LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 05:38:30 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Obama: "Mai più interrogatori alla Cia" (Dio lo protegga!).  (Letto 7197 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Marzo 07, 2009, 11:02:48 am »

Obama sarà in Europa dal 31 marzo al 5 aprile.

Non verrà in Italia
 
 
Barack Obama sarà dal 31 marzo al 5 aprile in Europa per la sua prima visita da presidente nel vecchio continente.

Si recherà nelle principali capitali ma non a Roma.

Prima tappa sarà il 31 a Londra dove il 2 aprile è in programma il G20. Il presidente proseguirà poi per Francia e Germania, chiudendo la missione il 5 aprile a Praga che ha la presidenza di turno dell'Ue.

L'annuncio è del segretario di Stato Hillary Clinton specificando che al summit Nato di Strasburgo e Kehl (3-4 aprile) Obama incontrerà riservatamente il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco, la signora Angela Merkel.

Obama, dunque, come in occasione della visita della scorsa estate da candidato, non verrà in Italia.

5 marzo 2009
 da ilsole24ore.com
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Marzo 08, 2009, 12:33:08 pm »

Il ministro degli Esteri di Mosca Lavrov dopo il cordiale colloquio con Hillary Clinton

"Apprezziamo che l'amministrazione Usa sia pronta ad ascoltare la voce degli altri Paesi"

La Russia apprezza le aperture di Obama

"E' il momento giusto per dialogo e disarmo"

dal nostro corrispondente LEONARDO COEN

 
MOSCA - "E' venuto finalmente il momento giusto". Il giorno dopo il cordiale incontro a Ginevra tra Hillary Clinton e Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri russo, il Cremlino fa sapere che giudica favorevolmente il rilancio del dialogo con Washington, a cominciare dal processo globale di disarmo. Ma allo stesso tempo non si sbilancia troppo sulla questione dell'Iran: "Il trattato di non proliferazione consente ai Paesi membri l'utilizzazione del nucleare per scopi civili", ha infatti dichiarato Lavrov durante il suo intervento alla Conferenza Onu sul disarmo. Il che non è proprio ciò che gli americani avrebbero voluto ascoltare.

E tuttavia, sia la Clinton che Lavrov hanno detto di voler dare nuovi e concreti impulsi alle relazioni russo- americane: entrambi hanno definito il loro primo incontro bilaterale un negoziato "molto produttivo". Lavrov ha avuto parole di elogio per la Casa Bianca: "Apprezziamo che l'amministrazione Obama sia pronta ad ascoltare la voce degli altri Paesi", mentre la Clinton ha ribadito che un'alta "priorità" per gli Stati Uniti è raggiungere entro la fine dell'anno un nuovo accordo sulla limitazione degli armamenti strategici offensivi (lo Start-1, firmato nel 1991 è in scadenza il 5 dicembre). Clou del colloquio, l'Iran. Il segretario di Stato Usa ha sottolineato come Washington non sia ancora pronta a rinunciare alle sanzioni antiraniane mentre Lavrov ha ricordato che la cooperazione tra Mosca e Teheran è inserita in una cornice "legale" e che la Russia vende all'Iran solo armi "difensive". L'Iran è un partner, e Mosca non vuole che si trasformi in un avversario.

Più o meno i concetti che Lavrov ha ribadito oggi a Ginevra davanti ai delegati della Conferenza Onu sul disarmo. Ma c'è stata una piccola mossa a sorpresa, a dimostrazione del salto di qualità nei nuovi rapporti bilaterali tra Russia e Stati Uniti. Lavrov ha letto un messaggio del presidente Medvedev, centrato proprio sul rilancio del processo globale di disarmo, in cui il presidente russo dice di essere "aperto al dialogo e pronto a negoziare con la nuova amministrazione Usa". Scrive Medvedev: "Il futuro accordo Start-1 dovrà essere giuridicamente vincolante". Per esempio, dovrà prevedere la limitazione non soltanto degli ordigni ma anche dei sistemi di fornitura e dovrà soprattutto escludere la possibilità di dislocare armamenti offensivi strategici al di fuori dei territori nazionali (chiaro riferimento allo scudo antimissile in Europa Orientale). Secondo Medvedev, i negoziati per lo "sradicamento" della minaccia nucleare possono "contribuire al miglioramento generale delle relazioni tra Stati Uniti e Russia".

Per il capo del Cremlino, il trattato in scadenza ha comunque "giocato un ruolo storico nel garantire la stabilità strategica e la sicurezza, nella riduzione degli arsenali degli armamenti strategici offensivi. In seguito alla sua realizzazione il mondo è diventato più sicuro".

Oggi, continua Medvedev, "ci troviamo di fronte alla insistente necessità di andare oltre, sulla via del disarmo nucleare". Intanto, "le parole non siano separate dai fatti", ammonisce Mosca, cominciamo a sottoscrivere un trattato che metta al bando i test atomici. Dopodiché, poniamo fine alla "militarizzazione dello spazio" (e qui nel mirino del Cremlino non c'è solamente l'America ma pure la Cina). Insomma, Mosca non rinuncerà alla sua sfera d'influenza e non muterà di punto in bianco la sua politica estera (non a caso Lavrov ha ripetuto l'appello alla denuclearizzazione del Medio Oriente (in realtà, nel mirino russo c'è Israele).

Cauti, infine, i commenti dei politologi russi: "Washington continua a considerare la Russia suo concorrente geopolitico - osserva Vjaceslav Nikonov, presidente della fondazione Politika e membro del Consiglio Sociale della Federazione Russa - ma l'atmosfera dell'incontro Clinton-Lavrov è stata abbastanza positiva e promette bene per lo sviluppo del dialogo".

