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Autore Discussione: BERNARD-HENRI LÉVY La distruzione creatrice  (Letto 6772 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2008, 11:55:21 am »

CAPITALISMO

La distruzione creatrice

Crisi finanziaria senza precedenti, Usa entreranno in una fase nuova della propria storia, nulla sarà più come prima

di BERNARD-HENRI LÉVY


Certo, siamo sull'orlo del baratro. Questa crisi finanziaria è senza precedenti. Gli Stati Uniti entreranno in una fase nuova della propria storia, dove nulla sarà più come prima: né il modo di regolazione dei mercati; né il modello consumistico che era al centro dell'etica capitalista.

E non sarà più come prima nemmeno il famoso «American dream», al cui proposito pochi sanno, in Europa, che la realizzazione più clamorosa era l'acquisto di una casa, con o senza subprime. Certo, i primi a beneficiare di questa rovina sono tutti i fanatici, talebani o altri, consapevoli che i 700 miliardi di dollari che serviranno a riacquistare alle banche i loro prodotti tossici equivalgono, più o meno, al costo della grande operazione antiterroristica che si sarebbe potuta compiere in Afghanistan o nelle zone tribali pachistane e alla quale l'America impoverita sarà costretta a rinunciare. Senza parlare dell'incertezza che, cosa perlomeno inquietante, nessun responsabile politico è capace di eliminare in maniera chiara: i famosi 700 miliardi, per esempio, corrisponderanno al riacquisto di crediti o a una partecipazione azionaria nel capitale delle istituzioni vacillanti (il che non è la stessa cosa e farebbe dello Stato federale un autentico «Stato azionista» seguendo il modello svedese o finlandese)? O saranno finanziati da prestiti? Se sì, sottoscritti da chi? Siamo così sicuri che il contratto di fiducia che regge i rapporti degli Stati Uniti con il resto del mondo resti sufficientemente solido perché i fondi sovrani indiani, cinesi o del Qatar si precipitino su un nuovo titolo che avrà come inconveniente, fra l'altro, di svalutare quello che già detengono?

Insomma, per queste ragioni e altre ancora, è giusto dire che viviamo un evento colossale, forse inaugurale, di cui siamo lungi dal vedere tutte le conseguenze: l'inizio di una nuova era; una sorta di anno zero del capitalismo nuovo; l'equivalente, per il capitalismo, fatte le debite proporzioni, di quello che fu per il comunismo il crollo del Muro di Berlino. Resta il fatto che l'evento ha avuto anche un altro aspetto, sul quale trovo sia un peccato che i commentatori, europei in particolare, non insistano maggiormente. La rapidità di reazione, prima di tutto, che la cacofonia di queste ultime ore non smentisce. Il pragmatismo, cioè il coraggio di alti funzionari che, come il segretario al Tesoro Harry Paulson jr., per tutta la vita hanno creduto al capitalismo deregolato, l'hanno considerato vangelo e, in una notte, si sono convertiti ai principi dell'economia diretta dallo Stato.

Il vigore del dibattito democratico che è seguito, che ha visto senatori e congressmen rifiutare di lasciarsi ingannare e, ancor meno, di cedere al panico o al ricatto e imporre al potere esecutivo un certo numero di emendamenti la cui lista sembra non sia chiusa: uno scaglionamento del versamento dei 700 miliardi secondo un calendario debitamente controllato dalle Camere; un codicillo che dà al popolo sovrano un potere di controllo sulla remunerazione di dirigenti che hanno portato le loro imprese al naufragio e che, d'ora in poi, non hanno altri diritti se non quello di raddrizzare il timone; misure aggiuntive in favore dei nuovi senza tetto espulsi dalle proprie case o dei piccoli imprenditori strangolati dal rarefarsi del credito. Per quanto riguarda la storia dei fondi sovrani, in particolare di quelli cinesi, ci sono due possibili interpretazioni: la caduta finale di un «impero» riacquistato come rottame dall'incarnazione stessa di quello che lo nega; oppure un'astuzia della Storia che consente di legare come mai prima il dispotismo asiatico cinese al suo grande avversario storico e, così, di stroncarlo. Ciascuno è libero di scegliere e scommettere.

