LA-U dell'OLIVO
Novembre 01, 2024, 04:33:23 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: CESARE MARTINETTI Battisti e l'interesse nazionale  (Letto 9222 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Settembre 01, 2009, 10:54:45 am »

1/9/2009

Morire per Kabul?
   
CESARE MARTINETTI


Guardate la faccia di quest’uomo, immaginate di alzare quella benda e scoprirete che nel mondo c’è un posto dove si può essere sfigurati per aver compiuto un gesto semplice.

Un gesto semplice cui noi ultimamente ci dedichiamo con una certa riluttanza: andare a votare. Quel posto è Kabul. Vi risparmiamo un’altra fotografia, quella di questo stesso uomo senza benda: là sotto non c’è più un viso ma quel che resta dello scempio rabbioso e primitivo dei taleban. A quest’uomo, che si chiama Lal Mohammed e ha 40 anni, sono stati mozzati il naso e le orecchie. Stava andando al seggio. Non lo farà più.

Settant’anni fa il deputato francese socialista e pacifista francese Marcel Deat si chiedeva in un articolo rimasto poi famoso se avesse senso «morire per Danzica». Una domanda retorica per affermare l’esitazione e poi il rifiuto a scendere in guerra contro Hitler che si apprestava a invadere la Polonia. Il seguito lo sappiamo. Deat, non casualmente, finì collaborazionista nella Francia che rinnegò se stessa a Vichy; quell’Occidente, che non volle capire la vera natura della minaccia tedesca, perse i propri stessi fondamenti nel conflitto mondiale.

In questi anni e in questi ultimi giorni in cui gli afghani hanno avuto la possibilità di votare per scegliere il loro presidente, qualcuno si è chiesto se vale la pena morire per Kabul. La risposta è difficile, soprattutto perché per Kabul, dopo l’offensiva alleata decisa in seguito all’11 settembre, sono morti molti soldati americani, britannici e anche italiani. La retorica è facile da distribuire per noi che restiamo nelle nostre comode case. E però la storia di Lal Mohammed scoperta dal quotidiano inglese The Independent (e che trovate raccontata oggi da La Stampa) deve indurre a pensare tutti quelli che hanno fatto della facile ironia sulle elezioni afghane.

A Kabul e dintorni non ci sono soltanto le donne costrette al burqa, divenuto una delle icone del nostro tempo. Non ci sono solo i bambini mutilati raccontati dal regista iraniano Mohsen Makhmalbaf nel suo Viaggio a Kandahar. Da ieri c’è anche la fotografia del volto bendato di Lal Mohammed, contadino della provincia di Uruzgan, padre di otto figli, che la mattina del 20 agosto voleva semplicemente votare e invece ha incontrato i sicari. Taglia-nasi e taglia-orecchie in Afghanistan; tagliagole in Iraq, a Baghdad.

Come settant’anni fa, l’Occidente ha commesso un sacco di errori e anche qualche orrore. Ma non è questo, ora, in discussione. In Afghanistan, paese che ha conosciuto qualche splendore e certo un passato più libero di quanto non fosse sotto il regime dei mandanti dei taglia-nasi di oggi, si sono comunque tenute elezioni in cui due contendenti - Karzai e Abdullah Abdullah - hanno prevalso dividendosi il consenso. Ci sarà un ballottaggio. Il confronto è vero. La possibilità di scelta, per quanto difficile, esiste. È questo il valore sul quale si deve riflettere guardando il bavaglio bianco che copre il naso di Lal Mohammed. Kabul è più lontana di Danzica, ma i taleban e i loro sicari ci riguardano da vicino.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Novembre 16, 2009, 11:03:18 am »

16/11/2009

Battisti e l'interesse nazionale
   
CESARE MARTINETTI


Silvio Berlusconi incontra quest’oggi a Roma Ignacio Lula da Silva e sarebbe una bella cosa se il presidente del Consiglio italiano spiegasse al presidente della repubblica federale del Brasile che l’Italia è uno Stato di diritto dove Cesare Battisti è stato processato e condannato in base alle leggi approvate dallo Stato democratico. Leggi e procedure che sono state sempre in vigore, anche nei momenti più difficili, come negli anni del terrorismo, quando alcune di esse vennero adattate ai tempi e rese più severe. Ma pur sempre applicate da corti e tribunali ordinari.

Il presidente Lula potrebbe così serenamente disporsi a decidere sull’estradizione del terrorista italiano, un tempo pistolero dei Pac (proletari armati per il comunismo) da venticinque anni in fuga dalla condanna all’ergastolo presa per aver partecipato a vario titolo a tutti i quattro omicidi commessi da quel gruppuscolo sanguinario che ondeggiava tra l’autonomia e le organizzazioni terroristiche. Sentenze di primo grado, confermate in appello e in Cassazione. Processi veri, ai quali Battisti, latitante, non ha partecipato ma nei quali è stato difeso dai suoi avvocati da lui nominati con lettere autografe giunte ai giudici di ogni grado e giudizio.

Insomma, condanne seguite a procedure regolari.

Di cui Lula potrebbe essere informato da Berlusconi e dai suoi ministri in modo da superare le suggestioni del clima da carnevale che anche in Brasile, dopo i fasti gauchisti parigini, si è allestito intorno al carcere dove Battisti attende la decisione della corte. In quelle manifestazioni si leggono cartelli che ripetono slogan grotteschi come questo: «Estradare Cesare è modernizzare l’inquisizione». «Cesare Battisti siamo tutti noi», dicono i dimostranti. Liberi di pensarlo. Sarebbe importante che non lo pensasse il governo brasiliano che è apparso finora invece attraversato da sospetti ed esitazioni.

Per questo è importante il modo in cui il nostro governo farà sentire il peso dell’interesse nazionale italiano sull’affare Battisti. È un interesse di giustizia, nient’altro. Silvio Berlusconi non è certo il leader più indicato a far da garante del nostro sistema giudiziario, ma in questo caso il conflitto di interessi che lo contrappone ai giudici inquirenti deve cedere di fronte all’interesse politico. Lula deve essere bene informato su come si sono svolti i processi, delle accuse e delle sentenze. Deve sapere che nessun giudice italiano ha accusato Battisti di reati politici o di opinione. Ma di aver ucciso personalmente il capo della guardie carcerarie di Udine, Santoro, di aver partecipato all’omicidio del macellaio Sabbadin di Mestre mentre i suoi complici facevano il tirassegno sull’orefice di Milano Torreggiani; e infine di aver partecipato all’agguato mortale contro l’agente della Digos Campagna, colpevole soltanto di aver fatto da autista ai suoi colleghi in una retata di autonomi alla Bovisa. Azioni di atroce vendetta sociale istruite ed esaminate in un processo dove non sono stati messi sotto accusa i progetti politici di Cesare Battisti e dei suoi compagni, ma i loro delitti. Le condanne sono state decise in base a prove, testimonianze e alle confessioni dei complici.

Peraltro Battisti, fino a quando si è sentito protetto dal calore dello snobismo parigino non si era mai troppo preoccupato di negare le sue responsabilità («Mi sono macchiato le mani non solo d’inchiostro», disse in un’intervista), trasfigurandole anzi nel mito dell’intrepido sovversivo sociale che piace tanto agli intellettuali della riva sinistra della Senna. E il suo libro più noto («Dernières cartouches», le ultime cartucce) racconta con parafrasi ma anche una relativa precisione tutta l’avventura dei Pac, omicidi compresi.

Dopo averlo protetto per quindici anni, la Francia l’ha poi scaricato, a modo suo: i giudici hanno concesso l’estradizione, i servizi segreti (certo non per iniziativa propria) l’hanno aiutato a fuggire in Brasile, come lui stesso ha raccontato. La patata è ora nelle mani di Lula, l’ex operaio sindacalista diventato a sorpresa il leader del boom brasiliano. Ieri Massimo D’Alema lo ha incontrato, ma ha fatto sapere di non aver voluto parlare di Battisti con il presidente companheiro: «Non ne abbiamo parlato, perché la questione è nelle mani della magistratura che deciderà entro qualche giorno». È un peccato, perché nella cause di estradizione i giudici danno pareri giuridici, ma la decisione è sempre politica, dei governi. E D’Alema avrebbe potuto spiegare al Presidente brasiliano che la battaglia contro il terrorismo in Italia è stata combattuta da tutti, compresa la sinistra politica e sindacale. Speriamo lo faccia il governo in carica.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:49:58 am »

20/11/2009

A Bruxelles vincono Merkel e Sarkozy
   
CESARE MARTINETTI


La mancata nomina di Massimo D’Alema come Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea ci dice della debolezza dell’Italia in Europa.
Ma le designazioni del belga fiammingo Herman Van Rompuy a presidente del Consiglio europeo e dell’inglese Catherine Ashton nel ruolo che si aspettava per D’Alema ci raccontano della debolezza dell’Europa di fronte a se stessa, dell’arretramento dell’Europa politica (un tempo si diceva dell’ideale comunitario) rispetto ai governi.
Mai così plastica è parsa l’affermazione della rinnovata coppia franco-tedesca Sarkozy-Merkel nella scelta di Van Rompuy; così come inevitabile riconoscimento al peso politico di Londra è la scelta della Ashton.