(7 marzo 2009)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Maggio 10, 2009, 06:11:45 pm »

2009-05-10 11:59


OBAMA, NEI PROSSIMI 100 GIORNI PENSO PERDERO' LA CALMA


 WASHINGTON - "Cosa farò nei miei prossimi cento giorni? Sto seriamente considerando di perdere la calma...": questa una delle tante battute che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha fatto ieri sera nel corso della tradizionale cena della Casa Bianca con i corrispondenti. Insieme alla moglie Michelle, Obama ha ringraziato la stampa per la funzione "fondamentale" che esercita per la tenuta della democrazia. Ma, come da tradizione, ha approfittato della atmosfera giocosa della serata per qualche battuta di spirito, prendendo in giro amici e avversari. E se stesso, quando ha riconosciuto di fare troppo spesso ricorso al teleprompter, il sistema di lettura che lo aiuta a pronunciare i suoi discorsi. "Questa sera parlerò a braccio" ha detto, e ha fatto comparire per scherzo due finti 'gobbi'. Per poi parlare davvero a braccio, aiutato soltanto da alcuni appunti sui quali aveva scritto alcune battute.

 "Non vedo Dick Cheney tra noi questa sera - ha detto riferendosi all'ex vicepresidente degli Stati Uniti, tra i più critici nei confronti della nuova amministrazione -.
Credo sia impegnato a scrivere il suo libro di memorie. Si intitola: 'Come sparare agli amici e interrogare la gente''. Battute anche nei confronti di Hillary Clinton, "una persona di cui sono stato avversario durante la campagna elettorale ma che ora sento tra le più vicine nella amministrazione", nei confronti del vicepresidente Joe Biden, del capo dello staff della Casa Bianca, Raham Emanuel, del portavoce Robert Gibbs.

Al di là delle battute, Obama ha riservato una parte del suo intervento per ringraziare la stampa e sottolineare l'importanza che ha per la tenuta della democrazia il lavoro dei giornalisti. "So che sono tempi difficili per molti di voi, che ci sono grandi giornalisti che stanno perdendo il lavoro a causa delle difficoltà del settore - ha detto Obama -. Sono tempi di rinnovamento tecnologico, di cambiamento. Ma ci tengo a dire che il vostro servizio è essenziale per la tenuta della democrazia. L'ipotesi di un giorno in cui non vi sia una forte critica nei confronti del governo non è un'opzione contemplata per gli Stati Uniti d'America. Voi - ha aggiunto, tra gli applausi dei tanti giornalisti presenti - a volte peccate di approssimazione. Ma ogni giorno ci aiutate a renderci conto della complessità del mondo in cui viviamo. Questa è una stagione di rinnovamento e di cambiamento. Per questo, sinceramente, vi offro il mio ringraziamento e il mio supporto". 

da ansa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:32:14 pm »

15/5/2009 (6:45)

Obama: "Tornano i tribunali militari"
 
Il presidente li aveva bloccati appena eletto: «Guantanamo non chiuderà»


WASHINGTON

L’annuncio ufficiale sarà dato oggi, ma responsabili dell’amministrazione statunitense lo hanno anticipato parlando a condizione di anonimato, in attesa che siano precisati i particolari: tornano i tribunali militari a Guantanamo. Lo ha deciso Obama, dopo aver criticato George W. Bush durante la campagna elettorale e dopo averli bloccati appena eletto presidente.

I tribunali militari giudicheranno un piccolo numero di prigionieri della base statunitense nell’isola di Cuba, ai quali sarà garantita una protezione giuridica migliore di quella assicurata in precedenza. Barack Obama aveva ordinato il blocco di queste corti marziali poche ore dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, in gennaio, in attesa di una riforma del loro funzionamento. Tuttavia, non aveva rinunciato a perseguire i presunti terroristi. La decisione, che sarà ufficializzata oggi, non mancherà di suscitare critiche. Alcune organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo hanno già protestato per il passo indietro del presidente sulla pubblicazione delle foto di tortura di prigionieri in Iraq e in Afghanistan.

Dopo avere promesso la massima trasparenza, sia in campagna elettorale che al suo arrivo alla Casa Bianca, il presidente Usa ha dovuto prendere nelle ultime settimane una serie di decisioni che hanno messo in discussione il suo precedente impegno e provocato alcune imbarazzanti inversioni di rotta. A gongolare sono i repubblicani e in particolare l’ex vicepresidente Dick Cheney che nelle ultime settimane aveva più volte ammonito Obama: le promesse iniziali di trasparenza potevano mettere a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. La decisione di Obama di rimangiarsi il suo assenso alla pubblicazione delle foto delle sevizie inflitte dai militari americani ai detenuti nelle carceri in Iraq e Afghanistan «per motivi di sicurezza» - esattamente la tesi di Cheney - ha fatto cadere le braccia alle organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani.

Ora il dietrofront su Guantanamo: Barack Obama ha scoperto che per risolvere il complesso problema di cosa fare dei sospetti terroristi detenuti nella base militare Usa a Cuba i tribunali speciali sono forse il male minore. Gran parte delle prove raccolte contro i detenuti sono frutto infatti di interrogatori da parte dei militari Usa che non potrebbero essere usate in tribunali normali, vincolati a tutelare anche i diritti dell’imputato. Anche la decisione più trasparente presa finora da Obama, quella di rendere pubblici i memorandum dei legali della amministrazione Bush che autorizzavano di fatto la tortura, si è trasformata in un boomerang per il nuovo presidente per la incertezza mostrata (con dichiarazioni contrastanti) sulla incriminabilità o meno degli autori dei documenti, e sulla opportunità o meno di una commissione d’inchiesta. Era stata proprio questa decisione a provocare le battute più sferzanti di Cheney che, dopo otto anni vissuti all’ombra del presidente George W. Bush, è diventato da gennaio il portavoce più visibile della vecchia amministrazione e dello stesso partito repubblicano, che non ha ancora trovato nuovi leader dopo la batosta elettorale del novembre scorso.

