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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 61292 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Novembre 02, 2009, 10:35:57 am »

2/11/2009

Obama e i rischi di un Afghanistan senza strategie
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Lal Mohammed è il nome del contadino afghano a cui i talebani mozzarono naso e orecchie, come punizione per essere andato a votare al primo turno delle elezioni presidenziali. La sua vicenda commosse, per un breve momento sia chiaro, l'opinione pubblica del mondo. Il suo cocciuto coraggio sembra simboleggiare la forza degli umili, che sta nel numero ma anche nella dignità individuale, capace di prevalere persino sulla ferocia dei violenti e sull'arroganza dei potenti. Ora sappiamo che il suo sacrificio non è servito a nulla. Il ministro degli Esteri Abdullah Abdullah ha definitivamente rotto gli indugi e dichiarato che non parteciperà al ballottaggio, per timore di ulteriori brogli. Il paradosso è che, a rigore di Costituzione afghana, il ballottaggio dovrebbe tenersi comunque, sulla pelle dei tanti Lal Mohammed, altrimenti il presidente in carica Ahmid Karzai - il cui fratello è accusato di essere, contemporaneamente, un narcotrafficante e sul libro paga della Cia - potrebbe perdere la già scarsissima legittimità di cui gode. Buon primo anno alla Casa Bianca, Mr President!, verrebbe da dire…

Certo è che la situazione dell'area sfiora ormai il disastro, e non sembra che la Casa Bianca abbia per le mani chissà quali idee. In queste condizioni, i 40.000 rinforzi (forse) promessi al generale McCrystall rischiano di essere allo sbaraglio. D'altra parte, senza questi e altri rinforzi, le truppe già presenti sul territorio possono rappresentare poco più che bersagli per gli attacchi dei talebani e dei qaedisti. Con il precipitare della situazione istituzionale afghana, si palesa sempre più che la tanto auspicata «soluzione politica» del pasticcio afghano potrebbe essere persino più chimerica della soluzione militare. A Washington si direbbe che siano paralizzati. L'idea di villaggi protetti dalle truppe locali sostenute da militari Usa somiglia maledettamente alla riedizione dell'incubo vietnamita disegnato dal team Johnson-Westmoreland (il comandante delle truppe Usa in Indocina). La semplice destituzione di Karzai, sempre ammesso che si trovi con chi rimpiazzarlo, ricorda troppo da vicino la strada che portò l'Armata Rossa alla sconfitta.

In queste condizioni, comunque, è giunto il momento che la Casa Bianca decida senza altri indugi il da farsi, anche a costo di «commissionare» Karzai, affidando la «dittatura temporanea» a McCrystall. E’ una strategia politicamente scorretta, non c'è dubbio, e molto, molto rischiosa; ma è sempre meglio della «non-strategia» fin qui messa in campo. E' infatti semplicemente assurdo e dilettantesco che l'orizzonte in cui agisce chi offre il maggior contributo al tentativo di mettere in sicurezza il Paese (le truppe americane e quelle della coalizione) debba essere determinato, continuamente cambiato e ulteriormente complicato dalle faide interne a una coalizione tanto corrotta quanto sgangherata, dai pasticci di un'improponibile Commissione elettorale indipendente, dalle solite chiacchiere di principio dei funzionari Onu. Se la Casa Bianca non è disposta a dare uno strattone alla cavezza di Karzai e soci, tanto vale che si inizino i colloqui tra i Paesi membri della coalizione per andarcene di lì il più rapidamente possibile, «sperando» che l'Afghanistan resti terra di nessuno per molti anni a venire, e non diventi subito e di nuovo il rifugio esclusivo e sicuro di Al Qaeda e dei talebani. Ma questa è forse la scelta più difficile per Obama. Per quanto il Presidente cerchi di girarci intorno, quella afghana è «la guerra di Obama». O per lo meno lo è diventata, da quando sulla distinzione tra fronte afghano e fronte iracheno l'allora candidato Barack convinse gli elettori di avere la stoffa del «Commander in Chief».

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« Risposta #46 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:20:10 am »

30/11/2009

La prova di forza
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Ora che in sede Aiea Russia e Cina hanno aderito alla linea dura occidentale nei confronti dell’Iran (chiudere il sito nucleare di Qom), la prospettiva di un rafforzamento delle sanzioni verso il regime iraniano si fa più probabile, anche se non necessariamente certa. Molto dipenderà infatti dall’atteggiamento di Pechino, ammesso e non concesso che Mosca mantenga ferma la sua posizione anche in Consiglio di Sicurezza Onu.

Proprio una simile eventualità lascerebbe Pechino di fronte a un delicato dilemma o, più prosaicamente, con il classico cerino in mano. Consentire che siano adottate sanzioni nei confronti di Teheran, tanto più se queste dovessero prima o poi toccare il settore degli idrocarburi, sarebbe estremamente doloroso per Pechino. Alla Cina sempre più assetata di energia fanno decisamente gola il gas e il petrolio iraniani. Pechino ha recentemente firmato un contratto cinquantennale con l’Iran per la fornitura di gas e guarda con favore alla realizzazione del «gasdotto dell’amicizia», che collegherebbe Iran, Pakistan e India, che auspica possa essere successivamente esteso allo Xiang. Non solo. La Cina si sta muovendo con vigore in tutta l’Asia centrale: a iniziare dai Paesi Sco (Uzbekistan e Kazakistan soprattutto), che costituiscono consistenti mercati di sbocco dei propri prodotti commerciali, per finire con lo stesso Afghanistan, dove sta realizzando discreti ma importanti investimenti. D’altra parte, se Mosca dovesse mantenere l’allineamento con l’Occidente, e Pechino decidesse invece di sfilarsi, minacciando più o meno esplicitamente l’impiego del suo diritto di veto contro un eventuale inasprimento delle sanzioni a Teheran, la Cina si ritroverebbe di fatto isolata.