È Schumpeter che parlava delle turbolenze, anche drammatiche, che scandiscono la storia del capitalismo come di fasi di «distruzione creatrice». Ed è John Galbraith che caratterizzava il capitalismo stesso come una strana macchina che trova la propria energia nella crisi, sia nella depressione o la disfatta, sia nel successo. Le crisi stanno al capitalismo come gli scandali alla democrazia. Secondo alcuni, questi scandali sono la prova che la democrazia non funziona più, mentre secondo altri il fatto stesso che scoppino dimostra la sua incoercibile vitalità. Ebbene, lo stesso vale per la crisi attuale: una probabile cura dimagrante planetaria, una messa in dubbio generalizzata dopo tempi di esuberanza folle e la dimostrazione che il sistema, checché se ne dica, è sempre vitale. traduzione di Daniela Maggioni


(traduzione di Daniela Maggioni)
10 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:54:59 pm »

LA COMMEMORAZIONE DELL’OLOCAUSTO

I morti della Shoah per sempre senza tomba


di Bernard-Henri Lévy


«Non bisogna lasciare, dicono alcuni, che i morti seppelliscano i morti e che l’oblio, il buon oblìo, cicatrizzi le ferite del passato? Sì certo, bisognerebbe.
Del resto, nulla è più conforme ai comandamenti della Torah dell’ingiunzione evangelica di seppellire subito, una volta per tutte, i morti. Salvo quando sono morti che, appunto, non sono sotterrati. Quando sono morti la cui morte stessa implicava che fosse senza tomba. Quando sono morti di cui era previsto che non lasciassero traccia in alcun luogo. Allora sì, spetta ai vivi essere le tombe viventi di quei morti. Allora sì, in via eccezionale, è dovere dei sopravvissuti portare in sé il ricordo dei padri che, per sempre, avranno l’età dei propri figli. Noi siamo le tombe dei nostri padri... I morti, i poveri morti, hanno grandi dolori...

Sono parole di Baudelaire. È il caso della Shoah.

La Shoah, dicono ancora alcuni, fu un grande crimine. Ma cosa vi fa dire che sia più grande di altri? E perché, nel susseguirsi di crimini che è la storia degli uomini, darle un posto d’eccezione? Non si tratta di questo, naturalmente. E nulla è più estraneo alla tradizione ebraica dell’idea di stabilire, fra i morti, una qualsiasi gerarchia. Salvo che, allora, si verificò un evento senza precedenti. Un progetto di messa a morte che non solo implicava l’assenza di tracce, ma l’impossibilità per le vittime di trovare un luogo, uno solo, dove sottrarsi ai loro carnefici. Le vittime di altri genocidi potevano, in teoria, a condizione di trovare asilo in un Paese vicino, sfuggire agli assassini. Per gli ebrei, nessuna via d’uscita.

L’Europa intera e presto, in teoria, tutto il mondo, divennero un’immensa trappola. Lo sterminio — è questa la sua singolarità — non doveva avere sopravvissuti e non lasciava via di scampo.

La nozione di sterminio senza sopravvissuti è importante per un’altra ragione, concreta: questa ragione è Israele. Infatti, di nuovo, si sente dire: «Sì, d’accordo, un crimine; sì, a rigore, un crimine singolare; ma perché aver installato i superstiti della tragedia nell’unica parte del mondo che non partecipò al crimine e che è il mondo arabo?». Di nuovo, la risposta: è il mondo stesso che divenne trappola; non ci fu una sola parte del mondo in cui non soffiò il vento infausto di questa morte; e il mondo arabo non fu da meno nel progetto di sterminio senza sopravvissuti. Oggi, abbiamo tutte le informazioni sulla questione. Abbiamo le Memorie del Gran Muftì— hitleriano — di Gerusalemme.

Abbiamo i lavori degli storici che raccontano come la legione Ss araba aspettasse, dietro l’esercito di Rommel, il momento di attaccare e sterminare gli ebrei già insediati in Palestina. Sappiamo, in altre parole, che il nazismo fu un’ideologia mondiale che conobbe versioni nazionali e, in particolare, una versione araba. Commemorare la Shoah serve anche a ricordare questo.

Per la commemorazione della Shoah, si sarebbe potuto scegliere il giorno dell’apertura dei campi di sterminio. O quello della Conferenza di Wannsee. O qualsiasi altro giorno che testimoni il martirio degli ebrei. Invece no. È stato scelto il 27 «nisan» del calendario ebraico: quest’anno, il 20 aprile e dunque l’anniversario dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia. Negli aspri dibattiti che guidarono tale scelta, questo dettaglio non sfuggì certo a nessuno. Cosa significava? Che si voleva infrangere il luogo comune di un popolo che va a morire come le bestie al macello.

Che si volevano celebrare episodi eroici come le rivolte di Sobibor, Birkenau, Treblinka. Che si voleva commemorare un massacro, ma anche una resistenza. Per me, che son figlio di un resistente e non di un deportato, questa volontà è essenziale. Essa invita a ricordare che c’è sempre una possibilità, persino nella notte più nera, di insorgere e di sperare.

