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Autore Discussione: ALDO GRASSO.  (Letto 77506 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Marzo 17, 2013, 11:29:06 pm »

Padiglione Italia

La primavera dei giovani turchi

Il Grande fratello in Parlamento

La «nuova linfa» di Bersani, si richiama in realtà a un sogno infranto: sembra dalemiana.

E la gente vuole il reality


Se la legislatura non durerà a lungo, Bersani dovrà chiedere ragione ai suoi «giovani turchi», gli Orfini, gli Orlando, i Fassina e i loro affiliati. Dovevano dare al segretario un tocco di modernità nella tradizione e portare dentro al Pd un nuovo significato «a parole come rappresentanza, cittadinanza, mobilità sociale». Dovevano essere la nuova linfa del trionfo bersaniano, ma sembrano solo la caricatura dei «Lothar dalemiani», il pensatoio del Baffino composto da teste lucide (per via della rasatura).

Si sono chiamati «giovani turchi», forse in onore del movimento politico nato nell'Impero ottomano all'inizio del '900 (un sogno infranto miseramente) o più probabilmente per richiamare i giovani turchi sardi di Cossiga alla conquista della Dc. Per chi ha amato «les jeunes turcs» della Nouvelle Vague (Truffaut, Godard, Chabrol...), la corrente di Matteo Orfini è solo fonte di scoramento.

Per contrastare i «rottamatori» si sono persino dotati di un Manuale dei Giovani turchi, scritto da Francesco Cundari, al cui confronto il Manuale delle Giovani marmotte sembra un libro sapienziale. La mitologica Chiara Geloni, direttrice di Youdem, spiega che il libro «con dovizia di dati e rigore scientifico indica chiaramente ai lettori la strada da intraprendere..., schema di gioco e strategia, esercizi per tenersi in forma, manifesto ideologico e bozza per lo statuto del partito (dopo la presa del potere)». Sì, presa del potere: a ogni apparizione televisiva di Stefano Fassina, migliaia di voti s'involavano; Andrea Orlando si occupa del Forum giustizia del Pd e Orfini di cultura, settori nei quali la competenza sarebbe quantomeno necessaria.

Orfini dice che si può tornare alle urne, magari senza Bersani, magari con un Renzi più a sinistra, chi ci capisce è bravo. L'altra sera, ospite di Lerner, esponeva le sue strategie come un vecchio dalemiano: turchi fuori, ma tirchi dentro. Non c'è da stupirsi poi che il reality sia entrato in Parlamento: se i professionisti della politica sono questi, è giusto che la gente comune venga traghettata dall'anonimato ai banchi di Montecitorio secondo il format del Grande fratello.

Aldo Grasso

17 marzo 2013 | 15:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_17/primavera-giovani-turchi-pd-bersani-grasso_48c366f2-8ee1-11e2-95d7-5288341dcc81.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Aprile 14, 2013, 07:26:49 pm »

Padiglione Italia

Roberta, la vertigine del potere di una «cittadina» maldestra

La grillina Lombardi fa l'antipatica tra gaffe e svarioni


Non si pretende cortesia istituzionale, ma solo cortesia. Quando Roberta Lombardi, capogruppo M5S alla Camera, ha commentato con i giornalisti le ipotesi di un nuovo mandato a Giorgio Napolitano, invitandolo a fare il nonno, a godersi la vecchiaia, ha mancato di sensibilità. Napolitano le avrà anche confessato la fatica del Colle, ma la cosa doveva finire lì, non giocata come alibi.

Non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Irretiti dalle loro certezze, intolleranti verso chi non vuole infeudarsi alle allucinazioni ideologiche.

Eterodiretti dalla Grillo & Casaleggio Associati, suppliscono alle scarse doti politiche con la supponenza e il disprezzo. I vecchi peones che hanno riscaldato gli scranni del Parlamento almeno non facevano danni, erano coscienti della loro nullità.

Questi sono pasticcioni e presuntuosi. Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori. Se si rivolge a un giornalista avverte: «Casaleggio mi ha cazziata perché vi dico troppo». In diretta sul canale web La cosa annuncia che la sala riunioni assegnata al M5S (si chiama ora Sala Tatarella) verrà dedicata a Giancarlo Siani. Lei però lo chiama Angelo. Ieri le hanno rubato pure il portafoglio con gli scontrini delle spese, addio trasparenza!

La Rete - elevata dai grillini a entità metafisica, hacker compresi - si è riempita di parodie e di sberleffi nei suoi confronti.
Su Raitre, Andrea Sambucco e Brenda Lodigiani fanno la parodia di Lombardi e Crimi.

A lei tocca la parte dell'antipatica. «Noi non abbiamo bisogno di parlare con la società civile, noi siamo la società civile»: solo lo «smacchiatore» Bersani poteva farsi umiliare da questa coppia di comici tristi, Vito lo Smentito e la «cittadina» Roberta.

Però fanno paura gli sprovveduti che mirano al potere e lo raggiungono per l'effetto combinato di astuzia e naïveté.

Aldo Grasso

14 aprile 2013 | 9:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_14/roberta-la-vertigine-del-potere-grasso_06ae3f22-a4ca-11e2-9ee4-532c6d76e49d.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Aprile 26, 2013, 10:53:02 pm »

LA SORPRESA

E il M5S fa autogol con lo streaming

Letta sembra un giovane cattedratico e i grillini studenti fuoricorso: giornata nera per Grillo e Casaleggio associati

di  ALDO GRASSO


Una giornata nera per la Grillo & Casaleggio Associati. Enrico Letta, i grillini, se li è mangiati in un solo boccone. Sembrava il giovane cattedratico che interroga i fuori corso e usa l'esame per spiegare ancora una volta, con santa pazienza, il programma del corso. I ripetenti implorano il diciotto politico e il professore, per bontà, glielo concede, non prima di avergli chiarito per l'ennesima volta come funziona l'università: bisogna studiare.

