Massimo FINI.

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Massimo Fini per l’Unità

Gentile direttore,
ho conosciuto Gaetano Pecorella quando aveva all'incirca trent'anni.
Era, insieme ad Ennio Amodio, che diventerà anch'egli un avvocato di Berlusconi, assistente di Gian Domenico Pisapia, il «grande vecchio» della Procedura penale italiana, il futuro padre del nuovo Codice, con cui mi stavo allora laureando.
Preparatissimo, serio, studioso era un enfant prodige, una speranza della giurisprudenza penale.
Bel ragazzo, interessante, era timido e introverso e soffriva precocemente di fegato cosa che gli dava un colorito olivastro.
Alla sera, dopo le estenuanti sedute in Istituto, ci fermavamo spesso a parlare davanti alla Statale di Milano, quasi sempre di cose di studio, ma alle volte, vincendo una naturale ritrosia, faceva trapelare qualche scheggia della sua vita privata che non era felice.
Di politica pareva completamente digiuno. Con Amodio, freddo, sfuggente, untuoso, una specie di Bruno Vespa «ante litteram», i rapporti erano invece puramente formali.
Gaetano Pecorella fu travolto, come tanti, dal Sessantotto.
Scoprì la politica e si mise a fare l'avvocato degli extraparlamentari.
Dio mio, com 'era di sinistra, allora, Pecorella, era «di sinistra che più a sinistra non si può», non c'era quasi nessuno più a sinistra di lui e quando lo trovava lo scavalcava.
Poi, lasciatasi alle spalle l'antica timidezza, si inebriava a parlare nelle assemblee degli studenti.
Passarono così parecchi anni.
Pecorella era gratificato dalla facile notorietà e dal fatto che il suo nome comparisse spesso sui giornali, insieme a quello di Giuliano Spazzali, di Francesco Piscopo e degli altri avvocati di estrema sinistra, ma negli ambienti dello «jure» era parecchio screditato.
Verso la fine degli anni Settanta, reincontrai Pisapia, il suo e mio maestro;
mi disse sconsolato:
«Ma Pecorella! Che brutta storia, si è perso per strada.
È intelligente, è preparato, ma gli manca il carattere».
Verso i suoi quarant'anni anche Pecorella si rese conto che mentre agitava nelle piazze e nelle assemblee, gli altri, fra cui l'odiato Amodio, meno preparati e brillanti, erano andati avanti in silenzio mentre lui era rimasto al palo.
Fu a freddo e di colpo che decise che era tempo di abbandonare gli idealismo giovanili e le difese, più o meno gratuite, degli stracciaculi della sinistra extraparlamentare e di dedicarsi a clienti più facoltosi.
Fra questi c'era Bruno Tassan Din, l'amministratore delegato del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera che, dopo aver subordinato e plagiato il giovane Angelo, si era impadronito dell'azienda, allora in piena bufera P2.
Pecorella, con cui avevo mantenuto buoni rapporti, voleva convincermi - e soprattutto convincere se stesso perché a quei tempi qualche scrupolo, o perlomeno qualche problema d'immagine, ce l'aveva ancora - della bontà etica della sua difesa sostenendo che Tassan Din era un baluardo contro la presa di potere dei partiti nel sistema dei media.
Cosa difficile da credere, soprattutto per chi come me, nel Gruppo Rizzoli-Corriere, ci lavorava e sapevo benissimo come stavano le cose e che Tassan Din pur di rimanere a galla, aveva appaltato i giornali rizzoliani ai vari partiti, l'Europeo ai socialisti di Claudio Martelli, il Corriere della Sera al Pci, il Piccolo ai democristiani e così via.
In quei giorni, essendomi recato nello studio di Pecorella perché mi aiutasse en amitiè nelle pratiche di divorzio da mia moglie, trovai, imprudentemente abbandonato sul suo tavolo, in un momento in cui lui si era assentato, un documento molto interessante:

il patto con cui Angelo Rizzoli per dieci milioni di dollari cedeva all'«Istituzione», cioè alla P2 nelle persone di Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din il controllo attraverso la «Fincoriz di Bruno Tassan Din & C.» (i C. erano, appunto, Gelli, Ortolani e Calvi) del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.

Era la prova provata che tutti, magistratura compresa, andavano allora cercando, che il «Gruppo» era in mano alla P2.