Un’ultima parola. Poiché parliamo di calendario, è invece un puro caso che si sia aperta, lo stesso giorno, la conferenza «antirazzista» di Durban II. Di nuovo, si sono levate alcune voci per dire: «Non temete, fissando lo sguardo sui vecchi genocidi, di non scorgere quelli che avvengono qui, adesso, sotto i vostri occhi?». Non c’è da temerlo. Poiché, oltre al fatto che la suddetta conferenza si è tramutata in una carnevalata, che è stata utilizzata da un criminale come Ahmadinejad per infangare il bel concetto di antirazzismo, possiamo capovolgere la domanda.

Perché tutte le istituzioni votate al ricordo della Shoah si sono mobilitate per il Darfur? Perché i primi ad aver capito quel che succedeva in Ruanda furono coloro che, ebrei o no, avevano a cuore la Shoah?

Perché, quando il mondo chiudeva gli occhi sul massacro dei musulmani in Bosnia, a suonare l’allarme furono uomini che in comune avevano soltanto un pensiero, il «mai più» di Auschwitz?

Eppure, non erano più informati di altri. Avevano giusto una bussola. Una scala del male e del peggio. Una sorta di radar che ogni volta segnalava la prossimità della Bestia e il suo caratteristico profumo. È questo il ricordo della Shoah. Ed è per questo che bisogna commemorarla.

traduzione di Daniela Maggioni


22 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:20:03 pm »

FERMARE LE PERSECUZIONI
Dobbiamo spingere l’Islam moderato a intervenire per i cristiani d’Oriente
Nessuno ormai può fare molto: l’essenziale dell’impegno, dell’azione di forza, dovrà venire dallo stesso mondo arabo-musulmano

di Bernard-Henry Lévy

Nel gennaio del 2011 avevo pubblicato un articolo intitolato «Come salvare i cristiani d’Oriente?». Poco tempo prima, papa Benedetto XVI aveva dichiarato che i cristiani erano divenuti, su scala planetaria, «il gruppo religioso esposto al più gran numero di persecuzioni a causa della loro fede». E osservando, dall’Egitto alla Nigeria - dove la setta Boko Haram cominciava a farsi conoscere -, dalle Filippine al Sudan e alla cattedrale di Bagdad funestata da una spaventosa carneficina, la serie di crimini anticattolici verificatisi nella sola notte di Natale, gli avevo evidentemente dato ragione. In quell’articolo spiegavo come un miscuglio di laicismo mal compreso, di odio di sé europeo e di antimperialismo alla Pavlov ci stesse rendendo ciechi di fronte al capovolgimento storico che trasformava una religione a lungo conquistatrice e dominante in una religione dominata, martirizzata, i cui fedeli venivano bollati di un’infamia mortale. E predicevo che, se non si fosse fatto nulla, se la comunità internazionale non avesse preso atto della situazione, se non avesse protestato - all’unanimità e soprattutto unendosi in una sola forza - contro l’ondata anticristiana, andavamo verso un disastro umano, un crimine contro lo spirito e la civiltà, da lungo tempo senza precedenti in quella parte del mondo.

Caccia ai cristiani
Ed ecco che, tre anni e otto mesi più tardi, l’antica città assiro-caldea di Qaraqosh è stata svuotata dei suoi cristiani, che non hanno avuto altra scelta se non la conversione, l’esilio o la morte. A Mosul, l’antica Ninive, le case cristiane sono state contrassegnate da una «N», come nazareni: un invito ad andarsene per gli uni e un permesso di saccheggiare e depredare per gli altri. Nei borghi e nelle borgate circostanti, a Hamadanyia, Bartella, Tall Kayf, in tutta la parte settentrionale dell’Iraq adiacente al Paese curdo, come nelle regioni della Siria dove altri squadroni di folli di Dio e di banditi edificano il secondo lembo del loro Stato islamico, si parla - ma non è stato possibile verificare tutte le informazioni - di esecuzioni sommarie e di massa, di donne incinte sventrate, di giovani uomini crocifissi, insomma di intere comunità di fedeli cui si fa rivivere, duemila anni dopo, lo stesso martirio di Cristo.

Se a questo si aggiunge il caso degli yazidi di Sinjar, una minoranza i cui riti si ispirano a religioni dell’antica Persia e al sufismo, ma anche al cattolicesimo, e che per gli islamo-fascisti è un altro covo di Satana, è tutta la regione del Levante - la culla del Cristianesimo, che tanto ha fatto per la ricchezza spirituale dell’umanità e dove ancora si parla, nelle chiese, la lingua stessa di Gesù - che sta diventando non solo judenfrei , ma christlichfrei , «ripulita» dei suoi cristiani, dopo esserlo stata dei suoi ebrei. Allora, davanti a questa serie di crimini, di fronte a quella che possiamo chiamare la soluzione finale di una questione cristiana che da secoli ossessiona, checché se ne dica, la regione, cosa si può fare?

