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Autore Discussione: Kenya, finire in cella per le armi giocattolo  (Letto 4403 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Agosto 09, 2007, 04:59:57 pm »

Kenya, finire in cella per le armi giocattolo
Francesco Papa-Silvano Scasseddu


Io e Silvano Scasseddu siamo arrivati in Kenya con la troupe il 23 giugno per girare un film per la tv dal titolo The African Game con protagonista Luca Ward, prodotto dalla Dania Film di Luciano Martino.

Il regista e produttore esecutivo Massimo Tarantini era già sul posto dal 9 giugno con il direttore della fotografia, l’assistente operatore, l’aiuto regista, l’ispettore di produzione e la costumista.

Con noi viaggiava anche gran parte delle attrezzature tecniche di ripresa: circa 50 colli per un peso di 700 kg.

Dopo aver iniziato il 24 giugno le riprese allo Tsavo Park e proseguito a Mombasa, siamo arrivati a Malindi mercoledì 4 luglio per terminare le restanti 3 settimane di produzione in Kenya. Il giorno 6 luglio, è un venerdì, io e Silvano, responsabile degli effetti speciali e delle armi di scena, veniamo prelevati dall’albergo e portati alla stazione di polizia di Malindi, dove veniamo accusati di aver importato senza permesso armi da fuoco! Le armi in questione sono delle repliche di plastica usate come «props» (oggetti di scena), che sono state regolarmente spedite via cargo in Kenya dall’Italia e che incautamente la dogana ci ha rilasciato, non avvertendoci che le armi finte o giocattolo per la legge keniota sono equiparate a quelle vere.

Il nostro service locale, una società dal nome Waas, omette inoltre di fornirci le necessarie informazioni tali da garantire il regolare andamento della produzione del film. Oltre alle armi finte avevamo con noi anche armi vere da usare per le riprese del film, armi ovviamente modificate dalla balistica per poter sparare solo colpi a salve e comunemente usate nei film. Tali armi, vere, sono state regolarmente esportate con l’autorizzazione del ministero degli Interni e hanno ottenuto i necessari permessi in Kenya. Nei giorni delle riprese sono state custodite da tre ufficiali di polizia e tutte le sere consegnate all’armeria della locale stazione di polizia. Appena i poliziotti che scortano le armi vere ci fanno notare che anche quelle finte hanno bisogno di un permesso le consegniamo immediatamente a loro. Da quel momento saranno sempre in loro custodia. Alla stazione di polizia, dopo una intera giornata di interrogatori estenuanti e di via vai generale, veniamo finalmente rilasciati su cauzione e i nostri passaporti ritirati, dopo l’intervento di Marco Vancini (proprietario del Coral Key dove alloggiamo e di altri alberghi in Kenya, nonchè co-produttore del film), del console Roberto Macrì e di altri esponenti locali. Mercoledì 11 luglio i nostri passaporti e la cauzione vengono restituiti e la nostra accusa fatta cadere, attraverso una comunicazione della polizia investigativa al nostro avvocato Tukero Ole Kina che ci aveva assistito dal primo momento.

Ci assicurano che tutto è risolto, noi possiamo continuare nel nostro lavoro e anzi ci viene anche permesso di ritirare le armi finte per utilizzarle sul set. Il permesso per queste armi viene nel frattempo richiesto e la pratica avviata grazie anche al rappresentante del governo keniota presente sul nostro set, Patrick Allan Sua. Giorno dopo giorno Sua ci informa che il permesso è pronto, che il fax da Nairobi è in arrivo da un momento all’altro. Purtroppo sono solo parole. Noi stiamo ancora aspettando.... Le riprese continuano con difficoltà ma vanno avanti fino al 18 luglio, quando sia io che Silvano veniamo di nuovo convocati in polizia, dove ci viene comunicato che siamo in arresto e che dobbiamo andare immediatamente in Corte per il processo! L’avvocato che ci aveva assistito, Ole Kina, è a Dubai. Viene trovato allora un sostituto. Alcuni ci invitano a dichiararci colpevoli, così da ottenere una lieve condanna pecuniaria e la fine del caso. A noi la storia sembra poco credibile e soprattutto non di facile soluzione, dal momento che eravamo riusciti a leggere gli articoli della legge, secondo la quale per il reato di importazioni di armi da fuoco si prevede una condanna fino a 6 mesi che può essere commutata in pena pecuniaria. Silvano ed io seguiamo il consiglio dell’avvocato sostituto e ci dichiariamo davanti alla corte «not guilty», non colpevoli.