Cioè proprio in quella posizione che ha accuratamente cercato di evitare negli ultimi trent’anni di accorta politica estera (cioè dai tempi della svolta di Deng). Qualcuno forse ricorderà che, persino in occasione della guerra del Kosovo, i cinesi furono abilissimi nel mettere insieme in Consiglio di Sicurezza una coalizione ostile al conflitto che comprendeva Brasile e India, che mentre evitava a Pechino di esporsi in maniera solitaria impediva comunque che la questione di una copertura Onu alla guerra della Nato potesse neppure approdare all’ordine del giorno. In questo caso, oltretutto, Pechino potrebbe veder vanificati anni di lavoro volti ad accreditare la Cina come un responsabile membro della comunità internazionale, e proprio su una questione, come quella della proliferazione nucleare, decisiva per la sopravvivenza non meramente retorica del concetto stesso di comunità internazionale.

Sarebbe un risultato paradossale, tanto più che Pechino ha un interesse anche «individuale» alla tenuta del trattato di non proliferazione. Tutte le sue violazioni, acclarate o sospette, realizzate o in fieri (Israele, India, Pakistan, Nord Corea e Iran), hanno infatti riguardato l’Asia, cioè la regione «di casa» della Cina. Il rischio che un’eventuale sfida iraniana rilanci quella nordcoreana, con effetti a catena sul quadro regionale (dalla Corea del Sud al Giappone), rappresenterebbe un serio ostacolo alle ambizioni di Pechino di legittimare il proprio ruolo crescente in Asia e nel sistema internazionale, costringendola per di più a distrarre attenzione e risorse dagli assi strategici della politica estera ed economica. Infine, Hu è consapevole di dover concedere qualcosa di concreto a Obama, se vuole favorirne il ruolo di possibile mediatore tra Europa e Cina sulle questioni climatiche, altrimenti il sogno del G2 rischia di trasformarsi in un miraggio prima ancora di aver preso concretamente vita.

Ma sarebbero efficaci nuove sanzioni per convincere l’Iran a più miti consigli? Dipende. Per il momento Ahmadinejad procede con le sue pericolose smargiassate, minacciando di aprire altri 10 nuovi siti, di incrementare dal 3,5% al 20% l’arricchimento dell’uranio iraniano, e di cessare ogni «collaborazione» con la Aiea. Al di là della sicurezza esibita, però, probabilmente inizia a rendersi conto dell’occasione che si è lasciato sfuggire rifiutando l’ultima proposta del sestetto, che avrebbe consentito di salvare la faccia a tutti, all’Iran e alle grandi potenze, con un compromesso che, comunque, avrebbe costituito la tacita accettazione internazionale della svolta autoritaria in politica interna imposta al regime degli ayatollah dal presidente iraniano. Ora Ahmadinejad si trova di fronte a un diktat che, comunque decida di rispondere, sia che si pieghi sia che tenga duro, potrebbe indebolirlo, dando spazio e fiato all’opposizione interna. Non tanto quella delle piazze e dell’«Onda verde», quanto a quella tecnocratica e dei bazarì che si raccoglie intorno a Rafsanjani: cioè proprio quella più pericolosa per lui.

da lastampa.it
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« Risposta #47 inserito:: Dicembre 29, 2009, 11:05:57 am »

29/12/2009
 
Iran, si stringe la strada del negoziato
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Sarebbe già più che sufficiente l'amore per la libertà a spingerci idealmente accanto ai giovani che a Teheran e in tante altre città iraniane sfidano la violenza tutt’altro che cieca delle squadracce di Ahmadinejad e Khamenei, la triste diarchia che dal golpe bianco della scorsa estate si è impossessata del potere assoluto nella Repubblica islamica.

Ma occorre dire che dalla vittoria dell’onda verde, di questo straordinario movimento acefalo, dipendono sempre più anche le residue chances che alla questione del nucleare iraniano possa essere trovata una soluzione insieme accettabile per tutte le parti ed efficace nella sostanza.

Qualcuno ricorderà che alcuni anni orsono, a Washington, si erano inventati l'espressione «fascismo islamico», per raccogliere sotto un'unica etichetta le diverse forme politiche assunte dall’islamismo radicale.

La cosa era risultata immediatamente controversa, un'operazione grossolana che aveva suscitato scalpore e risentimento non solo nel mondo musulmano, al punto di finire presto vittima del fuoco di fila del «politicamente coretto». Eppure, riguardo alla deriva del regime iraniano, con il suo sistematico uso della violenza squadrista, poche altre locuzioni apparirebbero oggi altrettanto appropriate per indicare non un insieme di fenomeni più o meno simili, ma il caso peculiare dell'Iran di questi mesi.

A lungo in bilico tra timidi tentativi di autoriforma e svolte sempre più autoritarie, in cui persino i labili freni posti all'arbitrio del potere da parte della Costituzione islamica vengono travolti, il regime di Teheran sembra aver imboccato la via di un’ulteriore spinta verso un totalitarismo di tipo nuovo. A rappresentare l'ultima fragile, valorosa barriera per evitare che questo passaggio irrimediabilmente si compia, stanno - soli - gli studenti, i giovani e le donne, che da mesi riempiono le strade e le piazze della capitale, di Isfahan, di Shiraz, e contro cui si abbatte sempre più brutale la repressione del regime. Se falliranno, se Ahmadinejad e Khamenei prevarranno, nulla potrà più arrestare la completa mutazione del regime.