La differenza con il precedente incontro in streaming con Pier Luigi Bersani è stata impressionante: Bersani sembrava intimorito e i portavoce del M5S se ne sono approfittati per umiliarlo. Letta, per quanto stanco e scoraggiato di incontrare un muro di gomma, ha mostrato subito di essere di un'altra pasta, di conoscere bene l'arte della mediazione, di essere assertivo quando occorre: «In questi sessanta giorni la forza che voi rappresentate, sia numerica che reale nel Paese, è entrata in Parlamento e non ha voluto partecipare alle decisioni assunte. Sarebbe frustrante se questa indisponibilità a mescolare idee e voti si protraesse». I portavoce del M5S (questa volta in formazione quattro più quattro, tipo Nora Orlandi) erano in seria difficoltà, non sapevano cosa rispondere, si rifugiavano nel politichese, s'impantanavano in formule astratte.

Certo che i grillini sembrano non avere alcuna strategia, alcun fiuto politico, tanto da consegnarsi alle stoccate del professore, come quando hanno tirato fuori la questione dell'elezione a presidente della Repubblica di Rodotà e prontamente Letta ha fatto loro notare che se avessero votato Prodi avrebbero cambiato lo scenario della politica italiana.
Si fa presto a parlare di streaming, di Web, di comunicazione globale, ma a un certo punto è saltata fuori la parola «incomunicabilità», che non si sentiva più dai tempi dei film di Michelangelo Antonioni. Letta ha accusato i grillini di incomunicabilità, temeva di vivere in diretta il dramma della frustrazione espressiva (la scena sembrava tratta da «Le sedie» di Ionesco, 1952), di essere di fronte a una sorta di nevrosi espressiva che corrode il linguaggio e le speranze, di vedere in Vito Crimi e in Roberta Lombardi il sigillo dell'incapacità di comunicare.

E invece, prese le misure, li ha sovrastati, ha mostrato la pochezza dei quattro più quattro (gli altri che hanno parlato facevano quasi tenerezza per impreparazione e incapacità di esprimersi). Tra l'altro, in termini puramente retorici, il peso delle metafore questa volta ha schiacciato i grillini e Letta è stato ben attento a pascolare nel concreto. Per i grillini senza streaming non c'è democrazia, tutto deve avvenire in diretta davanti a una telecamera. Lo streaming è l'unica garanzia contro i sotterfugi.

Diversamente dal passato, questa volta però lo streaming non ha funzionato come caricatura della democrazia e della comunicazione: limitarsi ad avvolgere ogni rapporto sociale, a mantenere vivo il contatto fra le parti, ad accorciare le distanze, senza preoccuparsi troppo dei messaggi. Questa volta lo streaming è servito per conoscere meglio il programma di Letta, senza le fantasie dei retroscenisti e senza complessi di inferiorità nei confronti della presunzione. La politica ha vinto sul velleitarismo.

Giovedì sera due case sono state assalite da dubbi e inquietudini. Nella casa della Grillo & Casaleggio Associati si sarà discusso a lungo sulla performance di Crimi e Lombardi (da abbiocco collettivo, «scongelatevi» ripeteva loro Letta) e la voglia di cambiare i portavoce sarà stata grande. Nella casa del Partito democratico le lodi a Letta saranno forse risuonate anche come rimprovero a Bersani. Par di capire che il 25 Aprile non è morto, come vuole Beppe Grillo.

26 aprile 2013 | 10:24

DA - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_26/M5S-streaming-autogol-grasso_c85b8f9e-ae2a-11e2-b304-d44855913916.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:40:34 pm »

Padiglione Italia

La parabola del senatore Zanda

Intransigente (non con se stesso)

Si scopre che anche lui aveva il suo raccomandato


A più di settant'anni, quando per tutta la vita hai corso come numero due, è difficile fare il numero uno. Luigi Zanda (Cagliari, 1942) figlio di Efisio Zanda Loy, capo della polizia di Stato dal 1973 al 1975, è sempre stato in seconda fila. Con compiti istituzionali di rilievo, con incarichi prestigiosi, ma sempre un passo indietro. Prima dietro a Cossiga, poi dietro a Rutelli, poi a Franceschini. Da non molto è presidente dei senatori pd, scelto direttamente da Bersani (un numero due diventato per poco uno).

Ha una faccia antica, da comprimario western, un taglio di capelli che un tempo si sarebbe detto «all'umberta». In pubblico non si conosceva la sua intransigenza, il suo radicalismo e molti ne sono rimasti stupiti. Sta di fatto che, appena varato un faticoso governo di «larghe intese» benedetto dal Colle, Zanda se ne esce con la storia della ineleggibilità di Berlusconi. In un'intervista all'Avvenire, Zanda tuona contro i pubblici vizi e le private virtù del Cavaliere: è ineleggibile. Applausi dai grillini. A tanta severità (come un Casson qualsiasi), segue una frettolosa marcia indietro, visto che il suo partito, per ragioni politiche, non vuol fare saltare le intese. Non contento, Zanda presenta un disegno di legge che vieterebbe al Movimento Cinque Stelle di partecipare alle elezioni. Ira dei grillini. Retromarcia: «Non volevo punire nessuno, ma se questa è l'interpretazione non ho alcun interesse a mantenere il provvedimento».

Tanto va l'intransigente al lardo che... Dopo aver tuonato contro il sindaco Alemanno per aver fatto assumere suoi protetti, si scopre che anche Zanda aveva raccomandato un tizio a Giovanni Hermanin, presidente dell'Ama di Roma. Zanda confessava anche di «non conoscere personalmente il dottor B., ma mi vengono garantite le sue capacità professionali e la sua correttezza istituzionale. Ti sarò molto grato se vorrai farmi avere notizie sulle fasi istruttorie attraverso le quali l'istanza verrà esaminata. Con viva cordialità...».
Con viva cordialità, Nietzsche sosteneva che per ridare etica alla politica bisognava impiccare i moralisti. Forse esagerava, però, da numero due, i costumi è più facile assecondarli che correggerli.

Aldo Grasso

26 maggio 2013 | 8:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_26/parabola-del-senatore-zanda-grasso_333a9bf2-c5cd-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Giugno 12, 2013, 05:51:18 pm »

A fil di rete

La lirica kitsch e la caramella Clerici


Si educa il pubblico con il kitsch? È giusto sopperire alla mancanza di valori etici di base con l'esaltazione di valori estetici facili e fittizi? Queste domande mi assalivano ogni volta che osservano Antonella Bon Bon Clerici, vestita con carta di caramella rosa. Leggeva il gobbo e parlava di musica lirica come fosse una prova del cuoco. Bassa cucina, insomma.
Dall'Arena di Verona, per festeggiare «cento anni d'opera», Rai1 ha mandato in onda uno spettacolo organizzato da Gianmarco Mazzi (ex direttore artistico di Sanremo): «Lo spettacolo sta per iniziare». Mai titolo fu più azzeccato. Perché chiamare Andrea Bocelli, José Carreras e Placido Domingo, mettere in fila i brani più celebri della lirica («una hit parade della lirica!»), costringere il pubblico alla pañolada, dedicare Casta diva a Franca Rame non significa costruire uno spettacolo, anzi (lunedì, ore 21,15).

