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Autore Discussione: Renato MANNHEIMER. -  (Letto 14261 volte)
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« inserito:: Ottobre 12, 2008, 04:37:06 pm »

L'osservatorio

Italiani e fiducia nelle banche

In una settimana giù del 28%


Il governo e altre autorità istituzionali cercano in questi giorni di rassicurare gli italiani sugli effetti della drammatica crisi finanziaria ed economica che sta coinvolgendo gran parte del mondo. Il possibile insorgere di una crisi di fiducia tra i cittadini costituisce in effetti un timore fondato e suffragato dagli esiti degli ultimi sondaggi di opinione. La preoccupazione riscontrabile nel nostro Paese riguardo alla sicurezza dei depositi e alla solidità delle banche si è andata infatti accrescendo enormemente proprio negli ultimi giorni. Un mese fa (il 12 settembre) circa un quarto degli italiani adulti pronosticava un deterioramento dell'economia. Oggi (la rilevazione è stata eseguita il 9 ottobre), sono quasi raddoppiati giungendo al 46%: gli incrementi maggiori nel pessimismo si sono verificati significativamente tra le persone in età lavorativa centrale (35-55enni) e tra i residenti in una delle aree di maggiore vitalità economica, il Nord-Est.

La previsione sulla situazione finanziaria personale peggiora anch'essa considerevolmente: in sette giorni i pessimisti raddoppiano, passando dal 16 al 34%. Nell'insieme, più del 60% degli italiani si pronuncia oggi negativamente per l'economia mondiale e il 40% ha questa stessa sensazione per ciò che concerne la propria famiglia. Sono specialmente le banche a trovarsi nell'occhio del mirino. La fiducia in queste ultime, già tradizionalmente bassa, è calata ulteriormente, raggiungendo il minimo storico. E si fanno sempre più estesi i dubbi sulla loro affidabilità. Ancora la scorsa settimana, la maggioranza (67%) dei cittadini riteneva «molto o abbastanza solida» la banca di cui è cliente: oggi questa quota è drasticamente scesa al 39%: la maggioranza degli italiani comincia dunque a non fidarsi più del proprio istituto di credito. È un orientamento più diffuso tra chi è più lontano dalla politica e segue con maggiore difficoltà le notizie sui quotidiani.

Certo, si tratta di meri atteggiamenti, di stati d'animo non sempre suffragati da dati di fatto. Ma, come ci insegna la stessa crisi che stiamo attraversando, spesso i fenomeni e i comportamenti economici sono dettati più dalla componente emotiva che da quella razionale. Di conseguenza, gli aspetti psicologici sono, specie in questi giorni, estremamente rilevanti. Nel loro insieme, questi dati possono dunque essere interpretati almeno da due diversi punti di vista. Da una parte, emerge come gli italiani mostrino ancora un atteggiamento responsabile: siamo ben lontani da quella che può essere definita una situazione di panico. Dall'altro canto, non si può non rilevare come il clima di opinione e la fiducia del Paese nelle istituzioni finanziarie vadano progressivamente deteriorandosi.

Con conseguenze difficili da prevedere.

Renato Mannheimer
12 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 10, 2008, 11:46:33 am »

Il sondaggio

Sindacati, i lavoratori li sfiduciano

Per buona parte della popolazione attiva non esprimono gli interessi collettivi


Dopo le ultime vicende è in calo la fiducia nel sindacato e la maggioranza dei cittadini non ritiene che riesca oggi a rappresentare gli interessi della gran parte dei lavoratori. Una sfiducia più accentuata nella popolazione attiva. Il sindacato rappresenta ancora la maggioranza dei lavoratori? Il dubbio è sorto ad alcuni osservatori in relazione a vicende recenti, dal caso Alitalia alla trattativa sulla contrattazione. Nell'insieme, questi episodi hanno contribuito a sviluppare un dibattito sul ruolo e sulla funzione del sindacato, suscitando reazioni e pareri contrastanti e contribuendo a ridelineare la sua immagine tra i cittadini. Da un verso i sindacati – o, di volta in volta, qualcuno tra essi – sono stati accusati di avere assunto spesso una funzione di freno per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Dall'altro, secondo alcuni, le organizzazioni di rappresentanza non sarebbero in realtà più espressione della maggioranza «vera» dei lavoratori, ma ormai solo di una minoranza. Qual è l'opinione prevalente nel Paese? Si riscontrano atteggiamenti contraddittori: a) la maggioranza della popolazione ritiene che, malgrado tutto, il sindacato continui in generale a svolgere un ruolo essenziale per lo sviluppo. Ma questa opinione, espressa dal 49%, è solo poco più diffusa del parere opposto, secondo cui le scelte di alcuni sindacati finiscono, sempre più spesso, col costituire un ruolo di ostacolo alla crescita. La scelta tra l'una e l'altra opzione è, com'è ovvio, influenzata dall'orientamento politico: poco più del 60% dell'elettorato di Berlusconi sottolinea il ruolo di freno svolto da alcune organizzazioni. Viceversa, una percentuale ancora più elevata del seguito elettorale di Veltroni insiste sugli aspetti positivi dell'azione sindacale. Ma in entrambi gli schieramenti, grossomodo un terzo degli elettori si pone in maniera opposta al parere prevalente, a riprova della complessità del dibattito. b) La maggioranza dei cittadini, però, non ritiene che i sindacati, nel loro insieme, riescano oggi a rappresentare per davvero gli interessi della gran parte dei lavoratori. Anche in questo caso, a questa opinione, dichiarata dal 50% degli intervistati, si contrappone il parere contrario, solo poco meno diffuso (46%). E, anche in questo caso, l'orientamento politico svolge una funzione importante nel portare verso l'una o l'altra posizione. Ma conta – e in modo significativo – il ruolo lavorativo.

Buona parte della popolazione attiva ritiene che, nel suo insieme, il sindacato non esprima più gli interessi della maggioranza dei lavoratori. In particolare, la pensa così il 54% degli impiegati e il 50% degli altri lavoratori dipendenti. Anche tra gli operai, dunque, la maggioranza relativa "sfiducia" il sindacato. Quest'ultimo trova maggiori consensi tra le categorie non direttamente impegnate nella produzione, quali studenti e casalinghe. Nell'insieme questi dati non possono che suggerire un ripensamento critico sulle funzioni e sul ruolo delle organizzazioni (ancora?) rappresentative dei lavoratori.

Renato Mannheimer
10 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 10, 2008, 06:33:17 pm »

Diario sindacale

Sartori, il leghista dell’Inail che apre alla Cgil

a cura di Enrico Marro


Di questi tempi trovare qualcuno nella maggioranza o in ambienti riconducibili ad essa che parli bene dei sindacati, soprattutto se si tratta della Cgil, è un’impresa. Fa eccezione il presidente e commissario straordinario dell’Inail, Marco Fabio Sartori , già deputato della Lega e poi collaboratore di Roberto Maroni quando era ministro del Welfare.

Sartori, nominato il 4 luglio scorso ai vertici dell’istituto nazionale delle assicurazioni sugli infortuni sul lavoro, ha avuto in questi mesi, come dei resto i suoi colleghi commissari dell’Inps e dell’Inpdap Antonio Mastrapasqua e Paolo Crescimbeni , il problema di impostare i rapporti con i sindacati interni, da sempre abituati a comandare e ora messi sotto assedio dal governo. Bene: Sartori ha deciso di rompere il fronte e di tendere la mano al sindacato, compresa la Cgil.

E per farlo ha fatto arrivare loro, attraverso un recente discorso tenuto davanti a tutti i dirigenti, il messaggio che lui è contro i tornelli per la rilevazione delle presenze. «Avete un’idea di quanto costa mettere i tornelli nelle 200 e passa sedi territoriali dell’Inail? E poi, se metto i tornelli, ma i dipendenti stanno chiusi in ufficio a giocare al computer, che cosa ho ottenuto? Un’illusione di efficienza, non l’efficienza vera».