Chi reagisce
La Francia alza la voce, e va bene. Ban Ki-moon parla di crimine contro l’umanità, e va benissimo. Gli Stati Uniti di Barack Obama emergono infine dal loro sonno isolazionista per portare rinforzi ai peshmerga curdi, l’unica forza regionale, per il momento, che osa resistere e far fronte al nemico, e non possiamo che rallegrarcene. Ma nulla di tutto questo sarà sufficiente, lo sappiamo per certo, a far tornare a casa i cristiani perseguitati. E la verità è che l’essenziale dell’impegno, dell’azione di forza, dovrà venire dallo stesso mondo arabo-musulmano. Prendiamo ad esempio l’Arabia Saudita, che è alleata dell’Occidente, e dove da anni e anni si incoraggia e si finanzia una jihad cui gli uomini di Al-Baghdadi non hanno fatto altro alla fin fine che dare la sua forma più radicale: non è tempo di spingerla ad assumersi le proprie responsabilità? E il Qatar che, con una mano, compra club sportivi, luoghi di memoria o quanto di meglio esiste dell’apparato industriale di tale o talaltro Paese europeo e, con l’altra, pratica a domicilio un anticristianesimo ordinario che può solo incoraggiare gli assassini: non abbiamo i mezzi diplomatici, politici, economici per aiutarlo a chiarire le sue vere intenzioni? Non è urgente riflettere con tutte le capitali arabe - dove non sono molte, sia detto en passant , le autorità morali o religiose ad aver espresso il loro orrore per l’operazione di purificazione etnico-spirituale in corso a Mosul e a Qaraqosh - sul miglior modo di fermare, prima che sia troppo tardi, orde di assassini di cui si dovrebbe dire chiaramente che la bandiera nera non ha nulla a che vedere con la loro? Infatti la sfida è proprio qui. O i sostenitori dell’Islam tollerante e moderato sconfessano e combattono i khmer verdi del Levante; oppure non ne hanno il coraggio e la mistica della Umma prevarrà sull’amore per la vita e la propria sopravvivenza e andranno dritti alla guerra di civiltà che quei barbari hanno dichiarato, e di cui le loro donne, i loro figli ed essi stessi saranno, dopo i cristiani, il prossimo bersaglio.

(traduzione di Daniela Maggioni)
20 agosto 2014 | 09:06
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_20/dobbiamo-spingere-l-islam-moderato-intervenire-cristiani-d-oriente-882dd0c6-2836-11e4-abf5-0984ba3542bc.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 10, 2015, 03:55:56 pm »

L’eredità di Charlie
Non alziamo le mura di una fortezza
Di fronte a quanto accaduto, la Francia deve ricompattare le difese, ma superando la paura ed evitando stati di emergenza.
E chi di noi segue l’Islam ha la responsabilità di affrancare la sua fede dalla malattia dell’estremismo

Di Bernard-Henri Lévy

Dodici volti. Dodici nomi, alcuni dei quali sono stati chiamati ad alta voce, come si fa con i condannati a morte prima dell’esecuzione. Dodici simboli della libertà di ridere e di pensare, barbaramente assassinati e oggi compianti dal mondo intero. Per questi dodici, per Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Bernard Maris e tutti gli altri, per questi martiri dell’umorismo che ci hanno fatto tante volte morire dal ridere e che invece, loro, ne sono morti per davvero, il minimo che possiamo fare è dimostrarci all’altezza del loro impegno, del loro coraggio e, oggi, del loro lascito.

Ai vertici della nazione francese spetta il compito di prendere atto della guerra che non hanno voluto vedere ma nella quale si trovavano ormai da anni, e impegnati in prima linea, i giornalisti di Charlie, quei redattori e vignettisti che erano - come ormai sappiamo - quasi degli inviati di guerra, dei Robert Capa della matita e del tavolo da disegno. Questo è il momento della verità della Quinta Repubblica.
È l’ora di guardare in faccia una realtà implacabile e di affrontare una prova che si annuncia lunga e terribile. È l’ora di smetterla, una volta per tutte, con i discorsi concilianti che ci propinano da tanto tempo gli idioti ammaestrati di un islamismo che si stempera nella sociologia della miseria e dell’esasperazione. Ma più di ogni altra cosa è venuta l’ora - adesso o mai più - di mostrare quel sangue freddo repubblicano che ci impedirà, pur guardando in faccia il male, di abbandonarci allo stato di emergenza e alle sue funeste semplificazioni. La Francia può - anzi, deve - ricompattare le difese che non siano, però, le mura di una fortezza assediata. La Francia deve - e lo deve a se stessa - mettere in campo un antiterrorismo senza poteri speciali, un patriottismo rivitalizzato, ma senza Patriot Act, una governabilità che, in poche parole, non cada in nessuno dei tranelli dove rischiarono di naufragare gli Stati Uniti dopo l’11 settembre.