Certo, il kitsch seduce («il bisogno di guardarsi allo specchio della menzogna che abbellisce e di riconoscervisi con commossa soddisfazione», M. Kundera): è sufficiente sentire gli highlights delle opere - da E lucean le stelle alla marcia dell'Aida, da Largo al factotum al brindisi della Traviata, da All'alba vincerò al Va' pensiero - per illudersi di frequentare gli anfratti dell'Arte.
«Lo spettacolo sta per iniziare». Mai titolo fu più azzeccato. Omaggio all'Arena, omaggio a Giuseppe Verdi, omaggio a Luciano Pavarotti (la seconda signora Pavarotti era ospite della serata), ma se la giustapposizione surroga lo spettacolo l'attesa diventa infinita. Venerdì prossimo, su Classica (Sky, canale 728), dall'Arena sarà trasmessa in chiaro l'Aida di Giuseppe Verdi, diretta dal maestro Omer Meir Wellber. Ecco una buona occasione per confrontarsi con il concetto di cultura popolare, così com'era inteso alla fine dell'800. Ecco come si fa spettacolo. ©

Aldo Grasso

12 giugno 2013 | 8:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/spettacoli/13_giugno_12/grasso-la-lirica-kitsch-caramella-clerici_c689c170-d31b-11e2-b757-6b1a3e908365.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 23, 2013, 05:50:13 pm »

Padiglione Italia

L'incredibile storia del latte avariato con tanti complimenti al frodatore

C'è sempre qualcuno che si crede più scaltro degli altri

Questa è una storia italiana, tutta italiana, troppo italiana. Renato Zampa, leader del Cospalat del Friuli Venezia Giulia, è stato arrestato.
L'accusa lo vede implicato nel commercio di latte tossico. L'indagine è stata condotta dai Nas di Udine. Oltre a Zampa, sono stati eseguiti altri arresti domiciliari.

L'ipotesi di reato è pesante: associazione per delinquere finalizzata alla frode in commercio, adulterazione di sostanze alimentari e commercio di sostanze alimentari pericolose per la salute. Secondo gli accertamenti degli investigatori, coordinati dalla Procura di Udine, sarebbe stato messo in commercio volutamente latte contaminato da aflatossine, una muffa cancerogena che può avere effetti gravi sulla crescita dei bambini. In alcuni casi è stata certificata anche la presenza di antibiotici.

Quelli della Cospalat erano consapevoli di praticare una frode commerciale in piena regola. In un'intercettazione telefonica, l'amministratore di un caseificio del napoletano fa i complimenti a Renato Zampa, per avere aggirato i controlli: «Me lo dicevano che sei un grande uagliò!».
Per il frodatore ci sono solo complimenti.

Renato Zampa era già salito agli onori delle cronache come uno dei leader della protesta contro gli accordi comunitari sulle «quote latte», un movimento che, alla pari di altre azioni sviluppatesi in diverse regioni italiane, aveva dato vita a clamorose rimostranze. Gli allevatori rivendicavano il diritto che il mercato del latte dovesse «appartenere a chi lavora e produce», lottavano per «poter controllare le future scelte in agricoltura», sbandieravano la «purezza» del latte italiano, trovando il forte appoggio della Lega Nord.

Oggi, quegli sforamenti ci costano una multa che si aggira sui quattro miliardi di euro, giusto i soldi che ci mancano per scongiurare l'aumento dell'Iva.

Una storia italiana: mentre tutto il mondo esalta il cibo made in Italy, da noi c'è sempre qualcuno che si crede più scaltro degli altri.

La regola d'oro è: promettere secondo la nostra furbizia, mantenere secondo i nostri inganni. Per dire: un esercizio commerciale su tre continua a non emettere scontrini o ricevute fiscali.

Aldo Grasso

23 giugno 2013 | 11:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/cronache/13_giugno_23/incredibile-storia-del-latte-avariato_bb7441ce-dbcd-11e2-b46d-07a6952a1aaf.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Luglio 20, 2013, 07:02:24 am »

A fil di rete

Trent'anni di Canale 5

Non basta il colore rosa

Aldo Grasso

In tv, il passato è sempre in bianco e nero, fatalmente. Il bianco e nero sono le radici della tv, il senso di profondità, la distanza che la storia esige. Canale 5 non conosce questa dimensione, perché il colore è un eterno presente, indifferenziato. Ci vorrebbero altri espedienti per dare ordine alla memoria, il colore rosa non basta, anzi.

Ma era il caso di celebrare i trent'anni di Canale 5 con un programma all'insegna della povertà? Due o tre quinte recuperate dal magazzino, Alfonso Signorini troneggiante in un salotto da tv locale, Belen Rodriguez spacciata come una «grande» artista. Canale 5 è stato ed è un canale fondamentale nella storia della tv italiana (rottura del monopolio, nuovi sistemi produttivi, costruzioni inedite del palinsesto, infrastrutture tecniche, mercati...), non può essere ridotto a un'illustrazione del settimanale Chi . Merita ben altro. Qui siamo fermi a «Ieri e oggi », trasmissione della Rai del 1967.

Per dire, l'altra sera Marco Columbro, nel raccontare la sua avventura a Mediaset, rimpiangeva i tempi eroici delle origini, quando il Capo (Silvio Berlusconi) non faceva mai mancare «grandi» mezzi a disposizione; nell'enfasi del ricordo «Studio 5» dava l'impressione di una vetrina di saldi (mercoledì, ore 21.24). Ragazzi, non c'è più un euro!

A sentire parlar Belen e il suo compagno Stefano de Martino (recitavano la loro «grande» storia d'amore), a rivedere Paola Barale si ha la sensazione che Canale 5 sia stato solo un «grande» (l'aggettivo preferito di Signorini) network di pettegolezzi, di gossip.