Nelle cancellerie occidentali la consapevolezza di tutto ciò sta crescendo, insieme alla certezza che, qualora il regime dovesse trionfare, verranno meno anche le residue, esili speranze di poter trovare qualunque soluzione alla questione del nucleare iraniano. Da quando Khamenei ha deciso di appoggiare il golpe bianco di Ahmadinejad, infatti, le posizioni negoziali iraniane si sono, se possibile, ulteriormente irrigidite e, soprattutto, sono state accompagnate da una serie di atti concreti e calcolate provocazioni, tutte governate dalla strategia del fatto compiuto: dalla sperimentazione di missili a lunga gittata all'apertura di un nuovo sito a Qom, alla messa in funzione di centinaia e centinaia di centrifughe, all’annuncio della prossima apertura di un numero non precisato di ulteriori impianti.

Lo scippo delle elezioni e i torbidi che ne sono seguiti hanno reso evidente come l'ipotesi di un avvicendamento per via costituzionale del gruppo di potere e interessi di cui Ahmadinejad e Khamenei sono espressione, semplicemente non esista più. Paradossalmente, è oggi meno irrealistico puntare su un crollo (dall'interno) del regime degli ayatollah che su una sua trasformazione in senso «moderato». E questo ha implicazioni anche su tutta la vicenda del nucleare di Teheran. Se Khamenei e Ahmadinejad dovessero prevalere, infatti, il regime avrà completato la sua trasformazione interna e, ancor più di prima, si sarà autocollocato in una posizione di volontario «autismo internazionale», che lo renderà sempre meno sensibile alle pressioni esterne e sempre più incline a giocare la carta della «Patria in pericolo», per raccogliere intorno a sé il consenso degli indecisi e poter dipingere gli oppositori come «servi dello straniero». Chi, nel nome del realismo politico, della prudenza diplomatica e del tornaconto economico, invita «a non bruciare tutti i ponti con il regime», dimentica che i ponti con l'esterno, questo regime, li sta sistematicamente bruciando dalla scorsa estate, e che solo la sua sconfitta dall'interno - che forse non sarà vicina ma che appare oggi meno chimerica di cinque mesi fa - può evitare che l'Iran si trasformi in una pericolosissima Corea del Nord del Medio Oriente. E solo questa preoccupazione dovrebbe guidare le nostre azioni, per quanto caute, prudenti e discrete dovranno essere.
 
da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:33:25 am »

22/1/2010

Haiti, sfida per Obama
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Che cosa succederà «dopo», quando la fase acuta delle prime settimane di emergenza umanitaria sarà alle spalle, lasciando dietro di sé un Paese devastato economicamente, socialmente e politicamente? Haiti era notoriamente uno Stato fallito ben prima della catastrofe di nove giorni fa, benché convenisse a tutti far finta che il governo del presidente René Preval esercitasse un’effettiva autorità sull’isola. A mano a mano che la polvere si posa sulle rovine e sui morti, diventa però sempre più difficile che la finzione possa continuare e ancor meno probabile che la popolazione locale sia disposta a riconoscere una qualche legittimità alle istituzioni della Repubblica caraibica, schiantate dal terremoto insieme con le vite dei cittadini di Port-au-Prince e le loro povere cose.

Al di là delle forme che si riusciranno a individuare, Haiti necessita di una assunzione in carico da parte della comunità internazionale, per un tempo che sarà tutto fuorché breve. Ancorché tra le cause immediate del dissesto haitiano (e men che meno tra quelle del terremoto) non sia da annoverare una guerra civile, l’occupazione da parte di una potenza straniera, la pulizia etnica o il fanatismo religioso, quello che si prospetta per il Paese è un intervento dal respiro, dalla durata e dalla consistenza di quelli messi in atto in Bosnia, a Timor Est, in Kosovo e in Afghanistan. Sempre che non si voglia lasciar scivolare il popolo haitiano in un girone dantesco analogo a quello somalo. Si tratta di una sfida per tutta la comunità internazionale, che deve riuscire a dar prova di saper intervenire nel nome dell’interesse generale dell’umanità, accantonando inaccettabili rivalità nazionali. Ed è un banco di prova per chiunque ritenga che, mentre occorre continuare a fronteggiare le minacce alla sicurezza e all’ordine internazionale di tipo «classico», proprio cominciando dalla devastata Haiti sia possibile posare la prima pietra per edificare un mondo diverso e migliore. Al di là della ovvia e immediata drammaticità che caratterizza l’emergenza haitiana, essa interpella le capacità del mondo di andare oltre le chiacchiere e le buone intenzioni sul tema della global governance, tanto quanto lo fanno il riscaldamento globale, il depauperamento delle acque, o lo sterminio per fame.

