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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61410 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Maggio 27, 2012, 04:52:04 pm »

27/5/2012

Un sanguinario "no" a ogni trattativa

VITTORIO EMANUELE PARSI


Una strage solo apparentemente senza senso quella compiuta a Hula molto probabilmente ad opera delle forze di sicurezza del regime di Assad. Almeno 90 morti, ma c’è chi parla di 110, tra cui oltre 30 bambini, vittime del brutale bombardamento da parte dell’artiglieria pesante sulla cittadina, «colpevole» di sostenere i ribelli.

Non è il primo massacro del genere ascritto agli assadiani, e neppure tra i più efferati: nei mesi scorsi le immagini strazianti di bambini torturati a morte dal Mukabarat (la polizia segreta del regime) fecero il giro della rete. Ma questo di Hula avviene sotto gli occhi dei 250 osservatori inviati dall’Onu con il beneplacito del regime - per vigilare il mantenimento della tregua (fittizia) in atto da oltre un mese. Una tregua che, a seguito della diffusione di queste immagini, il «Libero Esercito Siriano», che controlla secondo l’Onu diverse località strategiche nel Paese, ha detto di non poter e voler più rispettare, mentre in Siria sono iniziati a comparire i primi striscioni di protesta contro gli osservatori dell’Onu «complici passivi» delle nefandezze del regime. Si fa allora più chiara la strategia di Assad: provocare la denuncia della tregua da parte dei ribelli, umiliare l’Onu frustrando le speranze di chi confidava nell’internazionalizzazione per una fuoriuscita pilotata dalla crisi, atterrire ancora di più i «neutrali» e i più «tiepidi» tra i propri sostenitori, ammonendoli su come il regime sia disposto a procedere senza pietà verso i suoi oppositori.

Certo, a ogni massacro che viene rivelato, Assad rischia di irritare oltre misura la comunità internazionale, fino a provocarne un possibile intervento. Ma è un rischio calcolato. A ben guardare, coloro che a gran voce oggi chiedono all’Onu di fare qualcosa - i governi occidentali e la Lega araba - sono gli stessi che già da tempo hanno scaricato Assad, al quale hanno fatto sapere di non essere disposti a concedere nulla di diverso da una sostanziale resa incondizionata. Assad ha evidentemente deciso di correre questo rischio, nella convinzione (il tempo dirà quanto giusta o sbagliata) che il veto russo in sede di Consiglio di Sicurezza continuerà a proteggerlo da conseguenze troppo pesanti. E un intervento esterno al di fuori dell’egida dell’Onu sarebbe un azzardo che nessuno può semplicemente permettersi. L’internazionalizzazione che ha in mente Assad è un’altra: e passa attraverso il Libano, che è sempre più risucchiato dalla guerra civile del Paese vicino, a cui lo lega un rapporto di amore-odio. Le due società sono speculari in termini di mix confessionale (gli sciiti sono ormai maggioritari in Libano, mentre i sunniti lo sono in Siria) ma un precario equilibrio tra le diverse confessioni è garantito dalla Costituzione, sia pur con sempre maggior fatica. Da quando in Siria è scoppiata la rivoluzione, il Libano sta col fiato sospeso. Nei giorni scorsi gli incidenti tra sunniti e sciiti libanesi, finora confinati a Nord del Paese nella zona di Tripoli, sono tracimati a Beirut, facendo morti e feriti e vedendo la stessa Armée accusata di parteggiare per il regime di Assad (del quale il partito Hezbollah, che esprime la maggioranza di governo a Beirut, è peraltro ferreo alleato).

Sul fronte interno, anche con questa ennesima strage, Assad ha chiarito che la trattativa coi ribelli non rientra nei suoi piani. Come molti osservatori di cose siriane sostengono, comunque questa guerra civile vada a finire, essa sarà caratterizzata da massacri spaventosi da entrambe le parti. Assad ha deliberatamente scelto la via della radicalizzazione e della polarizzazione del conflitto interno anche per impedire ai timidi e agli indecisi tra i suoi sostenitori di poter saltar dall’altra parte della barricata. La composita coalizione che lo appoggia, in parte controvoglia, non è fatta solo di alawiti ed esercito, ma anche di drusi, cristiani e sunniti «laici» che sono sempre più preoccupati della crescente egemonia dei fondamentalisti tra le file della resistenza. I massacri servono ad ampliare e consolidare il vallo di sangue tra le «due Sirie» che si contrappongono e che rappresentano già una forzata semplificazione rispetto all’eterogenea composizione della società siriana, che Assad scientemente continua ad usare a suo beneficio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10151
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« Risposta #106 inserito:: Giugno 06, 2012, 05:01:49 pm »

6/6/2012

L'economia allarga l'Atlantico

VITTORIO EMANUELE PARSI

Ci sono cause contingenti e cause di più lungo periodo nella ruvidezza e nell’urgenza con cui il presidente Obama sta ripetutamente strigliando i leader europei.

L’intenzione è spronarli, soprattutto Angela Merkel, a prendere le misure necessarie per evitare una recessione globale. Le cause del primo tipo sono legate all’approssimarsi della scadenza elettorale. È forte, e per nulla infondato, il sospetto dell’amministrazione Obama che la recessione europea possa provocare un effetto boomerang sull’economia americana (dalla quale il contagio era partito) e che comunque sia corresponsabile del peggioramento inatteso dei dati sull’occupazione negli Stati Uniti. Si tratta, evidentemente, di un lusso che il Presidente non può permettersi a 5 mesi dalle elezioni, com’è ampiamente dimostrato dal fatto che Mitt Romney abbia raggiunto il Presidente nei sondaggi.