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Maggio 19, 2009, 12:32:33 am »

Incontro alla casa Bianca

Obama: «Serve uno stato palestinese»

Ma Netanyahu risponde di no

Il premier israeliano contrario a creare uno spazio politico e territoriale: «Solo autogoverno»


WASHINGTON - Durante l'incontro alla Casa Bianca con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Barack Obama ha ribadito l'impegno degli Usa nella soluzione dei due Stati per la pace tra israeliani e palestinesi e ha chiesto a Israele di evitare nuovi insediamenti in Cisgiordania.

GAZA - «I problemi umanitari a Gaza devono essere affrontati» ha anche detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel corso della conferenza stampa congiunta con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Israele, ha aggiunto Obama, «dovrà prendere alcune decisioni difficili».

NETANYAHU: «NO A UNO STATO PALESTINESE» - Ma questa soluzione è lontana dalle scelte di Israele, che non prende in considerazione lo spazio politico e territoriale per la nascita di uno Stato palestinese. Benjamin Netanyahu ha replicato così direttamente a Barack Obama nel corso dell'incontro con Obama. Il premier dello Stato ebraico si è invece detto invece favorevole a una forma di autogoverno dei palestinesi. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha poi aggiunto di essere comunque pronto a iniziare immediatamente colloqui di pace con i palestinesi a patto che riconoscano Israele come Stato ebraico. Il presidente Obama ha sollecitato israeliani e palestinesi «a cogliere questa opportunità e questo momento» per giungere alla pace.

IRAN - Netanyahu, come aveva detto un suo collaboratore prima del colloquio, voleva concentare l'incontro sulla minaccia iraniana. Obama ha spiegato i giornalisti di non ritenere necessaria una data limite per lo sforzo diplomatico verso l'Iran, ma che la sua amministrazione cercherà di ottenere progressi in questo senso entro la fine dell'anno. Il presidente americano ha aggiunto di non escludere «una serie di passi» contro l'Iran, comprese sanzioni, se Teheran proseguirà il suo programma nucleare. Netanyahu ha voluto rimarcare che quella iraniana è una minaccia per tutta la regione. «Non vi è mai stato un momento come questo in cui israeliani e arabi vedono una minaccia comune» ha affermato.

ANP: «OBAMA INCORAGGIANTE, NETANYAHU DELUDENTE» - Secondo l’Autorità nazionale palestinese il nuovo appello alla creazione di uno stato palestinese del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è «incoraggiante» mentre le dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sono «deludenti». «Le dichiarazioni di Obama - ha detto Nabil Abou Roudeina, portavoce del presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) - favorevoli a una soluzione a due stati sono incoraggianti, ma quelle di Netanyahu che ha ignorato tale prospettiva, negando i diritti legittimi dei palestinesi, sono deludenti».


18 maggio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Maggio 29, 2009, 03:53:40 pm »

29/5/2009
 
Il gioco cinese tra Obama e Pyongyang
 

 
GLYN FORD *
 
Lunedì la Corea del Nord ha condotto con successo il test di un’arma nucleare a base di plutonio. Pyongyang, al principio, disponeva di un quantitativo di plutonio sufficiente a produrre tra le 6 e le 8 bombe nucleari grazie al procedimento di rilavorazione delle scorie combustibili prodotte dalla centrale nucleare di Yongbyon. Una di queste è stata usata nel test precedente - solo parzialmente riuscito - che produsse un’esplosione inferiore a 2 kilotoni. Il secondo test, questa settimana, è stato 10 volte più potente, e simile, per dimensioni, alle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Pyongyang si è oggi dotata di una bomba atomica «101» ed è la nona potenza nucleare: l’ottava se, come Washington, si fa finta di credere che Israele non possieda armi nucleari e i mezzi per usarle. Il test della Corea del Nord è strettamente legato al lancio del «Kwangmyongsong 2» - il 5 aprile - che ha mostrato una volta di più l’abilità della Corea a gestire missili a lungo raggio. Era il terzo lancio di questo tipo. Il primo - agosto 1998 - volò per 1500 chilometri ma, per la mancata accensione del terzo stadio, s’inabissò nel Pacifico a 2000 km dalle coste delle Hawaii. Il secondo test - maggio 2004 - fu un fallimento plateale: il razzo esplose 43 secondi dopo il decollo. Al contrario, l’esperimento del mese passato ha visto volare il razzo molto più lontano benché il terzo stadio avesse mancato l’innesto (in teoria il missile ha una gittata tra i 3.600 e i 4.300 km, abbastanza per raggiungere le coste occidentali Usa). Quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha minacciato d’inasprire le sanzioni contro la Corea del Nord, Pyongyang ha risposto che «ognuno ha diritto a un programma spaziale». Pechino le fece eco. La Corea ha minacciato di rispondere al tentativo d’isolamento con un secondo test nucleare.