Insomma, per Sartori «la priorità della pubblica amministrazione non sono i tornelli». Lui, a differenza del ministro Renato Brunetta che si è fatto fotografare sorridente davanti alle barriere elettroniche di Palazzo Chigi, di fronte ai tornelli non riesce proprio a entusiasmarsi: «Anche se in qualche caso possono essere necessari, sono il simbolo di un’amministrazione arretrata».

Meglio sarebbe risparmiare i soldi dei tornelli e utilizzarli per premiare i più meritevoli, spiega, così come altre risorse si potrebbero trovare cancellando istituti anacronistici, tipo le 2 ore di permesso al mese di cui ogni dipendente gode per cambiare l’assegno dello stipendio in banca.

Purtroppo, dice Sartori, «oggi il dipendente pubblico si sente criminalizzato. Questo noi lo vediamo nel rapporto quotidiano con i nostri lavoratori. E allora penso che bisogna seguire una strada diversa: coinvolgere i dipendenti, responsabilizzare i dirigenti, dialogare col sindacato». Il commissario si dice «soddisfatto del rapporto con le organizzazioni sindacali dell’Inail: mi sembrano pronte a raccogliere la sfida dell’innovazione». Anche la Cgil di Guglielmo Epifani e di Carlo Podda ? «Assolutamente sì. La Cgil è perfettamente cosciente della necessità di modernizzare».

Nonostante la Finanziaria 2007, varata quindi dal governo Prodi, preveda che tutte le amministrazioni debbano installare i tornelli per la rilevazione dell’orario di ingresso e di uscita dei dipendenti, altrimenti le stesse amministrazioni non possono pagare gli straordinari, la norma è ancora largamente disapplicata.

E lo stesso Sartori riconosce che il fenomeno di chi timbra e poi esce per andare al bar o a fare la spesa «non è affatto marginale». Ma insiste: «Al cittadino non interessa il tornello, ma se l’amministrazione funziona». Per questo, conclude, «bisogna responsabilizzare i dirigenti, prevedendo anche la possibilità di retrocederli a quadri se non raggiungono gli obiettivi. E dobbiamo avere la possibilità di mandare a casa i dipendenti che non servono». Quanti sui 12 mila dipendenti dell’Inail? Sartori non risponde: «Bisogna aprire un confronto con i sindacati anche su questo». Ma a quel punto forse il presidente dell’Inail si troverà davanti a un sindacato molto meno disponibile.

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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 21, 2008, 07:22:33 pm »

Magistratura, fiducia in calo per un italiano su tre

Le recenti inchieste giudiziarie penalizzano i partiti di entrambi gli schieramenti ma anche il credito di pm e giudici


In questi giorni, l’opinione pubblica è sempre più sconcertata dal susseguirsi degli scandali giudiziari. Come si sa, essi hanno portato ad un forte aumento della sfiducia nei confronti del partito di Veltroni. Ma lo sconcerto non ha riguardato solo il Pd, allargandosi invece rapidamente verso l’intero sistema politico— compresi i partiti della maggioranza— e toccando anche la magistratura: ben un italiano su tre afferma di avere diminuito la propria fiducia nei confronti di quest’ultima a seguito degli ultimi avvenimenti. Occorre sottolineare che gran parte della popolazione ha seguito, con maggiore o minore attenzione, le vicende giudiziarie, benché esse siano state talvolta di difficile intelligibilità. Più di tre italiani su quattro dichiarano di averne comunque almeno sentito parlare. E quasi il 25% ritiene che questi episodi riguardino principalmente i politici del Pd. Ma una percentuale più che doppia (53%) è del parere invece che siano coinvolti, più o meno nella stessa misura, esponenti dell’opposizione e del governo, del Pd come del Pdl.

Insomma, la gente tende a inquadrare quanto sta accadendo nella più generale disaffezione verso la politica nel suo complesso. È significativo osservare come questo atteggiamento si rilevi più di frequente tra quanti dichiarano di non aver ben seguito gli avvenimenti più recenti. In altre parole, chi si è documentato più precisamente sulle vicende che hanno coinvolto l’imprenditore Romeo tende a sottolineare maggiormente il coinvolgimento del Pd. Gli altri— la maggioranza—trovano semplicemente una riconferma del più generale distacco verso la politica. Tanto che, misurando le opinioni sugli esponenti dei partiti, si rileva come la più intensa variazione in negativo sia riferita proprio ai «politici in generale». Riguardo le singole forze politiche si nota come, certo, la diminuzione massima di fiducia si manifesti nei confronti del Pd, ma come una quota inferiore (ma significativa) esprima un allontanamento anche nei confronti del Pdl.

Non sorprende dunque che gli effetti elettorali maggiori di questo andamento riguardino entrambi i partiti maggiori. Assai più il Pd, ridottosi oggi al 27,6%, a vantaggio specialmente dell’Idv e dei partiti della sinistra radicale: una minaccia assai seria per Veltroni in vista delle prossime elezioni europee, ove non vi sarà probabilmente soglia di sbarramento (né, quindi, «voto utile») e sarà di conseguenza più facile alle forze minori sottrarre voti al Pd. Ma anche il Pdl subisce nell’ultimo periodo un lievissimo calo, attestandosi al 40,8%. Insomma, si conferma a livello nazionale la tendenza rilevata nelle elezioni in Abruzzo: sia il Pdl sia il Pd perdono voti, quest’ultimo in misura maggiore. Veltroni ha dunque ragione quando teme che, in mancanza di una svolta — e, specialmente, di un rinnovamento di leadership — possa manifestarsi un’implosione del suo partito. I dati suggeriscono, tuttavia, che in realtà la crisi di fiducia non riguarda solo il Pd — che pure ne è toccato in via prioritaria — ma il sistema politico nel suo insieme.

Renato Mannheimer
21 dicembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Giugno 20, 2011, 05:21:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:24:45 am »

L’Osservatorio

Tonino, voti raddoppiati e punta al 10%

L’ex pm ha conquistato consensi tra chi ha titoli di studio elevati e vive in grandi città
 
 
L’Italia dei valori sembra vivere un momento di difficoltà a causa della polemica sorta tra Di Pietro e il presidente della Repubblica. Il disagio è emerso anche all’interno del partito, ma sembra aver toccato sin qui solo marginalmente l’elettorato di riferimento. In realtà quest’ultimo ha dimostrato da sempre una fiducia particolarmente elevata nei confronti di Napolitano: a fronte del 79% degli italiani che esprime stima per il presidente della Repubblica (il livello di fiducia più elevato raggiunto da una istituzione politica nel nostro Paese), tra gli elettori dell’IdV si riscontra addirittura l’85%.

Malgrado questa apparente contraddizione tra le posizioni del leader e il sentiment dei suoi elettori, il partito dell’ex pm continua ad attraversare un periodo di esteso successo a livello di intenzioni di voto. Esse oscillano oggi tra l’8 e il 10%: si tratta di almeno il doppio dei voti ottenuti alle elezioni lo scorso aprile. Gli elettori acquisiti da Di Pietro sono in misura più che proporzionale di età medio-alta, caratterizzati da un elevato titolo di studio (tra i laureati l’Idv raggiunge quasi il 16%), residenti nei grandi comuni. Molti avevano votato per la Sinistra Arcobaleno nelle ultime elezioni. Anche la provenienza dei consensi giunti di recente suggerisce che il motivo del successo di Di Pietro risieda principalmente nell’immagine di «diversità» dalle altre forze politiche e nel carattere di «radicalità » delle sue scelte e dei suoi comportamenti. Attraverso di essi, l’ex pm riesce ad evocare ed attrarre il variegato mondo dei simpatizzanti per l’«antipolitica », presenti in buona misura anche nella sinistra estrema.

