e costruirsi un futuro? Tutto questo mina pesantemente le basi della mobilità sociale degli Stati Uniti, trasformando il sogno americano in un miraggio sempre più sfocato. I dati di numerosi studi lo confermano. La mobilità intergenerazionale dei redditi negli Stati Uniti è una delle più basse del mondo occidentale: quasi il 50% del differenziale dei redditi dei genitori si trasmette ai figli, ovvero chi nasce ricco ha alte probabilità di restare ricco, mentre chi nasce povero resta povero. Questo problema è rimasto a lungo ignorato, messo in ombra dalle straordinarie storie di giovani divenuti all’improvviso imprenditori di successo planetario.

Queste storie hanno continuato a proiettare ovunque l’immagine di un’America piena di opportunità, capace di riconoscere e valorizzare meriti e competenze. Sì, ma i talenti e le competenze di chi? A guardare bene i protagonisti di queste storie di successo erano giovani come Steve Jobs o Bill Gates, provenienti da famiglie benestanti che fondavano le loro imprese mentre erano ad Harvard o in altre prestigiose istituzioni. E lo stesso per i numerosi talenti stranieri che negli Usa hanno costruito imperi economici. Tutti giovani che negli Stati Uniti hanno trovato opportunità straordinarie, ma che non vi sono approdati con la valigia di cartone, bensì per ottenere un Master a Carnegie Mellon, come Vinod Khosla, indiano, cofondatore di Sun Microsystem, o un PhD in Informatica a Stanford, come il russo Sergey Brin, cofondatore di Google, o come Sabeer Bathia, altro indiano, cofondatore di Hotmail. Nel frattempo per milioni di ragazzini nati e cresciuti negli Stati Uniti l’Università, quella di qualità, è divenuta sempre più irraggiungibile.

Non è un caso se Bill Gates e altri imprenditori dei settori high tech stanno facendo pressione sul Congresso per aumentare l’ingresso nel Paese di studenti stranieri perché i giovani americani rinunciano o non riescono ad arrivare alle prestigiose lauree di cui loro sono continuamente in cerca. Questo fenomeno non solo potrebbe avere conseguenze enormi sulla capacità innovativa e competitiva futura degli Stati Uniti, ma sul tessuto sociale del paese e sul senso di appartenenza dei suoi cittadini. Perché se l’America perde la mobilità sociale, i suoi cittadini perderanno quel senso di possibilità, di fiducia ed identificazione nelle istituzioni che è sempre stata la grande forza degli Stati Uniti.

Obama lo sa e ha capito che la mobilità sociale è una medaglia a due facce: da un lato il riconoscimento dell’eccellenza, ma dall’altro l’accesso alle opportunità per sviluppare questa eccellenza. Gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni si sono preoccupati molto del primo aspetto, ma poco del secondo, col rischio di perdere la loro vera essenza di «terra di opportunità per tutti». Riuscire a bilanciare queste due anime non sarà facile, ma è la sfida che gli Stati Uniti dovranno affrontare se vorranno continuare a crescere e a far sognare nuove generazioni di americani.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:38:42 am »

1/4/2010

La rinascita di Madrid e gli errori dei catalani
   
IRENE TINAGLI

La crisi economica sta dettando non solo le sorti di imprese, banche e lavoratori, ma anche di città e territori, facendo emergere storie interessanti da cui è possibile imparare lezioni preziose anche per noi. Come la storia della rinascita di Madrid e del suo sorpasso economico sulla Catalogna. Un evento annunciato due settimane fa dalla Fondazione delle casse di risparmio (Funcas) e che continua ad avere grande eco nei media spagnoli. Il sorpasso fa notizia perché la Catalogna è sempre stata considerata la locomotiva del Paese, la regione più ricca e avanzata, quella più industrializzata e produttiva e quella più vicina all’Europa e al mondo «moderno». Madrid invece era considerata la capitale un po’ parassitaria, trainata dal settore pubblico, poco innovativa e lontana dall’Europa. Una rivalità antica che ricorda un po’ le rivendicazioni milanesi e lombarde nei confronti di Roma. Anche per questo osservare e capire le dinamiche tra le due città spagnole è molto interessante.

Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato e sta ribaltando lo scenario. Oggi Madrid non solo ha per la prima volta un peso sull’economia nazionale superiore a quello della Catalogna, ma i cittadini madrileni godono di un potere d’acquisto pro capite nettamente superiore (132% della media nazionale contro il 108% della Catalogna), e un livello di disoccupazione significativamente più basso (14,1% contro il 16,25%). Chiaramente le difficoltà catalane sono legate alla crisi mondiale: la vocazione industriale della regione ha sofferto del crollo della domanda internazionale più dell’economia madrilena, maggiormente diversificata e orientata ai servizi. Ma a ben vedere ci sono altre ragioni, processi che precedono la crisi e che aiutano a inquadrare la crisi catalana - così come la rinascita madrilena - in una prospettiva più ampia.

Da circa dieci anni Madrid ha investito in modo sistematico nella città, ristrutturando palazzi, teatri, riportando a nuovo strade, marciapiedi, parchi, e moltiplicando le attività culturali e creative, dal teatro alla musica al ballo. Nel frattempo la Catalogna è stata assorbita dal processo di affermazione dell’identità catalana e da forti spinte autonomiste, che dagli Anni Novanta si sono fatte sentire in modo sempre più prepotente, fino all’imposizione, nel 1998, del catalano nelle scuole e negli uffici pubblici. E così mentre Madrid investiva milioni di euro nella rete metropolitana (oltre 100 chilometri aggiunti in pochi anni), nei collegamenti ferroviari tra centro e hinterland, nel raddoppio dell’aeroporto e nella moltiplicazione di attività culturali, la Catalogna ha investito milioni di euro per l’assunzione di professori di catalano, l’apertura di prestigiose ambasciate catalane a Parigi, Londra, Berlino, New York, perdendosi spesso in guerre contro gli immigrati e in liti tra Comuni e quartieri che hanno bloccato la realizzazione di alcune infrastrutture chiave.

Questo ha generato una chiusura sociale e ritardi infrastrutturali che hanno posto le basi per danni rilevanti di cui si iniziano a vedere i sintomi. Infastidite dall’idea di dovere imparare un’ulteriore lingua, le centinaia di migliaia di latino-americani (ma anche molti nordamericani ed europei) che prima sceglievano Barcellona e la Catalogna come meta d’immigrazione si sono ridirezionati su Madrid, facendola divenire il vero centro di collegamento tra Europa e America Latina, mentre nell’industriale Catalogna sono rimasti i flussi migratori dal Nord Africa in cerca di lavoro nel manifatturiero, flussi meno qualificati e più difficili da integrare. Non solo, ma questa apertura culturale di Madrid, accompagnata da un’economia più diversificata e «terziarizzata» e dal notevole miglioramento infrastrutturale, ha trasformato Madrid nella sede privilegiata per i quartieri generali di numerose multinazionali. E così, mentre la Catalogna vedeva chiudere una dietro l’altra tutte le fabbriche dei maggiori gruppi - da Philips a Samsung, Panasonic, Braun, Nissan, Pirelli e molte altre ancora -, Madrid negli stessi anni ha visto un flusso crescente di aziende. British Telecom, Ibm, le società di software Sap ed Ag sono solo alcuni dei nomi più noti che hanno scelto la capitale spagnola come sede per i loro uffici di interfaccia con il Mediterraneo e con l’America Latina. I catalani ancora stentano a credere ai nuovi dati. Per anni il boom economico è riuscito a mascherare e neutralizzare molte scelte sbagliate, ma adesso la crisi sta presentando il conto. E prima saranno capaci di accettare la batosta e capire i limiti dell’approccio perseguito negli ultimi anni, prima potranno risollevare le sorti di una regione ancora ricca di risorse e potenzialità enormi.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 19, 2010, 09:40:36 am »

19/4/2010

Non perdiamo la nostra dolce vita

IRENE TINAGLI

Nel 2015 i «nuovi mercati», dalla Russia al Messico alla Corea, potrebbero rappresentare per il «made in Italy» un potenziale di crescita di circa 3,8 miliardi di euro. Un dato estremamente interessante, illustrato nel rapporto «Esportare la Dolce Vita» appena presentato da Confindustria in collaborazione con Prometeia e Sace. Basterebbe che l’Italia mantenesse l’attuale quota di mercato e l’espansione della classe medio-alta di questi Paesi farebbe il resto.