Gli esperimenti nucleari e quelli dei missili a lungo raggio, la ripresa provocatoria delle attività alla centrale di Yongbyon e ora la minaccia rivolta a Seul che ha deciso di affiancare gli Usa nel Proliferation Security Initiative (Psi), rappresentano il tentativo di Pyongyang di forzare Washington a impegnarsi nelle trattative, preferibilmente negoziati bilaterali. In seconda battuta resta la possibilità del tavolo a sei presieduto dalla Cina, in cui rientrano anche Russia, Giappone e Corea del Sud. Il Nord vuole che l’America abbandoni la politica post-Bush della «negligenza nociva» in favore di un’estesa riconciliazione di tutte le questioni aperte in modo da accrescere le possibilità di sopravvivenza del regime quando Kim Jong-il passerà il testimone al successore. Quasi certamente un affare di famiglia. Se la strategia della Corea del Nord non funzionasse nella Penisola ci troveremmo in una situazione molto pericolosa, come non accadeva da tempo. Eppure 15 anni fa la minaccia per la sicurezza globale sembrava essere stata neutralizzata da Bill Clinton. La crisi nucleare del 1993 segnò la nascita dei «Framework Agreement» del 1994. Quindi il ripristino delle relazioni diplomatiche e la costruzione di due reattori ad acque leggere (Light Water Reactors, o LWRs), nonché la temporanea fornitura di olio combustibile in cambio dello smantellamento del reattore di Yongbyon. Pure la costruzione di altre due centrali più grandi fu interrotta. Lo spirito degli accordi venne però tradito da entrambe le parti. Fu allora che Bush attraversò la sua seconda fase «armi di distruzione di massa». Come accadde in Iraq, i nord-coreani vennero accusati di avere un programma di armamento atomico segreto. Si trattava di usare uranio arricchito per costruire la bomba piuttosto che il plutonio. Non venne prodotta prova alcuna, tuttavia gli ultimi resti del «Framework Agreement» vennero abrogati e la consegna dei LWRs venne sospesa. Per il Nord si trattava di issare bandiera bianca o riprendere il programma atomico. Scelta questa opzione, in meno di 7 anni è diventata una potenza nucleare. Se per Bush questa storia poteva passare come un triste errore, la fazione di Cheney/Bolton a Washington e i neo-nazionalisti in Giappone erano in estasi: per loro non tutto il male viene per nuocere.

La Cina sarà molto infastidita dal test perché, a meno che non scateni il serio coinvolgimento del presidente Obama, rafforzerà le correnti di Usa e Giappone che si oppongono a una soluzione definitiva. Darà una scusa a Washington per continuare a mettere in campo, in Europa come in Giappone, le sue tecnologie da «Guerre Stellari». Con il risultato di far sentire minacciate Cina e Russia, oltre a Nord Corea e Iran. Tutto questo correrà in soccorso dei neo-nazionalisti del Jiminto, il partito di governo a Tokyo, nonché di Minishuto, l’opposizione. Che vogliono l’abolizione dell’articolo 9 della Costituzione imposta dagli americani e il conseguente riarmo del Giappone. A questo punto la Cina, che ha più influenza su Pyongyang di chiunque altro, dovrebbe esercitare pressioni sulla Corea del Nord perché faccia delle concessioni in cambio di un’inversione di rotta, da parte di Obama, rispetto alle affermazioni di Bush sulle armi di distruzione di massa. Con l’impegno a cercare un accordo definitivo per permettere al Nord di proseguire nelle sue riforme, che, lentamente, porteranno il Paese a imboccare l’economia globale. I falchi di Pyongyang, Tokyo e Washington faranno di tutto per far fallire un accordo del genere. E la Cina dovrà ricorrere al gioco pesante.


* in anteprima una parte dell’articolo che sta per uscire su «New Statesman» Glyn Ford, l’autore di «La Corea del Nord sul baratro» (ed. Pluto Press), siede al Parlamento europeo con i laburisti
 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Luglio 04, 2009, 03:56:03 pm »

Aperture

Obama, mano tesa a Benedetto XVI «È un leader straordinario»

Intervista all'«Avvenire» in vista del prossimo incontro in Vaticano: «Collaboriamo»
 

CITTÀ DEL VATICANO — «Spero che con il Santo Pa­dre saremo in grado di trova­re temi sui quali avere una duratura collaborazione: dal­la pace in Medio Oriente alla lotta alla povertà, dai cambia­menti climatici all'immigra­zione. Tutti ambiti nei quali il Papa ha assunto una leader­ship straordinaria». Le paro­le di Barack Obama sono im­portanti quanto la scelta de­gli interlocutori: Avvenire e la Radio Vaticana.

Il presidente degli Stati Uniti sarà ricevuto per la pri­ma volta da Benedetto XVI al­la fine del G8, alle 16,30 del 10 luglio. E non è certo un ca­so che prima dell’incontro abbia deciso di concedere un’intervista — firmata da Elena Molinari, corrispon­dente delle due testate — al quotidiano cattolico e al­l’emittente vaticana. Il presi­dente americano prepara il terreno, parla di ciò che acco­muna Usa e Santa Sede senza per questo nascondere i pun­ti di dissenso sul fronte bioe­tico. Ed è su questi, in parti­colare quando assicura il di­ritto all’obiezione di coscien­za, che Obama dice forse la cosa più significativa: «Capi­sco che c’è qualcuno che si aspetta sempre il peggio da me su certi temi, ma è più un preconcetto che una posi­zione motivata da una 'linea dura' che staremmo cercan­do di imporre».

Una strategia del dialogo che Oltretevere è molto ap­prezzata. «Come nella scelta dell’ambasciatore», il teolo­go cattolico Miguel H. Diaz, «il presidente degli Stati Uni­ti dimostra grande intelligen­za nel rapporto con la Santa Sede: e la capacità di gettare ponti», dicono ai piani alti del Vaticano. Nell’intervista, Obama garantisce che gli Usa hanno in programma di «raddoppiare gli aiuti alle na­zioni povere» e spiega che «la priorità dell’America al G8 è proprio di indurre gli al­tri Paesi a fare altrettanto». Un tema caro a Benedetto XVI, come la soluzione «due popoli, due Stati» per la pace tra israeliani e palestinesi: «Questo è un tema sul quale sono ansioso di discutere con il Santo Padre, che credo condivida il mio approccio». Il presidente ricorda «la meravigliosa conversazione telefonica con il Papa subito dopo le elezioni», e aggiun­ge: «Sebbene politicamente veda l’incontro come un col­loquio con un capo di gover­no straniero, mi rendo conto che, naturalmente, è molto di più. Capisco bene quale in­fluenza il Papa abbia, ben ol­tre i confini della Chiesa cat­tolica ». Quanto alle critiche dell’episcopato Usa sulle po­sizioni bioetiche, «difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi, an­che con toni appassionati — dice —. E sarei felice di ospi­tarli qui alla Casa Bianca a parlare dei temi che ci uni­scono e di quelli che ci divi­dono ». Certo, dice Obama, «so che ci sono punti in cui il conflitto non è conciliabile», dall’aborto alla contraccezio­ne alla ricerca sulle stamina­li. Ma anche qui è possibile cercare un terreno comune: «La cosa migliore che possia­mo fare è ribadire che esisto­no persone di buona volontà su entrambi i fronti e che si possono trovare elementi sui quali lavorare insieme». Morale: «Ogni posizione che liquidi in modo automatico le convinzioni religiose e il credo altrui come intolleran­ti non capisce il potere della fede e il bene che compie nel mondo».