Inutile poi invitare Enrico Mentana (il 13 gennaio 1992 iniziava la «grande» avventura del Tg5) se poi la parte del leone la fanno Cesara Buonamici e Cristina Parodi e tutto stinge nel rosa. I rischi dei piani inclinati della memoria: si scivola sempre verso ciò che varrebbe la pena di dimenticare.

19 luglio 2013 | 8:30
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/spettacoli/13_luglio_19/a-fil-di-rete-trent-anni-di-canale-5-non-basta-il-colore-rosa-aldo-grasso_74eb8f0c-f02f-11e2-ac13-57f4c2398ffd.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Luglio 27, 2013, 06:39:57 pm »

A fil di rete

L'abisso tra Francesco e i talk show sul Papa

Le direttrici comunicative di Bergoglio mettono in crisi cerimonie liturgiche e format tv: il Papa richiede un linguaggio nuovo

Aldo Grasso


Succede che il messaggio sia più innovativo del mezzo. Rare volte, ma succede. Detta così, è un'affermazione un po' rozza, ma serve a capire. Detta così, smentisce un po' l'enfasi scolastica con cui padre Giulio Albanese, ospite in studio, citava Marshall McLuhan.

Bruno Vespa ha condotto uno speciale di Porta a porta sul Papa a Rio: «Francesco tra i giovani». Lo ha condotto a suo modo, in maniera molto istituzionale, si potrebbe dire con i soliti modi curiali, coma fa di solito, indipendentemente dal tema trattato. Ci fosse stato un altro Papa, lontano dallo stile inaugurato da Jorge Mario Bergoglio, avrebbe usato le stesse parole. Ma qui non interessa parlare delle persone: Vespa, Floris o altro conduttore di talk, il discorso non cambia (Rai1, giovedì, ore 21,21).

Papa Bergoglio ha inaugurato alcune direttrici comunicative che la tv da salotto fatica a comprendere e, soprattutto, a rappresentare. Non bastano gli ospiti in studio (alcuni dei quali sono opinionisti buoni per tutte le occasioni, Monti o Bergoglio non fa differenza), non bastano i servizi degli inviati alla Lorena Bianchetti. «Uscire per strada, farsi prossimo con i più umili»: l'aspetto che più colpisce del nuovo patto retorico instaurato dal Pontefice è quello della «prossimità», che è un modo nuovo e informale di rapportarsi con i fedeli, con la «gente comune». Ma che è anche un modo per mettere in crisi gli incontri ufficiali, persino le cerimonie liturgiche.

Ecco, ci vorrebbe un format diverso, un linguaggio nuovo per far risaltare questa potenza carismatica che ha spiazzato non poco i media tradizionali. Non basta la parola, non bastano le opinioni. Tra il fare di Bergoglio e la mediazione televisiva del talk per ora c'è un abisso.

«Uscire per strada, farsi prossimo con i più umili»: a Roma come a Copacabana è il Papa a cercare la gente. Scendere in strada, non frequentare i salotti.

27 luglio 2013 | 8:34
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da - corriere.it
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:42:21 am »

Padiglione Italia

Dudù, l’aristocane perplesso ci spiega come va la politica


Forse, fra vent’anni, l’immagine che verrà tramandata di questi giorni convulsi non sarà quella delle macerie di un Paese trascinato nel buio istituzionale e in una crisi economica senza precedenti; c’è da sperare che le nostre risorse siano tali da eleggere invece un’immagine apparentemente insignificante, un cane che fissa smarrito l’obiettivo di una macchina fotografica, a simbolo di una vecchia e amara verifica: quanto più si conoscono gli uomini, tanto più si amano i cani.

Dudù, il suo nome è Dudù. Dietro un cancello, il cane di Francesca Pascale, la fidanzata-ombra di Silvio Berlusconi, è rimasto solo nel cortile di palazzo Grazioli nel famoso giorno della sentenza. È rimasto solo, osserva perplesso e abbaia ai cronisti che si assiepano all’esterno, anch’esso espressione attonita del «cerchio magico». Ah, lo sguardo dei cani! La solitudine di Dudù (aristocane, un nome che ricorda i fasti capresi, la meglio gioventù partenopea) si carica di metafore politiche: l’impossibilità di poter raddrizzare le gambe ai cani, le fazioni partitiche che si guardano come cani e gatti, la politica come esercizio di menare il can per l’aia.

C’era da prevederlo: il barboncino della Pascale, un batuffolo di pelo bianco, ha scatenato le solite ironie sul web: «Francesca ha già trovato con chi consolarsi», «Il Cavaliere è solo come un cane», «Dopo Empy (il cane di Monti ricevuto in dono alle «Invasioni barbariche ») ecco Dudù, mondo cane!»... Eppure Dudù nasconde altre profonde verità. La prima è la legge esplicitata in modo definitivo nella «Carica dei 101»: il cane è il ritratto spaccato del suo padrone; l’uomo è un cane che immagina di essere uomo, o viceversa. La seconda, esposta in «Vita da cani» (A Dog’s Life di Charlie Chaplin), dimostra che i cani sono i veri politici: osservano ogni cosa, non perdono una sola mossa di una persona, sanno come comportarsi, conoscono i nessi dei rapporti umani.

Se li voti (se li sfami) non tradiscono. Questo ci dice il cane Dudù, allegoria del nostro tempo: «Lo sguardo dei cani quando non capiscono e non sanno che possono aver ragione a non capire» (Italo Calvino, Il barone rampante).

4 agosto 2013 | 8:25
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Aldo Grasso

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_04/dudu-aristocane-perplesso_bb250c1e-fccd-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Settembre 08, 2013, 04:14:08 pm »

Padiglione Italia

L'audace sfida di Rotondi, «l'appassionato»

L'ex ministro pronto a scendere in campo contro Renzi


La cosa migliore per un politico è non avere il senso del ridicolo. Privato della bardatura (che un tempo uccideva ma oggi è condizione necessaria alla crescita della notorietà), il politico riesce a sacrificare la reputazione passata con la stessa audacia con cui rinuncia alla stima futura.
Ma sopravvive, si espande.