Certamente una buona notizia per le nostre aziende, che però dovrebbero guardare oltre i numeri e porsi qualche domanda. E’ così scontato che la quota di mercato resti la stessa? In fondo non è impensabile che in questi anni altri Paesi imparino a fare (e vendere) belle scarpe o belle borse. L’assunzione di base è che questi nuovi mercati continueranno a comprare prodotti «made in Italy» non solo e non tanto per la loro qualità, ma per l’immagine a essi associata. La famosa «dolce vita». Ed è qui che dovremmo fermarci a riflettere. Cosa significa davvero, esportare la dolce vita? Questa è la domanda da porsi e che non può essere catturata da alcune stime sull’andamento del mercato.

Perché esportare la dolce vita non significa solo vendere un prodotto, ma, appunto, uno stile di vita. Il problema è che nessuno in Italia ha mai condotto una riflessione su cosa sia, veramente, l’italian lifestyle. Si pensa alla scarpa in pelle, al foulard di seta o al maglione di cachemere, e va benissimo, ma abbiamo perso di vista che lo «stile di vita» non è solo il prodotto, ma la cornice emotiva entro cui si inserisce e che aiuta a venderlo. E lo stile di vita è fatto di tante cose: dal cibo, ai bar, alle nostre piazze, alla musica, fino a come parla e cammina la gente... È la cultura e la vita di un popolo a marcarne lo stile e a proiettarne l’immagine nel mondo.

Ma noi non ci abbiamo mai pensato, non ci siamo mai interrogati su cosa davvero caratterizzasse il nostro stile di vita rendendolo affascinante e attrattivo per milioni di cittadini del mondo. Non è un caso se provando a cercare italian lifestyle su Internet si trovano solo definizioni e fonti straniere. È il resto del mondo che, negli anni, si è chiesto cosa fosse lo stile di vita italiano, provando a capirlo, interpretarlo, magari anche stravolgendolo e copiandolo. Noi non ce ne siamo mai curati.

E così mentre Starbucks ha fondato un impero economico sui bar dove ti puoi sedere e leggere il giornale ispirandosi all’italian lifestyle, noi abbiamo riempito i nostri bar di slot machine automatiche scimmiottando Las Vegas e distruggendo un nostro patrimonio sociale e culturale. E mentre altri Paesi con il dilagare del «nuovo urbanismo» hanno creato o rilanciato centinaia di centri urbani ispirandosi, alla fin fine, ai nostri villaggi (centri compatti, «camminabili», dove si alternano piccoli negozi ad abitazioni, caffè e ristoranti), noi abbiamo lasciato morire le nostre città, assetandole di risorse e infrastrutture o sventandrole con ipermercati stile America Anni Cinquanta. E ancora, mentre negli Stati Uniti si cerca di educare sempre più i giovani a mangiare cibi freschi, a sedersi a tavola e apprezzare la «dieta mediterranea», la Coldiretti ci dice proprio in questi giorni che il 41% dei giovani italiani è attratto dai cibi spazzatura. Tanti nostri giovani, che un tempo erano «poveri ma belli», simbolo di bellezza ed eleganza, oggi assomigliano sempre più a riproduzioni di American Idol, vittime di un sistema che non ha saputo offrire loro nessuno stimolo alternativo.

Ecco, oltre a fare i conti sulle potenziali quote di mercato dovremmo anche chiederci come stiamo coltivando, valorizzando e facendo evolvere lo stile di vita e la cultura italiana, e quale stile di vita ci caratterizzerà e ci rappresenterà nel mondo tra dieci o venti anni. Insomma, quale valore distintivo rappresenterà per le future generazioni di «cittadini globali», cosa sognerà e in cosa si identificherà un giovane russo o coreano quando tra 20 anni comprerà un abito «made in Italy»? Questo dovremmo chiederci. E quest’immagine futura è quella che stiamo costruendo adesso, non solo con i nostri prodotti, ma con le nostre politiche culturali, sociali e territoriali, perché sono la nostra musica, la nostra televisione, le nostre città e i nostri giovani che faranno l’italian lifestyle del futuro e che decideranno anche le sorti del nostro «made in Italy» e della nostra economia.

da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:14:35 pm »

30/4/2010

La Spagna sta meglio o peggio di noi?

IRENE TINAGLI


Brutta settimana per il governo spagnolo.
Prima la notizia del tasso di disoccupazione sopra il 20%. Poi il declassamento del rating da parte di Standard & Poor’s.

