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Maurizio Ferrera I rischi d’implosione del ceto medio
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Discussione: Maurizio Ferrera I rischi d’implosione del ceto medio (Letto 2513 volte)
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Maurizio Ferrera I rischi d’implosione del ceto medio
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inserito::
Maggio 03, 2009, 11:42:51 am »
SOCIETA’ ITALIANA E RECESSIONE
I rischi d’implosione del ceto medio
di Maurizio Ferrera
Sono tanti e costituiscono da sempre una risorsa preziosa per l’economia italiana. L’onda della crisi li ha già colpiti duramente e, senza contromisure efficaci, rischia addirittura di travolgerli come categoria sociale. I piccoli produttori sono in fibrillazione: impauriti, arrabbiati, persino pronti ad una sorta di secessione da una società e una politica che li considerano poco e a volte sembrano accanirsi contro di loro. Questa, in sintesi, l'immagine che Dario Di Vico ha tratteggiato sul Corriere di ieri del «piccolo ceto medio»: quella galassia di micro-imprenditori, artigiani, commercianti e partite Iva che punteggia la provincia italiana e innerva il nostro sistema produttivo. Che fare? Se la galassia implode, nel modello socio-economico italiano si aprirà un vero e proprio buco nero, con conseguenze allarmanti in termini di ricchezza e stabilità. Contrastare l'implosione è però un'operazione complessa e delicata.
Non si tratta solo di varare un qualche pacchetto «dedicato» di misure anti-crisi, per salvare il salvabile. Si tratta, più ambiziosamente, di riscrivere il contratto sociale fra queste categorie e lo Stato, per rilanciare la loro funzione propulsiva sul terreno dello sviluppo, ma anche per accelerare la modernizzazione di un settore così importante per la tenuta del Paese. Fra le grandi economie occidentali l'Italia è praticamente la sola ad aver mantenuto un numero così ampio di «piccoli produttori» e ad avere anzi innescato, grazie al loro attivismo, formidabili dinamiche di sviluppo locale: basti pensare alla cosiddetta «Terza Italia» e al fenomeno dei «distretti», così ammirati e invidiati da molti Paesi nostri concorrenti.
Una decina di anni fa Bill Clinton, in visita a Firenze, pronunciò parole di elogio entusiasta nei confronti della piccola impresa e dell'artigianato italiani, indicandoli come modelli di riferimento non solo per i Paesi in via di sviluppo ma anche per alcune regioni statunitensi che avevano perso il treno dell'industrializzazione fordista. Con fatica e grande tenacia, il piccolo ceto produttivo italiano ha saputo reggere nell'ultimo decennio la nuova sfida dell'Unione economica e monetaria europea e della globalizzazione. Non tutti ce l'hanno fatta: la galassia dei piccoli ha registrato molte stelle cadenti. Vi sono però state anche numerose storie di successo, con ricadute importanti sul valore aggiunto, sui tassi d'occupazione, sul benessere e la coesione dei territori di riferimento.
Certo, il protagonismo delle micro-imprese ha avuto anche varie implicazioni di segno negativo. Ha ad esempio favorito l'emergenza e poi accentuato il dualismo del mercato del lavoro e in parte del welfare. Ha ostacolato la razionalizzazione e la standardizzazione dell'apparato tributario. Ha contribuito a generare forme di degrado ambientale e paesaggistico. Più in generale ha mantenuto in vita e per certi aspetti esasperato alcuni tratti culturali pre-moderni: il familismo «amorale», il localismo campanilistico, lo scarso civismo fiscale e così via. Ma nell'ultimo decennio aveva preso forma un percorso di graduale correzione di regole e comportamenti. Sembrava in altre parole che anche il variegato settore delle «piccole produzioni» potesse completare il guado verso la modernità, vedendo peraltro confermata la propria centralità in seno al modello economico e sociale italiano.
La crisi sta ora interrompendo questo percorso. I dati dell'inchiesta di Di Vico segnalano che per molti «piccoli» si tratta di un'interruzione traumatica e definitiva: l'azienda deve chiudere. In alcune aree del Paese potrebbe presto attivarsi un vero e proprio effetto domino di fallimenti: dopo tutto, negli altri Paesi europei il piccolo ceto produttivo fu decimato (fino a quasi sparire, come in Gran Bretagna) proprio in corrispondenza di forti recessioni. In quei Paesi, tuttavia, tale ceto non stava svolgendo in quei momenti il ruolo economico e sociale che invece esso gioca oggi in Italia. Per questo da noi è importante fare di tutto per evitare che si attivi un altro, infernale, moltiplicatore di outsiders.
Dall'inchiesta di Di Vico emerge, per fortuna, anche un segnale positivo. Fra i piccoli produttori sta nascendo una nuova classe dirigente e la gravità della crisi accelera le dinamiche di aggregazione e rappresentanza degli interessi. La richiesta più pressante è, comprensibilmente, quella di sostegni economici immediati. Ma sembra esservi anche una promettente disponibilità ad inserire tali richieste in progetti più ampi di modernizzazione e «apertura» locale (come la «Carta dei valori dei territori del Nord Ovest», redatta da artigiani e banchieri del credito cooperativo). Se governo e parti sociali (quelle «grandi») raccogliessero subito questi segnali, si potrebbe forse scrivere una pagina importante per arginare la crisi e per ridefinire obiettivi e strumenti del modello di sviluppo che il nostro Paese vuole perseguire, quando la crisi finirà.
27 aprile 2009
da corriere.it
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