Giorni fa, l'ex ministro Gianfranco Rotondi ha annunciato via Twitter la sua candidatura a premier: «Ho scritto a Berlusconi che sono pronto a sfidare Renzi perché anche il centrodestra è capace di sfide appassionatamente politiche». È quell'avverbio, «appassionatamente», che colpisce e che avrà di sicuro colpito Silvio Berlusconi. Rotondi è un democristiano nato a Dc morta, un post-intellettuale della Magna Grecia, sponda Gerardo Bianco (è avellinese come Gigi Marzullo, post-intellettuale della Magna Grecia, sponda De Mita), un appassionato collezionista di sigle: Dc, Ppi, Cdu, Udc, Nuova Dc, Dc Autonomie, Nuovo Psi, Forza Italia e Pdl. Ha scritto vari libri, tra cui Il caso Buttiglione. I dieci anni dei democristiani senza la Dc.

Il suo è un pensiero appassionato e la passione tinge dei propri colori tutto ciò che tocca: «Il nostro testimone di nozze Berlusconi è un uomo semplice e pulito che negli anni ha conquistato la simpatia delle nostre tre bambine, che non può essere certo contestato per candore e onestà personale». Ancora: «Mussolini, De Gasperi e Berlusconi sono tre mondi opposti ma li unisce l'identica base sociale declinata diversamente. Se non capite il nesso tra Mussolini, De Gasperi e Berlusconi è colpa dei libri che avete letto». E poi ancora: «Lei crede che il parlamentare navighi nell'oro? Conosco colleghi costretti a fare il conto della serva. Siamo addirittura all'afflizione. 8 mila euro di indennità più 4 mila di portaborse. Fanno 12 mila. Forse c'è qualcos'altro, vabbé...».

Un suo ex sodale sostiene che da diversi anni Rotondi si dedica all'arte sicula dell'annaccarsi («il massimo di movimento con il minimo di spostamento») continuando a fingersi democristiano e a incensare il Cavaliere. Malignità, invidie. Non si può immaginare quanta determinazione sia necessaria per offrire il fianco al ridicolo. E Rotondi, se non altro, non difetta di determinazione.

8 settembre 2013 | 8:07
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Aldo Grasso

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_08/rotondi-grasso_ab27d6f2-1848-11e3-9feb-01ac3cd71006.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Ottobre 07, 2013, 05:12:45 pm »

A FIL DI RETE

Concita spezza il pane della cultura

Là dove c’era Augias ora c’è Concita. A spezzare il pane quotidiano della cultura, a spezzarlo per noi, lavagne non scritte in trepida attesa che qualcuno scriva su di noi, pungolati dall’infernale buona volontà di acculturarci per via televisiva («Pane quotidiano», Rai3, dal lunedì al venerdì, ore 12.45 e in replica ore 20.15).
Concita De Gregorio è la perfetta incarnazione della professoressa democratica, regina dolente del ceto medio riflessivo e della correttezza politica, Madame Bovary del progressismo finto sexy: «Sono nell’ambiente da anni, ho pubblicato con molte case editrici e la nostra linea guida sarà sempre e solo la qualità di ciò che si pubblica». Ambiente, linea guida, qualità sono parole che mettono qualche brivido e l’idea che la cultura possa nutrire («Le pain quotidien» è una catena internazionale di ristorazione, arredamento in legno grezzo e cibo un po’ fighetto) è solo un’idea da Bouvard e Pécuchet, i due oscuri copisti che cercano la Salvezza Eterna nei libri senza accorgersi di essere solo servi obbedienti dell’Opinione mainstream.
Concita invita ospiti portatori di libri «importanti», perché lei, alla Cultura, ci tiene: libri da Festival della letteratura, libri che «ti cambiano la vita», libri di amici. Spezzati ogni giorno davanti a un pubblico di liceali, universitari, apprendisti del Sapere: «Io non sono d’accordo con chi dice che con la cultura non si mangia, in un Paese come l’Italia che ha questo come risorsa, un giacimento di storia incommensurabile che è una straordinaria occasione di crescita». Per intanto, alla Risorsa, ci pensa lei. Ma quando si afferma che la cultura deve servire, si privilegia l’utilità nei confronti della cultura. Che, invece, è dubbio, effrazione, sprezzatura, quel rarissimo dono per cui essa non ostenta mai segni di riconoscimento, ma resta nascosta, creata quasi per gioco.
04 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Grasso

Da – corriere.it
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« Risposta #86 inserito:: Ottobre 16, 2013, 05:08:12 pm »

La polemica Brunetta-Fazio, la Rai e gli stipendi

Denunce giuste e moralismi sbagliati

La polemica Brunetta-Fazio, la Rai e gli stipendi
Denunce giuste e moralismi sbagliati

Decide il mercato, soldi ben spesi se il programma ha un buon ritorno pubblicitario. Calmierare i compensi è opportuno