È interessante rilevare come, in parte, si tratti di immagini e di tematiche utilizzate in passato anche dai principali «nemici » di Di Pietro. In primo luogo dalla Lega —che le impiega ancora oggi, sebbene in misura inferiore — e dallo stesso Berlusconi che usò nel 1994 proprio l’argomento della «diversità» per conquistare i suoi primi consensi. Può apparire paradossale, ma, in realtà, il Cavaliere e l’ex pm, così ostili tra loro, hanno impiegato temi e argomenti per certi versi assai simili per persuadere il loro pubblico e giungere al successo. Il mercato elettorale attuale di Di Pietro è potenzialmente assai vasto. I valori della «diversità» e della «radicalità» piacciono infatti in misura più o meno intensa, ad una quota consistente di popolazione. Oggi l’ex pm può contare, oltre alle intenzioni di voto già acquisite, su di un mercato potenziale pari ad un altro 19% di italiani. Si tratta di chi dichiara di prendere in considerazione l’opzione per l’Idv, pur rimanendo per ora legato ad altre forze politiche.

Vi si trovano più maschi che femmine, con titolo di studio medio, impiegati, perlopiù elettori del centrosinistra (ancora una volta con una accentuazione nella sinistra radicale), ma anche del centrodestra, specie del Pdl. È ragionevole ritenere che buona parte di costoro, in caso di elezioni, conservi la scelta attuale e non si diriga verso l’Idv: ma il fatto che si confessino comunque attratti da Di Pietro li rende —più o meno facilmente—conquistabili in una campagna elettorale. Specie nel caso delle consultazioni europee ove, com’è noto, l’elettore si considera tradizionalmente più libero nelle sue scelte. Di Pietro continua quindi a rappresentare una sorta di «mina» negli equilibri politici attuali del Paese.

Renato Mannheimer
02 febbraio 2009

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 23, 2009, 10:05:00 am »

L'analisi

Vince l’astensione «per scelta»

Il vero crollo è alle Provinciali

Al di là dei risultati, il dato più significativo di queste consultazioni è l’ulteriore incremento delle astensioni


Il 61% di votanti alle comunali. Il 46% (meno della maggioranza assoluta) alle provinciali. Addirittura 23-24% al referendum. Al di là dei risultati in questo o in quel comune o provincia, il dato più significativo di queste consultazioni è stato l’ulteriore incremento delle astensioni. L’imponente diserzione dalle urne può essere definita come il più importante fenomeno politico di massa registrato negli ultimi tempi.

Un elettore si può astenere per una pluralità di motivi. C’è chi, per problemi fisici o perché residente all’estero è in ogni caso impedito a recarsi alle urne. Si tratta del cosiddetto astensionismo «necessario», presente in ogni elezione. Ci sono molteplici stime sulla sua ampiezza, ma la maggior parte degli studiosi concorda su circa il 10% dell’elettorato. C’è poi l’astensionismo «per forza maggiore», legato a impedimenti temporanei: una malattia, un incidente, ecc.: con tutta probabilità esso si aggira al massimo sul 2-3%. Tutte le restanti assenze dalle urne sono classificabili come astensionismo «per scelta». Dipendente cioè da una decisione consapevole dell’elettore.

È ragionevole pensare che l’incidenza delle astensioni «necessarie» o «per forza maggiore» sia grossomodo sempre la stessa nelle diverse consultazioni. Di conseguenza, ciò che spiega il grande incremento dell’astensionismo in questi ultimi anni è la progressiva diffusione delle astensioni «per scelta». Queste ultime sono dovute sia alla costante erosione (o, nelle nuove generazioni, addirittura all’assenza) delle identità e delle appartenenze politiche tradizionali, sia specialmente all’ampliarsi del distacco degli italiani dalla politica. Non è certo un caso se, domandando a un campione rappresentativo degli elettori qual è «la prima cosa che le viene in mente parlando di politica », la risposta prevalente, data da quasi un quarto, sia «disgusto». Con un incremento di questo atteggiamento negli ultimi anni. E la risposta successiva, data da un altro 22% è «rabbia».

In queste consultazioni amministrative c’è, tuttavia, un’ulteriore, rapida e forte accentuazione del fenomeno. Alle provinciali, tra il primo e il secondo turno si sono recati a votare addirittura il 23% di elettori in meno. Alle comunali la differenza è stata del 15%.

Queste ultime hanno visto un’affluenza maggiore, data la più accentuata «vicinanza» del comune alle problematiche quotidiane dell’elettore. Mentre le provinciali hanno registrato l’assenza della maggioranza assoluta dei cittadini e la diserzione, tra il primo e il secondo turno, di quasi un quarto, anche a testimonianza, forse, di una perplessità, peraltro più volte espressa, sul ruolo e l'utilità di questa istituzione.

La rilevante differenza nella partecipazione tra il primo e il secondo turno va naturalmente anche interpretata con la difficoltà per l’elettore italiano di scegliere un candidato che non è «il proprio». Diversi votanti per i partiti esclusi al primo turno non se la sono sentita di scegliere, al secondo, quello che consideravano solo il «meno peggio».

Ma, anche in questo caso, la maggior parte delle astensioni dipende da un ulteriore distacco dalla vita politica avvenuto proprio negli ultimi tempi. Spiegato, per gli elettori del centrodestra, anche dall’appannamento, accentuatosi proprio in queste settimane, della figura del Cavaliere. E per quelli del centrosinistra dal disagio dovuto alla conflittualità crescente tra i partiti e, specialmente, tra i leader di quest’area.

Anche la bassissima affluenza al referendum rientra in questo quadro esplicativo. La presenza di solo meno di un quarto degli aventi diritto non dipende solo dai quesiti «troppo tecnici » (anche se erano davvero difficili da interpretare e le schede, così complesse, accrescevano la confusione) né dal mero effetto dell’invito di astenersi da parte della Lega. Il fatto è che le tematiche proposte e l’intero mondo della politica appaiono ai cittadini italiani sempre più lontani. E sempre più privi di interesse.

Renato Mannheimer
23 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 23, 2011, 06:12:34 pm »

L'Osservatorio

Il «sexgate» non toglie voti al centrodestra

Pdl stabile sul 30%. Ma un italiano su due pensa che Berlusconi debba dimettersi


Lo scandalo del «sexgate» che ha coinvolto Silvio Berlusconi occupa da giorni le prime pagine dei giornali. Alla televisione si sono ogni giorno succeduti i talk show sull'argomento. Tutti discutono sull'ondata di accuse infamanti che è stata riversata, a torto o a ragione, contro il presidente del Consiglio. Tanto che in molti ne hanno chiesto le dimissioni o, comunque, l'immediata disponibilità - da lui per altro sin qui rifiutata - a presentarsi davanti ai magistrati. Si tratta di uno degli episodi di più violenta messa in discussione della credibilità del Cavaliere.

Ciononostante, la distribuzione delle intenzioni di voto non ha subito, in questo stesso periodo, alcun mutamento particolarmente significativo. Il Popolo della Libertà rimane stabile attorno al 30 per cento (con una variazione minima, addirittura di lieve crescita, rispetto alla settimana scorsa). Anche la Lega appare assestata tra il 10 e l'11 per cento, analogamente a quanto rilevato negli ultimi mesi.

Ci si può domandare il perché di questa apparentemente incomprensibile stabilità, malgrado la tempesta mediatica in corso. Il fatto è spiegabile da una pluralità di motivazioni, tra le quali due appaiono prevalenti. Per un verso, gli elettori di centrodestra appaiono in larga misura già assuefatti alle notizie sullo stile di vita del premier. Il suo interesse per le giovani donne era già emerso, seppure con minore clamore e in assenza dell'interesse della magistratura, mesi fa, anche allora senza effetti rilevanti sulle intenzioni di voto. D'altro canto, soprattutto, i medesimi elettori - anche quelli potenzialmente più mobili e collocati al centro dello schieramento politico - non vedono alternative praticabili alla loro opzione precedente e finiscono, più o meno volentieri, con il confermare la loro fiducia al Cavaliere o, meglio, al Pdl, guardando magari ad altri leader al suo interno. Senza che l'opposizione o il terzo polo riescano a persuaderli. È questo il motivo per cui anche l'elettorato cattolico - che pure dovrebbe essere più sensibile agli ultimi avvenimenti - non appare avere mutato più di tanto le proprie preferenze.