Le seconde sono legate alla tenuta del rapporto transatlantico e alla solidità e prospettiva del concetto di Occidente. Quest’ultimo appare paradossalmente più saldo (almeno per ora) quando sono in gioco questioni strategiche e di sicurezza. Nonostante le aspre divisioni con Francia e Germania sulla guerra in Iraq e il ventilato ritiro anticipato del contingente francese dall’Afghanistan, sono state proprio le recenti crisi divampate a seguito delle Primavere arabe che hanno visto l’Occidente procedere più compatto di quanto ci si potesse attendere. Se l’intervento militare della Nato in Libia non ha registrato significative defezioni, anche le pressioni sul regime di Assad in Siria sono state condivise da Washington e dalle principali capitali dell’Unione. Persino la crisi legata al nucleare iraniano ha registrato una convergenza transatlantica per nulla scontata. Da notare, infine, che la concorde fermezza occidentale dimostrata in queste occasioni ha evidenziato la perdurante distanza degli standard etici (oltre che degli interessi) tra il Cremlino e i governi europei, contribuendo a riallontanare quella prospettiva eurasiatica tanto cara a Mosca e al cui fascino neppure Berlino è apparsa sempre immune.

In questi mesi, però, è la solidità sul piano economico e finanziario del blocco occidentale a mostrare crepe preoccupanti. In particolare, ciò che inizia a palesarsi è che un’Europa (meno) unita sotto la (solitaria e miope) leadership tedesca potrebbe essere sempre più proclive ad allentare le ragioni economiche e culturali della solidarietà occidentale. È vero che la crisi colpisce primariamente l’Europa ma è vero anche che, in un continente in difficoltà, la Germania va in controtendenza. Le sue industrie continuano a produrre, i suoi conti sono in ordine e l’inflazione bassa; grazie alla debolezza dell’euro, oltretutto, la Germania gode di una svalutazione che, senza macchiare il «blasone» del suo rigorismo finanziario, non può che avvantaggiare la seconda economia esportatrice del pianeta.

Per anni Washington ha visto nella Germania il suo più leale alleato e lo stesso progetto di unificazione europea venne appoggiato da Washington anche per ancorare la Germania all’Occidente atlantico, quando essa era l’estrema marca di un confine militarizzato sul quale stava un nemico la cui presenza ricordava ogni giorno la necessità del legame transatlantico. E proprio la divisione tedesca rafforzava la prospettiva atlantista della Germania. Dalla fine di quel mondo sono passati oltre 20 anni. E quello che le guerre in Iraq e Afghanistan non sono riuscite a fare - indebolire le ragioni dell’alleanza - potrebbe verificarsi oggi a causa della crisi e di una Germania forse non abbastanza audace per perseguire consapevolmente un «gran disegno», ma sufficiente «cocciuta» per insidiare le basi dell’alleanza occidentale.
A Washington ci si ritorna così a chiedere se l’egemonia tedesca sul vecchio continente sia compatibile con un «Occidente atlantico» e, soprattutto, si riflette se piuttosto che paventare il rischio che la nuova Cina possa seguire le orme della Germania guglielmina (tentando l’assalto all’egemonia continentale), non debba invece destare più preoccupazione la possibilità che la Germania di Angela Merkel sia tentata dal seguire le orme della Cina odierna: una forte export led economy assistita da una moneta (l’euro) debole. E se fosse di natura economica quella «guerra su due fronti» teorizzata dagli strateghi del Pentagono come la sfida più pericolosa per l’egemonia americana?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10196
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« Risposta #107 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:30:12 am »

25/6/2012

Evitato lo scontro frontale

VITTORIO EMANUELE PARSI

L’ Egitto ha finalmente il suo presidente. Il primo eletto per davvero in tutta la storia della Repubblica. Solo all’inizio dello scorso anno nessuno avrebbe potuto prevedere che il successore di Hosni Mubarak non sarebbe stato suo figlio, ma un esponente dei Fratelli Musulmani. Nelle settimane successive alla caduta del raìs, in febbraio, sarebbe stato altrettanto impossibile immaginare una situazione come l’attuale: con i due soggetti politici «forti» del Paese (la Fratellanza e l’Esercito) impegnati in una partita tattica ma senza esclusioni di colpi, intenti a disporre le proprie pedine sul campo, per neutralizzare il vantaggio che gli avversari possono aver ottenuto. Se c’è un risultato che la rivoluzione egiziana ha conseguito, questo è stato il produrre e distruggere i possibili scenari futuri quasi senza soluzione di continuità, a testimonianza di come il risveglio del mondo arabo non sia un fuoco di paglia destinato a sfumare rapidamente.

La mobilitazione di piazza Tahrir durante tutta la scorsa settimana è stato il monito che i Fratelli Musulmani hanno voluto lanciare ai militari, affinché fosse chiaro che non si sarebbero lasciati scippare anche della vittoria alle presidenziali dai generali. E infatti i loro leader hanno già annunciato che i militanti continueranno ad occupare la piazza fino a quando la «dichiarazione costituzionale» che delega ai militari il potere legislativo sino alle elezioni del prossimo Parlamento non verrà revocata. Il popolo di questa piazza Tahrir è molto diverso da quello che per primo ha innescato la rivoluzione: meno giovani di Twitter, meno donne, molti barbuti. È un segnale chiaro che siamo entrati in una seconda fase rivoluzionaria in cui gli attori capaci di mobilitare le masse sono sostanzialmente due: i Fratelli Musulmani e i Salafiti. Le Forze Armate, dal canto loro, con il ritardo nella proclamazione dei risultati, hanno mandato il loro avvertimento agli islamisti: non vogliono andare allo scontro frontale, ma non sono certo disposti a perdere la loro capacità di condizionare chiunque “regni” al Cairo. Nel frattempo, tanto per evitare il rischio di essere fraintesi, la Corte Suprema ha sciolto il Parlamento per illegittimità e il Consiglio supremo delle Forze Armate ha appunto avocato a sé il potere legislativo.