Fino all’altro ieri, Fabio Fazio era l’uomo più corteggiato d’Italia: case editrici, case discografiche, case cinematografiche, politici, chiunque avesse qualcosa da promuovere sul mercato avrebbe fatto carte false per entrare in quel salotto. Adesso è diventato la vittima sacrificale. Per di più, non uno dei suoi famosi invitati è intervenuto in sua difesa.
L’on. prof. Renato Brunetta, invitato a «Che tempo che fa», si è divertito a sfregiare il galateo di quella trasmissione. Come ha scritto il Foglio , «Là, dove tutti mozartianamente si danno la mano, si danno di gomito, si baciano/abbracciano/complimentano, cenacolo e ritrovo e tavernetta casalinga dei mejo italiani, in tre inauditi minuti Renato Brunetta ha messo i piedi sul tavolo, il dito nell’occhio, le mani nel piatto. Insopportabile. Implacabile. Imperdibile».
L’on. prof. Brunetta, membro della Commissione di vigilanza Rai, ha pubblicamente rivelato i guadagni del conduttore e ha messo in discussione le modalità del rinnovo del suo contratto.
Senza fare il tifo né per l’uno né per l’altro, proviamo a ragionare su quanto è successo. Sui milioni che Fazio guadagna si è subito aperto il fuoco amico e nemico: Grillo, il solito Codacons, parte del «popolo del Web». I soldi sono tanti, ma, senza infingimenti e moralismi, la cosa più importante è che quei soldi siano un buon investimento. Se Fazio, con i suoi programmi, riesce ad avere un ritorno pubblicitario proficuo significa che quei soldi sono ben spesi. A Mediaset, a Sky, a La 7 fanno così.
Si dirà, ma la Rai è servizio pubblico. Veramente, come abbiamo scritto più volte, la Rai ha perso da tempo la sua identità ed è diventata una tv fra le tante. L’accesso al bene pubblico radiotelevisivo è ormai alla portata di tutti, la pluralità delle istanze politiche, sociali e culturali è assicurata dalla varietà e molteplicità dei canali, dei media, delle fonti. Ma c’è ancora una canone da pagare e bisogna tenerne conto. La Rai, in estrema sintesi, ha una doppia natura giuridica: è pubblica in quanto è partecipata dal ministero dell’Economia e delle finanze (99,56%) e il suo contratto di servizio è stipulato con il ministero dello Sviluppo economico; è privata in quanto è una spa. Nella sua storia, la Rai ha sempre giocato su questa duplice identità. Alla fine, però, chi è il vero editore di Viale Mazzini? Sono i partiti politici attraverso quel fenomeno triste e umiliante che si chiama lottizzazione (un condominio consociativo a cui partecipano tutti i partiti, con quote maggiori o minori; e lo chiamano pluralismo).
Teoricamente quindi se la Rai, come spesso viene dipinta, è un luogo dove si assumono, in mezzo a tanti bravi professionisti, anche parenti, amici, amici degli amici, fidanzate, fidanzati, amanti, incapaci la colpa dovrebbe ricadere sul vero editore. In questa prospettiva, anche la Commissione di vigilanza andrebbe intesa come un istituto che umilia le responsabilità dei dirigenti di Viale Mazzini e che serve solo a sancire il controllo dei partiti sulla Rai: una vera vergogna. È ridicolo poi che la presidenza sia in mano ai grillini: invece di abolirla la cavalcano.

Se c’è da calmierare i compensi, la battaglia è più che giusta. Se c’è da promuovere una campagna di «pulizia etnica» per restituire verginità a Viale Mazzini bisognerebbe cominciare a denunciare tutte quelle persone che occupano indegnamente un posto, dirigenti compresi, tutti quei conduttori che sono stati messi lì grazie a una raccomandazione e fanno flop, tutti i «fornitori» che profittano di un intervento dall’alto. Ho più volte criticato «Che tempo che fa» ma dovessi stabilire un ordine nell’epurazione non mi sentirei certo di considerare la trasmissione una priorità.
C’è poi la questione della trasparenza, prevista dal contratto di servizio tra ministero e Rai. Certo, ma in questo modo la Rai dovrebbe vivere solo di canone. Nel momento in cui si mette sul mercato, e la Rai è sul mercato, invocare la trasparenza sui contratti delle cosiddette star o dei conduttori di primo piano significa solo fare un favore alla concorrenza. E ogni intervento per sbandierare i compensi può apparire strumentale.
Per affrontare questi temi sarebbe meglio tralasciare ogni ipocrisia, ogni risentimento, ogni spirito di vendetta e affrontarli nelle sedi opportune. I rancori fanno spettacolo, ma difficilmente risolvono i problemi.

16 ottobre 2013
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ALDO GRASSO

http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_16/polemica-brunetta-fazio-rai-stipendi-denunce-giuste-moralismi-sbagliati-e41db22a-3629-11e3-b4e4-e4dfbe302858.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Gennaio 03, 2014, 04:15:01 pm »

La Rai non è più maestra per tutti
Va rinnovata senza nostalgie

Dal dopoguerra all’era digitale: il rischio di guardare solo ai modelli vincenti del passato


 La Rai, Radiotelevisione italiana, compie oggi , venerdì 3 gennaio, 60 anni, avendo inaugurato ufficialmente le trasmissioni il 3 gennaio 1954. Sessanta sono tanti, tantissimi se rapportati al calendario della tecnologia. In poco meno di un decennio, grazie ai media digitali, a Internet, la tv ha subito un cambiamento radicale: il passaggio dal tradizionale segnale analogico a quello digitale, per esempio, ha generato nuove dinamiche di fruizione e l’emersione di nuovi immaginari sospesi, come sempre accade, tra l’euforia della scoperta «magica» e il terrore di possibili effetti negativi.
Ma per oltre mezzo secolo, la tv è stata il medium egemone del ‘900 e ha svolto un preciso ruolo sociale, alimentando un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa per gli spettatori, riassumibile nella semplice espressione: «guardare la tv». Per molto tempo, dunque, guardare la tv è stato come guardare un nuovo mondo, una scoperta di inestimabile valore.


Lo scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica comporta anche una mutazione nell’identità di chi guarda, lo coinvolge fisicamente, anche se l’immagine dello spettatore della «multitelevisione» appare ancora sfuggente perché il «nuovo» cerca di rendersi più accettabile assumendo alcune forme tipiche del «vecchio», e viceversa queste ultime reagiscono alla competizione, ricavandosi nicchie di sopravvivenza.
Se vogliamo capire cosa rappresentino 60 anni di tv, la prima cosa da fare è smetterla con il rimpianto. Basta con la nostalgia del monoscopio, del maestro Manzi, delle annunciatrici, di Calimero, degli sceneggiati in bianco e nero. Quel che è stato è stato. L’archeologia della tv deve solo farci capire le cose essenziali senza mai tramutarsi in uno stato d’animo malinconico.
Due sono le funzioni fondamentali ascrivibili alla tv delle origini: da una parte, costruire la «visibilità degli italiani», nella tradizionale funzione di rappresentazione e autorappresentazione già assolta precedentemente dal cinema (si pensi al Neorealismo); dall’altra, sincronizzare i ritmi di una comunità e renderla perciò più consapevole di se stessa, in grado di riconoscersi e immaginarsi come un insieme, come un «noi» che affronta un destino comune (quello della definitiva ricostruzione, del boom economico, dell’avvento della società dei consumi, opportunamente mediata dalla spettacolarità rassicurante di Carosello).
Nessuno storico può scrivere la storia degli ultimi 60 anni del nostro Paese senza l’aiuto della tv, del suo patrimonio simbolico, delle ritualità radicate in una «comunità immaginata»: da «Lascia o raddoppia?» al Festival di Sanremo, dallo sport a tutti i grandi eventi mediatici.
Proprio per questo, rispetto alla propria audience, si possono dividere i primi 60 anni della Rai, e più in generale della tv generalista, in tre grandi periodi: quello in cui la Rai era più avanti del suo pubblico (l’analfabetismo riguardava metà della popolazione italiana), quello in cui l’offerta televisiva era in sincronia con il «sapere» del pubblico, quello in cui, stiamo parlando dell’attuale, la tv generalista si rivolge principalmente a un pubblico ancora molto vasto ma «residuale» (per età, istruzione e censo) rispetto ai cambiamenti del Paese. Come in tutte le periodizzazioni, i rischi delle sintesi sono presenti anche qui. Non solo: i media hanno un andamento ciclico e i loro rapporti sono determinati dalle fasi del ciclo; ora, per esempio, l’egemonia sta passando a quel vasto sistema dei media convergenti di cui il computer è il terminale più rappresentativo.