Insomma, per una serie di motivi (tra i quali la difficoltà a comunicare proposte chiare e persuasive e la scarsa presa mediatica della leadership), l'opposizione - e il Partito democratico in particolare, come ha bene dimostrato Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore di ieri - non riesce ad accreditarsi come una proposta credibile e attraente. Tanto che malgrado le difficoltà in cui si trova - o si dovrebbe trovare - la maggioranza, il partito di Pier Luigi Bersani, rimane debole e oscilla tra il 24 e il 25 per cento a seconda dei sondaggi.
La fragilità del consenso elettorale del Pd lascia spazio specialmente alla crescita della formazione di Nichi Vendola che supera nettamente il 7 per cento, ma continua ad attrarre solo una porzione minoritaria dell'elettorato di sinistra.

E, come si è detto, anche il terzo polo stenta sin qui a conquistare la fiducia degli indecisi. I quali, però, crescono in numero, superando il 40 per cento. Segno dell'estendersi della perplessità e, in certi casi, del disorientamento, sia pure in assenza di mutamenti significativi nelle intenzioni di voto.

La similitudine del panorama odierno delle opinioni politiche degli italiani rispetto ai mesi passati è confermata anche dalla distribuzione degli orientamenti sull'ipotesi di dimissioni del premier. La quota di quanti auspicano questa scelta si è accresciuta nell'ultimo anno, ma, nella sostanza, si ripropone lo scenario consueto: un Paese spaccato a metà tra chi ritiene che le dimissioni siano indispensabili (49 per cento) e chi, solo un po' meno, (45 per cento) manifesta la posizione opposta. Come è ovvio, i diversi pareri sono motivati soprattutto dalla posizione politica (anche se si registra qualche eccezione: il 13 per cento degli elettori leghisti invita Berlusconi a dimettersi e, sull'altro fronte, il 18 per cento dei votanti per il Pd suggerisce che continui a svolgere le sue funzioni). Il fatto che la maggioranza opti per l'abbandono della carica è determinato dalla posizione prevalentemente antiberlusconiana dell'elettorato di centro e del Futuro e libertà in particolare.

Tutto (quasi) come al solito. L'effetto principale degli avvenimenti di questi giorni è dunque per ora solo questo: un ulteriore distacco dalla politica e un accrescimento dell'indecisione e della tentazione di astenersi.

Renato Mannheimer

23 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/11_gennaio_23/sexy-gate-voti-cemtrodestra-mannheimer_ed72c028-26c7-11e0-bedd-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:22:16 pm »

L'Osservatorio

Deluso dal governo un elettore leghista su due

Il taglio delle tasse priorità bipartisan

Il giudizio Solo il 22% dei cittadini approva l'operato dell'esecutivo: per la metà andrà avanti non più di un anno


Gli esiti delle amministrative e del referendum sono stati efficacemente definiti come veri e propri «schiaffi» contro l'esecutivo. In realtà, il comportamento elettorale dei cittadini appare il proseguimento di un clima di opinione sfavorevole al governo che era già stato segnalato da diversi sondaggi condotti nei mesi scorsi. Ma i dati delle rilevazioni effettuate dopo il voto evidenziano una situazione ancora più problematica. Ad esempio, dichiara oggi di approvare l'operato recente del governo solo poco più di un quinto (22%) dei cittadini. Si tratta del livello più basso registrato da diversi mesi a questa parte. Naturalmente, all'interno dell'elettorato di centrodestra, il giudizio è più favorevole, tanto che il 60% esprime una valutazione positiva. Ma è significativo notare che, anche nel sottoinsieme dei votanti per i partiti di governo, ben il 40% esprima un atteggiamento critico verso quest'ultimo.

Se, anziché riferirsi all'ultimo periodo, si domanda un giudizio sull'azione complessiva del governo dalla sua costituzione ad oggi, il risultato è ancora più critico: complessivamente, tre italiani su quattro reputano «deludente» o «pessimo» l'operato dell'esecutivo in questi tre anni, con un significativo incremento rispetto all'analoga risposta data in occasione dei medesimi sondaggi effettuati gli anni scorsi. È di parere negativo sul governo il 23% degli stessi elettori del Pdl (e ben il 55% dei votanti per la Lega).

Alla luce di questi dati, non sorprende che anche l'opinione sulla persona del presidente del Consiglio sia, in questo momento, piuttosto negativa. Le valutazioni favorevoli al Cavaliere si aggirano oggi attorno al 30% (anche in questo caso, uno dei livelli più bassi degli ultimi mesi) e persino all'interno degli elettori del centrodestra, i giudizi sfavorevoli raggiungono la stessa percentuale di insoddisfatti vista in precedenza: quasi un quarto (23%).

Il governo è consapevole di questo stato di cose e, come si sa, ha deciso di reagire per tentare di riconquistare la fiducia degli elettori, varando quel pacchetto di riforme per tanto tempo promesse, ma mai attuate, che erano state alla base del consenso che elesse la maggioranza alle ultime elezioni politiche. Al riguardo, le priorità espresse dai cittadini sono unanimi, sia tra gli elettori di centrodestra, sia tra quelli di centrosinistra: è la riforma fiscale - che per molti significa semplicemente la riduzione delle tasse - ad essere in assoluto la più gettonata, tanto che è indicata da più del 40%. Si sa che i provvedimenti in materia di imposte sono in questo momento i più difficili, data la situazione di bilancio e la conseguente impossibilità di incrementare ulteriormente il deficit pubblico, ma resta il fatto che essi sono i più richiesti dalla popolazione. Segue la riforma della giustizia, mentre appare assai meno suggerito (e forse non compreso) qualsiasi tipo di intervento istituzionale.

Ma sarà davvero in grado il governo di fare queste riforme nei prossimi due anni? Nessuno lo sa, ma la maggioranza degli italiani appare scettica: il 54% ritiene che, tutto sommato, l'esecutivo non otterrà quanto promesso. C'è da dire, però, che anche questo dato medio nasconde una fortissima disparità di opinioni tra gli elettori dei due poli. Infatti, mentre la perplessità è condivisa dall'80% di chi si colloca nel centrosinistra (e dal 70% di chi si considera di centro tout court), la maggioranza (65%) dei votanti per il centrodestra è convinta che l'esecutivo riuscirà nei suoi intenti. Anche se, ancora una volta, c'è una parte consistente (sempre circa un quarto) dell'elettorato dei partiti di governo che appare poco propensa a credere nella capacità di quest'ultimo di reagire efficacemente a questo momento di crisi.

Uno dei motivi che sottostanno alla poca fiducia nella capacità di realizzazione da parte del governo delle riforme promesse sta nell'idea, assai diffusa, che esso non possa restare in carica ancora per molto tempo. Non a caso, la maggioranza relativa (45%) degli italiani ritiene che l'esecutivo non riesca a durare più di un anno (anche se una minoranza consistente, il 41%, continua a pensare - o ad auspicare - che esso giunga al termine naturale della legislatura).

Nell'insieme, l'opinione degli italiani riguardo alla situazione politica e alle prospettive future più opportune risulta, come sempre, divisa a metà, in relazione al proprio credo politico. Ma, da qualche tempo in qua, si intravedono ampie crepe di fiducia anche tra quanti hanno dato fino a oggi il loro consenso al governo. Proprio queste ultime rappresentano oggi il vero pericolo per Berlusconi e per la continuità dell'esecutivo.

Renato Mannheimer

19 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_19/mannheimer-delusi-elettori-lega_2fdcf924-9a4f-11e0-ab5e-79baf40ebd68.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 18, 2011, 04:08:09 pm »

L'Osservatorio

La fiducia nell'esecutivo è in diminuzione

Meno consensi ai partiti, indecisi al 47%

L'equità

Per il 78% degli italiani le misure adottate non sono eque

Anche dopo le modifiche apportate alla manovra varata dal governo, la distribuzione delle intenzioni di voto appare sostanzialmente stabile. Il centrosinistra nel suo insieme (ammesso che, dato lo stato attuale dei rapporti tra i partiti, si possa ancora parlare di una coalizione di centrosinistra) continua ad evidenziare un vantaggio di poco meno di 10 punti sul centrodestra (ammesso, anche in questo caso, che l'espressione «centrodestra» conservi politicamente qualche significato) e il Pd supera il Pdl di circa il 3%. Ma l'insieme dei partiti che appoggiano il governo mostra una tendenza all'erosione dei consensi (come ha osservato Roberto Weber) a vantaggio delle forze di opposizione. Si tratta di una tendenza - per ora quantitativamente modesta - che riflette il diffondersi in certi settori di popolazione di un disagio e di una sfiducia.