A questo ci hanno invitato implicitamente le parole del segretario di stato americano John Kerry, che fu dieci anni or sono l’avversario sfortunato ma dignitoso di quel pessimo antiterrorista di George W. Bush. L’omaggio da lui reso nella nostra lingua, il francese, ai dodici martiri di quello che oltreoceano si chiama il Primo emendamento, quel «Je suis Charlie», ripetuto nello stesso francese del discorso commovente del presidente Roosevelt, l’8 novembre del 1942, sulle onde di Radio Londra, non ha forse avuto il doppio merito di ribadire non solo la dimensione epocale dell’avvenimento, ma anche di rivolgere alla nazione alleata un velato ammonimento contro la tentazione, sempre in agguato, di far ricorso alla tortura, a Guantánamo, e alla biopolitica liberticida?

A noi tutti, cittadini, spetta il dovere di superare la paura, di non reagire al terrore con lo spavento, di non armarci contro lo spauracchio dell’altro, di non cadere preda di sospetti diffusi, quasi sempre frutto di simili eventi traumatizzanti. Nel momento in cui scrivo, la saggezza repubblicana ha avuto la meglio. Quel «Je suis Charlie» inventato lì per lì, e come all’unisono, in tutte le grandi città della Francia, segna la nascita di uno spirito di resistenza degno del nostro passato migliore. E gli istigatori degli animi, che predicano senza sosta la divisione tra i francesi autoctoni e i discendenti degli immigrati, coloro che seminano zizzania e - al Front National come altrove - già vedono in queste dodici esecuzioni una nuova rivelazione divina a conferma dell’inesorabile avanzata della marea islamica e della nostra vile genuflessione ai profeti della «Sottomissione», ebbene costoro non avranno i risultati sperati.

Tuttavia, resta ancora aperta la questione: fino a quando? È essenziale che alla «Francia ai francesi» di Marine Le Pen e dei suoi sostenitori continui a rispondere, passata l’onda emotiva, l’«Union Nationale» dei repubblicani di ogni sponda, di ogni schieramento e di ogni origine, che hanno avuto il coraggio, nelle ore successive alla mattanza, di scendere nelle piazze e nelle strade. Perché l’Unione Nazionale è l’opposto della Francia ai francesi. L’Unione Nazionale resta - da Catone il Vecchio fino ai teorici del Contratto sociale moderno - uno splendido valore che, proprio perché conoscitore della guerra giusta, sa dove si nasconde il vero nemico.
L’Unione Nazionale è quella nozione che ha fatto capire ai francesi che gli assassini di Charlie non sono «i» musulmani, bensì un’infima frazione di coloro che confondono il Corano con un manuale di supplizi. Ci auguriamo che sarà questa idea a radicarsi e portare frutto dopo il magnifico risveglio del nostro senso profondo di cittadinanza.

A quelli di noi che seguono la fede islamica, vorrei dire che sarebbe opportuno protestare a voce altissima, e numerosissimi, sostenendo il rifiuto di questa forma fuorviante e spregevole di passione teologo-politica. I musulmani di Francia non sono, come si ripete fin troppo, obbligati a giustificarsi, ma invitati a manifestare la loro fraternità concreta con i loro concittadini massacrati, e così facendo a eradicare una volta per tutte la menzogna di una comunanza spirituale tra la loro fede e quella degli assassini.

I musulmani di Francia hanno la grande responsabilità, davanti alla storia, di gridare a loro volta quel «not in our name» dei musulmani britannici, che si sono così voluti distinguere, lo scorso agosto, dagli sgozzatori di James Foley. Ma hanno anche la responsabilità, più urgente ancora, di proclamarsi realmente figli di un Islam di tolleranza, di pace e di misericordia. Occorre liberare l’Islam dall’islamismo. Bisogna dire e ripetere che ammazzare la gente in nome di Dio equivale a fare di Dio un assassino. E ci si augura che non solo i saggi teologi, come l’imam di Drancy, Chalghoumi, ma anche l’immensa folla dei loro fedeli, sappiano dichiarare, finalmente, che il culto del sacro, in democrazia, è una minaccia alla libertà di pensiero; che le religioni, agli occhi della legge, altro non sono che delle credenze sullo stesso identico piano delle ideologie profane; e che il diritto di riderne e di discuterne, come quello di accettarle o respingerle, è un diritto di tutti gli esseri umani.