La partita sarà ancora lunga e ricca di colpi di scena, c’è da starne certi. In termini rugbistici, potremmo dire che Esercito e Fratellanza hanno deciso di riorganizzarsi e giocare una seconda fase, ognuno conscio e preoccupato della forza della squadra nemica. Lo scenario di una cooperazione «obbligata» tra loro, che pure per qualche mese era parsa una soluzione possibile, è tra quelli sfumati in queste settimane. Mentre resta aperta l’opzione di una collaborazione tra i Fratelli Musulmani e i partiti liberali, entrambi accomunati dalla legittimazione elettorale e dalla volontà di chiudere la lunga esperienza dell’interferenza militare nella vita politica del Paese, che peraltro risale ai primi decenni del XIX secolo, e dall’interesse comune a ridurre lo spazio a disposizione dei Salafiti.

Sono molte le specificità nazionali che stanno influenzando l’esito della rivoluzione egiziana, dunque. Ma allo stesso tempo essa fa emergere due protagonisti assoluti della fase storica che i Paesi arabi stanno attraversando: i partiti islamisti e le Forze Armate, dove i primi rappresentano il cambiamento e i secondi la continuità. In passato, sono stati proprio i militari gli attori della modernizzazione negli Anni 50 del secolo scorso. Sono loro, oggi, che costituiscono il freno principale, il maggiore ostacolo, a quel processo di rinnovamento del sistema politico (e del suo rapporto con la società) che con tutte le loro pericolose contraddizioni i partiti islamisti comunque rappresentano. Per questi ultimi, la sfida decisiva sarà quella di resistere alle sirene della radicalizzazione, che proprio la “resistenza”, l’attrito, del potere militare potrebbe risvegliare. Vedremo se Mohamed Morsi si rivelerà uno stratega sufficientemente attento, capace di guardarsi tanto dalle insidie dei militari, quanto da quelle dei Salafiti, ai quali una “radicalizzazione controllata” del quadro politico potrebbe non dispiacere, proprio in vista delle nuove elezioni legislative che dovrebbero tenersi nell’arco dei prossimi sei mesi. Sempre che non subentrino nuovi rinvii.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10261
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« Risposta #108 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:57:55 pm »

14/7/2012

Il cinico calcolo di Putin

VITTORIO EMANUELE PARSI

Sedici mesi di guerra civile e almeno 16.000 morti tra la popolazione, in gran parte causati dall’esercito di Bashar al Assad e dalle sue milizie, in un crescendo wagneriano, sempre più livido e sinistro. Risale all’altro giorno l’ultima ecatombe (oltre 200 morti nella martoriata provincia di Hama) denunciata dagli attivisti e confermata anche dal regime, che però ne ha addossato la responsabilità a «formazioni terroristiche al soldo di potenze straniere». Assad sembra aver definitivamente scelto la strada di giocarsi il tutto per tutto.

Consapevole che forse neppure questo gli consentirà di sopravvivere politicamente, ma altrettanto disposto a sfruttare ogni singola possibilità che l’impotenza della comunità internazionale gli offre. La più sanguinosa delle intifade arabe partite dal sacrificio di un giovane venditore ambulante tunisino vede infatti il mondo ancora alla ricerca di una soluzione capace di arrestare l’orrore siriano. Se nelle ultime ore Pechino si è detta disponibile a considerare una mozione di condanna del regine siriano che non escluda l’imposizione del cessate il fuoco, permane invece il veto russo a qualunque ipotesi di intervento militare esterno. Per quanto cinica ci possa apparire la posizione russa, il Cremlino ha ben chiaro che proprio la sua «postura eccentrica» sulla crisi siriana è quella che gli ha consentito di tornare ad acquisire un peso in Medio Oriente dopo oltre un ventennio. Putin è ben conscio che un appoggio incondizionato e a tempo indeterminato ad Assad non è possibile (oltre ad aprire la prospettiva di un riacutizzarsi della mai sopita tensione con la numerosa minoranza musulmana della Federazione Russa), sa altrettanto bene, però, che con il crollo del regime la rilevanza di Mosca tornerebbe a essere nulla. È proprio questo punto a rendere così difficile trovare un’intesa tra l’Occidente (e la Lega Araba) e la Russia.

Una transizione al dopo Assad significherebbe inevitabilmente la fine del regime baathista e quindi la perdita di qualunque interlocutore per il Cremlino. Il regime siriano non è più riformabile. Forse non lo è mai stato, troppi essendo i beneficiari di oltre quattro decenni di potere assoluto, i cui equilibri erano garantiti dalla presenza della famiglia Assad. Di sicuro comunque non è più riformabile ora, 16 mesi e 16.000 morti dopo. Al di là della buona disposizione occidentale nei confronti di Mosca, della volontà di non umiliare la Russia come di fatto è avvenuto in Libia, l’Occidente non è in grado di offrire a Mosca null’altro che la scelta tra continuare così o accettare di perdere qualunque influenza sulla Siria del futuro. Dal canto suo, d’altronde, lo stesso Occidente non appare così determinato di fronte all’opzione militare, senza la quale è a questo punto impensabile arrestare il conflitto. Certo, la ferocia della repressione avrebbe già da tempo consentito di intervenire sulla base della «responsabilità di proteggere» sancita dalla Carta delle Nazioni Unite e invocata nei casi della Libia e del Kosovo (dove peraltro si agì senza autorizzazione Onu); ma il fatto è che le opinioni pubbliche occidentali (a iniziare da quella americana in un anno elettorale) sono stufe di guerre mediorientali che vedono il coinvolgimento dei propri eserciti dal 1990 (Desert Storm, per la liberazione del Kuwait), che gli assetti militari sono stati logorati in questi anni e che una crisi economica che dura dal 2008 e che non si sa quando e come finirà rende estremamente difficile capire dove reperire le risorse per avviare una campagna dal calendario assolutamente imprevedibile.