Il governo, come si sa, ha subito dopo la presentazione della manovra un calo di consensi relativo sia alla persona di Monti (la fiducia si è abbassata di 11 punti in una settimana), sia l'esecutivo nel suo complesso (per il quale il calo è ancora maggiore e raggiunge il 18%). Buona parte di questo andamento dipende dal fatto che alla grande maggioranza degli italiani (78%) la manovra appare non equa, sia pur considerando i tempi stretti in cui la si è dovuta attuare. Ciononostante, il supporto popolare a Monti rimane ancora molto elevato e riguarda ancora la maggioranza assoluta o relativa (53% per la persona del presidente del Consiglio e 46% per il complesso del governo) degli italiani. Si tratta, considerando l'impatto così pesante della manovra economica, di valori eccezionalmente ampi, che mostrano come la gran parte dei cittadini abbia compreso la drammaticità della situazione e la necessità di un intervento veloce ed efficace. È un pò cambiata negli ultimi giorni la geografia politica del supporto al Presidente: sino a una settimana fa, l'appoggio più esteso proveniva infatti dagli elettori del centrosinistra, mentre oggi il supporto maggiore deriva dai votanti per il Terzo Polo. Ma il consenso per Monti rimane ampio tra gli elettori di tutti i partiti: perfino tra i leghisti, si registra più di un terzo (35%) di consensi. Resta però il fatto che la fiducia ha manifestato un calo significativo e, specialmente, che il clima generale mostra l'accrescersi di un diffuso pessimismo. Quest'ultimo non riguarda solo il governo, ma coinvolge l'insieme delle istituzioni del paese, sia politiche, sia economiche e sociali. L'indice complessivo di fiducia per le istituzioni, calcolato settimanalmente da Ispo, dopo essersi accresciuto in occasione della nomina del nuovo governo, tende da allora ad una costante diminuzione giorno dopo giorno.

Il clima di opinione generale è dunque caratterizzato da tratti contraddittori. Da un verso, ci si rende conto della situazione e si tende ancora in buona misura ad appoggiare il governo. Dall'altro, si fa fatica a digerire le misure imposte e, specialmente, si teme che nel futuro il quadro peggiori ancora. Anche in conseguenza di tutto ciò, accanto alla stabilità (relativa e per certi versi apparente) della distribuzione delle intenzioni di voto, si registra - ed è il fenomeno probabilmente più significativo - un sensibile accrescimento di quanti si dichiarano indecisi sul partito da scegliere alle eventuali prossime consultazioni o sono addirittura tentati dall'astensione. Nel loro insieme, costoro sono passati dal 35% registrato ad ottobre, al 47% rilevato oggi. Insomma, di fronte al contesto attuale, quasi metà degli italiani non sa che partito votare o, peggio, li boccia tutti.

Renato Mannheimer

18 dicembre 2011 | 10:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_18/mannheinmer-osservatorio-fiducia-governo-in-calo_21ed0c5a-2956-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 12, 2012, 07:26:12 pm »

L'Osservatorio

Giovani e lavoro, il sogno resta il posto fisso

Per averlo l'84% è disposto a guadagnare meno

Oltre il 70% è pronto ad allontanarsi da casa per un impiego sicuro. Ma solo il 56 andrebbe in un altro Paese


Davvero i giovani italiani hanno in mente solo il mito del posto fisso e vedono con sfavore l'idea di mettersi in gioco in termini più imprenditoriali? E davvero tendono a cercare solo posti di lavoro vicini alla famiglia di origine?
I dati di una recente ricerca scientifica, condotta tra i giovani fra i 18 e i 34 anni, ci aiutano a comprendere, al di là delle affermazioni e ipotesi che si sono succedute in questi giorni, come stanno realmente le cose.

La sicurezza e la stabilità del posto costituiscono senza dubbio, ancora oggi, l'elemento più attrattivo in un lavoro per la maggioranza relativa dei giovani italiani. Alla richiesta di scegliere qual è l'aspetto più importante in una occupazione, più di uno su tre cita senza esitazione il «posto fisso» che risulta contare assai più dello stipendio e ancor più dell'interesse del tipo di lavoro. Meno del 4% cita come elemento più importante la possibilità di fare carriera o quella di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità. La posizione stabile rappresenta dunque per gran parte della popolazione giovanile (ma anche per quella più matura) il connotato più atteso. Il che è per molti versi comprensibile, dato che non tutti debbono possedere necessariamente uno spirito imprenditoriale e che, nella fase economica che stiamo attraversando, conquistare un posto fisso costituisce per molti un grande privilegio (anche se le ricerche condotte in passato mostrano come anche prima della crisi la stabilità dell'impiego abbia sempre rappresentato l'aspetto più ambito in una occupazione). Risulta particolarmente attratto dalla sicurezza del posto di lavoro chi possiede titoli di studio più bassi e, ovviamente, chi in questo momento è alla ricerca di un impiego.

Questi orientamenti sono confermati anche dalle risposte al quesito relativo alla preferenza tra un lavoro «sicuro anche se meno redditizio» e uno «meno sicuro con più prospettive di reddito»: quasi nove giovani su dieci (per l'esattezza l'84%) optano senza esitazione per la prima alternativa. La remunerazione può anche essere esigua, quello che importa è la sicurezza. Di qui una netta (per il 75%, con una diminuzione, comunque, rispetto a due anni fa quando era l'84%) predilezione per un mercato del lavoro «meno flessibile, con meno possibilità di licenziamenti, anche a costo di stipendi più bassi» piuttosto che uno «più flessibile, ma che favorisce stipendi più elevati». Al riguardo si riscontrano significative differenze territoriali, con una forte accentuazione a favore di una minor flessibilità del mercato del lavoro tra i giovani residenti nelle regioni meridionali (beninteso, anche la gran parte degli under 34 che abitano al Nord opta per quest'ultima alternativa).

Per conquistare il posto fisso, la netta maggioranza dei giovani italiani è disposta ad affrontare molti sacrifici, compreso quello di trasferirsi lontano da casa propria. In particolare, oltre il 70% - e ancor più tra i residenti nel meridione e nel Nord-Est - si dichiara pronto ad accettare un lavoro anche lontano dalla propria regione di residenza (ma il 30%, quasi uno su tre, non risulta disposto a una soluzione simile). Invece solo poco più di metà (56%) dei giovani italiani dice sì all'idea di un posto di lavoro, anche se fisso, in un altro Paese europeo: l'apertura appare molto maggiore tra i giovanissimi fino a 24 anni, mentre si attenua, forse a causa di famiglie già formate, tra chi ha tra i 25 e i 34 anni. È curioso notare che la disponibilità a trasferirsi appare relativamente più elevata tra chi possiede un diploma di scuola media superiore. I laureati, invece, forti del loro titolo di studio, appaiono paradossalmente più restii a spostarsi.
Questa è, dunque, la cultura del lavoro prevalente nelle nuove (ma anche nelle vecchie) generazioni del nostro Paese. Se è vero, come molti autorevoli studiosi e osservatori hanno sottolineato in queste settimane, che la prospettiva del posto fisso a vita è ormai sulla via del tramonto, travolta in particolare dai processi di globalizzazione e dalla sfavorevole congiuntura economica, è vero anche che questo mutamento pare accolto con grande sfavore e ostilità dagli italiani (e non solo da questi ultimi).