L’Europa di Lisbona, quella che con l’entrata in vigore del nuovo trattato (il primo post allargamento dell’Unione ad Est) avrebbe dovuto dare regole nuove, più compattezza nell’immagine e più flessibilità nel funzionamento della macchina brussellese, parte dunque male. E, con tutto il rispetto per Van Rompuy e la Ashton, con due sconosciuti nei ruoli chiave. Parlando di Europa Henry Kissinger era solito ripetere la stessa domanda ironica: «Qual è il numero di telefono?», lasciando capire che alla Ue mancava un uomo o un ruolo di riferimento.

Guardando la fotografia e il curriculum del prossimo presidente del Consiglio e ministro degli Esteri europeo viene da chiedersi: quando Hillary Clinton dovrà parlare con l’Europa chiamerà Mrs Ashton o Frau Merkel?

Massimo D’Alema incassa una bocciatura che non contiene un giudizio sulla sua persona, ma che è il frutto di una candidatura troppo innaturale per le regole geometriche della politica europea. E l’ha ben riassunta il capogruppo dei socialisti europei al parlamento di Strasburgo Martin Schulz: «Ha pagato la debolezza di non avere dietro di sé un governo socialista». Il nostro governo, e Silvio Berlusconi in prima persona, si sono certamente battuti per D’Alema. I socialisti del gruppo Pse lo avevano designato all’unanimità. Le sole obiezioni erano state sollevate dai polacchi (e forse, attraverso di loro, dagli americani) e si riferivano al suo passato comunista. Ma come personale garanzia di atlantismo D’Alema poteva contare sui buoni rapporti con Bill Clinton ai tempi dell’«Ulivo mondiale» e soprattutto sul fatto di essere stato il presidente del Consiglio che aveva deciso la partecipazione italiana all’intervento armato in Kosovo.

Tuttavia quando si è trattato di decidere è parso chiaro che D’Alema non aveva chances. Il premier britannico Gordon Brown ha tenuto con convinzione fino all’ultimo minuto la candidatura di Tony Blair a presidente. Se avesse vinto, il ruolo di ministro degli Esteri sarebbe toccato a un conservatore; se avesse perso - com’è stato - questo posto era irrimediabilmente inglese. Così vanno le cose in Europa: la risultante dell’equilibrio di due fattori, il peso degli Stati e l’appartenenza a una delle due famiglie politiche, popolari-conservatori e socialisti-progressisti. D’Alema apparteneva alla famiglia sbagliata (quella socialista che inevitabilmente, respinto Blair, sarebbe stata espressa da un inglese) ed era sostenuto da un governo conservatore. Un esercizio di alta acrobazia che difficilmente poteva riuscire.

Il risultato è un sigillo alla debolezza del peso italiano in Europa e negli organismi internazionali. Abbiamo soltanto un vicepresidente della Commissione europea. Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è in pole position per succedere al francese Trichet alla banca europea. Ma si deciderà fra due anni. Più vicina la discussione su chi dovrà succedere al lussemburghese Jean-Claude Juncker alla guida dell’Eurogruppo. E qui ha buone possibilità Giulio Tremonti. Non è da escludere che Berlusconi abbia giocato - e perduto - la partita D’Alema per sparigliare nella politica italiana, ma soprattutto per acquistare un credito sul tavolo europeo per il suo fedele ma spesso scomodo ministro dell’Economia.

Ciò che appare davvero chiaro in questo giro è che dopo due anni di diffidenza reciproca Nicolas Sarkozy e Angela Markel hanno trovato il passo per ricostruire l’asse franco-tedesco. La cancelliera ha raccontato ieri in un’intervista a Die Zeit che nel corso del loro ultimo incontro il Presidente francese le ha regalato una copia degli appunti che il generale De Gaulle aveva preso nel primo incontro avuto con il cancelliere Adenauer nel 1958. Un cadeau altamente simbolico sul quale i due leader stanno costruendo un dialogo che ricorda molto più quelli del passato (non solo De Gaulle-Adenauer, ma soprattutto Mitterrand-Kohl) che quello recente tra Chirac e Schroeder, culminato nella rottura dei rapporti atlantici con l’amministrazione Bush. Sarkò e la Merkel intendono invece avere una via di comunicazione diretta con Washington. Le loro scelte europee lo confermano.

Ma in questa Europa più intergovernativa che comunitaria, dove sta l’Italia? Subalterno alla coppia franco-tedesca nell’epoca d’oro dell’asse, il governo guidato da Silvio Berlusconi non ha esitato a schierarsi con Blair e Aznar nell’epoca di ferro quando la vecchia Europa si è spaccata nel sostegno a Bush. E ora? La velleitaria avventura della candidatura D’Alema sembra dire che non stiamo da una parte né dall’altra.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:52:14 am »

26/1/2010

La spocchia di Sarkò e le debolezze italiane
   
CESARE MARTINETTI


Nicolas Sarkozy compie un’altra delle «ruptures» al consolidato galateo diplomatico dei suoi predecessori secondo cui il presidente della République non dava giudizi sulle politiche interne degli altri governi, specie se amici. E invece, ieri sera in tv, Sarkò, forse con il pensiero ancora rivolto ai fatti di Rosarno, che molto hanno impressionato i media francesi, ha detto che la Francia non si troverà «disarmata di fronte a un fenomeno di sbarchi di migranti come ne ha conosciuti l’Italia». Se la Francia non sarà «disarmata» significa che l’Italia lo era.

Ecco, la puntura avvelenata che ci arriva dal paese delle cinquanta banlieue considerati territori «perduti» alla legalità repubblicana e dove in ogni weekend si incendiano, per gioco e per rabbia, centinaia di automobili.

Ma l’uscita di Sarkozy va contestualizzata alla circostanza cui i francesi si sono trovati di fronte e alla quale non sono abituati. Su una spiaggia nel sud della Corsica, vicino a Bonifacio, sono sbarcati clandestinamente centoventitré curdi, 81 adulti, gli altri bambini e ragazzini, tra le donne alcune incinte. Tradotti in centri di «ritenzione» i profughi si sono visti subito recapitare un foglio di riaccompagnamento alla frontiera firmato dai prefetti. I giudici della libertà, però (non è solo in Italia che i poteri dello Stato si contraddicono) li hanno rimessi in libertà. Ora - ha garantito ieri sera Sarkozy - saranno curati e assistiti. Coloro che avranno diritto all’asilo, lo avranno; gli altri rispediti a casa.

Il «fenomeno» che tanto ha colpito i francesi potrebbe essere frutto dei respingimenti in mare effettuati da qualche mese dalle autorità italiane e quindi una prova della loro efficacia. L’annuncio di Sarkozy potrebbe anche non avere nulla di polemico ed essere soltanto rivolto a rassicurare i francesi che ancora hanno negli occhi le sconvolgenti immagini di Rosarno. Probabilmente non ci sarà nessuna crisi diplomatica tra i due Paesi. Però sono battute che lasciano l’amaro in bocca agli italiani. Per dover subire quella spocchia parigina di dar sempre lezioni agli altri dimenticando i propri abissi nelle politiche di integrazione. Perché quando si parla di Italia è quasi sempre in chiave caricaturale, buffonesca, drammatica.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:03:37 pm »

20/6/2011

Disperso in Libia il generale Sarkozy

CESARE MARTINETTI

Chi ha visto il generale Sarkozy? A tre mesi dall’inizio delle operazioni in Libia il presidente appare disperso in battaglia.
L’Eliseo ha celebrato sabato il 71° anniversario dell’appello di De Gaulle alla Francia occupata: «La fiamma della resistenza francese non si spegnerà...». Ma dell’altro anniversario, nessuna notizia.

Più ravvicinata e più modesta, anche la campagna contro Gheddafi era cominciata con un proclama: «Accompagniamo la Libia verso un nuovo avvenire...». Sono passati novanta giorni e non si è detto una parola. Sul sito dell’Eliseo (www.elysee.fr) campeggia tuttora una grande foto del vecchio De Gaulle. E del «generale» Sarkozy non c’è traccia.