3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv

    3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv   
    3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv   
    3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv   
    3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv   
    3 gennaio 1954: la Rai inizia le trasmissioni tv

Gli esordi e la borghesia
Quando in Italia è nata, la tv era in mano a una élite, prima di stampo liberale e poi cattolico. Era una tv che rispecchiava lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolgeva a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio (di lì a pochissimo, però, lo strepitoso successo di «Lascia o raddoppia?» negli spazi pubblici, nei bar, negli oratori, nei cinema avrebbe fatto capire come la tv fosse lo strumento principe della cultura popolare). Per intanto, la fascinazione del mezzo attirava le menti migliori e dava inizio a quella fase aurorale in cui il nuovo strumento è in grado di stimolare nuovi immaginari. Tre esempi per spiegare meglio la tesi. Nel 1957 Mario Soldati realizza una formidabile inchiesta, «Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini»; l’aspetto curioso è che Soldati s’interroga sulla cultura enogastronomica dell’Italia in un momento in cui, per buona parte degli italiani, l’idea del cibo è legata ancora alla mera sopravvivenza, alla fame patita durante la guerra e nel primo dopoguerra. Più interessante ancora l’inchiesta del 1959 di Salvi e Zatterin «La donna che lavora», indagine sull’evoluzione del lavoro femminile in Italia: allora pareva rivoluzionaria ma era perfettamente in linea con le direttive ministeriali (come se oggi Milena Gabanelli facesse un’inchiesta delle sue, sponsorizzata però da qualche ministero). Nel 1961 Sacerdote e Falqui danno vita allo show «Studio Uno», di rara eleganza espressiva, quando il varietà era un genere pressoché sconosciuto alla quasi totalità degli spettatori. Altri esempi si potrebbero fare con i «romanzi sceneggiati» (il tentativo di portare i grandi libri nelle case degli italiani) o con «Il processo alla tappa». Servirebbero solo a rafforzare la tesi: la tv era più avanti del suo pubblico. I dirigenti dell’epoca vengono spesso ricordati circonfusi di un’aura di grande santità e professionalità. Santi non erano (basti ricordare come i telegiornali d’allora non avessero nulla da spartire con l’indipendenza dell’informazione), ma hanno avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, quando la tv stessa guidava chi voleva lasciarsi guidare e trascinava i nolenti.

La seconda fase
Il secondo periodo può partire simbolicamente dal 1967, anno di messa in onda dei «Promessi sposi» (la Rai, ormai pienamente consapevole del proprio ruolo centrale nell’universo cultural-spettacolare nazionale, celebra con Manzoni il senso della sua missione educativa) e finire con «Blob», un montaggio di citazioni prese a prestito da altri programmi, un espediente critico per analizzare la tv, il trionfo dell’autoreferenzialità (la tv che parla di tv). In mezzo ci sono programmi che tutti vedevano, di cui tutti parlavano, da cui tutti erano influenzati, compresi gli altri media: «90° minuto», «Canzonissima», «Bontà loro», «Portobello», «Quelli della notte», «Quark», «Domenica in», «Mixer», «Samarcanda», «La Piovra» (ma l’apporto viene anche dalle tv commerciali, come nel caso di «Drive in»). Si potrebbero citare tanti altri programmi, ma l’importante è ribadire il concetto: la Rai assorbiva e insieme dettava i tempi di una nazione.
La tv contava su vantaggi consistenti: sia per la sua capacità di articolare il pubblico nel privato, sia ovviamente per la sua accessibilità e popolarità, per quella sua caratteristica complementare, integrativa (contrapposta alla settorializzazione della cultura a stampa), sia, infine, per la sua specificità di «medium generalista di flusso» che tendeva a sincronizzare i ritmi di una comunità.

Il periodo che viviamo
Il terzo periodo (massì, facciamolo partire dal «Grande Fratello», anche se la Rai non c’entra) è quello che stiamo vivendo. Di fronte alle sfide lanciate dalle tecnologie digitali, il Servizio pubblico ha reagito come ha potuto, spesso prigioniero della politica. La Rai raggiunge una platea potenziale che copre l’intera popolazione, perché, molto banalmente, c’è almeno un televisore (e spesso più d’uno) per ogni famiglia. Il vero problema è che solo una parte - una minoranza, e non certo la maggioranza - della popolazione vive la tv come unica interfaccia col vasto mondo. Si tratta, in sostanza, di spicchi della popolazione doppiamente svantaggiati: per livelli d’istruzione (medio-bassi) e fasce d’età (avanzate, le più consistenti in Europa); ma soprattutto per il tenore dei consumi culturali, che non vanno al di là della tv generalista. Sta di fatto che i giovani non guardano più la tv (se non per frammenti, su YouTube) e chi può si abbona alla Pay-tv. A parte gli eventi mediatici (le partite della Nazionale, in primis), i grandi successi di audience sono rappresentati ormai da varietà e fiction fortemente nostalgici, come se la Rai avesse costantemente lo sguardo rivolto al passato. E i talk show hanno ridotto la politica a mera chiacchiera. Insomma, quella che pomposamente è stata definita «la più grande industria culturale» del paese rischia ora la marginalità.