Gian Guido Vecchi
04 luglio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:49:29 pm »

ATTACCO AL PREMIER: «PERDE ENERGIE A DIFENDERSI DALLA STAMPA»

Affondo del New York Times: «Obama assuma la guida del vertice»

Il quotidiano Usa: «Dall'Italia organizzazione negligente, si rischia perdita di tempo»
 

ROMA - Il Presidente Usa Barack Obama dovrebbe assumere la guida del vertice del G8 al via in Italia, per evitare che sia uno spreco di tempo e di impegno. E’ quanto scrive nel giorno dell'apertura del summit in un editoriale il quotidiano americano The New York Times. Non sono i problemi a mancare, precisa il quotidiano, «ma una programmazione imperdonabilmente negligente da parte del governo ospite, l’Italia, e la debolezza politica di molti dei leader presenti, lascia poco spazio all’ottimismo».

LA GUIDA - Per questo, scrive il Nyt, «se questa sessione non vuole essere uno spreco di tempo e impegno, il Presidente Obama dovrà assumerne la guida», trasformando la fiducia politica che si è guadagnato negli ultimi sei mesi in capitale diplomatico. Il quotidiano invita quindi il Presidente americano a «fare nuove pressioni sulla Germania perché investa di più nel pacchetto di stimolo», a intervenire sugli altri leader per scongiurare «pericolose tendenze protezionistiche» e a sollecitare una «decisa presa di posizione da parte del G8, Russia inclusa», contro l’ambizione nucleare iraniana.

CLIMA - Sui cambiamenti climatici, gli Stati Uniti sono ancora molto indietro rispetto all’Europa, ammette il Nyt, per cui Obama dovrà fare pressioni sul Congresso americano perchè approvi la sua legge per la riduzione delle emissioni. Al vertice, i leader del G8 «dovrebbero impegnarsi a rispettare l’obiettivo» di raddoppiare gli aiuti ai Paesi poveri, e «ogni Paese dovrebbe annunciare un contributo preciso per questo e il prossimo anno». «Tradizionalmente è l’ospite a dettare tono, tema e agenda di questi incontri - prosegue il quotidiano - ma il premier italiano, Silvio Berlusconi, ha speso gran parte delle sue energie, nelle ultime settimane, a cercare di eludere le accuse pubblicate dalla stampa sulle sue frequentazioni con escort e minorenni. "Showmanship": forse. Leadership: no». «Tutti i Paesi presenti all’Aquila hanno un chiaro interesse a favorire una più forte e rapida ripresa economica, a fermare la corsa nucleare dell’Iran, a rallentare il riscaldamento terrestre e a sostenere lo sviluppo delle nazioni più povere del mondo - conclude il Nyt - spetta ad Obama ricordarlo ai leader e stimolarli».


08 luglio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:54:48 pm »

La stampa straniera

I corrispondenti esteri si preparano «Sì a domande sulla vita privata»

Lo staff di Palazzo Chigi fissa una sola conferenza finale


ROMA — La parola a Philippe Ridet, corrispondente dall'Italia per il quotidiano francese Le Monde: «Signor presidente, come pensa di risollevare l'immagine dell'Italia che nel mondo appare in evidente declino? Non crede che la sua debolezza si trasformi nella debolezza anche del suo Paese?». La parola a Miguel Mora, corrispondente da Roma per lo spagnolo El País: «Signor presidente, non crede che il suo programma politico, basato sulla centralità della famiglia, sia smentito dalla sua condotta privata nella vita di tutti i giorni?». È solo un'esercitazione. Il giornalista francese e il suo collega spagnolo partiranno stamattina per l'Aquila. Eppure sono queste le cose che vorrebbero chiedere al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Domande non proprio strettamente collegate agli argomenti del G8 ma che, spiegano usando le stesse parole, «toccano i temi che in queste settimane hanno più interessato i nostri lettori».

Non è una sorpresa vista l'aria che tira, ormai da settimane, tra la stampa estera e il presidente del Consiglio. Critiche pesanti con repliche altrettanto pesanti quasi ogni giorno. Ed è possibile che lo stesso canovaccio si ripeta durante il vertice. Certo, a parlare con i corrispondenti in Italia dei giornali stranieri c'è anche chi sceglierebbe una domanda legata all'agenda del G8. Ma anche quella sarebbe una domanda vera, senza la scappatoia di una risposta precotta. Sentite Julio Algañarez, che lavora a Roma per il quotidiano argentino El Clarín: «Gli chiederei com'è possibile che gli americani abbiano dovuto prendere in mano la situazione negli ultimi giorni per salvare questo summit. Possibile che gli italiani abbiano fatto questo casino?». Ma il timore vero, nello staff di Palazzo Chigi, è sempre lo stesso: le domande sulle vicende personali del presidente. Noemi, l'inchiesta di Bari, le feste a Palazzo Grazioli che spazzano via l'atmosfera di solito ovattata delle conferenze stampa internazionali.