Eppure il presidente francese s’era lanciato da tempo in un forcing diplomatico irresistibile. Mentre i «Mirages» da giorni scaldavano i motori nella base di Solenzara (alta Corsica), fin dal 24 febbraio la Francia aveva chiesto una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, quello stesso giorno monsieur le président ne aveva parlato al telefono con Obama, tre giorni dopo con il premier inglese Cameron e subito dopo con il presidente Ue Van Rompuy. Il Consiglio europeo si riuniva finalmente l’11 marzo, il 17 il consiglio di sicurezza dell’Onu approvava la risoluzione n. 1973 in difesa della popolazione civile libica.

Il 18 marzo Sarkozy è finalmente in condizione di indirizzare un «messaggio molto chiaro» al colonnello Gheddafi parlando a nome di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e con il sostegno dell’emiro del Qatar: «Siamo pronti ad usare tutti i mezzi necessari, in particolare militari, per bloccare l’azione criminale e assassina del governo libico contro il proprio popolo... È nostro dovere intervenire». Cominciano i raid aerei. Il 22 Sarkozy fa un blitz a Solenzara per congratularsi con i piloti impegnati negli attacchi che, dichiara, «hanno già permesso di limitare il numero di vittime civili». Poi chiama Obama al telefono per «fare il punto». Il 24 il presidente francese comunica al Consiglio europeo che gli Emirati Arabi si sono uniti alla coalizione. Il 28 marzo, riuniti in videoconferenza, Sarkozy, Cameron, Obama e una riluttante Angela Merkel si esprimono a favore della «transizione politica» in Libia. Intanto la Francia è il primo Paese a riconoscere il governo «ribelle» di Bengasi: il ministro degli Esteri Alain Juppé lo annuncia al suo primo manifestarsi dalla piazza cairota di Tahrir e il «presidente» Jalil viene ricevuto con una certo solennità all’Eliseo.

Sono passati, appunto, tre mesi e il dossier libico è praticamente scomparso dai radar dei media francesi: nulla di nuovo sul sito dell’Eliseo, silenzio sulle operazioni militari, il generale francese Abrial dal comando della Nato dice che se i combattimenti continuano si rischia di rimanere a corto di mezzi, eppure i giornali ne riportano appena la notizia. Nessuna polemica, nemmeno dall’opposizione, perché vige la regola «repubblicana» secondo cui la politica estera non è quasi mai oggetto di contesa tra i partiti. L’unica vera querelle, secondo un rito tanto caro ai parigini, è stata culturale: l’interventista pentito Claude Lanzmann (il grandissimo regista di Shoah e tuttora direttore della rivista di Sartre Les Temps Modernes) contro l’interventista convinto Bernard-Henri Lévy, ispiratore di Sarkozy. Eppure anche i socialisti hanno approvato. Nessun dibattito in Parlamento. L’ultima audizione di Juppé all’Assemblée è del 4 maggio: «Gheddafi deve andarsene...», ha detto il superministro degli Esteri. Ma Gheddafi è sempre là.

Com’è accaduto che l’astuto Sarkò rischia di impantanarsi in una nuova guerra d’Algeria? «Atavismo bonapartista», risponde Edwi Plenel, ex direttore della redazione di Le Monde ora alla guida del quotidiano online Mediapart (www.madiapart.fr), grintosissimo giornale di opposizione. Ma c’è qualcosa di più: calcolo politico, tentazione neocoloniale e naturalmente business. La Francia è stata colta impreparata dalle rivolte arabe, il ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per la sua vicinanza al tiranno tunisino Ben Ali, il primo ministro François Fillon ha rischiato la stessa fine per la prossimità con il regime di Mubarak. Lo stesso Sarkozy ha lasciato la sua firma (che Chirac aveva invece rifiutato) sul libro d’oro degli ospiti del colonnello Gheddafi a Bab Azizia: «Sono felice d’essere qui a parlare del futuro». Erano solo due anni fa e in quel «futuro» c’era Total, Alstom e Areva, petrolio, trasporti e un reattore atomico per dissalare l’acqua del mare. Ma Wikileaks ha rivelato un dispaccio con la delusione dei diplomatici francesi sul finire del 2010: «Questi parlano parlano ma non comprano mai niente».

In questo contesto le rivoluzioni arabe offrono all’Eliseo il modo di rientrare nella partita mediterranea, sfuggita all’ambizione sarkozista affermata all’inizio della presidenza di rilanciare il ruolo francese sul Maghreb. Il tam tam delle rivolte di Tunisi e del Cairo consente anche alla Francia di indossare l’abito che le si addice di difensore perenne di diritti umani dei giovani arabi, strizzando insieme l’occhio alle sue banlieues inquiete.

Un calcolo sbagliato? Vedremo. Liberatosi dall’incubo di dover affrontare Strauss-Kahn tra un anno alle presidenziali, si trova a fare i conti con il fantasma di Gheddafi. E per ora, rimesso nell’armadio il képi blanc, il generale Sarkò deve cedere le insegne all’unico vero generale transitato per l’Eliseo: De Gaulle.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8874&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Maggio 17, 2012, 05:04:16 pm »

17/5/2012 - FRANCIA

Un'anima da "duro" per Hollande

CESARE MARTINETTI

E se questo Hollande, definito un «molle», soprannominato «budino» e come tale raccontato con un po’ troppa leggerezza prima della sfida con il «bulletto» Sarkozy, fosse in realtà un «duro»? La prima mossa non è stata tenera: trentaquattro ministri, 17 donne ma non la più importante: Martine Aubry, segretaria socialista e sua rabbiosa sfidante nelle primarie, non fa parte del governo.

Madame Aubry, a giudicare dalle acide dichiarazioni rilasciate ieri sera a Le Monde , non l’ha presa benissimo. Ha detto: si sapeva che avrebbe scelto tra i suoi fedelissimi, io ho fatto la numero due del governo (con Jospin, tra il ‘97 e il 2000) non mi metto certo a negoziare un posto qualunque da ministro. Ma intanto, racconta il sito del Nouvel Observateur , si sarebbe già vendicata silurando due candidati hollandisti alle prossime legislative.

L’esclusione di Martine Aubry non è però soltanto la manifestazione di una rivalità personale, è soprattutto uno scontro politico e diventa una specie di manifesto. Aubry (che è figlia naturale di Jacques Delors, il più illustre ex presidente della Commissione europea ed anche il più importante maestro di politica di Hollande) era ed è la sinistra della sinistra del Ps, ministra del Lavoro del governo Jospin e autrice della legge sulle 35 ore che hanno segnato un’epoca. Sconfitta alle primarie, ma leale supporter nella campagna elettorale, sembrava naturalmente destinata a Matignon come primo ministro, dove invece è andato Jean-Marc Ayrault, un super riformista, un «socialdemocratico», parola che nel Ps francese non è tuttora percepita senza qualche sussulto.

Trentasei ore non sono niente, ma François Hollande le ha a tal punto infarcite di parole, simboli e gesti da aver già rovesciato quella sua immagine caricaturale di «molle». È chiaro che il neo presidente ha studiato con attenzione ogni passaggio facendo tesoro del disastro di Sarkò che, al di là di altri meriti o demeriti, si è giocato il tono della sua presidenza nelle primissime ore all’Eliseo: la festa nel locale dei miliardari, la vacanza relax sullo yacht del finanziere amico, l’esibizione sguaiata di una vita famigliare esagerata, con una moglie che tutti sapevano che lo stava mollando e la passerella dei figli di primo, secondo e altrui letto. Il resto, la politica e le sue incertezze, sono venute dopo.

François Hollande ha fatto esattamente il contrario esibendo modestia e misura. Viaggia su un’auto normale ed ecologica, ha chiesto all’autista e alla scorta di rispettare i semafori nel tragitto che lo portava all’investitura al palazzo dell’Eliseo. Ma poi, qui, ha tirato fuori la grinta. Inappuntabile formalismo con il suo avversario che lasciava la carica sconfitto, ma niente di più: non lo ha accompagnato (come aveva fatto per esempio Chirac con Mitterrand) sul tappeto rosso fino all’auto. E poi, quando si è trattato di citare i predecessori, Hollande ha avuto una parola buona per tutti (compresi gli avversari Giscard e Chirac), per Sarkò invece semplicemente un gelido augurio per «la sua nuova vita».