È su questo sentiero difficile, ma liberatorio, che procedevano quei pensatori dell’Islam che ho avuto il privilegio di conoscere dal Bangladesh alla Bosnia, dall’Afghanistan fino ai Paesi della primavera araba, e dei quali voglio ricordare il nome: Mujibur Rahman, Izetbegovic, Massoud, gli eroici caduti di Bengasi, come Salwa Bugaighis, sotto il fuoco o le lame dei barbari sicari degli assassini di Charb, Cabu, Tignous e Wolinski. È il loro messaggio che bisogna ascoltare.
È il loro testamento tradito che occorre recuperare al più presto. Anche da morti, costoro restano la prova vivente che l’Islam non è condannato a questa malattia preconizzata da uno dei nostri poeti e filosofi, Abdelwahab Meddeb, che ci mancherà più di tutti nei tempi bui che si profilano all’orizzonte. Islam contro Islam. Luci contro la Jihad. La civiltà pluralista d’Ibn Arabi, di Rumi e dei trattati di ottica di al-Haytham, contro i nichilisti dello Stato Islamico e i loro sicari francesi.
È questa la battaglia che ci aspetta, e la combatteremo tutti insieme.

(Traduzione di Rita Baldassarre)

9 gennaio 2015 | 07:39
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_09/non-alziamo-mura-una-fortezza-75db4928-97c9-11e4-bb9d-b2ffcea2bbd2.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 26, 2015, 11:57:34 am »

Profughi in Europa: tanta disinformazione e pochi diritti
La maggioranza scappa da dittature e violenze. Noi fatichiamo a capirlo e rischiamo di indirizzarli verso una marginalità che può diventare criminale
Di Bernard-Henry Lévy

In Europa, il dibattito sulla questione dei migranti sta via via assumendo connotazioni demenziali. Abbiamo cominciato costruendo un concetto contenitore, un mostro giuridico, ovvero «i» migranti, che non ha alcun senso e tende anzi a cancellare una differenza che sta al centro del nostro Diritto, oltretutto essenziale, tra immigrazione economica e politica, ovvero tra i rifugiati spinti dalla povertà e quelli scacciati dalla guerra, tra la famosa e universale «miseria del mondo» di cui nessuna società, per quanto solidale e generosa, potrà mai farsi carico interamente, e i superstiti dell’oppressione, del terrore, dei massacri, verso i quali abbiamo invece l’obbligo di offrire ospitalità incondizionata, che si chiama diritto di asilo.

Quando ci si mette d’accordo su questa distinzione, lo si fa soprattutto per affrontare un altro travisamento, e cioè quelle affermazioni ingannevoli che vogliono far credere all’opinione pubblica europea impaurita e sconvolta che tutti quegli uomini, donne e bambini, che hanno pagato migliaia di euro per il privilegio di imbarcarsi sulle carrette del mare che vediamo sbarcare a Lampedusa o sull’isola di Kos, appartengono alla prima categoria, mentre nell’80 per cento dei casi essi fanno parte della seconda: sono profughi che fuggono dalle dittature, dal terrore, dalla guerra, dal fondamentalismo religioso, dalla jihad anticristiana in Siria, Eritrea, Afghanistan, e che la legge ci impone di esaminare non in massa, ma vagliando ogni singolo caso.

Quando ci si metterà d’accordo e, cifre alla mano, non avremo altra soluzione che quella di ammettere che siamo davanti a gente che fugge, per la stragrande maggioranza, da persecuzioni mostruose e da morte sicura, allora innalzeremo - come ha fatto questa settimana il titolare della diplomazia russa - una terza cortina fumogena, affermando cioè che le guerre da cui fuggono i profughi sono le guerre in corso nei Paesi arabi da noi bombardati, mentre si tratta - sempre cifre alla mano - di un’immigrazione proveniente soprattutto dalla Siria, tra i Paesi arabi, dove né l’Europa né il mondo hanno voluto affrontare una guerra che avevamo il dovere di fare, in virtù del diritto internazionale, quando un dittatore pazzo, dopo aver sterminato 240 mila suoi concittadini, si è messo in mente di svuotare il suo Paese. Abbiamo ancora ben impresso, grazie alle immagini e ai filmati televisivi, il mito di un’Europa-fortezza presa d’assalto da ondate di nuovi barbari mentre, se consideriamo il solo caso della Siria, non è verso l’Europa che si rivolgono di preferenza i profughi, bensì verso Turchia e Libano - due milioni nel primo caso, un milione nel secondo (su una popolazione di tre milioni e mezzo). Nel frattempo, in Europa la somma dei nostri egoismi ha sancito il fallimento di un piano di ricollocamento e ridistribuzione di 40 mila rifugiati!