Tra i corrispondenti stranieri molti scelgono questo argomento e tutti, ma proprio tutti, lo usano almeno come sfondo dei loro ragionamenti. «Dopo tutte le notizie che abbiamo letto su di lui — dice Carmen Cordoba, giornalista della rivista colombiana Semana — gli chiederei se si sente la persona giusta per far avere il meglio all'Italia. Le relazioni tra i Paesi non si basano solo sul peso economico ma anche sulla fiducia. E lui da questo punto di vista non mi sembra messo bene». Arriva ad una domanda diversa ma parte dallo stesso punto Gina de Azevedo, della tv brasiliana Globo: «Mentre lei sembra divertirsi, gli italiani hanno perso potere d'acquisto e la Banca d'Italia prevede una riduzione del Pil del 5 per cento. Come fa a dire che la crisi è solo psicologica?». Ci saranno queste domande a Berlusconi? Lo staff di Palazzo Chigi è pronto a fare di tutto per evitare un nuovo capitolo nello scontro fra il presidente del Consiglio ed i giornalisti stranieri. Al momento è prevista una sola conferenza stampa di Berlusconi, venerdì a chiusura dei lavori. Berlusconi — spiegano a Palazzo Chigi — è il presidente del G8 e quindi è stato scelto un approccio istituzionale, limitando i suoi contatti ufficiali con la stampa al momento clou del bilancio finale.

Il presidente, quindi, non dovrebbe partecipare alle conferenze stampa sui singoli argomenti che di volta in volta verranno trattati all'Aquila. Una scelta istituzionale ma, di fatto, anche una diminuzione della possibilità di contatto fra gli inviati stranieri e il premier che di solito, anche in questo, è piuttosto esuberante. A differenza di altri grandi vertici internazionali, questa volta i lavori sono concentrati in una sede unica, e anche i giornalisti saranno nella caserma di Coppito. È possibile che Berlusconi decida di incontrare la stampa non in conferenza ma al volo, in una pausa tra una riunione e l'altra. In questo caso, però, sono di solito quelli che lo seguono ogni giorno ad intercettarlo. Gli inviati stranieri, per lo più, marcheranno i leader dei loro Paesi. E tra Obama, Sarkozy, Brown e tutti gli altri, nella caserma di Coppito c'è solo l'imbarazzo della scelta.

Lorenzo Salvia
08 luglio 2009

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:40:55 pm »

IL DISCORSO

"Yes, you can". Le nostre colpe le vostre responsabilità

di BARACK HUSSEIN OBAMA

 
Vi parlo al termine di un lungo viaggio all'estero. Ho cominciato dalla Russia, per un summit tra le due potenze. Poi sono andato in Italia per un vertice tra le grandi economie mondiali. Sono venuto qui in Ghana per una semplice ragione.

L'aspetto che avrà il XXI secolo non dipenderà solo da quello che succede a Roma, a Mosca o a Washington, ma anche da quello che succede ad Accra.

Io non considero i Paesi e i popoli dell'Africa come un mondo a parte: io considero l'Africa come una parte fondamentale del nostro mondo interconnesso. Dobbiamo partire da una semplice premessa: il futuro dell'Africa spetta agli africani. Dico questo conoscendo perfettamente il tragico passato che ha perseguitato in certe occasioni questa parte del mondo. Io ho dentro di me il sangue dell'Africa. Mio nonno faceva il cuoco per gli inglesi in Kenya, e nonostante fosse un anziano rispettato nel suo villaggio i suoi datori di lavoro lo chiamarono "ragazzo" per buona parte della sua vita. Mio padre crebbe pascolando le capre in un minuscolo villaggio, lontanissimo dalle università americane dove sarebbe andato per ricevere un'istruzione. Diventò grande in un momento di straordinarie promesse per l'Africa. Le lotte della generazione di suo padre stavano dando vita a nuove nazioni, a cominciare proprio da qui, in Ghana. Ma nonostante i progressi che sono stati fatti, noi sappiamo che quella promessa in gran parte deve ancora essere mantenuta. Paesi come il Kenya, che quando sono nato io aveva un reddito pro capite maggiore di quello della Corea del Sud, sono rimasti drammaticamente indietro. Malattie e conflitti hanno devastato intere parti del continente africano.

E' facile addossare ad altri la colpa di questi problemi. Ma l'Occidente non è responsabile della distruzione dell'economia dello Zimbabwe nell'ultimo decennio, o delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti. Ma io sono convinto che questo sia un nuovo momento di promesse. Non saranno giganti come Nkrumah o Kenyatta a plasmare il futuro dell'Africa. Sarete voi. E soprattutto, saranno i giovani.

Oggi mi concentrerò su quattro aree che sono decisive per il futuro dell'Africa e di tutti i Paesi in via di sviluppo: la democrazia; le opportunità; la salute; la risoluzione pacifica dei conflitti.

La prima cosa da fare è supportare governi democratici forti e sostenibili. Nessun Paese riuscirà a creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l'economia per arricchirsi, o se la polizia può essere comprata da trafficanti di droga. Questa non è democrazia, questa è tirannia ed è tempo che finisca. Possiamo star certi di una cosa: la storia è al fianco degli africani valorosi, non al fianco di chi usa colpi di Stato o modifiche costituzionali per rimanere al potere. L'Africa non ha bisogno di uomini forti, ha bisogno di istituzioni forti.

Questo continente è ricco di risorse naturali. L'Africa emette meno gas serra di qualsiasi altra parte del mondo, ma è il continente più minacciato dai cambiamenti climatici. Un pianeta più caldo diffonderà le malattie, assottiglierà le risorse idriche ed esaurirà i raccolti, creando le condizioni per ancora più carestie e conflitti. Tutti abbiamo la responsabilità di frenare queste tendenze e trasformare questa crisi in opportunità.