E non si può dire che sia arrivato impreparato a quel discorso. Nel libretto pubblicato all’inizio di quest’anno («Changer de destin», editore Robert Laffont) si imparano un sacco di cose su François Hollande. Mentre giornalisti un po’ sbrigativi si chiedevano come avrebbe potuto affrontare, lui così «molle» il ciclone Sarkozy, il candidato presidente raccontava che nulla di casuale c’era in quell’appuntamento: «Tutta la mia vita mi ha preparato a questa scadenza... È stata una lunga strada, intrapresa molto tempo fa e che arriva oggi alla sua destinazione...».

Una determinazione e una sicurezza che si sono subito viste all’opera. Anche nell’omaggio a Jules Ferry, il «padre» della scuola pubblica e gratuita, ma anche controverso sostenitore del colonialismo. Hollande non l’ha nascosto, ma ha voluto ribadire che l’Éducation Nationale è uno degli obiettivi principali della sua presidenza.

Esclusa la Aubry, nel governo sono rappresentate le varie anime della sinistra, ma nei posti chiave ci sono i suoi fedelissimi, riformatori dichiarati. Ayrault primo ministro, Manuel Valls all’Interno, Michel Sapin al Lavoro, Pierre Moscovici (che era l’uomo di Strauss-Kahn) all’Economia, Laurent Fabius (ora il più anziano ma che fu il più giovane primo ministro della storia francese con Mitterrand) agli Esteri. Eta media dei ministri 52 anni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10115
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Giugno 07, 2012, 10:38:06 am »

6/6/2012 - ELELZIONI

Il sistema francese alla prova del populismo

CESARE MARTINETTI

Gli amanti del genere si guardino da vicino il duello tra Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, la nera e il rosso, estrema destra contro estrema sinistra, finalmente l’una contro l’altro, senza maschere né mediatori.

Il bello del sistema francese, crudo e definitivo, ma anche doppiamente paradossale: Le Pen e Mélenchon sono i due sconfitti delle presidenziali e i due estremi di un sistema ritenuto virtuoso perché capace di tagliare gli opposti estremismi.

C’è della sociologia, della storia e dell’architettura costituzionale in questo duello che val la spesa guardare da vicino.

Proprio perché da noi, in Italia - sia pur nella «babele concettuale» descritta ieri su «La Stampa» dall’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo - è di questo che si sta discutendo per riscattare la politica via riforme. Una legge elettorale a doppio turno - alla «francese» - per relegare nell’archivio degli orrori quel «porcellum» concepito da leghisti e berlusconiani per blindare la loro complicità e che invece, alla fine, ha perduto i suoi stessi padri producendo una classe politica mediocre e servile.

Nel profondo Nord francese, invece, nel collegio di Hénin-Beaumont, vecchio bacino minerario, un tempo feudo politico del Pcf ora terreno di conquista per l’erede del duce collaborazionista, va in scena la sfida più simbolica del modello francese, l’antiporcellum. Il risultato del duello - che, va detto, è del tutto inedito anche in Francia - ci dirà quanto il modello sia davvero un modello, se sia cioè in grado di resistere all’assalto di quella che in Italia chiamiamo «antipolitica» (lì rappresentata dai due sfidanti, a loro modo entrambi «antisistema») o se invece - come molti sostengono a Parigi - sia necessario ammorbidire il modello maggioritario con una quota di proporzionale.

Riassumiamo. Il sistema elettorale francese si svolge in due turni. In ogni collegio i partiti presentano un candidato, quindi gli elettori scelgono una persona su sei-sette in lizza. Passano al secondo turno i candidati che ottengono il 12,5 per cento sul totale degli aventi diritto. In genere sono due: uno di sinistra e uno di destra (in Francia non usa l’ipocrisia lessicale di «centrosinistra» e «centrodestra»). Ma è possibile che siano tre. In passato avveniva rarissimamente, il Front National di Le Pen non arrivava a tanto e di fatti non aveva alcun deputato all’Assemblée: il partito viveva sull’inerzia delle presidenziali e sul manipolo di eletti nei consigli dipartimentali e regionali dove il sistema è proporzionale.

Alle ultime presidenziali però Marine Le Pen ha preso più del 35 per cento nel collegio di Hénin-Beaumont dove il Front (un partito costruito su una complessa ragnatela famigliare) grazie all’ex marito di Marine ha allestito una specie di santuario. Qui sembra ora possibile ciò che sembrava impossibile: un deputato del Front all’Assemblée. Madame Le Pen ha il ballottaggio a portata di mano. È di fronte a questa eventualità che scende in campo Jean-Luc Mélenchon, ex socialista e neo leader del Front de Gauche, la sinistra della sinistra.
Mélenchon, che alle presidenziali ha preso l’11 per cento e s’è subito dichiarato per Hollande al secondo turno, scavalca i socialisti e getta lui la sfida a Marine. Il Front ha attirato un altro Front: estreme contro estreme.

Ma ci sarà qualcuno in mezzo? La segretaria dei socialisti Martine Aubry l’ha subito definita la sfida dei perdenti (tutti e due hanno «perso» alle presidenziali) e confida che i due si annullino nel triangolare in cui il terzo incomodo sarà il socialista Kemel. Vedremo. Quello che interessa, in prospettiva nostra, è la prova del modello. Secondo i sondaggi Madame Le Pen vincerà al primo turno, ma perderà al ballottaggio con Mélenchon. Ma ci voleva davvero un estremista di sinistra per battere l’estremista di destra? Tradotto in italiano: Sel contro Grillo? (Il quale non è definibile «destra», ma insomma tanto per capirci). E in Francia: il modello che appare così perfetto e che finora ha tagliato gli estremi assicurando governabilità, resisterà all’assalto dell’estremismo e del populismo, vera novità montante nell’Europa che ha perso fiducia in se stessa? Questa è la sfida di Hénin-Beaumont.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10194
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Novembre 21, 2012, 04:00:07 pm »

Editoriali
21/11/2012

Lo spread della Grandeur salva Hollande

Cesare Martinetti


Ma perché la Francia può venire brutalmente declassata, precipitare nella considerazione delle agenzie di rating e degli analisti finanziari e non succede mai nulla? Perché le Borse cedono appena qualche decimale, ma lo spread resta solidamente ancorato a valori (62 contro 344, dati di ieri) che noi non ci sogniamo neanche? Perché c’è uno spread che uno ce l’ha o non ce l’ha e come il coraggio nessuno se lo può dare.
È lo spread della grandeur che vuol dire innanzitutto avere una grande idea di se stessi, al di là di tutte le divisioni, i partiti, le polemiche, gli interessi. 

 

Hai un bel mettere Mario Monti al governo, ma ci vuol altro, l’Italia resta l’Italia, le cancellerie d’Europa fanno il tifo per un Monti bis, ma intanto si chiedono cosa succederà quando questo governo se ne andrà. La Francia no. Cade Sarkozy, arriva Hollande, cade la destra di governo precipitando in un parapiglia da far invidia a un partito italiano e sale il Partito socialista che fu sì di Mitterrand ma anche del trotzkista Jospin, eppure lo spread resta stabile. 

 

E il giorno dopo il clamoroso declassamento di Moody’s, Najat Vallaud-Belkacem, ministro portavoce del governo, con la sua faccia pulita da ragazzina studiosa, può serenamente dichiarare: “La Francia resta un valore sicuro”.

 

D’altra parte il 3 gennaio scorso a Madrid, poche ore dopo il declassamento di Standard&Poor’s, interrogato in conferenza stampa sulle conseguenze che ci sarebbero state sull’economia francese, il presidente Nicolas Sarkozy rispose con un irresistibile: «Non capisco la domanda». Ieri mattina, dopo il nuovo declassamento di Moody’s, il ministro dell’Economia Pierre Moscovici, ex braccio destro di Dominique Strauss-Kahn, non ha battuto ciglio: «Prendo atto, ma la fiducia degli investitori nei nostri confronti non è in discussione». Infatti per titoli a dieci anni, noi dobbiamo pagare il 4,9 per cento di interessi, i francesi appena il 2,2. Per quelli a breve il loro interesse è addirittura vicino a zero. 

 

Eppure, a prendere in mano le cifre che danno la misura della realtà, ci sarebbe di che preoccuparsi. Per non apparire parziali, prendiamo Le Monde di oggi. Il deficit è del 4,5 per cento del Pil, ma all’inizio dell’anno è arrivato anche vicino al 7 per cento (dovrebbe essere al di sotto del 3). La bilancia commerciale era positiva nel 2002, poi ha preso a degradare fino ai 73 miliardi di rosso di adesso. La crescita è stata dell’1,7 per cento ancora l’anno scorso, ora dello 0,2. La disoccupazione ha superato il 10 per cento. Il debito è cresciuto di ben 8 punti in soli due anni: ora è al 90 per cento del Pil, in una crescita che pare inarrestabile. 