La Siria non è la Libia, evidentemente. Non lo è per dotazione militare (ieri si sono diffuse voci inquietanti sullo spostamento di munizionamento chimico dai siti di stoccaggio), non lo è per collegamenti internazionali (l’Iran non resterebbe a guardare la distruzione del suo principale alleato), non lo è per collocazione geografica (il Libano esploderebbe e il confine israeliano si surriscalderebbe). Oltretutto, chiunque volesse intervenire nel Paese dovrebbe avere un piano per la regione che contemplasse anche la soluzione del problema palestinese. Lo aveva ben chiaro George H. Bush, quando proprio a seguito della guerra del 1990/91 contro Saddam avviò i colloqui di Madrid e il processo di Oslo, che neppure la potentissima America di quegli anni seppe però difendere dal consapevole sabotaggio del governo di Tel Aviv. A complicare ulteriormente il quadro, infine, c’è la constatazione di come quasi due anni di primavere arabe abbiano segnato lo straordinario innalzamento della rilevanza saudita nella regione. E se Luigi XV non aveva intenzione di «combattere per il re di Prussia», c’è da scommettere che neppure Barack Obama frema dalla voglia di combattere per Abdullah Ibn Saud.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10330
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« Risposta #109 inserito:: Luglio 19, 2012, 10:03:54 pm »

19/7/2012

I rischi di un puzzle da incubo

VITTORIO EMANUELE PARSI

Da quando la crisi siriana ha preso avvio, il timore di tutti è stato che essa potesse far deflagrare l’intero Levante.

E di conseguenza, per i vincoli politici saldissimi che legano il regime di Assad, Hezbollah in Libano e la Repubblica islamica dell’Iran, accelerare il precipitare della tensione tra Teheran e Tel Aviv, continuamente alimentata dall’opaca vicenda del programma nucleare iraniano. I giorni di Assad e del suo regime appaiono sempre più contati. L’attentato che ieri ha provocato la morte, tra gli altri, del ministro della Difesa (generale Rajha), del capo dell’intelligence militare e cognato di Bashar al Assad (Assef Shawkat) e ha ferito gravemente quello degli Interni (Mohammed al Shaar) e segnala lo straordinario salto di qualità nelle capacità dei ribelli di colpire fin nel cuore dei palazzi del potere. L’attentato è avvenuto in una delle zone più sorvegliate di Damasco, proprio mentre era in corso una riunione dell’unità di crisi del governo e dopo che da giorni i combattimenti erano divampati in alcuni quartieri del centro della capitale. Questa sola circostanza, mentre è ancora poco chiara la dinamica dei fatti, attesta però che oltre alle defezioni plateali che in queste settimane hanno coinvolto sempre più la cerchia dei collaboratori più vicini al raìs, se ne stanno evidentemente verificando altre, più silenti e letali, perché dissimulate da lealtà. Sono soprattutto i sunniti del regime a passare all’opposizione, contribuendo a rendere sempre più esplicita la natura alauita del potere degli Assad e in questo senso alimentando indirettamente la possibile deriva settaria della guerra civile in corso nel Paese. Agli occhi di molti membri della sua comunità, la morte del generale Rajha – il cristiano di più alto rango tra i dignitari di Assad – rischia di essere interpretata come un lugubre presagio del destino che potrebbe attendere la minoranza cristiana del Paese, dai ribelli accusata di essere rimasta leale al dittatore, i cui numeri si stanno già assottigliando.

Analogamente a Saddam Hussein, anche Hafez al Assad (padre di Bashar) aveva fatto del «divide et impera» l’asse portante della propria strategia di controllo. Ambedue a capo di repubbliche socialiste e di fazioni rivali del partito Baath ed entrambi al governo di società religiosamente frammentate, sia l’uno che l’altro si erano sempre appoggiati sulle minoranze (sunniti e cristiani in Iraq, alawiti e cristiani in Siria) per controllare la maggioranza delle proprie popolazioni. Bashar ha proseguito sulle orme del padre, ovviamente. Ma proprio il dubbio sulla tenuta del regime potrebbe infiammare la lotta settaria ben oltre i confini siriani. Non è un caso che nel vicino Libano, il cui precario equilibrio poggia invece su un tanto esplicito quanto fragile compromesso costituzionale tra le sette, si facciano sempre più frequenti gli scontri tra sostenitori e oppositori del regime siriano (la cui influenza nel Paese dei Cedri è tornata a essere massiccia dopo che il partitomilizia di Hezbollah è diventato la formazione egemone del nuovo governo). Ieri persino nella centrale Hamra – quartiere prevalentemente sunnita di Beirut – sciiti e sunniti si sono sparati addosso, portando fin nel cuore della capitale quegli scontri finora concentrati nel Nord, nella zona di Tripoli.

L’attentato di ieri in Bulgaria, in cui sette turisti israeliani hanno perso la vita e una ventina sono rimasti feriti, potrebbe non avere alcuna connessione con gli eventi finora analizzati. Ma le accuse rivolte all’Iran dal premier israeliano Benjamin Netanyahu di essere «responsabile» dell’attentato (che fa seguito ad alcuni altri in cui il coinvolgimento di cittadini iraniani è stato provato) e la sottolineatura di come questo atto terroristico sia stato perpetrato nel 18° anniversario dell’attacco alla comunità ebraica di Buenos Aires (di cui proprio Hezbollah è dagli israeliani ritenuto l’esecutore) creano comunque un collegamento gravido di fosche conseguenze politiche. È possibile che davvero l’Iran ed Hezbollah siano dietro questo attentato, che l’abbiano deciso con lo scopo deliberato di ammonire la comunità internazionale sui prezzi da pagare nel caso di un coinvolgimento troppo diretto nelle vicende siriane. È anche possibile che il governo israeliano sia balzato troppo rapidamente alle conclusioni, magari coltivando la pericolosa illusione di regolare i conti una volta per tutte con i propri avversari. Ad ogni modo, e per la prima volta, non è mai stato così concreto come in queste ore il rischio che l’irrisolta questione dell’accettazione della presenza di Israele nella regione (e del rispetto dei diritti del popolo palestinese) si saldi con le intifade arabe di questi due anni, con le lotte tra sciiti e sunniti (dal Bahrein al Libano) e con la vicenda atomica iraniana. Un puzzle da incubo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10347
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« Risposta #110 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:13:01 pm »

25/7/2012

L'equilibrio tra politica ed economia

VITTORIO EMANUELE PARSI

Chissà se tra le letture di Angela Merkel figurano anche i romanzi di Agatha Christie… Tra questi, uno particolarmente famoso è «10 piccoli indiani», che racconta della progressiva eliminazione da parte di un misterioso padrone di casa dei suoi ospiti, tutti collegati tra loro per una particolare vicenda.