Ma se i giornali internazionali hanno dato più spazio al declassamento, è il dato sulla disoccupazione che ora preoccupa di più gli spagnoli e lo stesso governo. Perché contraddice quello che Zapatero ha sempre detto nei mesi scorsi e su cui ha sempre contato: ovvero che la crisi fosse in fase finale e che con il 2010 le cose sarebbero migliorate. Invece la disoccupazione non si ferma e molti economisti prevedono che resterà su questi livelli anche per tutto l’anno prossimo.

Il problema spagnolo è duplice: da un lato è legato alla struttura produttiva del paese, ancora incentrata su settori tradizionali e a basso contenuto di conoscenza e innovazione, dall’altro è legato al mercato del lavoro. Un mercato molto volatile e soprattutto spaccato in due: una folta schiera di lavoratori «consolidati» e ben protetti da una parte, e centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, assunte con contratti a termine e senza alcuna protezione dall’altra. I contratti a termine in Spagna hanno avuto una diffusione enorme, toccando picchi del 30% di tutta l’occupazione spagnola. Sono contratti che per certi versi hanno aiutato il boom economico degli anni scorsi, ma questi posti di lavoro così facili e veloci da creare sono stati anche facili e veloci da distruggere appena l’economia, e soprattutto il settore delle costruzioni che di questi contratti ha fatto ampio uso, sono andati in crisi. Non potendo scaricare le conseguenze del rallentamento economico né sulle forze lavoro più vecchie (solidamente protette dai sindacati) né su un riaggiustamento dei salari (fermamente ancorati a contrattazioni collettive che ogni anno rinegoziano aumenti indifferenziati per tutte le aziende di ciascun settore), tutta la crisi si è scaricata su questi lavoratori meno protetti entrati nel mercato del lavoro in anni più recenti.

Non è necessario un esperto per notare le similitudini con la situazione italiana. L’unica vera (e non irrilevante) differenza sta nel fatto che in Spagna l’emergenza occupazione e la riforma del mercato del lavoro sono ormai quasi quotidianamente oggetto di dibattito pubblico, sia nel governo e nel parlamento che sui giornali, nelle università e nella società civile. Un gruppo di economisti spagnoli ha redatto un documento con alcune proposte per ristrutturare il mercato del lavoro senza ingessarlo, aumentando le protezioni per le fasce attualmente «scoperte» (con un «contratto unico» simile a quello proposto in Italia dagli economisti Boeri e Garibaldi), ma allo stesso tempo rendendo le condizioni di licenziamento meno proibitive e le contrattazioni collettive più flessibili. Una proposta che ha raccolto oltre cento adesioni tra economisti di tutta la penisola iberica (viene infatti chiamato «la proposta dei cento») e che vede un forte sponsor nella Banca di Spagna e nel Fondo Monetario Internazionale.

Un altro gruppo di economisti sta seguendo un disegno di legge sulla ristrutturazione della struttura produttiva del paese, cercando di supportare alcuni deputati nell’identificazione di misure appropriate sul fronte innovazione e formazione. E un paio di settimane fa il governo ha reso nota un bozza di riforma del lavoro che, pur con alcuni aspetti discutibili, cerca di riprendere alcuni dei punti più rilevanti delle proposte circolate in questi mesi. Insomma, il dibattito nella società e nella politica spagnola è vivo. Se poi riuscirà a produrre anche riforme forti e incisive è un altro discorso. In fondo l’anno prossimo la Spagna sarà già in clima elettorale. E noi meglio di chiunque altro sappiamo cosa ciò significhi in termini di decisionismo e coraggio. Ma intanto le forze politiche, economiche e sociali stanno dando qualche segnale di attenzione e di impegno.

In Italia invece, nonostante vi siano, anche qua, persone che con serietà studiano il fenomeno ed elaborano proposte interessanti, il dibattito pubblico sembra dominato da ben altro. Basta guardare i titoli degli ultimi giorni. Lodo Alfano alla riscossa, intercettazioni ed emendamento «D’Addario», litigi e scaramucce politiche, e una nuova altalena sul rischio di nuove elezioni. Il fatto che il tasso di disoccupazione italiano sia ancora molto più basso di quello spagnolo non è che una magra consolazione di fronte a questo scenario così caotico. E viene da chiedersi quanto possa durare questa nostra presunta superiorità economica.