Se questo è vero per tutti i membri della società internazionale, lo è un po’ di più per gli Stati Uniti e per il loro presidente, Barack Obama. Di tale società e del suo ordine, gli Usa sono da oltre 60 anni i maggiori azionisti e i principali garanti, e hanno visto crescere il loro ruolo con il tramonto del sistema bipolare. Nei confronti dell’emisfero occidentale, poi, è dai tempi della «Dottrina Monroe» (1823) che gli Stati Uniti hanno prima rivendicato e poi esercitato un’influenza a lungo esclusiva, e ancora oggi preponderante. Per quanto Haiti sia il tipo di vicino che gli americani preferirebbero non avere nel proprio «backyard», i ripetuti interventi militari nell’isola (1891, 1994, 2004-2005) e una quasi ventennale occupazione (1914-1934), rendono testimonianza di come essa abbia rappresentato e seguiti a rappresentare anche una questione di «interesse nazionale» per Washington: ieri per conservare i proventi delle sua piantagioni, oggi per evitare che flussi di esuli dalle dimensioni bibliche si abbattano sulla Florida. A un anno dal suo insediamento e a poche settimane dalla consegna di un premio Nobel per la pace che ha sollevato più di una polemica, il presidente Obama si trova a dover dimostrare che le speranze e le aspettative evocate dalla sua brillante retorica possono trovare concreta applicazione. E deve farlo in un momento in cui il suo astro appare appannato all’interno degli Stati Uniti, dopo lo «smacco» subito in Massachusetts e con un’America profonda preoccupata per una crisi e una disoccupazione che non mollano, dove tornano a cantare le sirene di un anacronistico neo-isolazionismo.

Se gli Usa non riusciranno a esercitare una leadership efficace in questa crisi, vincendo anche i sospetti e le critiche che già in questi giorni cominciano a serpeggiare, il prestigio del presidente e lo stesso «soft power» americano potrebbero infatti risultarne appannati. Qualche giorno fa, a Kabul, i talebani hanno ricordato a tutti che il vecchio mondo continua, richiamando con brutalità il presidente al suo ruolo di Commander in Chief e alla sua capacità di chiudere i conti con il passato. Nei prossimi mesi, a Port-au-Prince, Obama dovrà raccogliere concretamente una sfida cruciale per il futuro di tutti, a partire dagli «ultimi»: porre la leadership americana al servizio di un nuovo modello di governance davvero globale.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:13:18 pm »

2/2/2010

Il fardello dell'amicizia con Teheran
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


La geografia non fa sconti, e il Levante è davvero sulla soglia di casa dell'Italia. Quando il vicepremier israeliano definisce gli italiani «i migliori vicini di Israele» ci ricorda implicitamente che la nostra politica verso il Medio Oriente, diversamente da quella dell'Olanda o della Gran Bretagna, non può prescindere da questo dato. Una politica di vicinato non costringe a fare certe scelte a scapito di altre, ma impone un’attenta ponderazione di ogni singolo atto e di ogni singola dichiarazione. Questo è vero sempre. Lo è a maggior ragione per un'area come il Medio Oriente e per quel che riguarda il diritto di israeliani e palestinesi a vivere in pace e sicurezza.

Per molti decenni la politica mediorientale dell’Italia è stata orientata dal concetto di equidistanza: ha cercato di mantenere gli ottimi rapporti (d'affari e non) con il mondo arabo senza venir meno ai sentimenti di solidarietà verso Israele e il popolo ebraico. A chi obiettava che questa linea di comportamento finiva con l'essere troppo spesso concretamente sbilanciata a favore del mondo arabo e islamico, compresi quei governi più intransigenti nel rifiutare lo stesso diritto all'esistenza di Israele, veniva spesso risposto che era la geografia. Che era la necessità di buon vicinato, a dettare una prudenza così simile all’ignavia.

Con l'avvento di Berlusconi, le cose sono decisamente cambiate, e l'11 settembre e il sostegno politico alla guerra contro Saddam Hussein hanno contribuito a collocare progressivamente l'Italia tra gli amici di Israele. Del mutamento dei rapporti tra i due Paesi, non c'è forse indicatore più esplicito della richiesta, avanzata alcune settimane fa dal governo israeliano, di prolungare il periodo di comando italiano della missione Unifil 2. Si tratta del riconoscimento che l'azione di Unifil 2, di cui l'Italia fu prima promotrice con il governo Prodi, è ritenuta da Israele un utile contributo per la propria sicurezza. Non stupisce quindi né che lo stato delle relazioni dei due Paesi sia così eccellente, né che gli israeliani riconoscano a Berlusconi di aver contribuito a imprimere una svolta alla politica mediorientale dell'Italia, che ha finito con l'impegnare anche i governi di centrosinistra. Quando Berlusconi parla di «Israele nell'Unione Europea», rispolverando una vecchia idea del partito radicale, va oltre l'espressione del sentimento di amicizia per lo Stato ebraico, ed esplicita l'idea di una vera e propria alleanza, così forte e convinta da poter dar vita a una comune unità politica, basata sulla condivisione dei valori e delle istituzioni democratiche, oltre che sul richiamo alle «radici giudaico-cristiane della nostra civiltà».