Pubblicai il tutto su Il Giorno e su Pagina.
Tassan Din mi querelò e mi chiese 50 miliardi di danni, ma, travolto, non diede poi seguito alla cosa.
Sempre in quei giorni caldissimi l'avvocato Pecorella, in visita al viceprefetto di Milano, si fece scivolare dal paltò una bobina con l' intercettazione di una telefonata di Gelli che, resa pubblica, mise fuori gioco il costruttore Cabassi che era a un passo dall'acquistare il Gruppo Rizzoli-Corriere.

Se Cabassi fosse diventato padrone del "Corriere", Tassan Din ne sarebbe stato definitivamente estromesso.

Sull'episodio l'Ordine degli avvocati di Milano aprì un procedimento disciplinare a carico di Gaetano Pecorella:
il diritto del difensore a tutelare il suo cliente non si estende infatti a quello di eventualmente delinquere con lui.

Finita l'epopea Tassan Din, Pecorella vivacchiò per alcuni anni senza infamia e senza lode.

L'ex speranza della giurisprudenza penale italiana sembrava destinato a chiudere la sua poco brillante carriera nell' anonimato.

Ma passò il treno di Berlusconi e l'ex avvocato della sinistra vi saltò sopra nonostante il Cavaliere rappresentasse in tutto e per tutto l'esatto contrario dei suoi ideali, o piuttosto delle sue smanie giovanili.

A Berlusconi deve i fasti della sua vecchiaia:
l'ha cooptato nel suo sterminato collegio di difesa, dove Pecorella ha finito per far fuori il rivale Amodio che vi si era accasato prima, lo ha portato in Parlamento, gli ha dato la presidenza della commissione Giustizia della Camera.
Da quando si è fatto berlusconiano l'ho incontrato una sola volta, a una trasmissione, mi pare, di "Telelombardia".

Mi venne incontro tendendomi la mano, ma io voltai le spalle rifiutandomi di salutarlo.

Devo dire che mi è difficile prendere sul serio soggetti come Gaetano Pecorella, Tiziana Maiolo, Paolo Liguori, Renzo Foa, Ferdinando Adornato, Paolo Guzzanti (che quando lavoravamo insieme a l'Avanti! era anche lui uno «che più a sinistra non si può») e tutta la foltissima fairy band che è passata dalla sinistra e dall'estrema sinistra al berlusconismo e che nei Settanta mi bollava come «fascista» e adesso mi dà del «comunista».

Perché è vero che cambiare opinione è un diritto di tutti, ma è curioso che la si cambi sempre, e solo, a proprio vantaggio.

Vedo ora che l'Unità si è fatta promotrice di una campagna perché Gaetano Pecorella rinunci - o quantomeno si astenga - alla presidenza della commissione Giustizia della Camera in quanto si trova nella doppia posizione di avvocato di Berlusconi, e di presidente di un organismo che fa a favore di Berlusconi leggi che consentono al Pecorella-difensore di abbattere i dinieghi che gli sono stati opposti dal Tribunale.
Insomma, Pecorella legifera su se stesso oltre che sul suo più importante cliente.
In assenza di una legge ne fate una questione di buongusto e di decenza.
È fiato sprecato.
La sfacciataggine di Pecorella non è gratuita, ma risponde a esigenze vitali del suo «dominus».
La «legge Cirami» equivale infatti alle leggi mussoliniane del 1926 con cui il Fascismo divenne regime.
Come il Fascismo non essendo riuscito a piegare del tutto la Magistratura ordinaria creò i Tribunali speciali, così Berlusconi, non essendo riuscito nello stesso intento, si fa le leggi speciali, ad hoc, per sottrarsi al suo giudice naturale e soprattutto per guadagnar tempo (in attesa di diventare presidente della Repubblica e, senza più nemmeno il fragile filtro del capo dello Stato, di stringere ancor più il cerchio del regime) essendo ben consapevole che in nessun tribunale, fosse anche quello di Canicattì, può scapolarla poiché esiste una documentazione bancaria svizzera (400mila dollari passati nello stesso giorno da un conto estero Fininvest a un conto estero di Cesare Previti a un conto estero dell' allora giudice istruttore Renato Squillante) che lo inchioda al reato di corruzione di magistrati. E quando si arriva a questi punti le questioni di buongusto e di decenza, anche qualora il Dott. Prof. Avv. Gaetano Pecorella ne conservasse una vaga percezione, sono ormai, e da tempo, alle spalle.