Il processo sembra una farsa, il giudice fissa l’udienza successiva il 17 settembre e ci commina una cauzione di 500.000 scellini (6.000 euro) a testa. Veniamo sbattuti in una cella schifosa e maleodorante di urina insieme ad altri disgraziati africani in un contesto di degrado e soprusi. Si scatena la corsa a trovare la maniera di pagare la cauzione, che la Corte non vuole in denaro ma con libretti di circolazione di autoveicoli. Trascorriamo la giornata nella cella del tribunale, fino a che non veniamo portati nella stazione di polizia per passare la notte nella prigione attigua. Riusciamo ad evitare le celle che sono in realtà una latrina, convincendoli a farci passare la notte nella stanza antistante dove soggiorna una nuvola impressionante di zanzare. La produzione riesce a farci avere del cibo che distribuiamo anche ai detenuti e ai poliziotti. A un certo punto riusciamo a convincere il capo della polizia a farci dichiarare malati e a spedirci sotto scorta all’ospedale St. Peter dove riusciamo a dormire qualche ora su un vero letto. Il giorno dopo veniamo riportati prima in polizia, poi caricati con altri 20 disperati su un pick-up e trasportati di nuovo in tribunale, dove veniamo sistemati sempre nella cella dove eravamo già stati, questa volta in compagnia di tre giovani prostitute. Cominciano le ore di attesa per riuscire a chiudere la pratica della cauzione. Le cose sembrano complicarsi ancora. Il giudice non c’è e la cauzione non può essere firmata. È tardi e siamo ormai rassegnati.... Finalmente alle 19 veniamo rilasciati, giusto in tempo per evitare la prigione di Mtangani, vero girone dantesco, 60 per cella di 4 metri per 4. La cauzione è stata pagata e il giudice ha firmato. Ma dei nostri passaporti nemmeno l’ombra: sono stati sequestrati.

Torniamo in albergo, per il giorno dopo è fissata una nuova udienza, dove ci viene chiesto da tutti di dichiararci colpevoli al fine di ottenere solo una condanna pecuniaria. La cosa ancora una volta non ci convince. Abbiamo l’impressione di essere un po’ una gallina dalle uova d’oro, che non vedono l’ora di raccogliere...siamo sempre meno convinti di dichiararci colpevoli. Ci sembra tutto troppo improvvisato e rischioso. Arriviamo al tribunale, ma il tempo passa e il giudice ritarda l’udienza. Venuto a sapere della nostra tragedia, l’avvocato Ole Kina interrompe il suo viaggio a Dubai e ci raggiunge in tribunale. C’è molta confusione. Gli avvocati vengono chiamati dal giudice che non riesce a trovare la gazzetta ufficiale con gli emendamenti alla legge in oggetto promulgata nel 2003. Non si può procedere. Il tutto viene rimandato. Passiamo il pomeriggio con Ole Kina, cercando di aiutarlo a preparare il documento in nostra difesa da presentare allo State Council per convincerlo ad adoperarsi presso la loro Procura Generale al fine di far cadere le accuse nei nostri confronti. Scopriamo inoltre che secondo un emendamento all’articolo sul quale si fonda la nostra accusa, la pena prevista non è di 6 mesi di carcere, bensì va da un minimo di 7 anni fino ad un massimo di 15, oltretutto non commutabile in una pena pecuniaria!!