Le vittime facilitano il compito dell’assassino perché sono incapaci di coordinare una comune azione di difesa: uccisi uno a uno a causa della loro diffidenza reciproca. Come i dieci piccoli indiani della novella, anche i diciassette Paesi dell’euro sembrano non riuscire a compiere quei passi, politici, che gli consentirebbero di poter contrastare più efficacemente gli attacchi della speculazione. Da più parti si sostiene con ottime ragioni che solo un’Unione che appaia più profonda e irreversibile può convincere la speculazione che si guadagna di più scommettendo a favore dell’euro e sul suo futuro invece che contro. Perché ciò possa avvenire, però, i nostri diciassette piccoli indiani dovrebbero iniziare a ricordarsi di appartenere a una sola medesima tribù, quella di Eurolandia, e comportarsi di conseguenza.

Dovrebbero soprattutto iniziare a capire che sotto attacco da parte della speculazione non c’è solo la moneta unica, la stabilità finanziaria, le prospettive economiche delle future generazioni. In gioco c’è la stessa democrazia poiché, come osservava ieri Mario Deaglio nel suo commento per La Stampa, nel «duello tra finanza e democrazia» un principio deve essere mantenuto fermo: che «le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari». Non basterà certo l’accordo tra i soli Paesi della zona euro a ridefinire i rapporti tra politica ed economia, tra la democrazia e il mercato. Affinché possano essere adottate le misure necessarie per evitare che la speculazione finanziaria finisca per affossare le economie reali, le società che le esprimono e le istituzioni politiche che governano le une e le altre occorrerà che tutti i Paesi dell’Unione e, dopo le elezioni di novembre, anche gli Stati Uniti si muovano in maniera coordinata, rammentando che proprio l’aver saputo mantenere in equilibrio democrazia e mercato, le ragioni dell’ oikos e quella della polis , fu alla radice dello straordinario successo arriso all’Occidente nel secondo dopoguerra.

Se consideriamo il periodo che va tra il 1929 e il 1989 come una sola grande stagione – aperta dalla crisi del sistema capitalista internazionale e chiusa dal crollo della sua proposta antagonista rappresentata dal comunismo – è possibile osservare una spinta alla redistribuzione della ricchezza (fino al termine degli Anni 70 negli Usa e in Europa occidentale) associata a un progressivo allargamento della partecipazione politica libera ed effettiva (la cui ultima ondata coincide col crollo del Muro di Berlino). A un modello di economia liberale «temperata» (in cui le istituzioni pubbliche limitavano gli effetti più devastanti delle oscillazioni del mercato) era associato un modello politico fondato sulla democrazia di massa, capace di sconfiggere i paradigmi autoritari di destra (prima) e quello totalitario di sinistra (poi) che avevano offerto delle alternative illiberali alla sfida dell’inclusione dei ceti popolari nel circuito politico. I due modelli – quello economico e quello politico – si sorreggevano e si integravano vicendevolmente. In altri termini, le scelte di politica economica adottate per uscire dalla crisi innescata dal «giovedì nero» del 1929 furono tutt’altro che indifferenti per il consolidamento del modello democratico come «standard» politico occidentale.

Oggi, le modalità con cui usciremo da questa lunga crisi, le scelte e le non-scelte di politica economica che adotteremo o scarteremo, avranno ripercussioni decisive sullo «standard democratico» con cui l’Occidente si governerà nei decenni a venire. Finora, al riparo dei loro spread, i Paesi finanziariamente più solidi hanno prestato orecchio da mercante a queste argomentazioni. Paradossalmente, il declassamento dell’outlook economico generale di Germania e Olanda da parte di Moody’s potrebbe iniziare a far capire anche ai loro governanti che solo muovendoci insieme e tempestivamente potranno evitare che il Bundestag e il suo omologo olandese siano semplicemente gli ultimi due Parlamenti europei a dover ammainare la bandiera della democrazia politica per non averla saputa rifondare su scala continentale quando ancora era possibile. Può apparire provocatorio riaffermare la necessità di un primato della politica in un Paese come il nostro, in cui i partiti che appoggiano il governo Monti si baloccano con l’idea demenziale di elezioni anticipate, adducendo la speciosa spiegazione che «il quadro si va logorando», cioè che loro potrebbero decidere di far saltare il banco. Ma il tempo delle scelte decisive è ora, ora o mai più. Perché se è vero che «lo statista guarda alle prossime generazioni mentre il politico alle prossime elezioni» occorre pur ricordare che la speculazione, purtroppo, si accontenta di guardare alle prossime 24 ore…

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10368
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« Risposta #111 inserito:: Agosto 13, 2012, 09:59:03 am »

13/8/2012

Lo schiaffo di Morsi agli intoccabili

VITTORIO EMANUELE PARSI

Tutto si può dire del «collocamento in congedo» del feldmaresciallo Hussein Tantawi da parte del neopresidente egiziano Mohammed Morsi, tranne che fosse nell’aria. La decisione è giunta completamente inattesa e quello che resta da capire è se il primo presidente civile e liberamente eletto nella storia egiziana ha commesso un azzardo che potrebbe precipitare il Paese nel caos.
O se invece Morsi ha agito forte di un consenso tra le file dell’esercito che nessuno sospettava potesse avere.

Ovviamente il portavoce del presidente ha parlato di una decisione condivisa, ma è difficile credere che Tantawi, lo stesso uomo che aveva cercato fino in fondo di preservare il potere dei militari - una tradizione egiziana che rimonta addirittura alla fondazione dello Stato mammalucco - abbia accettato di farsi da parte volontariamente.