Dagospia.com 12 Agosto 2002

da www.forumista.net

Admin:
BERLUSCONI IRRISO ALL' ESTERO MA AGLI ITALIANI VA BENE COSI ?

   
    DI MASSIMO FINI
Il gazzettino

Nei giorni del G8 ero in Corsica, ho comprato l’Express e sono sobbalzato. Il titolo di copertina recitava a tutta pagina: "Enquête sur le bouffon de l’Europe: Berlusconi". Era il culmine di una serie di pesantissime critiche portate al premier italiano da vari giornali europei americani, giapponesi, buona parte dei quali liberali: Financial Times, Daily Telegraph, Wall Street Journal, Herald Tribune, El Pais, El Mundo, Youmuri Shimbun, Vremia Novosti, Tagespiel, Le Monde, The Guardian, The New York Times. Poi il G8 è andato bene (nel senso che non è successo nulla di male) e Obama ha risdoganato, sul piano internazionale, Berlusconi definendolo una "leadership forte", ma i problemi posti dalla figura del Cavaliere al nostro Paese sono rimasti tali e quali. Sono quelli indicati dall’Express che, dopo il titolo irridente, si limita a farne una nuda elencazione.

1) Nel maggio del 1990, quando nessun "accanimento giudiziario" di tipo politico poteva essere ipotizzato nei suoi confronti, Berlusconi è stato dichiarato "testimone spergiuro" dalla Corte d’Appello di Venezia (aveva cioè giurato il falso in tribunale dichiarando che stava nella P2 solo da tre giorni mentre era iscritto da tre anni). Fu salvato da un’amnistia voluta dagli odiati comunisti per ripulirsi delle loro rogne (finanziamenti illeciti da Mosca).

2) Proprietario di metà del sistema televisivo nazionale, là dove in nessun Paese liberaldemocratico un uomo politico può possedere nemmeno un giornale di quartiere. Per cercare di spiegare l’"anomalia" italiana, altrimenti incomprensibile ai suoi lettori, il columnist del New York Times Robert Mackey ha scritto:
"Immaginate un mondo dove Donald Trump possedesse la NBC, fosse presidente degli Stati Uniti, offrisse a Miss California, in cambio dei suoi favori, un seggio al Senato, e sarete solo a metà per capire che cosa succede in Italia".

3) Un colossale conflitto di interessi che si estende dalla Tv all’editoria di carta stampata (è proprietario della più grande casa editrice italiana e di un importante quotidiano) al settore immobiliare, finanziario, assicurativo e persino al calcio, che Berlusconi promise di risolvere nel 1994 ma che da quindici anni sta lì e pesa come un macigno sulla vita politica ed economica italiana.
4) Una serie di leggi "ad personam" e "ad personas" per cavare dagli "impicci giudiziari" sè e i suoi amici, leggi che hanno scardinato codici penali italiani rendendo quasi impossibile il perseguimento di alcuni reati. Berlusconi è stato processato per falso in bilancio, fondi neri, frode fiscale, finanziamenti illeciti, corruzione della Guardia di Finanza, corruzione di magistrati. In alcuni casi se l’è cavata abolendo, per legge, il reato di cui era imputato, in altri con la prescrizione, ma almeno in due occasioni la Cassazione, giudicando sul processo connesso, ha accertato che il Cavaliere quei reati li aveva commessi anche se non erano più perseguibili per il decorso del tempo.

5) "Lodo Alfano" che sottrae il premier a ogni tipo di processo (anche per omicidio) fino alla conclusione del suo mandato, violando il principio-cardine della liberaldemocrazia: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
6) Sentenza di primo grado del Tribunale di Milano che ha accertato che Berlusconi ha corrotto con 600mila dollari un testimone, l’avvocato inglese David Mills, perchè rendesse testimonianze false (testimonianze che gli hanno consentito di essere assolto in altri processi).

7) Cena con due giudici della Suprema Corte che dovranno decidere sulla costituzionalità del "lodo Alfano".