Ora siamo qui, prigionieri dello Stato del Kenya, con un’accusa molto grave in attesa di essere processati. Il reato in questione non può essere ascritto né a me né a Silvano. Quando è stata sdoganata la spedizione, che conteneva le armi finte, era il 19 giugno e noi ancora non eravamo in Kenya, siamo arrivati solo il 23. Se reato c’è stato, è stato commesso alla dogana di Nairobi il 19 giugno da chi ha omesso di verificare il contenuto delle casse, che avrebbe impedito l’entrata in Kenya delle armi di plastica di scena, in attesa di ottenere il necessario permesso, esattamente come è accaduto per quelle vere, che sono state regolarmente utilizzate e già rispedite in Italia. Si tratta di un grave atto di discriminazione e di violazione dei più elementari diritti della persona, perpetuato nei confronti di italiani che come unica colpa hanno avuto quella di essere venuti in Kenya a lavorare per la produzione di un film.

Denunceremo, appena possibile, alla Corte internazionale dell’Aja questo abuso nei nostri confronti, chiedendo un risarcimento per l’ingiusta confisca dei passaporti e della violazione dei diritti umani subita. Il dramma è che al momento non sappiamo quando ci saranno restituiti i nostri passaporti e quando quindi potremmo fare ritorno in Italia. Il rischio è che il processo potrebbe anche durare mesi, durante i quali continueremo ad essere prigionieri in Kenya.

Pubblicato il: 09.08.07
Modificato il: 09.08.07 alle ore 14.19   
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 24, 2007, 11:54:17 pm »

L’INDAGINE PER LE ARMI FALSE SUL SET

Malindi. Il cineasta sardo e il collega romano raccontano i retroscena del rilascio

Trattative super riservate di Farnesina e ambasciata con le autorità kenyote

«Prosciolti grazie anche a Briatore e a Naomi»

Pier Giorgio Pinna


Il parlamentare Antonio Satta: «Finora non si è trovato un aereo per fare tornare a casa i nostri connazionali»  SASSARI. È davvera finita. La storia da incubo del mago sardo degli effetti speciali e del suo collega bloccati da oltre un mese in Kenya si è conclusa ieri mattina. Alle 10 il tribunale di Malindi ha scagionato i cineasti dalle accuse per le armi false sul set di «African Game» accogliendo la richiesta di proscioglimento del Pg di Nairobi. «Non luogo a procedere» e caso chiuso, quindi.

Al cagliaritano Silvano Scasseddu e al romano Francesco Papa, 45 anni entrambi, sono stati già restituiti i passaporti. Con ogni probabilità arriveranno in Italia. «Siamo liberi anche grazie a Flavio Briatore, Naomi Campbell ed Emilio Fede che in queste settimane si sono battuti per noi attraverso le loro conoscenze in Kenya», hanno dichiarato i due prima di lasciare l’isola diretti verso la capitale della repubblica africana. «Ma vogliamo ringraziare in particolare il parlamentare gallurese Antonio Satta - hanno spiegato - È stato tra i pochi che ci hanno aiutato con convinzione». E proprio il vicesegretario nazionale vicario dell’Udeur si sta ora adoperando perché, im mancanza di aerei per l’Italia, tutti già a pieno carico, sia inviato dalla presidenza del Consiglio a Nairobi un velivolo che consenta l’immediato rimpatrio dei cineasti. Ma la procedura non è semplice: «Forse se si fosse trattato di nomi illustri del cinema, come già in passato, un jet sarebbe già stato disponibile sulla pista», ha rilevato Satta con amarezza.