Insieme al pensionamento di Tantawi - nominato «Consigliere del presidente» e insignito della massima onorificenza egiziana, il «Gran collare dell’Ordine del Nilo» - Morsi ha anche disposto l’abrogazione della «Dichiarazione costituzionale», adottata proprio poche ore prima del suo insediamento, che di fatto alterava l’equilibrio dei poteri a favore dei militari, privando il presidente di un discreto numero di importanti prerogative. È proprio questo il fatto che rende più difficile credere a un avvicendamento concordato ai vertici del Supremo consiglio militare, oltre che ai vertici della Difesa. Possibile che l’establishment militare, un vero e proprio Stato nello Stato, detentore di un potere corporativo che assicura ai suoi membri una vasta serie di privilegi e benefit economici e di status, abbia accettato di veder cadere non Tantawi, ma tutto il trinceramento che Tantawi aveva costruito a difesa della posizione delle Forze Armate?

In cambio di che cosa o per paura di che cosa i generali avrebbero dovuto accettare un simile ridimensionamento, che comunque rappresenta uno smacco anche per il loro prestigio di «intoccabili»? Difficile quindi che si sia trattato di un ripiegamento tattico. Si direbbe che Mohammed Morsi sia deciso a seguire la strada mostrata da Recep Erdogan, il premier turco che ha privato le forze armate di quel ruolo di «guardiani della laicità delle istituzioni» assegnato loro dallo stesso Mustapha Kemal Atatürk e confermato da tutte le Costituzioni tranne l’ultima, emendata per volontà del premier e approvata da un referendum popolare.

Ma Erdogan ha impiegato anni per fare molto meno di ciò che Morsi sta provando a fare in pochi mesi. È però vero che Erdogan aveva dalla sua un assetto istituzionale comunque formalmente liberale consolidato in decenni, che la Turchia è un Paese membro della Nato e ancora formalmente in attesa di essere riconosciuto come «candidato alla membership» da parte della Ue e che un aperto pronunciamento da parte dell’esercito avrebbe incontrato una fortissima reazione interna e internazionale. Insomma Erdogan poteva permettersi di giocare una partita a scacchi, Morsi sta giocando una partita di poker, in cui il bluff è parte della strategia.

Il presidente probabilmente ha colto al balzo l’occasione della pessima figura rimediata dall’esercito con l’incursione in Sinai da parte dei quaedisti a inizio settimana. E qualcuno, a questo punto, potrebbe sollevare qualche dubbio sulla sua matrice proprio a partire dalla «natura provvidenziale» che essa potrebbe avere per le fortune della Fratellanza, che fino a qualche mese fa aveva ottimi rapporti con chi governa la Striscia e concorre a sorvegliarne i confini. Certo anche i militari hanno qualche carta in mano: potrebbero smettere di collaborare attivamente al mantenimento dell’ordine in un Paese che è ancora ben lontano dall’essere tornato alla normalità. Potrebbero ritirarsi platealmente nelle caserme in attesa di essere «costretti» a tornare per il bene della Repubblica. Tutto è possibile.

Ma forse è un altro l’asso nella manica di Morsi, la famosa minaccia di cui parlavamo prima. Nessuno infatti sa quanto profonda e diffusa sia la penetrazione della Fratellanza nelle forze armate, nei suoi ranghi intermedi. Nessuno tranne Morsi e Tantawi. Al quale il presidente potrebbe aver fatto balenare la prospettiva di un nuovo pronunciamento degli «ufficiali liberi»: anche questa volta, come nel 1953, contro i vertici del potere militare, ma diversamente da allora non per insediare al potere un nuovo colonnello Nasser, ma per difendere il primo presidente civile (ed eletto) d’Egitto…

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10425
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« Risposta #112 inserito:: Settembre 14, 2012, 10:27:06 pm »

14/9/2012

Dove nasce l'ostilità anti-Usa

VITTORIO EMANUELE PARSI

Paradossalmente, l’assalto al Consolato americano di Bengasi è il fatto politicamente meno negativo per gli Stati Uniti, anche se ovviamente il più tragico e il più pericoloso per la campagna elettorale del presidente, tra tutte le manifestazioni di ostilità antiamericana che in queste ore stanno attraversando il Medio Oriente.

Proprio la sua natura apertamente terroristica lo isola infatti dai moti che attraversano la società libica, ne fa, per più di un aspetto, un’azione «anacronistica» rispetto al tempo che le società arabe stanno vivendo.

Questo tempo continua a essere scandito dalle manifestazioni di piazza, dalle rivoluzioni, dalla presa del potere sotto la spinta popolare da parte di formazioni politiche islamiste, persino dalla guerra civile (come in Siria): ma non più dagli attentati terroristici come principale strategia di mobilitazione e azione politica.

Non può sfuggire che il terrorismo continui a mietere vite e a fare proselitismo in Iraq o, fuori del mondo arabo, in Afghanistan e in Pakistan: cioè in Paesi che restano ancora inchiodati alla stagione dell’11 settembre e alle conseguenze delle politiche adottate come reazione a quelle stragi maledette. Ben diversa è la situazione libica, dove la popolazione è scesa in piazza per manifestare la sua condanna dell’attentato, consapevole che senza le bombe della Nato e degli Stati Uniti Gheddafi sarebbe ancora al potere. Dove gli Stati Uniti si sono impegnati direttamente per abbattere un dittatore in guerra contro il suo popolo, hanno ottenuto il maggiore risultato della strategia attuata da Barack Obama nei confronti del mondo arabo in occasione delle tante e diverse primavere che negli ultimi due anni lo stanno attraversando: nessun sostegno ai dittatori e nessun ostacolo ai processi rivoluzionari in corso.