La ricerca del nuovo
È vero che la Rai sta cercando di adeguarsi al nuovo, si è espansa al di fuori del proprio guscio (ha moltiplicato i suoi canali sul digitale terrestre), ha messo in atto un movimento di trasformazione, ma il suo «core business» e la sua missione restano ancora il modello generalista. La Rai è vittima di molti fattori: l’ingerenza della politica, soprattutto, il mancato ripensamento della nozione di Servizio pubblico, il condizionamento della concorrenza (è stata una scelta giusta quella del digitale terrestre? Non era meglio puntare al cavo o al satellite?), la mancanza di una rigida policy aziendale (ognuno fa quello che vuole, con la complicità dei giudici del lavoro), l’«entropia della dirigenza» (se alla guida di un sistema così complesso vengono preferite non le persone più capaci, come da curriculum, ma soltanto quelle che hanno giurato fedeltà a un partito, finisce che il numero di incapaci aumenta).
Il 60esimo compleanno della Rai dovrebbe perciò servire a riservare più spazio ai ripensamenti che alle celebrazioni, più attenzione ai prodotti che ai dibattiti, altrimenti il declino sarà inevitabile. E la perdita, purtroppo, irrimediabile.

03 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Grasso

Da - http://www.corriere.it/spettacoli/14_gennaio_03/rai-non-piu-maestra-tutti-va-rinnovata-senza-nostalgie-acae529c-743e-11e3-90f3-f58f41d83fbf.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:27:13 pm »

A fil di rete

Voci e testimonianze per non dimenticare

Vera Vigevani, protagonista della web serie «Il rumore della memoria» ospite di Fabio Fazio in «Che tempo che fa» con il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli (Nicoloro)Vera Vigevani, protagonista della web serie «Il rumore della memoria» ospite di Fabio Fazio in «Che tempo che fa» con il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli (Nicoloro)

Si ricorda perché la memoria non sia sorella del nulla. Quando sento Vera definirsi una «militante della memoria» capisco come rare volte la tela del tempo possa lacerarsi e il battito violento della vita coincidere con l’eternità, con ciò che non deve essere dimenticato. La web serie di Corriere Tv «Il rumore della memoria. Il viaggio di Vera dalla Shoah ai desaparecidos» di Marco Bechis, scritta dallo stesso Bechis, Caterina Giargia, Antonio Ferrari e Alessia Rastelli, racconta le due tragedie vissute da questa meravigliosa donna: il nonno materno, morto ad Auschwitz, e la figlia Franca, di diciotto anni, sequestrata, torturata e gettata viva in mare da un aereo della morte del dittatore Videla.

È che i conti non si chiudono mai, la ferita resta aperta, anche se il nostro desiderio è che la memoria liberi il passato dalle scorie. Il ricordo è soffrire ma è anche pensare.

Anche «Il viaggio più lungo: gli ebrei di Rodi» di Ruggero Gabbai (che Rai1 trasmette oggi alle 14.10 per il Giorno della Memoria) è un’epifania del tragico che irrompe a tradimento nella vita.

Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto ci riportano nella drammaticità di quei giorni insensati. A Rodi viveva felicemente una comunità di ebrei sefarditi. Perfettamente integrati in quell’isola che ai tempi era sotto l’amministrazione italiana, parlavano quattro o cinque lingue: spagnolo, francese, turco, greco e italiano. Anzi, l’arrivo degli italiani, dopo secoli di dominio turco, aveva rappresentato per loro una cesura della loro lunga storia: significava il passaggio a una nuova era, a una nuova e moderna civiltà. Poi le tenebre, l’occupazione dei tedeschi, la deportazione nei campi di concentramento. Tre sopravvissuti, Sami Modiano, Stella Levi e Alberto Israel, ci trascinano in un commovente piano inclinato, dove si scivola verso quello che non sappiamo o vogliamo dimenticare.
Non c’è speranza, senza memoria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

27 gennaio 2014
Aldo Grasso
Da - http://www.corriere.it/spettacoli/14_gennaio_27/voci-testimonianze-non-dimenticare-4f1bee52-871a-11e3-b7c5-5c15c6838f80.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:38:10 pm »

A fil di rete

Santoro e Briatore due corpi, un’anima
Entrambi sono dei populisti di successo: uno opera nel mondo dell’ideologia, l’altro nel mercato del lusso

Forse altri se ne saranno accorti prima, arrivo sempre un po’ in ritardo, ma ora non ho più dubbi: Michele Santoro e Flavio Briatore sono della stessa pasta. Due populisti di successo: uno opera nel mondo dell’ideologia, l’altro nel mercato del lusso, ma il settore è lo stesso, quello dell’entertainement.

Si accompagnano a belle donne, a un soddisfatto accenno di pinguedine, tendenza cafonal (più evidente in Flavio), tendenza noia (più evidente in Michele). Se non sbaglio, entrambi sono amici di Lucio Presta e potrebbero con legittimo orgoglio indossare i colori della scuderia.

Potrebbero anche scambiarsi i ruoli e nessuno se ne accorgerebbe. Lo vedo bene Michele a «The Apprentice» mentre dice «Sei fuori» o «Io non sopporto gli arroganti, i presuntuosi, i cretini e i bugiardi» (i maligni sostengono che la scena sia stata provata davanti a uno specchio); così come vedo bene Flavio a duettare e ridere con Marco Travaglio (Briatore ride delle battute di Marcolino!). L’unico che si opporrebbe allo scambio è Vauro. Eh sì, il compagno Vauro è un problema.

L’altra sera, nel corso di «Servizio pubblico» (La7, giovedì, ore 21.15), appena si è accorto di questa osmosi, ha fatto una dura intemerata contro il buon Flavio, quasi una scenata di gelosia, rispolverando tutto l’armamentario operaista, accusandolo di essere al servizio dei ricchi. A quel punto si è svegliata anche la «dolente» Concita De Gregorio, ha alzato il ditino contro Mister Billionaire per spiegargli che la vita non è un talent! Flavio l’ha liquidata in due secondi: anche la «dolente», quando s’incorona di libri, sottostà a leggi televisive.

Insomma questa è la grande novità: Santoro ha definitivamente sdoganato Briatore e Briatore, con altrettanta cortesia, ha sdoganato Santoro. Due corpi che si fondono in una sola anima. Questo succede quando si esercitano tutti gli stili del decadimento, compreso il successo.

08 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Grasso

DA - http://www.corriere.it/spettacoli/14_febbraio_08/santoro-briatore-due-corpi-un-anima-14c7fb30-9087-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml
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