Al di là della scarsa praticabilità di una simile opzione, occorre chiedersi se sarebbe nell'interesse israeliano una simile prospettiva, che faciliterebbe le accuse di «estraneità e artificialità» rivolte alla presenza di Israele nella regione dai suoi più acerrimi nemici. Tra questi ultimi, una posizione privilegiata spetta all'Iran, uno dei nostri migliori partner commerciali, con il cui governo l'Italia ha mantenuto sempre buoni rapporti. Fin quando l'Iraq di Saddam ne conteneva le mire egemoniche, e fin quando l'Italia perseguiva la politica dell'equidistanza, l'ingombro delle ottime relazioni italo-iraniane era tutto sommato tollerabile. Ma oggi, l'Iran ha un'influenza infinitamente maggiore sul Levante, e rappresenta una minaccia crescente per la sicurezza di Israele, oltre che per l'ordine regionale, il fardello di questa amicizia si fa sempre più pesante, e diventa addirittura insostenibile, se le parole di amicizia di Roma verso Tel Aviv vogliono essere prese sul serio. Non è un caso che il vicepremier israeliano chieda oggi agli italiani quello che si chiede agli amici. Ci invita alla coerenza e, piuttosto che filosofeggiare una futura casa comune, ci chiede un aiuto ora nel difendere la propria casa: cioè ci chiede di far seguire, alle parole, i fatti.

da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:29:07 pm »

10/2/2010

Il costo della fermezza
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Non c’è mai da star troppo tranquilli quando degli «studenti» iraniani prendono di mira un’ambasciata occidentale a Teheran.
Il ricordo non può non tornare al ben più drammatico assalto del 1979 alla legazione americana, proprio agli albori di quella rivoluzione di cui domani ricorre il 31° anniversario.

Questa volta, a differenza di quanto accadde allora, le manifestazioni ostili non hanno portato a nessuna occupazione e a nessuna presa di ostaggi. Seppur tardivamente la polizia è intervenuta a «disperdere» i manifestanti, che più di un indizio fa ritenere fossero basiji, le stesse squadracce di miliziani utilizzate in questi mesi dal regime contro gli studenti dell’«onda verde». Lo stato delle relazioni tra Roma e Teheran, per tanti anni così buono da suscitare se non scandalo per lo meno imbarazzo presso altre più intransigenti cancellerie occidentali, è precipitato in pochi giorni, e difficilmente tornerà a volgere al sereno. Durante la sua visita a Gerusalemme era stato lo stesso premier italiano a dare un chiaro segnale che la musica stesse cambiando. Alla difesa a spada tratta del diritto alla sicurezza per Israele, Berlusconi aveva accompagnato l’appello alla comunità internazionale affinché adottasse dure sanzioni contro l'Iran, ed era giunto a rivendicare il dovere morale delle democrazie di sostenere l’opposizione iraniana.

Contenuti così forti, proclamati con quei toni davanti alla Knesset, era difficile che potessero non incontrare una violenta risposta da parte iraniana. E infatti così è successo, in un crescendo di toni che ha visto prima intervenire la tv di Stato, poi la Guida Suprema, che ha promesso ceffoni all’Occidente in occasione della ricorrenza della Rivoluzione, quindi il suo sodale Ahmadinejad, che ha annunciato l’avvio del processo di ulteriore arricchimento dell’uranio, per culminare nell’espressione pubblica della «spontanea indignazione popolare». Con l’ultimo, veramente obliquo e di stampo gangsteristico, la gamma degli avvertimenti sembra, per adesso, completata. Staremo a vedere; nel frattempo l’Eni si è detto pronto a seguire le indicazioni del governo, ridimensionando il valore dei propri contratti in loco, e anche questo lascia ritenere che Roma abbia deciso di abbandonare ogni possibile ambiguità nelle relazioni con Teheran. Per un Paese che cerca di ritagliarsi un proprio ruolo internazionale, innanzitutto nel Levante e più in generale nel Mediterraneo, il peso dei buoni rapporti con Teheran era diventato insostenibile, tanto più che Roma vanta, secondo alcuni critici, rapporti fin troppo cordiali anche con Mosca.

Ma se la rilevanza della Russia di Putin e Medvedev può giustificare la scelta di far innervosire Washington, non avrebbe avuto senso seguitare ad applicare la stessa filosofia con l’Iran. Del resto, quello di Khamenei e Ahmadinejad è ormai un regime totalmente screditato, che solo uno sciocco potrebbe sperare di riuscire a condizionare o indurre a più miti consigli attraverso il dialogo e le profferte di amicizia. Persino i cinesi, che si oppongono a un inasprimento delle sanzioni per ragioni meramente opportunistiche, non credono a una tale prospettiva. E non è detto che a Pechino non inizino a domandarsi se valga la pena rischiare di finire essi stessi isolati sulla vicenda iraniana. Se non può farlo la piccola Italia, a maggior ragione una potenza emergente come la Cina, che rivendica un ruolo globale, non può permettersi di apparire l’ultima degli opportunisti...

La violenza e la scompostezza delle reazioni iraniane alle mosse italiane segnalano quanto queste brucino, e come la prospettiva di una totale solitudine sia temuta a Teheran più di quanto siano disposti ad ammettere. Ora è possibile che qualcuno accusi Silvio Berlusconi di aver agito sventatamente. Ma in questo caso l’accusa apparirebbe capziosa. Come ha ricordato il ministro degli Esteri Frattini, l’Iran ha problemi con il mondo e non con l’Italia o con il governo Berlusconi. Quest’ultimo ci pare abbia invece semplicemente fatto una scelta che non vanificasse l’azione che l’Italia ha responsabilmente deciso di svolgere in Libano e Afghanistan: fare la propria parte per contribuire alla sicurezza regionale e internazionale. Si tratta di una scelta di coerenza, costosa e non indolore, ma non per questo meno necessaria o apprezzabile.

da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:25:20 am »

3/3/2010

La cultura in prigione

   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Dei Paesi del «Greater Middle East», e dell’Asia occidentale in generale, l’Iran è uno dei pochi che possa vantare una vera società civile.