8) Intercettazione delle telefonate Berlusconi-Saccà da cui si evince che il premier usa la Rai-Tv, Ente di Stato, per piazzare favorite, sue o dei suoi amici (i cosidetti casi Noemi ed escort, di cui pur l’Express si occupa, non li prendiamo in considerazione perchè le vicende private del premier, come quelle di qualsiasi altro cittadino, se non si concretano in reati, sono fatti suoi).
Domenica scorsa il Daily Telegraph, quotidiano conservatore britannico, ripercorrendo questa lista ha scritto: "In qualsiasi altro Paese Berlusconi, come politico, sarebbe morto e sepolto da tempo". Agli italiani invece va bene così.

Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it/
Uscito su "Il gazzettino" il 31/07/2009 

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di Massimo Fini 23 novembre 2010

Io dico: “Meglio la Carfagna di Guzzanti”

Posso scrivere un articolo in laude di Mara Carfagna? Ha annunciato le proprie dimissioni da ministro, dal Pdl, dal Parlamento dopo il voto sulla Finanziaria. In un Paese dove non si dimette mai nessuno, a cominciare dal “lider maximo”, e dove c’è voluto del bello e del buono per schiodare persino Scajola dalla sua poltrona, non è cosa da poco. Poi Carfagna ha fatto un po’ di marcia indietro. Possiamo immaginare le pesanti pressioni e le lusinghe del Pdl. Le auguriamo che sappia e possa resistere.

Comunque si dimetta o no alla fine, ha messo il dito su questioni serissime e fastidiosissime per il suo partito. Ha detto che in Campania “mi viene impedita la possibilità di battermi per la legalità”, ha parlato di “guerra per bande” per aggiudicarsi il termovalorizzatore di Salerno e i relativi appalti che stanno finendo nelle mani di Nicola Cosentino, indagato per collusione con i clan camorristi, ha fatto capire che il Pdl si sarebbe ridotto a un comitato d’affari. Altro che “fatti locali”, “crisi di nervi”, “capricci” come sono stati subito battezzati dai giornali del Cavaliere e dai suoi scherani fra cui si è distinto per cinismo quel fascista travestito da fascista che è Ignazio La Russa col suo latino da avvocato fallito: “De minimis non curat praetor…”.

Ma peggio di La Russa si è portato Paolo Guzzanti nell’intervista concessa al nostro Pagani. Pieno di livore per uno scazzo che Carfagna ha avuto con sua figlia Sabina che in un comizio a Piazza Navona le aveva dato pubblicamente della puttana. Era normale che Carfagna replicasse, anche duramente. Per Guzzanti le parole di Carfagna diventano invece “ignobili comunicati contro Sabina” (le parole della Guzzanti invece com’erano?). Guzzanti, padre, poi afferma di non voler fare il moralista ma trova il modo di ricordare che Carfagna ha fatto “lap dance” nelle discoteche e ha posato per fotografie osè. “C’è un certo stridore” dice “fra quelle istantanee e l’essere ministro”. Ma se fare la “lap” o posare semisvestita non erano qualità per fare politica questo valeva anche prima, quando Carfagna fu eletta in Parlamento e poi fu nominata ministro, in epoche i cui Paolo Guzzanti era ben incistato nel Pdl e non proferì parola, non obiettò nulla. In ogni caso oggi Carfagna è ministro e va giudicata come tale e non per i suoi precedenti di ragazza immagine o di valletta. E a detta anche delle opposizioni è stata un buon ministro, equilibrato.

Più avanti Guzzanti sorpassa la “questione Carfagna” e impartisce lezioni “urbi et orbi”: “Berlusconi ha disossato la dignità delle donne con lo stesso sistema con cui ha disarticolato la democrazia. I due processi sono complementari… Berlusconi è la quintessenza dell’albertosordismo nazionale. Il dramma è che la gente lo segue”. E Guzzanti ci ha messo quindici anni per capirlo? E chi, se non Guzzanti, ha seguito Berlusconi in questi quindici anni scrivendo, sul “Giornale”, articoli di una lascivia laudatoria che non trovano uguali nemmeno durante il fascismo. Del resto ai pezzi su commissione sembra avere una certa abitudine. Racconta lui stesso che un giorno gli telefonò il direttore di “Panorama”, Pietro Calabrese, chiedendogli un articolo elogiativo sulla povera Carfagna perseguitata a causa della sua bellezza. “Mi prestai ed eseguii il compitino”. È giornalismo questo o è un mestiere più simile a quello di “Betulla”? Uno che in gioventù ha militato nel Psi, che in seguito è stato craxiano (il che non vuol dire essere stati socialisti, cosa che vale anche per Giuliano Ferrara), quindi berlusconian-cossighiano (un mostro bicefalo, animale quasi unico nella fauna politica), per poi lasciare il Cavaliere per motivi che hanno a che fare più che altro con la sua diletta figliolanza e scoprirsi alla fine liberale, non può dare lezioni di nessun tipo. Tantomeno di morale.