Per quei pochi che scelgono comunque la Germania, la Francia, la Scandinavia, il Regno Unito e l’Ungheria, nessuno sembra rendersi conto che siamo davanti a una popolazione non di nemici, venuti per distruggerci o per vivere alle nostre spalle, ma di candidati alla libertà, innamorati della nostra terra promessa, del nostro modello di società, dei nostri valori, che inneggiano «Europa! Europa!» proprio come milioni di emigranti europei, sbarcati a Ellis Island, gridavano «America! America!». E non voglio nemmeno far cenno a quelle infami dicerie che questo assalto immaginario sarebbe orchestrato dagli strateghi clandestini di un travaso di popolazioni venute a soppiantarci, o peggio ancora, da una jihad internazionale che avrebbe trovato la filiera perfetta per infiltrare i suoi futuri terroristi nei Thalys di domani. Conseguenza di questi tentennamenti è un Mediterraneo abbandonato agli scafisti che sono i veri beneficiari del vuoto giuridico in cui ci dibattiamo, e che abbiamo la vana pretesa, per di più, di voler combattere «senza tregua». Il risultato è un Mare Nostrum che si va trasformando in un gigantesco cimitero marino - 2.350 annegati in mare solo dall’inizio di quest’anno.

E quando sfuggono all’inferno, questi individui restano senza nome e quasi senza volto, e la società dello spettacolo, così pronta a confezionare una celebrità al giorno, da riciclare instancabilmente da una rete d’informazione all’altra allo scopo di dare spazio e voce a qualsiasi crisi del maiale, sciopero dei camionisti o rivendicazione dei tassisti, la società dello spettacolo - dico - non è stata capace, in questa occasione, di interessarsi a uno solo di quei destini. Sono uomini e donne che si mettono in cammino seguendo le orme di una certa principessa Europa giunta da Tiro sulle nostre sponde qualche migliaio di anni fa, ma contro i quali l’Europa, stavolta, innalza i suoi muri. Nasce così una popolazione di senza diritti della quale Hannah Arendt già a suo tempo osservava che avrebbe finito, prima o poi, per considerare l’illegalità e la caduta nella criminalità paradossalmente come l’unica via percorribile per accedere al mondo di coloro a cui i diritti sono garantiti. In breve, siamo davanti a un’Europa ripiegata sulle sue contraddizioni, aizzata da nazionalisti e da xenofobi, travagliata da mille insicurezze, un’Europa che volta le spalle ai suoi valori perché ha semplicemente smarrito la sua identità.

Per chi suona la campana? Anche per l’Europa, che vediamo agonizzare sotto i nostri occhi.

(Traduzione di Rita Baldassarre)
26 agosto 2015 (modifica il 26 agosto 2015 | 07:34)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_agosto_26/profughi-europa-tanta-disinformazione-pochi-diritti-816f2e32-4bb3-11e5-b0ec-4048f87abc66.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 26, 2015, 11:57:17 am »

Siria, perché non ci possiamo fidare di Putin per risolvere il rebus
Vienna, Russia e Usa dialogano.
L’interesse di Mosca non è solo combattere il terrorismo, vuole rafforzare la sua influenza sull’area


Di Bernard-Henri Lévy

Non esiste, certo, una buona soluzione in Siria. Più esattamente, non esiste più una buona soluzione, da quel sabato nero di fine agosto del 2013, quando l’opposizione moderata ancora reggeva, quando lo Stato Islamico non era ancora uscito dal limbo e quando Barack Obama, con uno stupefacente voltafaccia, rinunciò, in extremis, a bloccare la macchina da guerra di Damasco che aveva appena superato la linea rossa, da egli stesso fissata, dell’utilizzo di armi chimiche. Tuttavia, nell’inferno delle cattive soluzioni, ce n’è persino una peggiore, forse la peggiore di tutte: è quella di Vladimir Putin.

I caccia russi Sukhoi hanno preso di mira, per prima cosa, le regioni di Idleb, Homs e Hama, zone in cui - secondo tutti gli osservatori indipendenti, «jihadwatchers» e altri, che lanciano allarmi scrutando filmati messi on line dalle stesse autorità russe - lo Stato Islamico non si è impiantato. Ciò vuol dire che il loro obiettivo, perlomeno in un primo tempo, non erano gli jihadisti ma l’insieme dell’opposizione, compresa quella democratica, al regime di Bashar al-Assad.