La sua vitalità l'abbiamo vista all'opera (ma meglio sarebbe dire "intravista", considerata la strenua azione censoria del regime) durante i mesi di manifestazioni che hanno preceduto e seguito le elezioni farsa dell'estate scorsa. Ad alimentarla e sostenerla, ben più che l'improbabile leadership di qualche improvvisato politico pseudo-riformista, ha contribuito una classe intellettuale tanto articolata, radicata e cosmopolita quanto la cricca al potere a Teheran è sempre più monolitica, autoreferenziale e gretta. Gli intellettuali, con i loro rapporti internazionali e le loro conoscenze del mondo e nel mondo costituiscono la vera rete capillare di oppositori sistematici al regime e alla sua degenerazione sempre più evidentemente totalitaria. Sono gli alimentatori della speranza e della prospettiva che l'Iran non finisca chiuso in quel nero sudario che Khamenei e Ahmadinejad tessono per un Paese e un popolo dalla storia antica e dalla cultura raffinatissima, che anela a un futuro all'altezza del suo grande passato. Sono coloro i quali ancora impediscono che un popolo e un Paese non siano ridotti a trascinare l'esistenza in un eterno presente claustrofobico. Sono quelli a cui i giovani e le ragazze di Teheran guardano, alle cui idee si nutrono, per ritemprarsi spiritualmente dalle bastonate che fiaccano i loro corpi. Cioè sono quelli di cui il regime ha più paura, quelli che devono essere soffocati, affinché nessuno possa anche solo sognare un cielo azzurro.

L'arresto di Jafar Panahi, di sua figlia e dei suoi ospiti, nella sua casa, senza che nessuna delle persone tradotte in carcere abbia commesso la benché minima colpa, evoca gli scenari degenerati dell'impero ai tempi di Caligola, se non dell'Unione Sovietica di Stalin. E vien da chiedersi se questi tragici eventi troveranno un giorno i loro Tacito, o dei Salamov capaci di scrivere una versione iraniana dei «racconti della Kolyma». Il regime è conscio che l'opposizione politica è ben poca cosa. Ma altrettanto bene sa quale ruolo hanno svolto nelle rivoluzioni dell'Iran moderno gli intellettuali, compresa quella khomeinista del 1978-79. E così ha deciso di spegnerne la voce, e di mandare un segnale chiaro a tutta la società iraniana: nessuno si illuda di essere al sicuro, nessuno si senta protetto dall'aura della fama e del rispetto internazionale. In passato a Panahi era stato impedito di lasciare il Paese, per ritirare un premio cinematografico, partecipare a un dibattito, testimoniare la tetra situazione in cui versa l'Iran. Adesso la prigione, l'arresto completamente arbitrario, manifesta la trasformazione in senso sempre più apertamente totalitario del regime, in cui il terrore diventa lucido strumento di governo.

Non è la prima volta che gli intellettuali iraniani vengono imprigionati a scopo intimidatorio e preventivo. Ma la sistematicità con cui questo sta avvenendo, unita alla violenza della repressione di ogni manifestazione di dissenso e alle impiccagioni degli oppositori, segna un'escalation, un salto qualitativo verso il baratro, verso l'abisso. E noi che cosa possiamo fare, quale contributo possiamo dare perché tanto coraggio non sia sprecato? Poco, ma non nulla. E' il momento che in Occidente, nelle nostre università, nelle nostre istituzioni culturali inizi una mobilitazione concreta, affinché sia offerta un'ospitalità discreta, quasi silenziosa, agli intellettuali iraniani. Invitiamo i nostri colleghi a partecipare ad attività di studio e ricerca e a periodi di soggiorno nei nostri atenei, affinché possano continuare a mantenere accesa la fiaccola della speranza e a restare menti e voci libere a disposizione del loro Paese. Non si tratta di prepararne l'esilio, ma di evitare che la claustrofobia ne spenga la vitalità e la tempra. Che possano ritemprarsi, per poter continuare a lottare e a rappresentare la speranza di un intero Paese, e la nostra, comune, nella libertà.

da lastampa.it
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:32:15 am »

6/3/2010

Il passato allontana Ankara dall'Europa
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


Come era prevedibile, il governo turco ha reagito con la massima durezza al voto del Comitato Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti che invitava la Turchia a riconoscere che il massacro di centinaia di migliaia di armeni nel corso della Prima guerra mondiale costituì un vero e proprio genocidio, in tutto per tutto simile all’Olocausto perpetrato dal regime nazista alcuni decenni dopo. Ma come mai, a quasi un secolo di distanza da quei tragici eventi, compiuti per di più da un soggetto istituzionale (l’impero ottomano) diverso dall’attuale repubblica, le autorità di Ankara continuano a mantenere una posizione così rigida? La risposta è che il genocidio del popolo armeno è il più imbarazzante filo rosso che lega il tramonto dell’impero ottomano e la nascita della repubblica kemalista.

Esso rispose infatti al disegno di «turanizzare» (turchizzare, ndr) l’impero, di sostituire alla precedente e ormai decadente fedeltà verso il sultano, una nuova, vigorosa lealtà verso una patria nazionale turca, tutta da costruire, da «inventare», come era accaduto per le altre nazioni affermatesi nel corso del secolo. Quel disegno intersecava e parzialmente dirottava l’ultimo disperato tentativo di riformare l’impero, sostenuto dai giovani turchi a partire dalla fine dell’800.