Carfagna mi sembra intellettualmente più onesta. Ha ammesso: “So benissimo che la mia carriera politica è stata calata dall’alto”. E bisogna aver capito poco dell’animo femminile per non ritenerla sincera anche quando dice: “Posai per quelle foto e ne sono contenta perché i miei nipotini potranno dire: mamma mia com’era carina nonna da giovane”. Nella volgarità del Guzzanti invecchiato malissimo (da giovane, quando lavorava a “Repubblica”, è stato uno dei migliori inviati della sua generazione) questa frase diventa masturbatoria.

Non so se Mara Carfagna sia appartenuta alla “mignottocrazia” come l’ha bollata Guzzanti rimangiandosi poi tutto per timore di una querela e su diktat di quell’altro vecchio malvissuto che è Fabrizio Cicchitto. Ma a me, oggi, la vera “mignotta” mi pare proprio Paolo Guzzanti.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/23/io-dico-%E2%80%9Cmeglio-la-carfagna-di-guzzanti%E2%80%9D/78316/

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di Massimo Fini

8 gennaio 2011

Lettere dal fronte

Alle penose diatribe fra il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il generale Vincenzo Camporini, così tristemente tipiche dell’Italia di oggi, preferisco l’umanità, la sensibilità e la profondità della lettera che Matteo Miotto, l’alpino ucciso in combattimento in Afghanistan, scrisse un paio di mesi fa dopo la morte di quattro suoi commilitoni. Una lettera che sembra venire da un mondo lontano, antico, da una “razza Piave” che pur è esistita – e nel cuore e nella mente di Matteo esisteva ancora – sostituita dai La Russa e da tutto ciò che un La Russa significa.

Nella lettera, scevra di ogni retorica, di questo giovanottone veneto c’è tutto l’orgoglio per le proprie radici e la fierezza di appartenere al corpo degli alpini, ma c’è pure la consapevolezza che la stessa fierezza, lo stesso orgoglio per le proprie radici, le proprie tradizioni, il proprio modo di essere, di vivere e morire, appartiene anche al nemico afghano, al nemico talebano. Scrive Matteo: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi”. Proprio perché è orgoglioso delle sue radici, il giovane Matteo comprende che questo sentimento può appartenere e appartiene, anche ad altri popoli, ad altra gente che per difenderle è disposta a combattere e a morire. I governanti, politici e militari, dei Paesi occidentali che da dieci anni occupano l’Afghanistan si rifiutano di comprendere ciò che il giovane Matteo, con le sue solide radici, con i suoi solidi valori, non lontani, quando si chiamano fierezza, orgoglio, disposizione al sacrificio, anche estremo, da quelli del popolo afghano, ha capito benissimo. Il nocciolo della guerra afghana, a parte i loschi interessi di chi la sta conducendo, la distruzione per lucrare sul business della ricostruzione, gli aiuti fasulli, il turismo estremo delle Ong, è tutto qui.

È assolutamente inutile che i comandi politici e militari occidentali si intestardiscano nel voler “conquistare i cuori e le menti degli afghani”, perché questa gente vuole conservare i propri cuori, le proprie menti, le proprie radici, le proprie tradizioni, i propri costumi, anche se noi, come scrive Matteo “possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche”. Il fatto è che sono le loro radici e non sono disposti a cambiarle con quelle di altri, soprattutto se imposte con l’arroganza di chi si ritiene detentore di una “cultura superiore”, con la violenza, con le bombe che uccidono tutti, guerriglieri talebani, vecchi, donne e soprattutto quei bambini, cenciosi ma vitali, che Matteo Miotto osserva, pensieroso, dal suo Lince (i bambini sono il 40% dei ricoverati negli ospedali afghani). Matteo ammira questo popolo che, nonostante “i migliori eserciti, le più grosse armate” siano passate sul suo corpo, è riuscito a conservare se stesso, la propria anima.