 

La settimana scorsa l’Economist, la bibbia dei liberali inglesi, severissimo censore dei cattivi governi (memorabili le battaglie contro Berlusconi), ha dedicato un dossier alla Francia aperto da una copertina di macabro humour: un fascio di baguettes tenute insieme da un nastro bianco-rosso-blu come candelotti di dinamite con una miccia accesa. Il titolo: una bomba a orologeria nel cuore dell’Europa. Un dossier simile l’Economist l’aveva già fatto in primavera, poche settimane prima del voto presidenziale che avrebbe condannato Nicolas Sarkozy.
Allora sembrava un bilancio – molto negativo – dei cinque anni di governo della destra. Oggi, cambiato l’inquilino dell’Eliseo, il dossier del settimanale inglese è una valutazione di come Hollande e il governo guidato dal primo ministro Jean-Marc Ayrault hanno reagito alla crisi
dell’euro. E il giudizio è ugualmente negativo. La manovra finanziaria non convince, alcune misure-simbolo, come l’abbassamento dell’età pensionabile e la promessa del presidente socialista di aumentare il numero degli insegnanti (e quindi dei dipendenti statali), se fossero state soltanto ipotizzate dall’Italia avrebbero fatto immediatamente schizzare lo spread. Eppure ugualmente piccata è stata la reazione dei francesi all’attacco degli inglesi, fino alla rievocazione di antiche e caricaturali rivalità tra le due rive della Manica.

 

Ma perché se i numeri dell’economia francese sono più negativi di quella italiana, lo spread resta basso, tanto per prendere il valore diventato più simbolico delle nostre disgrazie? Le ragioni sono essenzialmente due. Innanzitutto l’economia francese è considerata strettamente legata a quella tedesca, Parigi e Berlino sono il nocciolo dell’Europa, indipendentemente da chi c’è al governo. Non si può immaginare che la Germania possa restare a galla se la Francia precipita. La seconda ragione è che, per quanto discutibili possano essere le politiche di questo o di quel governo, il sistema francese è affidabile, lo Stato (elefantiaco ma efficiente) e il sistema politico garantiscono ricambio e stabilità. 

 

Se lo spread della grandeur è per noi inattingibile (abbiamo altre virtù che non pesano sui mercati finanziari), su quello dell’affidabilità istituzionale si può lavorare. Il sistema elettorale per esempio potrebbe aiutare. Il doppio turno alla francese sarebbe umilmente da copiare anche senza l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Hollande potrà piacere o no, i suoi sondaggi potranno anche precipitare – com’è avvenuto –, ma per cinque anni nessuno metterà in dubbio la sua leadership: può scommettere sul recupero del consenso sul finire della legislatura per effetto di politiche virtuose che ora appaiono soltanto punitive e recessive. Vincerà? Perderà? Vedremo, ma intanto può governare.

 

Il dibattito italiano sulla riforma del sistema elettorale non lascia molta speranza: prima ancora che di vincere ogni partito sembra avere come obbiettivo quello di non far vincere l’avversario. E al tempo stesso di neutralizzare i fantasmi di Mario Monti e di Beppe Grillo.
Allo spread della grandeur che ci divide dalla Francia, bisognerà aggiungere quello dell’inguaribile e irresponsabile imprevedibilità.

da - http://lastampa.it/2012/11/21/cultura/opinioni/editoriali/lo-spread-della-grandeur-salva-hollande-wg5pJglMLbAxibG4Dz3vVN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Febbraio 21, 2013, 11:54:31 am »

Editoriali
21/02/2013

Se all’estero l’Italia resta un rompicapo

Cesare Martinetti


Berlusconi è come Houdini, un «illusionista», scrive il quotidiano israeliano «Yediot Ahronot». Grillo invece è certamente l’uomo «più divertente d’Italia» ma anche un «estremista molto pericoloso» sentenzia il «Financial Times». Gli stranieri che con sprezzo del pericolo osservano da vicino le elezioni italiane oscillano tra questi due interrogativi: ma davvero Berlusconi può tornare al governo?

E l’altro: Grillo chi? Un comico? La risposta alla prima domanda è un’invocazione: no, please. Alla seconda, lo sgomento: com’è possibile?  

Ecco, ci risiamo con l’Italia rompicapo, una politica incomprensibile per chi è abituato a schieramenti chiari, due, tre partiti al massimo, una lotta politica che si fa sui contenuti dei programmi, un confronto tra leader che avviene in pubblico, faccia a faccia in televisione, candidati premier che se perdono si ritirano. Tutti molto più giovani dei nostri. Obama (52 anni) ha battuto a novembre Mitt Romney che ne aveva 65, François Hollande (58 anni) ha superato l’anno scorso Nicolas Sarkozy (57). A Londra David Cameron, premier britannico, è entrato al numero 10 di Downing street a 44 anni. Angela Merkel è diventata la prima cancelliera donna della Bundesrepublik a 51 anni.

E invece, ai poveri stranieri che vogliono osservare le cose italiane tocca quest’anno un supplemento di supplizio: ancora non tutti hanno capito il fenomeno Berlusconi e già bisogna cimentarsi su un nuovo enigma italiano, Grillo.  

Lizzy Davies, inviata del «Guardian» di Londra, ha fatto un reportage nell’enigma viaggiando nel cuore dell’Emilia e la conclusione è piuttosto ragionevole: chi vota Grillo vuole «facce nuove e spera in una nuova politica». «Le Monde» definisce oggi Grillo il «saltimbanco che spariglia il gioco». Il corrispondente da Roma Philippe Ridet si lascia suggestionare dalle movenze dell’attore: «…a 64 anni appare come l’uomo solo che lotta contro una classe politica chiusa e blindata e sembra un Nettuno in giaccone bianco che sfida gli elementi».  

In America, dove il gioco si fa duro, i toni sono decisamente più radicali: Roma brucerà, l’Italia intera farà la fine della Venezia dei dogi. Sulle televisioni straniere, a differenza delle nostre, Grillo si concede, alla Cnbc, per esempio, e annuncia la rivoluzione imminente.
Il commento della Reuters è che, se queste sono le premesse, «Roma brucerà indipendentemente dai risultati elettorali, perché nessuno avrà il coraggio di affrontare i mali all’origine della crisi che ha fatto dell’Italia un’economia debole».

A conti fatti Grillo risulta più facilmente decrittabile di Berlusconi: uno è la rivolta, ma l’altro vent’anni dopo la sua scesa in campo?
Il «New York Times» scrive senza mezzi termini che un successo del Cavaliere sarebbe «un disastro per l’Italia» specie se dovesse risultare il «kingmaker» pronto a negoziare l’appoggio al governo per proteggere le sue aziende e i suoi interessi personali.  

Come spiegare a chi ha un sistema elettorale elementare che invece da noi ci si è operosamente accaniti nel renderlo non solo incomprensibile, iniquo, ma soprattutto paralizzante? È in questa trappola che è finito anche Mario Monti, uno che invece agli stranieri era risultato comprensibilissimo, e non solo perché parla ottimamente inglese, francese e tedesco. Mai un premier italiano aveva ottenuto l’unanimità di Monti al momento dell’investitura. Ma il professore ha indebolito in questa campagna elettorale il suo capitale e, riconosceva ieri un quotidiano certamente amico come il «New York Times», non è riuscito neppure a convincere gli elettori italiani.  

Può - agli occhi di uno straniero - un uomo come Monti che gode della stima unanime dei leader del G20 battersi con affanno per arrivare al 10 per cento? È in questa anomalia che, evidentemente per forzare i toni della giungla elettorale, il professore ha fatto ieri sera un’infelice battuta sulla Merkel dicendo di dubitare che la Cancelliera «voglia che un partito della sinistra vada al governo in un grande paese dell’Unione europea». In sé, è un’ovvietà, perché frau Merkel è una politica di destra e non si augura mai la vittoria della sinistra. Ma attribuire un giudizio ad un capo di governo straniero per farne un uso interno (indebolire Bersani, un avversario) esce dal galateo internazionale e consegna Monti alla tradizione enigmatica e indecifrabile della politica italiana.  

da - http://lastampa.it/2013/02/21/cultura/opinioni/editoriali/se-all-estero-l-italia-resta-un-rompicapo-3ORFKfyQtzYqrBgF72sCLP/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 10, 2015, 04:16:09 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Agosto 29, 2013, 04:23:53 pm »

Editoriali
29/08/2013

L’elmetto di Hollande

Cesare Martinetti


François Hollande torna in guerra. Il più pacioso, noioso, al momento impopolare presidente francese si rimette l’elmetto. 