La deriva nazionalistica del movimento riformatore aveva definitivamente preso il sopravvento dopo le guerre balcaniche del 1912 e del ’13, alimentata dalle stragi e dalle espulsioni forzate delle popolazioni musulmane nelle province europee fino a quel momento appartenute all’impero, perpetrate da greci, serbi e bulgari. A quelle efferatezze, che non avevano risparmiato gli ebrei di Salonicco, i turchi risposero con le prime espulsioni e le prime stragi degli armeni e dei greci dall’Anatolia.

La pulizia etnica riprese vigore durante la guerra mondiale, raggiungendo l’apice con gli eventi del 1915. E si trattava di una pulizia tanto etnica quanto religiosa, esplicitamente e lucidamente perseguita dalla nuova classe dirigente dell’impero, che in parte cospicua transiterà poi nella nuova repubblica fondata da Mustafa Kemal, dopo la vittoriosa guerra contro la Grecia e le altre potenze occupanti. Lo stesso «laico» Kemal Atatürk, in realtà, riteneva che l’equazione tra «vero turco» e musulmano sunnita fosse perfettamente funzionale alla sua causa, e non a caso osteggiò tutte le altre fedi religiose (anche musulmane) e riservò all’islam sunnita una posizione privilegiata presso il ministero del Culto, con una visione del rapporto «Stato-Chiesa» molto più simile al modello inglese di Enrico VIII che a quello francese repubblicano, cui sovente è erroneamente accostato. Nel difendere le origini della Repubblica da un imbarazzante peccato originario, i nuovi signori di Ankara continuano a ritenere, sia pure da posizioni ben più «pie», che l’identità nazionale turca sia di fatto inscindibile da quella islamica e sunnita. E con questo fanno un ulteriore passo che allontana la Turchia da quell’approdo europeo che formalmente sostengono ancora di volere raggiungere.

da lastampa.it
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 23, 2010, 09:05:47 am »

23/3/2010

Usa, passi falsi in Medio Oriente

VITTORIO EMANUELE PARSI

Speriamo che dai colloqui di Washington tra israeliani e americani esca qualcosa di buono, capace di rianimare un processo di pace in condizioni simili al Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Barack Obama è uomo di grande qualità e straordinariamente tenace, come ben attesta lo storico successo ottenuto sulla riforma sanitaria. Ma quello dell’ordine mediorientale è un tema ugualmente intrattabile e dall’altrettanto storica portata, per affrontare il quale il Presidente degli Usa si troverà a condurre una battaglia persino più solitaria.

Tra le tante politiche pubbliche, la politica estera è per definizione quella il cui successo non dipende totalmente dal governo che la elabora e la mette in opera, neppure quando si tratta della superpotenza americana. A farla naufragare o, meno drammaticamente, a procrastinarne e attenuarne gli effetti, non concorrono solo gli eventuali abbagli analitici, o le «resistenze» di avversari e rivali (che evidentemente giocano ognuno la propria partita), ma talvolta le mosse degli stessi alleati. L’inopportuna decisione israeliana di consentire nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est è tra queste. Mentre la condanniamo, occorre però riconoscere che essa è frutto di un’analisi convinta innanzitutto della debolezza della leadership e della crescente solitudine americana in Medio Oriente.

La sensazione è che gli Usa stiano perdendo innanzitutto la presa sugli alleati nella regione: non solo gli israeliani, ma anche la Turchia (nonostante proprio da Ankara Obama avesse inaugurato il suo primo viaggio europeo) e persino l’Iraq, che è sempre più impaziente di liberarsi dei soldati di Petraeus.

Se Netanyahu sfida così apertamente Obama, è perché sa che l’America non è in grado né di sanzionare seriamente Israele né di cambiare significativamente per il meglio l’orizzonte strategico in cui Israele vive. Da un lato, come dovette pubblicamente ribadire Hillary Clinton appena 48 ore dopo una dura sfuriata nei confronti delle autorità israeliane, «l’impegno americano a favore della sicurezza di Israele» prescinde da qualunque contingente divergenza di opinione, anche aspra (esempio di quello che gli arabi chiamano «doppio standard»). Dall’altro, l’amministrazione Obama non è riuscita a far rallentare di un solo giorno la prospettiva di un Iran nucleare, vero e proprio incubo della dirigenza israeliana. Anzi, l’aver trascurato di impegnare più frontalmente l’Iran sulla questione dei diritti umani e delle elezioni truccate a favore della sola issue nucleare ha finito col fornire a Mosca e Pechino uno spazio sempre maggiore in Medio Oriente, trasformandoli di fatto nei protettori degli ayatollah. Questo è lo scenario che contemplano anche gli arabi, che dopo il «discorso del Cairo» (tanto ispirato quanto audace) si aspettavano molto di più dal presidente Obama e che invece vedono gli «altri» (israeliani, iraniani e turchi) acquisire sempre più peso e autonomia a scapito loro. Serve un cambio di rotta rapido e incisivo, un segnale che «compensi» il ritiro delle truppe dall’Iraq e sia in grado di chiarire a tutti (alleati, avversari e neutrali) che gli Stati Uniti hanno intenzione di tornare a esercitare una leadership effettiva nel Medio Oriente.

da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 07, 2010, 04:51:15 pm »

7/4/2010

Europa ai margini

VITTORIO EMANUELE PARSI

Non a sufficienza per far felici i suoi sostenitori più liberal, ma abbastanza per consentire ai falchi di accusarlo di aver minato la credibilità strategica americana. Ma, soprattutto, un argomento spendibile nel prossimo summit antiproliferazione di Washington, che però rende ancora più complicati i rapporti con gli alleati della Nato.