Il buongoverno non è fondamentale solo per quel che riguarda le opportunità, ma anche per quel che riguarda la terza area di cui parlerò, il miglioramento della salute pubblica. Negli ultimi anni sono stati fatti enormi progressi. E' cresciuto molto il numero delle persone affette da Hiv/Aids che riescono a condurre una vita attiva e ricevono i farmaci di cui hanno bisogno. Ma troppi ancora muoiono per malattie che non dovrebbero essere mortali. E' necessario che i singoli africani facciano scelte responsabili per impedire il diffondersi della malattia. L'America sosterrà questi sforzi, perché quando un bambino ad Accra muore di una malattia che si poteva prevenire, tutti noi, in ogni parte del mondo, ne veniamo screditati.

Se collaboriamo in nome di un futuro più sano, dobbiamo anche fermare la devastazione che viene dagli esseri umani, ed ecco perché l'ultimo argomento di cui parlerò sono i conflitti armati. Voglio essere chiaro: l'Africa non è la grossolana caricatura di un continente in guerra. Ma per tanti, troppi africani i conflitti armati sono parte dell'esistenza. Questi conflitti sono una pietra al collo per l'Africa. Dobbiamo combattere l'inumanità in mezzo a noi. Non è mai giustificabile prendere di mira innocenti in nome dell'ideologia. E' la sentenza di morte di una società a costringere i bambini a uccidere in guerra. E' un segno estremo di criminalità e vigliaccheria condannare le donne a stupri incessanti e sistematici. Dobbiamo dare testimonianza del valore di ogni bambino del Darfur e della dignità di ogni donna del Congo. Nessuna fede o cultura può giustificare le offese contro di essi. Quando in Darfur c'è un genocidio o quando in Somalia ci sono i terroristi, queste sono sfide che riguardano la sicurezza globale ed esigono una risposta globale. Ecco perché siamo pronti a collaborare attraverso l'azione diplomatica, l'assistenza tecnica e il supporto logistico, e sosterremo gli sforzi per portare i criminali di guerra di fronte alla giustizia.

Come ho detto prima, il futuro dell'Africa spetta agli africani. Cinquantadue anni fa, gli occhi del mondo erano rivolti al Ghana. E un giovane predicatore chiamato Martin Luther King venne qui, ad Accra, a guardare l'Union Jack che veniva ammainata e la bandiera ghanese che veniva alzata. Chiesero a King come si sentiva ad assistere alla nascita di una nazione. E lui disse: "Rinnova la mia fede nella vittoria finale della giustizia".

Ora quella vittoria può essere conseguita ancora una volta, e può essere conseguita da voi. E sto parlando in particolare ai giovani. Questo è quello che dovete sapere: il mondo sarà come voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare i vostri leader a render conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano al servizio del popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la storia sta cambiando.
(Traduzione di Fabio Galimberti).

(12 luglio 2009)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Agosto 03, 2009, 03:26:41 pm »

3/8/2009
 
In Obama c'è un po' di Bush
 
NAOMI WOLF
 
Il Senato americano continua le sue audizioni per capire che cosa fare dei 240 detenuti ancora dietro le sbarre a Guantanamo, e che cosa ne sarà dei tribunali militari e delle detenzioni senza processo che l’amministrazione Bush e un compiacente Congresso avevano messo in piedi dopo l’11 settembre. Il Congresso sta anche discutendo su che cosa fare del campo di prigionia, aperto nel 2002 per rinchiudere uomini considerati apertamente «i peggiori dei peggiori».

Tutto questo, in un quadro giuridico definito deliberatamente dai procuratori di Bush «spazio esterno legale». Ma queste audizioni al Senato non stanno definendo una nuova realtà altrettanto brutta della vecchia, o addirittura per certi versi peggiore? I tribunali militari che giudicano senza un vero processo stanno operando di nuovo. Mentre il presidente Obama ha rilasciato pochi prigionieri, soprattutto uiguri cinesi, e mandato alcuni altri a processo a New York, sta però, freddamente, segnalando che darà inizio a «detenzioni preventive».

Durante una visita a Guantanamo, il portavoce del dipartimento della Difesa, Joe DellaVedova mi ha detto che una serie di commissioni stanno riesaminando gli incartamenti dei detenuti, un processo che richiederà alcuni anni. Alla fine saranno divisi in tre categorie: quelli che saranno giudicati in corti civili degli Stati Uniti, quelli che saranno rilasciati e consegnati ad altri Stati, e quelli che «non possono essere rilasciati e non possono essere processati e che quindi saranno detenuti in quella che sarà chiamata detenzione preventiva». Sono rimasta di stucco. DellaVedova diceva in realtà che la revisione dei dossier era «teatro politico». La detenzione preventiva all’infinito non è altro, naturalmente, che la base di uno Stato di polizia. Le organizzazioni dei diritti umani sanno che Obama ha aperto la via, a livello di pubbliche relazioni, ad alcuni processi civili, parlando di carceri di massima sicurezza negli Usa, e sottolineando che altri terroristi sono già stati giudicati dal sistema giudiziario.

Ma, sei mesi dopo aver ordinato la fine della tortura e delle prigioni segrete della Cia, e promesso di chiudere Guantanamo entro un anno, sembra che Obama stia ripetendo i peggiori eccessi di Bush. Ha portato aeroplani pieni di giornalisti nella baia di Guantanamo per mostrare una «sicura, trasparente e umana» sistemazione. Ma i circa 240 detenuti rimangono rinchiusi senza accuse specifiche. In più, il dipartimento della Giustizia di Obama ha invocato la giustificazione di Bush secondo la quale lo State Secrets Act impedisce che le prove sulla tortura vengano rese pubbliche, il che significa che chiunque sia stato torturato non può comparire davanti a un tribunale. E ancora, Obama ha cercato di eliminare centinaia di fotografie che mostrano abusi sessuali nelle prigioni gestite dagli Stati Uniti, e non ha fatto nulla per abolire il Patriot Act di Bush.