 

A distanza di qualche mese appena dall’avventura – solitaria, ma felice – dell’Armée in Mali. «La Francia è pronta a punire quelli che hanno gasato degli innocenti», ha detto ieri Monsieur le président con quella solennità di cui sono capaci soltanto gli inquilini dell’Eliseo. E vien da pensare che giusto dieci anni fa – era il 14 febbraio 2003 – con uguale solennità il ministro degli Esteri Dominique de Villepin al palazzo di vetro dell’Onu, pronunciò un discorso opposto per dire no all’intervento armato contro Saddam Hussein, che pure di innocenti – i curdi – ne aveva gasati non meno di Assad. Villepin, che i giornali francesi paragonarono allora ad un eroe greco per l’eleganza del portamento e la nobiltà del discorso, disse rivolto all’America di Bush: «L’opzione della guerra può sembrare la più rapida. Ma non dimentichiamo che dopo aver vinto la guerra bisogna guadagnare la pace».

 

Al di là del giudizio di come sono poi andate le cose in Iraq (dove peraltro è riesplosa una guerra civile non dichiarata tra sunniti e sciiti con massacri quotidiani, solo ieri 57 vittime) qualcosa è certo cambiato nel modo di guardare al mondo della Francia. A Parigi non usa dividersi sulla politica estera, quando il Presidente sceglie una via, il paese nella stragrande maggioranza segue. Fu così per Chirac, presidente in carica nel 2003, e sembra che sia così anche ora. L’opposizione di destra ha definito «giusta» l’analisi di Hollande, «nella forma e nella sostanza». È singolare semmai che sia l’estrema sinistra che si oppone ad usare argomenti analoghi a quelli con i quali Villepin (la destra) disse no a Bush. Chirac divenne allora per qualche tempo l’eroe delle banlieues più estremiste ed antiamericane. Oggi Hollande viene cecchinato nei forum aperti sui giornali dagli oppositori dell’intervento in Siria come un «lacchè di Obama». Gli opposti destini di due opposti presidenti.

Alla guerra c’è poi andato Sarkozy, nel 2011, sul declinare di una presidenza tumultuosa e discussa. Il presidente francese fu di fatto il primo – subito seguito dal premier britannico Cameron – a dare il via alle operazioni militari contro Tripoli. Non gli portò molto bene, intanto perché Sarko (un po’ come Berlusconi) si era esageratamente speso prima al fianco del dittatore libico, vendendogli anche apparecchiature nucleari per uso civile. E poi perché quella libica non si può certo definire un’operazione ben riuscita, visto il caos in cui tuttora versa il Paese. 

 

François Hollande invece s’è imbarcato a inizio anno per il Mali. Decisione molto criticata che invece ha funzionato perfettamente al punto che a Bamako si sono appena svolte le elezioni e il nuovo presidente Ibrahim Boubacar Keita si è pacificamente installato al potere. Quel crogiuolo centrafricano dove Al Qaeda stava costituendo un suo territorio è stato liberato. Il riconoscimento a Hollande è unanime.

 

Per la Siria le cose sono più complicate. E in Francia, dove il presidente socialista finora ha molto deluso per i risultati e per il tatticismo che ha guidato una politica interna apparsa a tutti incerta e non all’altezza della crisi, ci si chiede ora se la nuova prova muscolare sia stata decisa proprio per occultare le difficoltà. Una strana coincidenza di tempi ha fatto sì che proprio ieri, mentre il Presidente annunciava la disponibilità all’avventura militare, il primo ministro Jean-Marc Ayrault abbia firmato una riforma delle pensioni che porterà in breve tempo a 43 anni e mezzo il periodo minimo di contribuzione per i lavoratori. 

 

Ma una nuova misura della passata grandeur tenta Parigi. Come scriveva ieri su Le Monde Martine Aubry, prima donna del partito socialista, «la Francia ha la possibilità di inventare un altro mondo». La via di Damasco per François Hollande potrebbe però rivelarsi molto stretta.

da - http://lastampa.it/2013/08/29/cultura/opinioni/editoriali/lelmetto-di-hollande-INuLkoGrjQdbmPcckoX5iP/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:15:16 am »

Editoriali
25/07/2014
Se all’Europa manca la Francia

Cesare Martinetti

C’era una volta un Paese che faceva l’Europa e quando il suo presidente prese per mano il cancelliere tedesco sui campi dove fino a qualche decina di anni prima i loro padri si erano sparati da trincee impastate di fango e di sangue (era il 1984) tutti capirono che la storia aveva davvero fatto un salto. Quel Paese appare oggi come il fantasma del suo passato. 

La Francia è incerta, lacerata, indebolita, incapace di interpretare il suo ruolo. Ma se è vero che l’Europa non dipende più da Parigi, è anche vero che è impossibile fare l’Europa senza.

Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze tedesco, l’ha detto chiaro e tondo in un’intervista di questi giorni a Les Echos e Handelsblatt con il collega francese Michel Sapin: «Noi sappiamo che riusciremo a far progredire l’Europa e soprattutto la zona euro solo se Francia e Germania esprimeranno soluzioni comuni… Dovremo trovare soluzioni comuni per 28 paesi, ma questo è possibile solo se Francia e Germania sono unite».

L’insistenza di Schauble sottolinea per l’appunto il soggetto che manca in questo momento di vita europea, mentre l’Unione galleggia in un tempo sospeso ed irreale nell’attesa che si depositi un difficile consenso a 28 sulla composizione della Commissione che da settembre prenderà in mano il governo del continente. L’Italia ha presentato la candidatura Mogherini al posto di Alto commissario per la politica estera e il destino di quest’avventura sembra di non facile soluzione. Ma il vero scontro è sulla poltrona di commissario agli affari economici e monetari, vale a dire del custode del fatidico patto di stabilità che governa l’euro e le nostre economie. I francesi vogliono quel posto per il socialista Pierre Moscovici, ministro delle Finanze di Hollande fino a quando il ciclone Le Pen ha imposto il rimpasto. Ma si può accordare quel posto al rappresentante di un paese in procedura di deficit? Parigi, in difficoltà con i conti, ha chiesto di derogare alla regola del 3 per cento fino al 2015 compreso e non sembra certo nelle condizioni di chiedere agli altri il rispetto delle regole.

I tedeschi, infatti, non ne vogliono sapere. Il cristiano democratico Schauble, irritato anche per la promessa di Juncker ai socialisti, ha detto: «Queste decisioni hanno una portata simbolica, non va dimenticato… Può essere un socialista o qualcun altro». Norbert Barthle, presidente della commissione finanze del Bundestag, è stato ancor meno diplomatico del suo ministro: «Moscovici a guardia del patto di stabilità è come pensare di cacciare il diavolo con Belzebù».

 Dove si è persa la Francia? I giornali di questi giorni rappresentano in modo plastico lo smarrimento di un paese. A Saint-Nazaire, davanti ai cantieri navali dove si costruiscono i portaelicotteri classe Mistral (22 mila tonnellate, 450 uomini di equipaggio, sedici velivoli da guerra sul ponte) venduti alla Russia con un contratto firmato da Sarkozy, una piccola folla ha manifestato contro il governo: «Se vendete armi a uno stato terrorista siete complici degli assassini». Dopo l’abbattimento dell’aereo malese in Ucraina, per quanto noto a tutti, il business degli armamenti francesi nel mondo è diventato più che imbarazzante. Il governo non commenta, il contratto con Mosca non è messo in discussione. Eppure solo un anno fa Hollande voleva dichiarare una guerra umanitaria al siriano Assad alleato di Putin.

 Ancora più scivoloso e simbolico il ritorno di un fantasma mai del tutto sconfitto, l’antisemitismo. È un vecchio sentimento sociale e culturale che fece del governo collaborazionista di Vichy il più solerte alleato di Hitler nell’inviare gli ebrei nei campi di sterminio. Un sentimento che riaffiora qua e là in ogni crisi israelo-palestinese e che si salda con un «nuovo» antisemitismo di banlieue, espresso in modo violento dai giovani immigrati e figli di immigrati ad ogni sussulto di intifada.

 Anche in questo caso il governo si è mosso in modo maldestro vietando le manifestazioni pro-palestinesi con la giustificazione di voler impedire ogni espressione di antisemitismo. Il risultato è che le manifestazioni si sono fatte lo stesso trasformandosi ovviamente in guerriglia tra polizia e manifestanti. In città «sensibili» della cintura parigina come Sarcelles negozi e luoghi gestiti da ebrei sono stati assaltati, nei quartieri e nelle cité è pericolosissimo portare la kippà, abitualmente piuttosto diffusa in Francia dove vive la più grande comunità ebraica d’Europa. Mai tanti ebrei francesi come in questi ultimi mesi hanno chiesto di emigrare in Israele.