Una politica seguita anche in Egitto, ma con molta più titubanza, e in parte anche in Yemen, dove però l’America ha agito principalmente attraverso l’Arabia Saudita. Non è allora forse casuale o incomprensibile che proprio in questi Paesi l’antiamericanismo così diffuso nelle società arabe stia riemergendo, alimentando - questo è il punto - non azioni terroristiche, ma manifestazioni di piazza: per ora ancora minoritarie, ma non per questo meno in grado di fare rapido proselitismo. Quello che rende estremamente più pericolose le situazioni di Sanaa e del Cairo è infatti proprio la natura degli atti di ostilità antiamericana che utilizzano lo strumento associato nei cuori e nelle menti di tanti arabi alla stagione delle primavere: cioè a quei moti che hanno abbattuto dittature pluridecennali.

Siamo in campagna elettorale ed evidentemente lo staff di Romney parlerà di una politica mediorientale fallimentare, di un’America nuovamente sotto attacco, non amata, non rispettata e alla fine nemmeno temuta. Ed è vero che la politica di Obama non ha portato i frutti sperati, basti pensare alla freddezza reciproca mostrata da Obama e Morsi (il presidente egiziano) nella telefonata intercorsa dopo i fatti del Cairo. Ma le ragioni di questo insuccesso sono ben diverse da quelle indicate da Romney. Chi abbia anche solo un poco frequentato il Medio Oriente e il mondo arabo sa perfettamente che la diffidenza e l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti è legata alla convinzione che l’America applichi un inaccettabile doppio standard nella regione. È il sostegno acritico che Washington assicura a Israele - qualunque azione compia, chiunque sia al governo - che ha sempre alienato all’America la simpatia delle opinioni pubbliche e delle élite arabe. È il vero e proprio «intrappolamento» della strategia americana in Medio Oriente all’interno di quella israeliana che gli arabi ritengono incomprensibile. È il disinteresse concreto mostrato verso il processo di pace in Palestina che alimenta i sentimenti ostili delle piazze arabe verso la superpotenza garante del (dis)-equilibrio regionale.

Barack Obama ha fatto molto per cambiare la politica mediorientale degli Stati Uniti, ma non abbastanza sulla questione che da decenni e decenni gli arabi avvertono come una ferita sempre aperta. Ed è questo che rende la sua politica mediorientale complessivamente «fallimentare». L’evidenza che sia il Presidente meno antiarabo degli ultimi decenni svanisce di fronte al fatto che nel mondo arabo tutti sono convinti che, in ogni caso, al di là del giudizio ex ante, il comportamento ex post degli Stati Uniti sfocerà sempre in un acritico sostegno al governo israeliano: che si tratti degli insediamenti illegali di coloni nei territori occupati o delle ipotesi di un attacco militare israeliano contro i reattori nucleari iraniani. Il sostegno alle rivoluzioni arabe che l’America di Obama ha scelto come sua opzione strategica, non senza contraddizioni e incertezze, ha aperto una finestra di opportunità che ora si va lentamente richiudendo, anche perché molti sono gli attori interessati a che ciò avvenga: e non tutti necessariamente figurano nella lista dei nemici degli Stati Uniti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10526
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 15, 2012, 04:51:28 pm »

Editoriali
15/11/2012

I due messaggi di Netanyahu

Vittorio Emanuele Parsi


Netanyahu ha cominciato alla sua maniera la campagna elettorale per le legislative, facendo assassinare il capo militare del partito-milizia di Hamas, a Gaza, con una serie di bombardamenti che hanno ucciso almeno 7 innocenti civili palestinesi oltre ad Ahmad Jaabari e a suo figlio (altrettanto innocente). 

 

Con questa decisione, il premier di Tel Aviv ha anche recapitato un messaggio al presidente degli Stati Uniti sinistramente analogo a quello inviato esattamente quattro anni fa con l’operazione «piombo fuso», ovvero l’attacco violentissimo contro la Striscia di Gaza, che causò oltre 1200 morti tra i palestinesi. I bombardamenti sono stati presentati come rappresaglia per gli attacchi contro le forze armate israeliane compiuti nelle scorse settimane da parte dei miliziani al comando di Jaabari e per il lancio di una cinquantina di razzi Qassam verso il territorio israeliano, che nelle scorse ore si era fatto più intenso, pur senza aver provocato morti tra la popolazione. È da escludere che quanto accaduto ieri non abbia serie ripercussioni sulla regione e non c’è da dubitare che, al di là delle dichiarazioni con cui si cerca di non criticare troppo apertamente i raid israeliani, a Washington regni perlomeno il disappunto. La scelta del momento per una simile azione – che comunque non trova nessuna giustificazione legale – apparentemente non poteva essere più infelice. O forse è meglio dire «rivelatrice» delle vere intenzioni che hanno mosso Netanyahu: ottenere un successo propagandistico ad uso interno e contemporaneamente contribuire a radicalizzare il quadro regionale, così da provocare quell’effetto di rally ’round the flag sul quale il premier israeliano conta per rendere ancora più difficoltoso il formarsi di una coalizione elettorale nel litigioso fronte della sua opposizione politica. La rivelazione, subito diffusa dalle autorità militari israeliane, che Ahmad Jaabari era stato «il carceriere del caporale Shalit» (il militare israeliano detenuto per sei anni da Hamas e poi rilasciato in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi) è volta a dimostrare la determinazione del primo ministro, che si staglia con ancora maggiore forza sull’immagine del profilo timido ed emaciato del coscritto Shalit, la cui vicenda aveva creato un movimento di forte e insieme tenera coesione nell’opinione pubblica israeliana e in larga parte di quella occidentale. 