Dall’intero tono della lettera si capisce che Matteo non era convinto che la guerra cui stava partecipando fosse giusta, che fosse giusto combattere altri ragazzi come lui (perché anche i talebani sono dei ragazzi), diversissimi in tante cose, ma con alcuni valori essenziali, prepolitici, che li accomunano: la difesa della propria identità, della propria dignità, delle proprie radici.

Non era convinto, ma da bravo soldato, da veneto orgoglioso e fiero, ha fatto il suo dovere fino all’ultimo, fino al sacrificio della vita. Come un vero alpino. Come un talebano. E sono certo che, se da qualche luogo misterioso ci può ascoltare, questo paragone non lo offenderà.

Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2010

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Un futuro spaventoso

di Massimo Fini

Si avverte in giro, sotto le rutilanti bellurie che ogni giorno ci vengono ammannite per placare la nostra ansia, un desolante “sensus finis”. Non parlo qui dell’Italia che un tempo, molti secoli fa, fu un luogo importante e oggi è ridotta a uno sputo nell’universo mondo. Parlo dell’Occidente inteso non però in senso tecnico (del resto che cosa sia realmente l’Occidente, termine inquietantemente orwelliano, nessuno è mai stato in grado di precisarlo), ma come modello di sviluppo economico e sociale che ormai coinvolge il mondo intero, da New York agli Urali alla muraglia cinese al Gange.

La grande Rivoluzione che ha cambiato la storia del mondo ha preso le mosse circa otto secoli fa proprio dall’Italia quando si afferma per la prima volta come forte classe sociale la figura del mercante (oggi detto imprenditore) fino ad allora collocata, in tutte le culture d’oriente e di occidente, all’ultimo gradino della gerarchia umana, inferiore, perlomeno eticamente, persino allo schiavo. È la Rivoluzione della percezione del tempo. Si passa dal quieto e statico presente al dinamico e allettante futuro. Lo storico Piero Camporesi esprime così, nel dualismo contadino/mercante, povero/ricco, questo diverso atteggiamento esistenziale: “L’affannoso tempo storico e lineare del mercante misurato sui ritmi della partita doppia, dei tassi di interesse e dell’investimento produttivo, non era il tempo dei contadini, serpentino, ciclico, ritmato dalle stagioni, dai soli e dalle lune… Il povero coniuga i verbi al presente, non conosce le lusinghe ingannevoli del futuro, contrariamente al ricco che costruisce strategie nel tempo tracciando precari piani e ipotetiche prospettive” (Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna).

Per otto secoli abbiamo inseguito questo futuro orgiastico con accelerazioni sempre più parossistiche che passano per la Rivoluzione industriale e l’odierna globalizzazione che ha coinvolto, per amore o per forza, anche culture che non ne volevano sapere. Ed ora questo futuro è finalmente arrivato. È qui. E si presenta sotto forme spaventose. Un modello che ha puntato tutto sull’economico, rendendo marginali tutte le altre e complesse componenti dell’essere umano, provocando stress, angoscia, nevrosi, depressione, anomia, dipendenza da ogni sorta di droga per avere la forza di tirare avanti, fallisce anche, e proprio, sull’economico. Le crisi si succedono alle crisi. E, invece di rifletterci su, vengono tamponate al solito modo: immettendo nel sistema denaro inesistente, cioè un’ipoteca su un ulteriore futuro tanto sideralmente lontano da essere solo una Fata Morgana. Ma un giorno, vicino, questo trucchetto da magliari non reggerà più. La gente, sia pur confusamente, lo avverte. Un modello basato sulle crescite infinite, che esistono solo in matematica, cioè nell’astrazione, quando non potrà più espandersi imploderà su se stesso provocando una catastrofe planetaria.

Probabilmente questo era il destino, ineludibile, di quell’arrogante specie animale che è quella umana. Elisabetta Pozzi conclude la pièce Cassandra che, col mio contributo, porterà in tournèe nei prossimi mesi, nel circuito teatrale estivo, con queste profetiche e agghiaccianti parole di Nietzsche: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo: ma tutto durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Quando tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di notevole”.

Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2011

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/02/un-futuro-spaventoso/136077/

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