 François Hollande è attaccato da destra e da sinistra. François Fillon, il primo ministro di Sarkozy, oggi insieme al «vecchio» Alain Juppé, la faccia più presentabile della destra repubblicana, in un’intervista a Le Monde, ha detto che il presidente socialista vive in una «bolla» staccata dalla realtà del paese. Molto più duro e urticante Edwy Plenel, direttore del quotidiano online Mediapart, che accusa il presidente di «mollettismo» e cioè di parlare la lingua della sinistra ma di condurre una politica di destra, di usare lo spauracchio dell’antisemitismo per negare l’abisso sociale delle banlieues.

 Dov’è finita la Francia che servirebbe all’Europa? Il primo ministro Manuel Valls, messo da Hollande sulla poltrona di Matignon dopo lo choc Marine Le Pen, riconosce nell’intervista di ieri al Paìs che il paese è bloccato, che manca il coraggio di cambiare e non mantiene la promessa di rompere gli schemi come un Renzi francese. Se il motore era tedesco, la guida politica – come fu nel caso della decennale e lungimirante presidenza di Jacques Delors alla Commissione – era francese. Ora all’Europa manca la Francia, ma come si fa se la Francia manca a se stessa?

 @cesmartinetti 

DA - http://lastampa.it/2014/07/25/cultura/opinioni/editoriali/se-alleuropa-manca-la-francia-hYG5NPehgZkWubCILHXiKL/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Gennaio 10, 2015, 04:14:50 pm »

Una Francia disorientata e divisa

10/01/2015
Cesare Martinetti

C’è la Francia che con il suo Presidente e i suoi politici tenta di ricostruire una corazza unitaria con la retorica repubblicana, molto nobile ma anche molto rituale. C’è un Paese dove qua e là nelle lontane province si accendono fuochi anti-islamici: qualche sala di preghiera incendiata, una piccola esplosione in un kebab, una granata inesplosa contro una moschea, colpi d’arma da fuoco contro auto di famiglie musulmane. C’è la Francia che senza preavviso e senza spiegazioni cancella dal palinsesto tv di Canal Plus un’intervista allo scrittore Houellebecq, la prima dopo la strage dei vignettisti di «Charlie Hebdo». C’è il Paese dei genitori che accompagnano a scuola i loro bambini delle materne e delle elementari e che ieri mattina hanno trovato sulle porte di ingresso un foglio con un triangolo rosso e una scritta sinistra: «Alerte attentat». 

È il Paese che ieri ha vissuto un’altra giornata di ferro, di fuoco e di sangue. I due killer di Charlie Hebdo intercettati, assediati e ammazzati nel blitz delle teste di cuoio compiuto nello stesso momento in cui a Parigi alla Porta di Vincennes, in un supermercato kasher (cioè di prodotti alimentari garantiti per gli ebrei) un altro killer veniva ucciso dopo aver commesso un’altra strage, quattro clienti. 

«E ora siamo tutti ebrei?» è stato proposto sui social networks, come sarebbe stato giusto visto il «siamo tutti francesi» o il «siamo tutti Charlie Hebdo» di mercoledì. Nessuno ha risposto, ma François Hollande, nell’appello di ieri sera in tivù, ha condannato l’attentato «antisemita».

C’è poi la Parigi dei parigini e dei cittadini di tutto il mondo, che dopo il silenzio commosso di giovedì, ha vissuto ieri una giornata isterica, scandita dalle otto ore di diretta (radio-tv-social media) prima da Dammartin-en-Goële, il piccolo Comune della banlieue, dove si consumava l’assedio ai killer, poi - dopo le 13 - dalla Porta di Vincennes. Ma anche l’allarme sparatoria al Trocadero verso le 14. E poi la chiusura temporanea di qualche strada nel quartiere del Marais, dove ci sono ristoranti e memorie ebraiche, anni fa teatro di attentati sanguinosi. Qualche linea di metro improvvisamente limitata. Una pista dell’aeroporto Charles de Gaulle chiusa perché troppo vicina a Dammartin. Il boulevard périphérique, l’autostrada urbana che circonda la città, interrotto per ore in corrispondenza della porta di Vincennes. Un traffico nervoso, caotico con una circolazione messa a dura prova dalle auto della polizia, in divisa e in «civile», quella civetta (che i francesi chiamano «banalisé») che improvvisamente sgommano illuminando il fungo blu e strillando con la sirena.

 

Questa è stata ieri Parigi dove in mattinata François Hollande ha convocato i parlamentari all’Eliseo. Per la prima volta - pur non essendo parlamentare - è andata anche Marine Le Pen che era stata esclusa giovedì dal giro di consultazioni per organizzare la grande giornata di domenica, quando è prevista la «marcia repubblicana» in difesa dei valori universali della Francia e del nostra storia. Verranno anche i premier europei: Angela Merkel, David Cameron, Mariano Rajoy, Matteo Renzi. Hollande ci sarà, era successo una volta sola che il Presidente della République scendesse in piazza, fu nel 1990, François Mitterrand, quando il cimitero ebraico di Carpentras venne profanato con simboli nazisti. Non ci sarà Marine Le Pen, l’ha annunciato lei, ponendosi come vittima: «Escludono la sola forza politica che non ha responsabilità nella situazione di oggi». E poi: «Non vado dove non mi vogliono». L’incontro con Hollande deve essere stato molto formale. Unità nazionale, ha detto il Presidente, non significa uniformità. Il Front National dei Le Pen, aveva detto il giorno prima l’organizzatore socialista Lamy, ha sempre diviso i francesi stigmatizzandoli su religione e origine geografica. Ieri Hollande ha fatto appello a tutti, senza divisioni, naturalmente anche agli elettori di Madame Le Pen.

Ma mai come ora questa sovrastruttura ideale e culturale appare debole e astratta. È come se fosse esplosa la crosta che teneva insieme il Paese. Certo, ci sono i ragazzi che portano il distintivo nero «Je suis Charlie» e alzano le matite al cielo in piazza della République. Ci sono i liceali vicini al supermercato Kasher che mentre il killer Coulibaly spara sui clienti ebrei cantano la Marsigliese dalle finestre della loro scuola. Ma c’è anche quell’immagine agghiacciante di François Hollande che per compiere un gesto distensivo decide di percorrere a piedi il percorso - peraltro brevissimo - tra l’Eliseo e il ministero dell’Interno dove deve incontrare inquirenti e prefetti. Ma tutto questo si trasforma in una messinscena abbastanza ridicola: un angolo di città svuotato da veicoli ed esseri umani che non fossero giornalisti ed operatori tv, transenne ovunque, la via del Faubourg Saint-Honoré trasformata in un set. 

È come se il mondo di Houellebecq si fosse già realizzato: «Soumission», sottomissione, il titolo del suo romanzo che è diventato incredibilmente l’emblema della settimana, dopo il forsennato battage editoriale che l’ha preceduto. Lo scenario grottesco-apocalittico di una Francia governata da un Presidente musulmano eletto anche dai partiti tradizionali per battere la Le Pen è una delle varianti caricaturali del possibile. La strage di Charlie Hebdo avvenuta lo stesso giorno del lancio in libreria del romanzo che la prossima settimana uscirà anche in Italia ha trasformato la commedia in tragedia. Si racconta che Houellebecq abbia pianto. Gli hanno messo la scorta, lui ha rinunciato a tutti gli appuntamenti fissati per la promozione. Ieri sera doveva andare in onda la sua prima intervista dopo la strage. Era stata registrata in gran segreto la sera prima. La trasmissione è stata annullata. Chi ha paura di un romanzo? E poi, soprattutto: cosa ci aspetta oggi?

Twitter @cesmartinetti 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/10/cultura/opinioni/editoriali/una-francia-disorientata-e-divisa-pEFyjI3fJbttCeIhpVjVLL/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Gennaio 30, 2015, 05:11:55 pm »

I violenti e gli errori della politica

28/01/2015
Cesare Martinetti

La sentenza del tribunale di Torino che condanna 47 attivisti No Tav a quasi 150 anni di carcere per le violenze compiute contro persone e cose al cantiere della linea ad Alta velocità in Val Susa ha almeno due pregi. 

Primo. È una sanzione non generale e generica contro un gruppo di persone, ma diretta e individuale per fatti commessi e provati attraverso filmati e testimonianze. E sei imputati sono stati assolti, a riprova del fatto che i giudici non hanno fatto di tutte le erbe un fascio. Non sono cioè state punite responsabilità collettive o politiche, non sono stati condannati «disegni» più o meno eversivi, espliciti o impliciti, non è stato sanzionato un «dissenso» popolare, ma soltanto colpevolezze singole.