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 25, 2010, 09:36:18 am »

25/5/2010

Disapprendimento estivo

IRENE TINAGLI

Far studiare meno i nostri ragazzi per far guadagnare di più alberghi e ristoranti.
Ecco di cosa stiamo discutendo in questi giorni in Italia.

La proposta del senatore del Pdl Giorgio Rosario Costa di ritardare al 30 settembre le aperture scolastiche per favorire il turismo ha incontrato il favore del ministro dell’Istruzione Gelmini e ha aperto subito un vivace dibattito. La Lega Nord si preoccupa delle famiglie che non sapranno dove parcheggiare i figli in settembre, alcuni sindacati accusano di voler rimandare il tema più importante delle retribuzioni dei docenti, altri sembrano più possibilisti (in fondo anche il turismo crea posti di lavoro). C’è poi chi si preoccupa se il provvedimento sia o no in linea con gli obblighi europei sulle ore minime di scuola. Ma nessuno, nemmeno il ministro dell’Istruzione, si è chiesto che impatto questo provvedimento può avere sui ragazzi e sul loro processo di apprendimento, di crescita, insomma: sulle persone che stiamo formando e che faranno il futuro del nostro Paese. Questo fatto, prima ancora della proposta in sé, è assolutamente sconcertante.

Nei mesi scorsi è emerso in varie occasioni il problema di una inadeguatezza crescente della preparazione dei nostri ragazzi, come testimoniato anche dai test Pisa dell’Ocse. Ci si sarebbe aspettato che da questi dati e considerazioni il governo prendesse spunto per misure volte a migliorare e intensificare l’offerta scolastica e formativa, non a diminuirla. Invece è avvenuto l’opposto. Prima è stata abbassata l’età dell’obbligo scolastico per aiutare, è stato detto, le imprese (ma le imprese avrebbero semmai bisogno di risorse più qualificate, non meno), e ora si parla di ridurre l’anno scolastico per aiutare il settore turistico. E’ così che stiamo coltivando la nostra competitività futura? A quale modello di competitività puntiamo: a sviluppare un’economia innovativa e moderna o a trasformarci in una sorta di gigantesco resort mediterraneo?

Questa proposta non solo rischia di ridurre drammaticamente la nostra capacità competitiva, ma anche di aumentare i divari sociali e ridurre la mobilità sociale del nostro Paese. Esistono numerosi studi che dimostrano come un prolungato allontanamento dai banchi di scuola distrugge il sapere dei ragazzi, soprattutto quelli provenienti da famiglie povere che d’estate hanno meno stimoli e occasioni di apprendimento. Assieme ad altri colleghi il professor Harris Cooper della Duke University, direttore del Programma sull’Istruzione, ha dimostrato con una serie di ricerche che la performance dei ragazzi in matematica e scienze crolla drasticamente dopo le vacanze estive, dando luogo a quello che è stato ribattezzato il «disapprendimento estivo» (summer learning loss). Solo per le capacità di lettura si registrano alcuni miglioramenti, ma esclusivamente per i ragazzi benestanti, mentre quelli provenienti da famiglie povere peggiorano sensibilmente anche su quel fronte.

Questi studi, assieme al preoccupante peggioramento delle performance scolastiche dei ragazzi nei quartieri più poveri, hanno intensificato il dibattito statunitense sull’istruzione. Tale dibattito è alla base di iniziative recenti come il forte impulso ai programmi estivi di recupero e apprendimento, e persino la discussione sulla possibilità di allungare l’anno scolastico - che adesso parte agli inizi di settembre, così come avviene in Spagna, Francia, Inghilterra e altre parti d’Europa (ad eccezione della Scozia dove la scuola riparte il 20 agosto!). Lo stesso ministro dell’Istruzione statunitense Arne Duncan ha citato i lavori del professor Cooper in un recente discorso in cui promuoveva i programmi educativi estivi. Si potrà essere d’accordo o no con le sue idee, ma è comunque rincuorante sentire un ministro dell’Istruzione che si ispira a ricerche scientifiche sull’istruzione e non agli incassi delle località turistiche.

Se vogliamo davvero supportare il nostro turismo potremmo iniziare a tenere più pulite e funzionali le nostre città e i nostri mezzi pubblici, a rendere fruibile e accessibile il nostro splendido patrimonio storico e artistico, e a supportare una vera riqualificazione dell’offerta culturale e ricettiva, oggi totalmente inadeguata. Ma, per favore, non disinvestiamo nei nostri ragazzi e nel nostro futuro.

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