Scasseddu e Papa hanno trascorso le ultime ore a Malindi nel Coral Key. È lo stesso villaggio vacanze che in queste settimane li ha ospitati - loro malgrado - dopo l’arresto in due distinte fasi e il successivo rilascio su cauzione. Il Coral Key è un complesso alberghiero frequentato da molti turisti, proprietà di Marco Vancini, uno dei co-produttori della pellicola al centro dell’intera vicenda giudiziaria. Vista l’imputazione iniziale (importazione d’armi: vere o false in origine poco importava perché la legge del Kenya le equipara), rischiavano dai 7 ai 15 anni di galera.
La notizia della fine del calvario dei due italiani, cominciato ai primi di luglio e inaspritosi a metà dello scorso mese, è stata ufficializzata nella tarda mattinata di ieri dalla Farnesina. Fonti del ministero degli Esteri hanno sottolineato come la svolta sia stata favorita dalla «costante e incisiva azione della stessa Farnesina e dell’ambasciata, attivate sin dai momenti immediatamente successivi al fermo dei due connazionali». In particolare, è detto in una nota, «sono stati fatti reiterati passi volti, nel pieno rispetto dell’indipendenza della magistratura locale e condotti nel più completo riserbo, a ottenere la dichiarazione di non luogo a procedere».

A confermare invece l’interessamento di Fede, Briatore e Campbell - rivelato dal sito del settimanale Tv Sorrisi e Canzoni (www.sorrisi.com) - sono stati gli stessi Scasseddu e Papa. Quest’ultimo, produttore esecutivo del film che vede come protagonista Luca Ward, è amico personale del proprietario del Billionaire. Il general manager della Renault ha vasti interessi economici in Kenya, dove fra l’altro possiede una lussuosa villa. La fotomodella sino a qualche anno fa compagna di Briatore (ora legato a Elisabetta Gregoraci), per sollecitare il rilascio dei cineasti italiani ha invece scritto perfino un accorato appello. «Fateli tornare subito a Roma», ha supplicato sulle pagine del Sunday Nation, il più letto domenicale della repubblica africana. «Tutti fattori decisivi per la nostra liberazione», hanno commentato Scasseddu e Papa, soddisfatti di poter dimenticare le vessazioni e i soprusi subìti in prigione. «Oltre Satta, sentiamo il bisogno di ringraziare l’ambasciata, gli esponenti del governo italiano e l’onorevole Nino Strano, che si sono occupati a lungo della nostra questione», hanno aggiunto.

A dedicarsi agli aspetti legali del caso, l’avvocato di fiducia degli imputati, Tukero Ole Kina. Al penalista capita spesso di assistere europei ritenuti responsabili di reati nel suo Paese. Fra loro, tanti italiani: laggiù la nostra comunità è la più numerosa fra le straniere dopo quella sudafricana. «Ma per Scasseddu e Papa è stata una persecuzione - ha dichiarato ai giornalisti l’avvocatgo - Ho richiamato l’attenzione dei giudici sul valore del film per il mio Paese. La pellicola ha prodotto un business di 600mila euro, tra guadagni, autorizzazioni, diritti. Oltre 200 kenyoti hanno trovato lavoro sul set. In definitiva, una ricaduta economica non trascurabile. E sebbene in Kenya si viva nel timore di attentati terroristici e dunque ci sia scarsa tolleranza per le armi, stavolta non c’era davvero nulla di sospetto: tutto è nato da un equivoco per l’assenza di un semplice permesso quando Scasseddu e Papa non erano ancora arrivati da Roma né a Nairobi né a Malindi».

Adesso il responsabile degli effetti speciali, con alle spalle tante pellicole di sucesso internazionale, così come il produttore esecutivo, si sono comunque detti più sereni. «Non possiamo negare, dopo i giorni del carcere e le prime udienze, di aver avuto paura - hanno sostenuto - Per quanto estranei a ogni accusa, come facevamo a essere sicuri che l’evidenza dei fatti sarebbe emersa in tutta la sua chiarezza?».
Le riprese del film sono state nel frattempo completate a Cinecittà. «Certo, senza di noi, ma il cinema è così: nessuno è indispensabile», hanno commentato lo specialista cagliaritano e il produttore esecutivo. Francesco Papa ha intenzione di tornare presto in Kenya: «Quello nel quale siamo stati coinvolti a causa della semplice mancanza di un permesso non è stato che un incidente - ha detto poco prima di partire da Malindi Qui la gente è ospitale, il paesaggio magnifico. Mi piacerebbe tornare con mio figlio per fare un safari».
(24 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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