Secondo. La sentenza segna la fine di una diffusa e - questa sì - collettiva sensazione di impunità che derensponsabilizzava gli individui dentro l’indistinto e mitizzato insieme della «protesta di una valle» che si è manifestata ieri nell’aula del processo quando il pubblico ha intonato «Bella ciao». È questo un aspetto non secondario della sentenza che dovrebbe aiutare il movimento popolare di protesta legittima e non violenta a espellere gli infiltrati che hanno trasformato il cantiere di Chiomonte nel simulacro di tutti gli orrori contemporanei.

Che effetti avrà? È possibile che nel mondo antagonista, quello che vive per lo scontro fisico e simbolico, colpito da questa sentenza in alcuni suoi rappresentanti, agisca come detonatore. Subito dopo la condanna di quattro che avevano dato l’assalto con le molotov al cantiere, nel mese scorso, vi sono stati i due sabotaggi-attentati alla linea alta velocità Bologna-Firenze. Difficile pensare a una semplice coincidenza temporale.

Sugli attivisti «normali» e locali è invece auspicabile che abbia almeno un effetto dissuasivo. Non solo per le condanne penali, che fanno comunque un certo effetto, benché siano tutti in libertà e possano contare sull’appello che - come dice con convinzione uno dei loro difensori - potrebbe ridurre le pene; ma soprattutto per i risarcimenti civili che cominciano a colpire i condannati. 

Questa sentenza dovrebbe infine trasmettere la sensazione che il processo di costruzione della linea al Alta Velocità Lione-Torino è incanalato su binari irreversibili. Che si discuta, che si tratti, che si decida ancora e di più sulla sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente, secondo le forme che la legge e la politica consentono. Ma che si vada avanti. Quel pezzo di ferrovia è la maglia di una trama europea che costituirà la rete di trasporto del futuro soprattutto merci, sarà il gancio di Torino e del Piemonte con una regione forte e storicamente affine come Rhône-Alpes; e naturalmente con il Nord, Parigi e Londra. Una rete approvata a Bruxelles anche dai Verdi, il loro storico leader Daniel Cohn-Bendit ne è stato un convinto sostenitore prevedendo come tutti che sarà il treno a prevalere sull’aereo nei prossimi anni.

 

Troppi ritardi, troppi ostacoli burocratici, troppe ambiguità della politica che hanno sobillato per meschino interesse elettorale legittime proteste e disagi locali, troppo assenti e lontani i governi che hanno reso in questo modo inevitabile un massiccio presidio del territorio dalle forze di polizia. Quanti scontri e quante violenze si potevano evitare. E invece è stata alimentata la crescita di una diffusa e reciproca diffidenza, si è instaurato in alcune zone della valle un clima di intimidazione mafiosa e paraterroristica nei confronti delle aziende e dei lavoratori del cantiere. Sarebbe ora che tutto questo finisse.

Stamattina, come corollario quasi grottesco, si aprirà invece il processo contro lo scrittore Erri De Luca, uno che coltiva la sua perenne per quanto stagionata aura di rivoluzionario, accusato di istigazione a commettere un reato come il sabotaggio. De Luca, negando qualunque consequenzialità tra la sua parola e gli atti dei «sabotatori», ne fa ovviamente il pretesto per definirsi colpito nella sua libertà di espressione. È un processo sbagliato che ci regalerà un martire in caso di condanna o un eroe nel caso di assoluzione, non essendo all’evidenza lui né l’uno né l’altro. Temiamo purtroppo che non sarà l’ultimo delitto commesso nel nome della Tav. 

Twitter @cesmartinetti 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/28/cultura/opinioni/editoriali/i-violenti-e-gli-errori-della-politica-1wcSLfCbSNFrcXoBjbQaNJ/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Marzo 09, 2015, 10:25:25 pm »

Sarko-Gheddafi, una storia forse inconfessabile

09/03/2015
Cesare Martinetti

È il grande mistero di Nicolas Sarkozy e forse il grande segreto dietro la caccia spietata e la fine miserabile di Muammar Gheddafi, ucciso come un cane il 21 ottobre 2011 in uno scolatoio di cemento sulla strada della sua Sirte. Unico despota arabo ammazzato peggio di un qualunque Ceausescu quando le «primavere» non avevano ancora rivelato la loro natura equivoca né erano giunte ai loro esiti paradossali.

Perché il 19 marzo 2011 Nicolas Sarkozy, il più «gheddafiano» tra i presidenti della République, ha lanciato i suoi bombardieri contro Tripoli, tre ore prima di avvertire gli alleati - come raccontato nel libro di Hillary Clinton «Hard choices» - e con al fianco il solo David Cameron?

Un’azione che ha provocato una quasi rottura nella Nato e l’ira di Silvio Berlusconi. E condizionato tutta la campagna libica con gli esiti devastanti che ora conosciamo. 

Parigi aveva certamente buone ragioni geopolitiche persino culturali per entrare in quello che appariva un sommovimento epocale. Dietro questa guerra libica c’è però anche un altro scenario che emerge dalle inchieste della magistratura ed è quello di un interesse personale di Nicolas Sarkozy nel menare una campagna che doveva portare alla distruzione delle prove di un suo grande e inconfessabile segreto: aver ricevuto un ricchissimo finanziamento da Gheddafi. Si dice addirittura 50 milioni di euro.

Ma il punto non è nemmeno la cifra – pur colossale – è che se tutto questo fosse vero significherebbe che un presidente della République sarebbe stato eletto grazie al contributo di un altro Capo di Stato (e che capo e di quale Stato...) essendone teoricamente ricattabile o semplicemente, come si dice in francese, «sous influence». Un marchio di vergogna e disonore storico per Nicolas Sarkozy.

A questo punto va detto che Sarkozy non è indagato. Siamo dunque a uno scenario suggestivo tra l’indiziario e il giornalistico. Ultimo atto - sabato - il fermo giudiziario di Claude Guéant, ex capo di gabinetto di Sarko ministro dell’Interno, poi segretario generale dell’Eliseo, poi a sua volta ministro dell’Interno. «Il cardine della sarkozye», rimesso in libertà con l’accusa di frode fiscale e riciclaggio. Guéant ha ricevuto 500 mila euro nel 2008 che lui attribuisce alla vendita di due quadri del seicentesco fiammingo Van Eervelt, appartenenti alla famiglia della moglie (ora deceduta), a un avvocato malese. Dettagli che non hanno trovato riscontri così puntuali a cominciare dal fatto che autore e quadri non giustificano una somma così elevata.

Guéant è stato l’uomo chiave della ragnatela di rapporti tra Sarkozy e Gheddafi che si infittisce a partire dal 2005, due anni prima della presidenziale vittoriosa, e che emerge cinque anni dopo, nel 2012 – a pochi giorni dal ballottaggio per l’Eliseo vinto da Hollande – dal sito «Mediapart» con le rivelazioni dell’uomo d’affari Ziad Takieddine un faccendiere libanese di fiducia del Sarko, arrestato a Bourget con un milione e 500 mila euro in contanti e subito molto loquace con i giudici.

Gheddafi è stato nel bene e nel male un personaggio chiave per Sarkozy: prima alleato, anche di immagine all’inizio della sua presidenza. Fu infatti alla moglie (poi separata) Cécilia che il colonnello regalò il ruolo di liberatrice delle infermiere bulgare detenute a Tripoli in un caso di spionaggio che sembrava insolubile. Il colonnello fu poi accolto con tutti gli onori (e i conseguenti imbarazzi) all’Eliseo con il solito contorno folkloristico di amazzoni e della tenda beduina impiantata nei giardini dell’hotel di Marigny. Fino al repentino voltafaccia che Gheddafi timbrò in quei giorni con questa sinistra profezia: «Un grave segreto provocherà la caduta di Sarkozy». Più esplicito il figlio Saif al-Islam a raid iniziati: «Abbiamo finanziato noi la sua campagna elettorale e ne abbiamo le prove».

Tutto questo precipita in un’attualità politica dove l’unica costante è ormai il consenso a Marine Le Pen e dove François Hollande – viste le divisioni della destra repubblicana guidata da Sarkozy – punta a diventare l’unico baluardo contro la vittoria possibile del Front National. La strada per il 2017 è ancora lunga e sicuramente avvelenata.

Twitter @cesmartinetti 

Da - http://www.lastampa.it/2015/03/09/cultura/opinioni/editoriali/sarkogheddafi-una-storia-forse-inconfessabile-mENcBPDg1Hm0DPs5XB2WFK/pagina.html
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!