Renato Mannheimer

12 febbraio 2012 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_12/giovani-lavoro-sogno-posto-fisso-mannheimer_b7f0cbb0-5548-11e1-9c86-f77f3fe7445c.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 05, 2012, 10:29:24 am »

Elezioni virtuali

Pdl primo partito, Idv sotto lo sbarramento se si andasse al voto con il nuovo sistema

Gli scenari possibili testando le ipotesi di riforma sui numeri delle elezioni del 2008


Uno dei compiti principali - e, secondo i sondaggi, più richiesti in questo momento dalla popolazione - attribuiti ai partiti mentre il governo tecnico procede con le riforme, è il varo, possibilmente unitario, di una nuova legge elettorale, al posto dell'attuale, unanimemente definita una «porcata». I leader delle tre forze politiche principali si sono riuniti e hanno stilato una prima bozza di accordo al riguardo, nella quale vengono delineati i principi ispiratori del nuovo ordinamento. Per quel che si comprende si tratta sostanzialmente di un ritorno al proporzionale con (forse) una soglia di sbarramento ai partiti più piccoli per impedire un eccessivo frazionamento delle rappresentanze parlamentari. Nel suo insieme, ciò comporta un sostanziale abbandono del sistema bipolare sperimentato in questi ultimi anni, forse non necessariamente del bipolarismo come tale. Una conseguenza importante dell'ipotesi messa a punto dai tre leader è che l'elettore non conoscerà più con certezza il governo sostenuto dal suo voto, ma dovrà lasciare, come un tempo, la scelta dei governi agli accordi e alle mediazioni tra i partiti dopo le elezioni, sulla base dei risultati di queste ultime. Tuttavia i margini di mediazione potrebbero essere diversi se il sistema individuasse un partito vincitore anziché una coalizione.


Naturalmente, è impossibile prevedere oggi quale sarà l'assetto parlamentare prodotto dalle nuove elezioni con questo sistema di voto poiché le scelte future dei cittadini sono ignote persino a una gran parte di questi ultimi, dato che nei sondaggi sulle intenzioni di voto, quasi metà degli intervistati dice di non sapere per che partito optare o di essere tentato dall'astensione.
Ma può essere egualmente interessante testare le indicazioni per il nuovo sistema elettorale sui risultati delle ultime consultazioni del 2008. Come sarebbe andata allora se si fosse votato già col nuovo sistema? Berlusconi avrebbe vinto lo stesso? La simulazione che proponiamo tenta di rispondere a questi quesiti ovviamente con un limite: basandosi sui risultati del 2008 la base di partenza presenta per definizione margini minori o maggiori comunque a favore di Berlusconi. Inoltre bisogna cambiare ottica: non chiedersi se c'è, come ieri c'era con l'ampio premio della legge, una coalizione vincente, ma solo un partito. In alternativa al vecchio premio di coalizione, si sta pensando a un premio più modesto (ipoteticamente di 36 seggi) da attribuirsi al partito che ottiene più voti (forse anche al secondo).


Ma prescindiamo per ora da questo premio e esaminiamo i risultati elettorali passati applicando la proporzionale pura e ipotizzando una diminuzione del numero dei deputati (abbiamo per ora limitato la simulazione alla Camera) a 500 invece dei 630 attuali, cioè con la soglia della maggioranza assoluta a 250. Assumendo una soglia di sbarramento al 4%, il Pdl sarebbe come partito più votato il perno del sistema. Tuttavia non si può dire che la governabilità sarebbe favorita e neanche l'alternanza: infatti le alternative sarebbero solo una riedizione dell'intesa Pdl-Lega con un solo seggio di maggioranza, una coalizione ancora più eterogenea con l'Udc o, a quel punto, la più probabile riedizione della Grande Coalizione attuale. Viceversa il Pd non otterrebbe la maggioranza neanche alleandosi contemporaneamente con l'Idv e l'Udc.


Con l'introduzione di una soglia di sbarramento più elevata (5%), Di Pietro perderebbe, secondo i risultati del 2008, la rappresentanza parlamentare. Di fatto se ne avvantaggerebbe il centrodestra: il Pdl potrebbe governare da solo con la Lega con 264 seggi e decidere se allearsi con l'Udc o dar vita a una Grande Coalizione rinnovata. Un risultato comunque appeso al fatto che qualche partito significativo resti sotto lo sbarramento.
Se ora si introduce l'ipotesi di un premio di maggioranza, il quadro si fa più roseo per il primo partito, nel nostro caso per il Pdl. Che non arriverebbe a disporre delle maggioranze attuali, ma potrebbe godere di un discreto vantaggio: infatti sarebbe da solo a 226 o 236 seggi, perno decisivo di un bipolarismo ristrutturato sul partito più grande, in grado di allearsi o con la sola Lega o con la sola Udc. Nel caso di un premio di maggioranza ripartito tra il primo e il secondo partito, la posizione dominante sarebbe assai più esigua.


Sin qui il computo effettuato per semplicità su base nazionale. Ma come si sa, vi è anche l'ipotesi di distribuire i seggi, applicando il sistema d'Hondt su base circoscrizionale. Come si vede dalla tabella, ciò avvantaggerebbe a sua volta i partiti maggiori e renderebbe forse sovrabbondante l'introduzione di un premio di maggioranza. Almeno, in questo caso, si tratterebbe di un computo «naturale» e non di una forzatura dei risultati. E comunque il Pdl recupererebbe il ruolo di partito-perno.
In definitiva, il nuovo ordinamento elettorale tende a rendere più rilevante il ruolo delle forze intermedie, rappresentate qui dall'Udc. Tuttavia possiamo dire che gli esiti sarebbero molto diversi: la distribuzione nazionale dei seggi alla tedesca col solo sbarramento (le prime due colonne) e quella corretta col premio ai primi due partiti (la quinta e la sesta) indebolendo il primo partito tendono a riprodurre abbastanza naturalmente la Grande Coalizione attuale, tendono al Monti-bis. Invece il premio al solo primo partito (terza e quarta colonna) e la soluzione simil-spagnola dell'assegnazione circoscrizionale tendono a rendere il primo partito il perno del sistema, rilanciando il bipolarismo su nuove basi. Insomma, non tutti i proporzionali si equivalgono.

Renato Mannheimer

5 aprile 2012 | 9:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/politica/12_aprile_05/elezioni-virtuali-pdl-primo-partito-mannheimer_3931f822-7ee1-11e1-a959-e67ffe640cb1.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:41:21 pm »

L'Osservatorio

Emorragia di voti per la Lega: è al 6,6%

Se ne vanno giovani, operai e pensionati


La Lega Nord è nell'occhio del ciclone. E le drammatiche vicende interne del movimento di Umberto Bossi hanno avuto ripercussioni non solo sul partito dei lumbard, ma su tutto lo scenario politico.

Naturalmente, la più evidente conseguenza dello scandalo che ha coinvolto la Lega è stato il significativo incremento del trend di erosione dei suoi consensi. Come si sa, il Carroccio aveva ottenuto poco più dell'8% alle ultime elezioni politiche, per crescere ulteriormente sino a più del 10% alle successive europee del giugno 2009. Poi è cominciato il declino. Alla fine del febbraio scorso la Lega raccoglieva nei sondaggi il 9%. Che diveniva l'8,8% alla fine di marzo, il 7,9% il 4 aprile, sino alla perdita di più di un punto percentuale in pochi giorni, che la porta al 6,6% di oggi, il minimo registrato da molti mesi. C'è dunque stato un calo relativamente forte a seguito dello scandalo; ma quest'ultimo non ha fatto che accentuare l'andamento negativo già in atto da un periodo più lungo e originato dalla crisi interna che la Lega vive da molti mesi. In particolare, hanno abbandonato il Carroccio in misura maggiore gli elettori più giovani, gli operai e (ma un po' meno) i pensionati.