 

Evidentemente, una rappresaglia così violenta in questo momento, rende il quadro regionale ancora più teso, come se non bastasse la guerra civile siriana con il rischio che essa contagi il Libano e intacchi il già precario equilibrio giordano. Ed è appena il caso di accennare al fatto che l’omicidio di 9 persone a Gaza non potrà che costringere lo stesso Morsi ad assumere una posizione molto dura nei confronti del governo di Tel Aviv. Si tratta cioè di un vero e proprio regalo fatto alla componente più radicale dei Fratelli Musulmani (di cui Hamas è una lontana filiazione) e dei salafiti. Tutto questo proprio nel momento in cui il presidente Obama sembrava intenzionato a proseguire nella coraggiosa e cauta apertura di credito verso il regime egiziano, proprio allo scopo di concorrere alla stabilizzazione dell’intera regione. La cosa più triste, pensando alla tradizione democratica di Israele e alla straordinaria levatura morale di tanti dei suoi intellettuali, è dover prevedere che questo attacco sarà probabilmente interpretato dalle opinioni pubbliche arabe come una risposta indiretta alle «primavere» di questi due anni. Il fatto, sottolineato da tutti i commentatori, che esse avessero sostanzialmente disertato i più consueti «luoghi» dell’odio anti-israeliano, rischia di diventare solo un ricordo. E l’onda lunga della rabbia rivoluzionaria domestica potrebbe saldarsi con quella antica dell’esasperazione per l’umiliante e sistematica violazione dei diritti del popolo palestinese. Il rischio è che ne nasca un vero tsunami regionale, capace di far ritrovare gli Stati Uniti invischiati in un conflitto che non vogliono e che il presidente Obama si era ripromesso di contribuire a disinnescare nel corso del suo secondo mandato.

da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/i-due-messaggi-di-netanyahu-n2WZhk9aLf56eBb4ZfPgbO/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Novembre 24, 2012, 05:48:47 pm »

Editoriali
24/11/2012

Assist al Cairo da Israele

Vittorio Emanuele Parsi

Ha impiegato 48 ore il presidente egiziano Morsi per mettere all’incasso sul piano domestico il successo conseguito grazie al ruolo cruciale giocato nel rendere possibile la proclamazione della tregua tra Israele e Hamas. 

 

Forte della riconoscenza americana e, soprattutto, della convinzione di Washington che «il nuovo faraone» -- come già lo hanno ribattezzato i suoi oppositori - sia l’uomo indispensabile affinché le rivoluzioni che stanno interessando il mondo arabo non travolgano definitivamente i sempre più incerti equilibri regionali, Morsi ha provveduto a sigillare il proprio potere rispetto a qualunque possibile infiltrazione proveniente dai superstiti del vecchio regime. La magistratura, insieme ai militari, continuava infatti a rappresentare un baluardo all’azione islamizzante del nuovo regime e, contemporaneamente, costituiva un formidabile centro di potere alternativo a quello del presidente. Nei mesi scorsi, il braccio di ferro tra il presidente Morsi e il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud per le assoluzioni comminate ai principali collaboratori di Mubarak impegnati nella repressione durante la cosiddetta «battaglia dei cammelli» di piazza Tahir aveva già chiarito che la rivalità tra i due uomini nascondeva un conflitto molto più strutturale tra gli esponenti del nuovo ceto politico (forte della legittimazione elettorale) e l’intera magistratura (nominata dal vecchio regime) che non poteva che sfociare in una escalation. E così è puntualmente successo. Dopo quella del feldmaresciallo Tantawi ora è la testa del procuratore generale Mahmoud a rotolare metaforicamente nel cesto. 

 

La rivoluzione va avanti, dunque: questo è il primo segnale che il presidente invia innanzitutto ai suoi sostenitori, forse perplessi per il sostegno a loro avviso tiepido offerto da Morsi ai cugini di Hamas. Dal punto di vista istituzionale, più che realizzare una svolta autoritaria - possibile, probabile ma non ancora certa - le decisioni di Morsi proseguono nell’opera di riequilibrare i pesi tra funzionari nominati e cariche elettive a tutto vantaggio di queste ultime. In tal senso Morsi sta provvedendo a liberare presidenza e assemblea costituente dall’ingombrante tutela che esercito e magistratura intendevano esercitare sull’Egitto dei Fratelli Musulmani. È pero evidente il fatto che il poverissimo pedigree liberale che il partito di Morsi può esibire desta più di una preoccupazione presso i suoi oppositori, a cominciare dai Copti e dalle sempre più esigue e assediate componenti «laiche» della società civile egiziana, che non a caso stanno manifestando in queste ore. 

 

Considerando l’influenza che l’Egitto e la sua rivoluzione hanno sull’intero mondo arabo anche i timori internazionali su una possibile deriva sempre più illiberale dell’Egitto sono giustificati. D’altra parte è attraverso la rivoluzione dello scorso anno che l’Egitto è tornato a costituire un punto di riferimento per le masse arabe come non accadeva dai tempi di Nasser. Certo, il generale seppe trasformare un colpo di Stato in una rivoluzione, mentre Morsi sembra essere alle prese con la trasformazione di una rivoluzione in un colpo di Stato: ma è l’esito finale quello che potrebbe accomunare due presidenti così diversi, ovvero la costruzione di un «populismo autoritario inclusivo» in sostituzione dei sistemi autoritari che li avevano preceduti.

Le prossime settimane, se non i prossimi giorni, sveleranno qualcosa di più circa le vere intenzioni di Morsi: si limiterà a proteggere il processo rivoluzionario da possibili tentativi di bloccarlo o imboccherà con sempre maggior convinzione la strada di un’involuzione autoritaria? È comunque presto per intonare il de profundis per la più importante di tutte le primavere arabe e per decretare l’avvento di un inverno gelido e grigio. Resta però viva l’amara sensazione che proprio l’errore strategico commesso da Netanyahu, senza la sua decisione di aprire a Gaza una crisi che ha dimostrato di non essere nelle condizioni di chiudere, abbia rappresentato un assist insperato per Morsi, in grado di consentire li di anticipare una mossa azzardata che forse avrebbe dovuto quantomeno rinviare.


da - http://lastampa.it/2012/11/24/cultura/opinioni/editoriali/assist-al-cairo-da-israele-ahIsdcxRBosAmPeVlPqmIO/pagina.html
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