Lo scopo appena velato di questo intervento non è di contribuire alla «lotta contro il terrorismo» che la comunicazione politica del Cremlino invoca, ma di rimettere in sesto, costi quel che costi, il regime che lo ha generato. Più precisamente, lo scopo è di salvare, dopo averla sostenuta impiegando grandi sforzi, una dittatura che la diplomazia americana e quella francese ritengono, a ragione, responsabile non solo del rafforzamento dell’Isis, che era l’ultima carta di Assad per apparire agli occhi del mondo come un minor male e come un baluardo, ma della morte di 260.000 uomini, donne, bambini vittime della sua follia criminale.

Si dirà che il passato è passato e che, tenuto conto del disastro generale, l’intervento russo avrà almeno il merito di fermare la catastrofe? No. Infatti, visto che l’offensiva viene portata avanti «alla Putin», cioè secondo i metodi sperimentati durante le due guerre in Cecenia, ovvero senza preoccuparsi delle procedure e delle precauzioni in uso negli eserciti occidentali, la prima conseguenza dell’intervento sarà di aumentare il numero di morti civili, non di diminuirli. Il mondo è rimasto giustamente scosso davanti alla spaventosa bavure americana sull’ospedale di Kunduz, in Afghanistan. Quanti Kunduz siriani dovremo deplorare dovuti ad attacchi sconsiderati dell’aviazione russa? Quante nuove carneficine, se si continua a privilegiare le bombe a caduta libera rispetto ai missili guidati?

Quanto ai profughi, come si può credere anche per un solo istante che il metodo Putin sia capace di attenuare la loro tragedia? Spingendo decine di migliaia di nuovi civili a fuggire dai suoi attacchi indiscriminati, spianando il terreno agli squadroni della morte di un regime che negli ultimi mesi dava segni di stanchezza, demolendo, infine, le ultime speranze che si potevano nutrire sulla creazione, a sud della Giordania e a nord della Turchia, di zone santuarizzate o di zone-tampone degne di questo nome, Putin aggrava ancora la crisi e butta sulle strade d’Europa gli ultimi oppositori che, finora, avevano resistito. Dico «le strade d’Europa»: infatti la Russia, non essendo né la Germania né la Francia, si premurerà, oltre che di terrorizzarli, di chiudere loro le proprie frontiere.

Una informazione, divulgata dai mass media russi ma curiosamente poco diffusa in Occidente: mentre posizionava aerei, elicotteri da combattimento e forze speciali, Putin ancorava l’incrociatore lanciamissili Moskva, con le sue decine di missili antiaerei, nel porto di Latakia. Lo Stato Islamico si sarebbe forse dotato, a nostra insaputa, di una flotta aerea cui bisognerebbe impedire di nuocere? Evidentemente no! Di qui a concludere che per il Cremlino sarebbe un bersaglio legittimo ogni aereo chiamato a sorvolare un territorio che esso considera ormai proprio, non c’è che un passo. E dato che questi aerei, per definizione, possono solo volare sotto la bandiera di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia o di altri Stati membri della coalizione, non è difficile immaginare il tipo di escalation in cui questo ragionamento potrebbe trascinare il mondo.

Per fortuna, non siamo a questo punto. Ieri a Vienna i capi delle diplomazie americana e russa, John Kerry e Sergei Lavrov, si sono incontrati per tenere aperto un canale di dialogo. Ma non si pretenda di presentarci una operazione che, fino a oggi, mira soltanto a dare alla Russia il controllo del cielo siriano e ad assicurare, al suolo, i suoi interessi di grande potenza, come un rafforzamento della coalizione anti-Isis. Putin non è solo un pompiere piromane, è un imperialista all’antica. Se prendiamo il caso dell’Ucraina: lo spiegamento di forze siriano ha anche il fine di farne dimenticare lo smembramento; poi dei Paesi baltici, della Polonia, della Finlandia o, ormai, della Turchia, dove i Mig russi continuano a testare le frontiere aeree insieme alla solidità del legame con la Nato, constatiamo che Putin è entrato in una strategia di aggressione soft il cui scopo principale, lo dico da mesi, è l’indebolimento dell’Europa.

Mi auguro che gli europei se ne preoccupino prima che sia troppo tardi. Mi auguro che, per esempio in Francia, non si ceda al canto delle sirene di un appeasement che, dal Front National all’estrema sinistra, sta diventando il segnale di adesione a un Partito dalle frontiere invisibili, ma in fin dei conti abbastanza coerenti, che bisogna decidersi a chiamare il Partito Putin.

(Trad. Daniela Maggioni)
24 ottobre 2015 (modifica il 24 ottobre 2015 | 14:52)
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