Ma perché Obama, che ha una formazione giuridica, dovrebbe ripercorrere questa strada? Primo, non osa apparire «debole con i terroristi». Secondo, forse ha bisogno di tenere i detenuti di Guantanamo in un contesto di «discrezione».

Secondo Wells Dixon, un avvocato del Center for Constitutional Rights che rappresenta alcuni detenuti, l’amministrazione Obama non può correre il rischio di chiamare le pratiche di tortura crimini, così li definisce «fonti e metodi riservati» che non possono essere rivelati in tribunale. «Non posso neanche dire in che modo i miei clienti sono stati torturati o mi metterebbero sotto processo», dice.

Dixon mi ha raccontato la storia esemplare di uno dei suoi clienti, Majid Khan, definito «detenuto di alto valore», rinchiuso per tre anni nelle prigioni segrete della Cia. Khan venne torturato, mi ha detto Dixon, anche se «il governo direbbe che quello che gli è accaduto è un metodo investigativo».

Siccome Dixon ha un’autorizzazione speciale, non può discutere di queste «fonti e metodi riservati». D’altra parte, ha continuato Dixon, «quando il governo fa qualcosa al mio cliente che è definita riservata, gli è stata rivelata un’informazione riservata. Ma siccome non ha quell’autorizzazione speciale, non c’è niente che possa impedirgli, a differenza di me, di dirlo al mondo esterno. È quello che mi hanno detto: niente può impedirglielo, tranne trattenerlo fisicamente in custodia».

La «logica conclusione», secondo Dixon, è che Khan «deve essere detenuto per il resto della sua vita, a prescindere dal fatto che venga mai incriminato, perché se fosse mai rilasciato, niente potrebbe impedirgli di rivelare le informazioni “riservate”». Majid Khan – e ce ne sono molti come lui – è il classico prodotto del disprezzo per i principi fondamentali del diritto dell’amministrazione Bush. Sfortunatamente, l’amministrazione Obama, nonostante tutta la sua altezzosa retorica, sembra che voglia perpetuarli.

Copyright Project Syndicate, 2009
 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Agosto 25, 2009, 12:09:26 am »

Creata nuova squadra che avrà il compito di ascoltare i presunti terroristi

Sarà nel quartier generale dell'Fbi e dipenderà dal Consiglio per la sicurezza

Iraq, nuove inchieste sulle torture Obama: "Mai più interrogatori alla Cia"

Il direttore dell'agenzia di intelligence americana verso le dimissioni. Lo rivela il network americano Abc


WASHINGTON - Barack Obama ha dato il via libera alla riapertura di una decina di inchieste su presunti casi di tortura e abusi commessi da agenti della Cia durante interrogatori in Iraq e in Afghanistan. Ma è bufera tra la Casa Bianca e la Cia. Il direttore dell'agenzia di intelligence americana, Leon Panetta, avrebbe minacciato di dimettersi e la Casa Bianca avrebbe già avviato la ricerca di un sostituto, secondo quanto riferisce la ABC.

Il Presidente ha approvato la creazione di una nuova squadra d'élite, che avrà il compito di condurre gli interrogatori degli individui considerati figure-chiave del terrorismo internazionale. Si chiamerà Hig, acronimo di "High-Value Detainee Interrogation Group", cioè Gruppo d'Interrogatorio dei Detenuti d'Importanza Elevata, e sarà composta da esperti cooptati in diverse agenzie d'intelligence e in vari corpi delle forze dell'ordine.

Insomma: la Casa Bianca mette da parte la Cia, tanto che l'Hig avrà sede presso il quartier generale dell'Fbi, e sarà soggetto alla supervisione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, in pratica sotto il diretto controllo dello staff più vicino al presidente degli Stati Uniti. Per questo Panetta, arrivato a Langley appena sette mesi fa non ha gradito la nuova struttura per gli interrogatori dei sospetti terroristi, così come l'apertura di nuove inchieste sui suoi uomini. Tuttavia, la Casa Bianca nega che vi siano contrasti con la Cia.

L'iniziativa della Casa Bianca ha preso le mosse dalle indicazioni e dai suggerimenti formulati da un'apposita task-force, istituita da Obama poco dopo il suo insediamento. Le raccomandazioni formulate dalla task-force contemplano parecchi cambiamenti sostanziali rispetto alle direttive del passato, anche per quanto concerne le modalità di trasferimento dei sospetti estremisti catturati all'estero.

L'ipotesi della riapertura di una serie di casi di tortura è stata così ventilata oggi dal New York Times, a poche ore dalla pubblicazione di un rapporto su casi di tortura o abusi commessi nel 2004, senza escludere l'ipotesi di incriminare alcuni degli agenti della Cia.


LE MINACCE DELLA CIA - Agenti della Cia avrebbero minacciato di uccidere i figli di Khalid Sheikh Mohammed, indicato come la mente degli attacchi dell'11 settembre, durante gli interrogatori. Questo quanto emerge da un rapporto della Cia appena desecretato ed il cui contenuto è stato diffuso oggi dal Dipartimento alla Giustizia americano.

Uno degli agenti impegnati negli interrogatori, vi si legge, avrebbe detto che un collega aveva minacciato Khalid Sheikh Mohammed dicendogli che nel caso di nuovi attacchi contro gli Stati Uniti "uccideremo i tuoi figli".

Il rapporto, messo a punto nel 2004, esamina il trattamento riservato dalla Cia ai detenuti arrestati per terrorismo dopo l'11 settembre 2001. Il testo è stato desecretato nel quadro di un'azione legale avviata dall'American Civil Liberties Union.

(24 agosto 2009)
da repubblica.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!