I voti persi dal Carroccio in questo lasso di tempo - e, in particolare, nell'ultima settimana - non sono andati, tuttavia, prevalentemente agli altri partiti. La gran parte si è rifugiata, per ora, tra gli indecisi e i tentati dall'astensione. Anche per questo, Roberto Maroni si è dichiarato certo di riuscire a recuperare questi consensi, «facendo pulizia» - a suo avviso già quasi terminata - nel suo partito, per tentare di ridargli un'immagine nuovamente «diversa» da quella delle altre forze politiche. Il problema, naturalmente, è vedere se l'ex ministro dell'Interno può riuscire nel suo intento. Interrogati al riguardo, gli italiani mostrano di avere molti dubbi a proposito: più dell'80% non crede che la Lega sia in grado di riscattarsi dal proprio declino. Sia a motivo della sua crisi interna, sia, specialmente, a causa della ricorrente ambiguità della linea politica e del frequente mutamento degli obiettivi strategici proposti in questi anni dal Carroccio. Solo il 14% (che sale al 35% - restando dunque una minoranza - tra gli elettori del centrodestra) la pensa all'opposto e ritiene che Maroni possa farcela.

L'operazione ipotizzata dal leader leghista appare dunque assai ardua. Anche se, teoricamente, egli può godere di un mercato potenziale di consensi molto ampio, sia pure in concorrenza con altri movimenti di opposizione. La profonda sfiducia nei partiti che, come si sa, è radicata nella popolazione, dà infatti luogo ad una diffusa richiesta di forze politiche «nuove», che si differenzino in toto da quelle tradizionali.

Si tratta di un fenomeno che si è ulteriormente ampliato negli ultimi giorni. Gli ultimi scandali finanziari che hanno coinvolto il Carroccio (dopo avere investito altri partiti), assieme ai ritardi e alle titubanze delle forze politiche nel varare una riforma che regoli e possibilmente tagli i loro abbondanti finanziamenti, hanno infatti contribuito la settimana scorsa a far scendere ulteriormente la stima espressa nei confronti dei partiti presenti sullo scenario politico. Questa si è ormai ridotta ai minimi termini: oggi solo il 2% della popolazione dichiara di avere fiducia nelle forze politiche. Il valore, già esiguo, del 4% rilevato il mese scorso, si è dunque addirittura dimezzato. Il 2% della popolazione adulta corrisponde a circa un milione di persone, vale a dire probabilmente meno di quanti sono attivamente coinvolti ai diversi livelli, da sostenitori a militanti, nei partiti. Ciò significa che una parte di chi vive comunque una vita di partito manifesta al tempo stesso sfiducia in quest'ultimo.

In più, ciò che ci sembra ancora più grave, questa perdita di consenso ha finito col riguardare anche le principali istituzioni democratiche. Ad esempio, la fiducia verso il Parlamento è scesa dal 25% rilevato un anno fa, nell'aprile 2011, al minimo storico dell'11% registrato oggi. Quasi nove italiani su dieci non credono più al principale organo elettivo della nostra nazione e non si sentono più rappresentati da quest'ultimo. Una crisi di consenso istituzionale gravissima. Di fronte alla quale occorrerebbe una reazione forte e immediata.

Renato Mannheimer

15 aprile 2012 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_15/emorragia-di-voti-per-la-lega-renato-mannheimer_2af4a14a-86c7-11e1-9381-31bd76a34bd1.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 23, 2012, 05:02:06 pm »

L'Osservatorio

Intenzioni di voto, Montezemolo e Marcegaglia piacciono a sinistra

I 5 stelle calano dal 18-19% di prima dell'estate al 15-16%


Non passa giorno senza che emerga un nuovo scandalo politico. O una nuova occasione per biasimare il comportamento di questo o quell'eletto (o gruppo di eletti) nelle assemblee nazionali o locali. Le vicende della Regione Lazio rappresentano solo l'ultimo tra gli episodi del genere. Uno degli effetti principali di tutto ciò è, come si sa, l'accrescersi della disaffezione verso la politica e, specialmente, verso i partiti tradizionali. Come si è già rilevato, una quota elevata (grossomodo la metà) dell'elettorato si dichiara intenzionata ad astenersi o è indecisa sul partito da votare. Altri si dirigono verso le forze più marcatamente di protesta, tra le quali primeggia il Movimento 5 stelle. Le intenzioni di voto per quest'ultimo, pur registrando un calo rispetto a prima dell'estate (18-19%) si collocano oggi su livelli comunque molto elevati (15-16%).

Emma Marcegaglia e Luca Cordero di Montezemolo nel 2008 (Afp)Emma Marcegaglia e Luca Cordero di Montezemolo nel 2008 (Afp)
L'ampia quota di elettori critici verso i partiti tradizionali indica l'esistenza di un enorme mercato potenziale per chi si presentasse assumendo un'immagine di diversità e novità rispetto all'offerta oggi esistente. Un po' come accadde dopo Tangentopoli, quando la crisi dei partiti di allora aprì lo spazio al successo di Berlusconi. Non a caso, diversi esponenti della «società civile» hanno manifestato in questi mesi l'intenzione più o meno velata a candidarsi a ruoli istituzionali, proponendo una cesura più o meno forte nei confronti della «vecchia politica».

Uno dei primi a farlo, già da diverso tempo, è stato Luca Cordero di Montezemolo. Nelle ultime settimane, poi, si è parlato di Emma Marcegaglia e di Corrado Passera (che peraltro ricopre già un ruolo di governo). Ancora, di recente, Oscar Giannino ha animato un movimento, che ha già avuto un largo seguito, estremamente critico verso i partiti tradizionali. E diversi altri soggetti esterni alla politica tradizionale si sono affacciati nelle ultime settimane. Qual è lo spazio potenziale di questi «nuovi» soggetti politici? È bene sottolineare che nessuno di essi ha iniziato una vera e propria campagna elettorale e che, quindi, l'ampia parte di popolazione che non segue da vicino le vicende politiche li conosce assai poco. Già oggi, tuttavia, le persone indicate paiono convincere una fetta consistente - anche se, beninteso, minoritaria - di cittadini.

In particolare, Emma Marcegaglia viene presa in considerazione per un eventuale voto alle elezioni da poco meno del 17%; Montezemolo dal 15%, Passera dal 12%. Oscar Giannino, assai meno conosciuto degli altri, tanto che più di un terzo della popolazione dichiara di non averlo mai sentito nominare, si colloca poco sotto l'8%. In qualche misura, vi è una sovrapposizione tra il pubblico di questi esponenti, nel senso che, per circa metà dei casi, chi dichiara di prendere in considerazione uno dei quattro, lo fa anche per almeno un altro. Ma, per il restante 50% si tratta di scelte esclusive, dirette unicamente verso uno dei nominativi qui citati. In generale, dichiarano l'intenzione di votare per i nomi indicati le persone con titolo di studio più elevato e i cosiddetti «colletti bianchi». Sul piano politico i loro sostenitori si collocano più spesso nel centrosinistra, con una accentuazione tra gli attuali elettori del Pd, ove il consenso supera il 20%. Ciò accade anche per Emma Marcegaglia e Luca di Montezemolo che pure sono stati presidenti della Confindustria. Entrambi, più di altri, raccolgono consensi anche nell'Udc.

Come si è detto, Giannino ottiene assai meno consensi, ma anche lui sembra conquistare in misura (relativamente) maggiore gli elettori del Pd (e, nel suo caso, quelli del Movimento 5 stelle) rispetto ai votanti per gli altri partiti. Nell'insieme, questi dati confermano l'esistenza di un iniziale segmento elettorale «nuovo» rispetto ai partiti tradizionali, che raccoglie consensi potenziali anche all'interno di questi ultimi. Si tratta dell'espressione di una prima generica disponibilità al voto, che è però il presupposto del voto stesso. Ma, come detto, la campagna elettorale può cambiare notevolmente questi risultati, nel senso di un loro accrescimento o, anche, di una loro contrazione.

