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LA-U STORICA 2 -Ante 12 maggio 2023 --ARCHIVIO ATTIVO, VITALE e AGGIORNABILE, DA OLTRE VENTANNI.
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Gros: «Troppo tardi per cambiare,
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Discussione: Gros: «Troppo tardi per cambiare, (Letto 3627 volte)
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Gros: «Troppo tardi per cambiare,
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Ottobre 20, 2008, 05:40:48 pm »
Il liberista «ortodosso»
Gros: «Troppo tardi per cambiare,
Non va cambiato nulla: perché «è troppo tardi» e intervenire ora sulle regole dell’Unione europea è inutile. «Questa crisi ha mostrato il lato debole dell’Europa, ma il danno ormai è stato fatto. Rivedere le regole in tutta fretta non è necessario». È questa la tesi di Daniel Gros, direttore del Centro studi per le politiche europee a Bruxelles. Liberista come Graham Watson (vedi intervista qui a fianco), è però su posizioni opposte: una nuova Europa non serve affatto, sostiene. Facciamo funzionare quella che c’è. Anche lei è un liberista convinto. Ritiene che, dopo questa crisi, ci sia qualcosa da correggere nell’Unione europea?
«No. La prossima crisi sarà diversa ed eventi simili si hanno ogni cinquant’anni».
Che cosa pensa del ventilato governo economico europeo?
«Che è tanto necessario quanto illusorio. Quando c’è una crisi sistemica ce lo si augura, ma, come si è visto, non si può fare».
Perché?
«Perché gli Stati non sono disposti a cedere la sovranità fiscale. È un problema di legittimità politica. Il governo europeo dovrebbe prelevare dei soldi dalle tasche dei cittadini».
Gli Usa hanno Henry Paulson. Anche l’Europa dovrebbe avere un proprio ministro dell’Economia?
«A parte il fatto che abbiamo Juncker, il presidente dell’Eurogruppo, sì, in questa fase un ministro dell’Economia europeo sarebbe stato utile. Ma serve la volontà politica e si è visto com’è andata. La Germania non ha giocato il proprio ruolo fino in fondo».
Quale ruolo?
«Farsi leader della revisione europea. Ha avuto paura quando ha sentito aria di fondo europeo. Ha chiuso le orecchie. Per loro il fondo europeo voleva dire: paghiamo per gli altri. Anche se non è così».
E sarebbe cambiato qualcosa con una linea diversa da parte del cancelliere Angela Merkel?
«Sì. Si sarebbe, forse, potuto varare un piano d’intervento europeo, invece di tanti piani nazionali. Sarebbe stato più efficace. Ma è mancata una Commissione Ue che dicesse: ecco quello che ci vuole per l’Europa. La Commissione poteva vincere la riluttanza della Germania, ma il presidente, Manuel Barroso, non ha voluto lanciare una proposta forte. A dire come si doveva fare sono stati gli inglesi: i più pragmatici».
Serve un regolatore unico per i servizi finanziari?
«È una proposta vecchia. E la vigilanza è ormai sotto strettissima osservanza nazionale».
La crisi ha rivelato un ruolo più incisivo dell’Eurogruppo, i 15 ministri dell’Economia dell’Eurozona che si sono impegnati aiutando le banche. O no?
«No. L’Eurogruppo non ha ancora un ruolo formale e non ha preso decisioni formali, solo politiche. Perdipiù non era un Eurogruppo vero. C’era anche il premier della Gran Bretagna, Gordon Brown».
Pensa che si debba rivedere il Trattato di Maastricht, allentando i vincoli su deficit e debito pubblico per i Paesi Ue?
«Ma se non abbiamo neanche il Trattato di Lisbona. Pensiamo a ottenere prima quello. Maastricht è stato scritto per le situazioni normali, non per le emergenze. E i parametri che ci sono permettono già di andare incontro a una recessione. Senza Maastricht, se tutti i Paesi avessero il debito più alto, il margine di manovra sarebbe ancora minore. Chi non ne ha osservato lo spirito, come Grecia, Spagna e Italia, arriva in recessione con un deficit già al 3%».
C’è chi propone un ruolo di maggiore vigilanza per la Bce. È d’accordo?
«Altra questione secondaria. A questo punto sappiamo dove sono i pericoli, possiamo fare poco per la perdita di fiducia nelle banche. Una maggiore vigilanza porterebbe risultati fra dieci anni. Per le crisi normali abbiamo gli strumenti, per quelle eccezionali ci vuole un’evoluzione politica. La Bce ha fatto il suo dovere. E la Commissione ha un ruolo ben preciso, che volendo può esercitare. Per nuove regole, aspetterei».
Inutile, dunque, anche intervenire su Basilea 2, rivedendo i vincoli di patrimonio delle banche.
«Superfluo parlarne, ora che i buoi sono scappati».
E il conflitto d’interesse delle agenzie di rating, che danno i voti alla capacità di credito pagate da chi devono valutare?
«Le agenzie di rating, questa crisi, non la potevano prevedere».
Vanno aumentati gli aiuti di Stato?
«È chiaro che ora c’è una deroga per le banche, ma per carità, non pensiamo a cambiare tutto. Tutti dicono che si debba fare qualcosa ma bisognava pensarci prima. Adesso non serve più».
A. PU.
da corriere.it
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Admin
Utente non iscritto
Loretta Napoleoni La rivincita di Keynes
«
Risposta #1 inserito::
Ottobre 22, 2008, 11:14:24 pm »
La rivincita di Keynes
Loretta Napoleoni
L’America ha scoperto un nuovo autore da cassetta, Hyman Minsky, l’economista neo-keynesiano che negli anni Settanta ha sviluppato l’«Ipotesi dell’Instabilità Finanziaria», una teoria che spiega l’attuale crisi del credito. I suoi libri vanno letteralmente a ruba. Tutte le reti televisive vorrebbero intervistarlo, ma nessun giornalista ci riuscirà, Minsky è morto nel 1996, a settantasette anni. La sua teoria può essere riassunta in una frase: se abbandonato a se stesso, il sistema capitalista è endemicamente fragile.
La psicosi dei mercati, insaziabili nonostante le quotidiane e massicce iniezioni di contante (quasi 3 mila miliardi di dollari fino ad oggi), mette a nudo la profonda instabilità di un sistema ormai incapace di gestire se stesso. Ci avviciniamo pericolosamente verso una nazionalizzazione a tappeto, manovra che né i governi né i mercati vogliono. Forse la strategia da seguire è proprio nascosta negli scritti di Minsky, pagine che Gordon Brown sta sicuramente rileggendo. È lui che ha preso le redini del piano di salvataggio del sistema bancario internazionale, un progetto che poggia sull’Ipotesi dell’Instabilità Finanziaria.
Per Minsky a rendere endemicamente fragile il capitalismo è l’accumulazione del debito. Nei periodi di espansione economica sale l’indebitamento. Più ci si indebita più si guadagna e dal momento che l’economia cresce le banche, definite da lui mercanti del debito, sono ben disposte a concedere prestiti. Negli Stati Uniti, fino a un anno fa, bastava avere un lavoro per contrarre un mutuo e comprare una casa. Anche negli anni Venti la crescita economica fu accompagnata dall’ascesa del debito. A ridosso della crisi del ’29 il tasso di crescita dell’indebitamento superava di gran lunga quello della restituzione del debito. È a questo punto che secondo Minsky inizia il preludio della crisi. Nel 2006, negli Stati Uniti, il tasso di crescita della bancarotta personale supera quello del Pil, è però un campanello d’allarme che solo una manciata di operatori finanziari riconosce. Pochi infatti hanno liquidano i pacchetti azionari prima dell’agosto del 2007 quando scoppia la crisi dei mutui americani.
Oggi giorno l’attenzione è però sulla creazione della bolla. Secondo l’economista esistono tre tipi di prestiti. Il primo è quello che copre il rischio, chi lo contrae lo ripaga attraverso i flussi di cassa. È questo il caso di un agricoltore che alla semina contrae un’opzione di acquisto di sementi per proteggersi dalle variazioni del prezzo l’anno dopo. Se esercita l’opzione, paga il prodotto con il ricavato della vendita del raccolto. Poi c’è il prestito speculativo dove si è in grado di pagare solo gli interessi del debito. Alcuni mutui subprime sono strutturati in questo modo, chi li contrare conta di vendere l’abitazione prima che il mutuo maturi a un prezzo più alto del capitale ed estinguere così il mutuo.
L’ultimo gruppo, quello che più interessa Gordon Brown, è il cosidetto prestito Ponzi dove non si dispone di contante per ripagare interessi e capitale. È l’apprezzamento del valore dei beni acquistati indebitandosi che finanzia il debito. Negli anni 20 le società di brokeraggio acquistarono pacchetti azionari grazie alle linee di credito delle banche, ogni volta che il valore delle azioni saliva accendevano altri debiti per comprarne di più. Lo stesso principio ha fatto fallire la Lehman Brother, quando il valore dei mutui in portafoglio ha iniziato a crollare, la banca si è ritrovata con un debito 22 volte più grande del capitale sociale.
La fragilità descritta da Minsky sta nel libero accesso delle banche al prestito Ponzi. Tre istituti di credito islandesi accumulano un debito di circa 61 miliardi di dollari, dodici volte il Pil dell’Islanda. Come ha fatto un Paese con una popolazione di appena 320.000 abitanti, circa la metà dei residenti di Las Vegas, a indebitarsi così tanto? È semplice, dal 2004 al 2008 il valore dei beni in portafoglio, tra cui i mutui americani, si è quintuplicato e le banche lo hanno usato per accendere ulteriori linee di credito. Nell’euforia creata dall’ascesa degli indici di borsa, gli operatori finanziari pompano la bolla invece di prevenire il crollo: si indebitano eccessivamente. L’anno scorso, Merrill Lynch ha pagato un bonus di 15,9 miliardi di dollari contro una perdita di 8 miliardi di dollari. Si pensava di poter coprire la perdita con profitti da record l’anno dopo!
La fragilità del sistema è nella gestione, dunque, ecco perché la proposta di Gordon Brown penalizza gestori e azionisti. Niente dividendi né bonus miliardari fino a quando il debito con lo stato sarà tutto pagato. Ma c’è resistenza e molti liquidano i portafogli e vanno oltreoceano dove le regole sono meno rigide. Per far funzionare il piano tutti devono applicare la linea dura che sicuramente calmerà anche la rabbia del contribuente. Come diceva Keynes: il bravo banchiere non è quello che evita la bancarotta ma quello che quando è rovinato lo è insieme ai suoi clienti, così che nessuno possa attribuirgli la responsabilità dell’accaduto.
Pubblicato il: 22.10.08
Modificato il: 22.10.08 alle ore 9.24
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