Renato Mannheimer

23 settembre 2012 | 9:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_23/montezemolo-mercegaglia-piacciono-sinistra-mannheimer_7bc394da-054a-11e2-b23b-e7550ace117d.shtml
« Ultima modifica: Novembre 06, 2012, 10:26:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 06, 2012, 10:25:15 pm »

L'Osservatorio

Premio di maggioranza, no da un italiano su due

La metà degli elettori preferirebbe un sistema proporzionale puro, lontano da molti dei progetti discussi in Parlamento


MILANO - Il dibattito sulla riforma elettorale è ancora in corso, senza che se ne veda, a tutt'oggi, una conclusione. Tanto che molti esponenti politici si dichiarano convinti che in primavera si andrà a votare ancora una volta con il tanto deprecato Porcellum, magari lievemente modificato. Insomma, malgrado le promesse dei partiti (al convegno dei Giovani industriali a Santa Margherita nel giugno scorso, i principali leader garantirono il varo del provvedimento entro tre settimane), le caratteristiche del nuovo ordinamento sono lontane dall'essere definite. Restano tuttora in discussione elementi cruciali come l'introduzione o meno delle preferenze e la misura del premio di maggioranza. Al riguardo, abbiamo visto come le preferenze siano richieste a gran voce dai cittadini. La maggioranza degli italiani le interpreta, a torto o a ragione, come una riappropriazione del potere di scelta dei parlamentari da parte del popolo e ritiene invece non così importanti i pericoli di inquinamento e di manipolazione del voto che, storicamente, le preferenze hanno comportato.

PREMIO DI MAGGIORANZA - L'altro grande tema in discussione è il premio di maggioranza. Come si sa, quest'ultimo, pur alterando di fatto, in misura minore o maggiore, l'esito delle consultazioni, garantisce quella governabilità che un sistema proporzionale puro spesso impedisce o comunque rende più difficile, specie in presenza di una frammentazione partitica elevata come in Italia. Ancora una volta, è emerso un orientamento della popolazione che in parte differisce da molti dei progetti attualmente discussi in Parlamento. Poco più del 50% degli intervistati, infatti, si dichiara contrario al premio di maggioranza e incline a un sistema proporzionale puro. Una minoranza, anche se consistente (36%), si esprime invece a favore dell'applicazione del premio. È ragionevole pensare che l'orientamento prevalente della popolazione, avverso al premio, sia legato anche ad una reazione contro la misura attuale - ritenuta eccessiva - di questo bonus. In generale l'atteggiamento dei cittadini è ancora una volta spiegabile con il desiderio di riprendere un maggior controllo sulla composizione del Parlamento e sulla vita politica del Paese nel suo complesso. Risultano comunque relativamente più favorevoli - anche se in misura sempre minoritaria - al mantenimento del premio di maggioranza i cittadini con titoli di studio più elevati e posizioni sociali più «centrali», i giovani e gli elettori collocati nel centro e nel centrodestra (anche se, come emerge dai sondaggi, oggi il premio di maggioranza conviene specialmente al Partito democratico e al centrosinistra).

I PARTITI E IL PAESE - In generale, non è necessario né forse opportuno basarsi sulle opinioni dei cittadini per definire il sistema elettorale. Come è facile intuire, la maggior parte degli intervistati non può conoscere tutte le problematiche tecniche e le conseguenze dei sistemi elettorali e non ne sa pertanto valutare fino in fondo vantaggi e svantaggi. Ma l'atteggiamento degli italiani può quantomeno suggerire l'introduzione di un contenimento dell'entità attuale del premio, già richiesta dalla Corte e prevista peraltro da alcuni dei progetti presentati in Parlamento. In realtà, occorrerebbe definire un sistema elettorale che risponda il più possibile alle necessità del Paese e coniughi al meglio rappresentatività e governabilità (a nostro avviso, avvicinandosi al modello francese a doppio turno). Viceversa, i partiti sembrano pensare sempre più spesso a un sistema elettorale che permetta loro di vincere le prossime elezioni. Tanto che le regole che propongono mutano in relazione agli esiti dei sondaggi di cui via via vengono a disporre. Un'ottica miope e di breve periodo che non fa il bene del Paese.

Renato Mannheimer

4 novembre 2012 | 17:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_04/premio-maggioranza-sistema-proporzionale-mannheimer_7aa8b2da-264f-11e2-8015-d7b141f471a2.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 16, 2012, 11:43:21 am »

L'Osservatorio

Discesa in campo di Monti, sì dal 30%

Più tra i votanti pd che nel Pdl

Favorevole il 44% tra i democratici, no da 8 su 10 nel centrodestra


Tutti - cittadini, forze politiche, osservatori internazionali - attendono (qualcuno anche con apprensione) di sapere se Monti accetterà di candidarsi alle elezioni. La sua discesa in un campo più direttamente politico è auspicata da molteplici persone e istituzioni, ma è, al tempo stesso, vista con sfavore da molti altri, a partire dai dirigenti del partito che raccoglie oggi la più ampia quota di consensi, il Pd. Anche l'insieme dell'elettorato si divide riguardo a una simile prospettiva. Una quota ampia - circa il 30% - la vede con favore. Si tratta, in particolare, dei cittadini di età centrale, con titoli di studio relativamente più elevati. Dal punto di vista politico, si rileva una più accentuata presenza di favorevoli nell'elettorato dell'Udc, ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del Professore, nonostante il parere contrario del segretario. È un altro segno delle differenze di opinione (in certi casi, delle fratture) che caratterizzano già ora il maggiore partito italiano e che potrebbero creare in futuro non pochi problemi a quest'ultimo.

Ma, a fronte dei favorevoli, si contrappone un gruppo, assai più numeroso (61%), di contrari, di varia provenienza politica e sociale. Vi si trovano, in misura relativamente maggiore, i cittadini di più giovane età, i residenti al Sud (e nei piccoli comuni) e, specialmente, gli elettori del Pdl, ove la contrarietà raggiunge quasi l'80%. Ma anche la netta maggioranza dei votanti per la Lega e per il Movimento 5 Stelle (in entrambi i casi il 70%) si dichiara contraria a una candidatura di Monti.
Nell'insieme, tuttavia, i fautori di una presenza del Professore alle prossime elezioni risultano, considerando l'intera popolazione, più di quelli che auspicano la candidatura di Silvio Berlusconi.

Al di là del generico favore (o sfavore) per la discesa in campo del Professore, ci si deve però domandare quale sarebbe l'effettivo seguito su cui Monti potrebbe contare nel caso formasse una sua lista e quello che otterrebbe coalizzandosi con le altre forze politiche che già hanno espresso valutazioni positive sulla sua candidatura. Oggi circa il 3-5% dell'elettorato si dichiara già pronto, senza riserve, a votare alle elezioni una lista capeggiata da Monti. È meno di quanto alcuni osservatori si aspettano, ma occorre ricordare che, anche in passato, alcuni leader sono riusciti a conquistare una platea vasta, pur partendo inizialmente da un consenso limitato. E che altri hanno influito fortemente sulla politica italiana disponendo di meno del 10%. In ogni caso, accanto ai voti «certi», occorre tener conto già oggi del mercato potenziale, composto da chi, pur non avendo già deciso di votarlo, dichiara però di prendere seriamente in considerazione l'opzione per il Professore. Si tratta di un altro 8-10% di elettori. Naturalmente, computando anche gli attuali votanti per l'Udc (in questo momento a circa il 5-6%), per Italia Futura (attualmente attorno al 2%) e per Fermare il declino (1%), il mercato potenziale dei consensi per una coalizione che si ispiri a Monti si accrescerebbe ulteriormente.

Sin qui la situazione attuale. Tuttavia, proprio in queste ore, il quadro delle forze politiche va cambiando rapidamente. Ad esempio, sembra che una parte significativa degli esponenti del Pdl (ma anche, forse, qualcuno del Pd) stia valutando la possibilità di passare ad una lista Monti, nel caso questa si costituisse. Ciò che potrebbe ampliare la platea dei sostenitori di quest'ultima.

Ma, sopratutto, occorre ricordare che una presenza diretta di Monti nella competizione elettorale muterebbe completamente - in positivo per alcuni, in negativo per altri - l'atteggiamento (anche emotivo e psicologico) degli elettori nei confronti dell'offerta politica. Mobilitando ad esempio, in un senso o nell'altro, i molti indecisi (la cui quantità è comunque diminuita negli ultimi giorni). Da questo punto di vista, una candidatura effettiva potrebbe rendere in qualche misura obsolete diverse delle stime ipotizzate sin qui. Non resta dunque che attendere la decisione del Professore.

Renato Mannheimer

16 dicembre 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

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