L’intervista che preannuncia la (quasi) rinuncia (non definitiva) al first strike atomico da parte americana fa sicuramente scalpore. Se non altro perché segna un altro passo verso la fine di un provvisorio «post-Guerra Fredda» che dura ormai da oltre 20 anni e indica come meno utopico l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari. In termini di dottrina difensiva degli Usa, ci dice che il Pentagono si appresta a prendere atto che coloro che vogliono e possono colpire il territorio americano con attacchi convenzionali, chimici e batteriologici non sono sensibili alla deterrenza nucleare. Fino ad ora, del resto, con l’eccezione di Pearl Harbor nel dicembre 1941 (che peraltro allora non era considerato propriamente territorio nazionale), solo Osama Bin Laden era riuscito nell’impresa di bombardare l'America. Ma, a onor del vero, va detto che non risulta che l’ipotesi di scatenare un attacco nucleare sull'Afghanistan sia stata presa in seria considerazione neppure da George W. Bush.

Dal punto di vista delle minacce che possono giustificare politicamente ed eticamente una rappresaglia nucleare a un attacco non nucleare, diciamocelo con chiarezza, la situazione è decisamente cambiata con la fine dell’Urss. In questo nuovo mondo, persino le 1500 testate atomiche che Mosca e Washington si riservano di conservare bastano e avanzano per mantenere il rango e il prestigio di superpotenza nucleare. Senza considerare che, oggi, è proprio in campo «convenzionale» (se l’espressione ha ancora un senso), che gli Usa sono una spanna sopra gli altri.

Per dirla con l’editorialista del New York Times Roger Cohen, d'altro canto, bisognerebbe chiedersi se, insieme alla Guerra Fredda, e a una sicurezza (efficacemente) garantita per circa 40 anni dalla prospettiva della mutua distruzione garantita, non sia ormai sparito anche il vecchio mondo transatlantico. Durante la Guerra Fredda, infatti, era proprio la minaccia che gli Stati Uniti avrebbero reagito con la rappresaglia atomica anche di fronte a un attacco convenzionale in Europa, a far star tranquilli gli europei e a tenere a bada i russi. Oggi sembra quasi che le parti si siano invertite e che, pur di conquistare Mosca alle sanzioni anti-iraniane, Washington sia disposta a tirare un'altra picconata a quel che resta di Transatlantia. È vero che pure l'Europa è sostanzialmente al sicuro da attacchi nucleari di sorta (Parigi ha più testate di Pechino e Londra segue a ruota i cinesi), ma il punto è che la garanzia nucleare strategica fornita dall'America è una delle poche cose che rende gli Usa ancora indispensabili e insostituibili per la sicurezza europea. Rinunciare al first strike nucleare, oltretutto senza aver prima consultato gli alleati, indebolisce l’Alleanza (un cui comitato di saggi, guidato da Madeleine Albright, aveva appena ribadito la necessità di mantenere anche armi nucleari tattiche in Europa), e non la rafforza; anche se può paradossalmente esaudire le aspirazioni del presente governo tedesco.

In un bel commento sulla «Stampa» di ieri, Enzo Bettiza si interrogava su quale Russia fosse l'interlocutore dell’Occidente - quella di Putin o quella di Medvedev? - mentre sul «Corriere» André Glucksmann sottolineava come Berlino ballasse qualche giro di valzer di troppo con Mosca. Difficile credere che a Washington non se ne siano accorti. Più facile pensare che avessero in mente qualcosa di diverso dai rapporti transatlantici: e questa non è una buona notizia per l’Europa. Forse davvero il presidente Obama ha iniziato a porsi il problema di cercare il consenso con i leader del mondo e non solo quello dell’opinione pubblica, come sosteneva il «Washington Post» esattamente mercoledì scorso: il problema, per noi europei, è che, Obama sembra voler reagire al declino americano cercando di perseguire una nuova leadership globale, anche a costo di mettere a repentaglio l'idea stessa di Occidente.

da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 14, 2010, 02:48:19 pm »

14/4/2010

Le zone grigie delle nuove guerre

VITTORIO EMANUELE PARSI

Col tempo, forse, avremo tutti maggiori elementi per capire su quali basi si è fondata l’operazione che ha portato all’arresto degli operatori di Emergency nell’ospedale di Lashkar Gah. Va detto subito che due cose sono apparse da subito egualmente inverosimili: da un lato, l’accusa rivolta al personale italiano dell’ospedale di essere parte di un complotto volto ad assassinare il governatore afghano; dall’altro, l’ipotesi che il governo afghano o addirittura Isaf abbiano voluto costruire una trappola per togliersi dai piedi l’Ong di Gino Strada. Per quanto Emergency non abbia mai mostrato alcuna simpatia per il governo di Karzai e per le operazioni di peace keeping in generale, è difficile immaginare l’ospedale di Lashkar Gah trasformato in una cellula jihadista. D’altronde, Isaf ha ben altre magagne e ben altrimenti ingombranti testimoni di cui preoccuparsi, molto più potenti e soprattutto molto più conosciuti e strutturati internazionalmente rispetto ad Emergency.

Restano per il momento aperte le ipotesi «minori», dal punto di vista mediatico-complottardo, e non necessariamente alternative: che Emergency abbia esercitato una vigilanza insufficiente su che cosa veniva introdotto nella sua struttura, e che il governatore regionale abbia deciso di intervenire in modo da far pagare alla Ong di Strada il conto per il ruolo, ritenuto non completamente chiaro, svolto nella pasticciata liberazione di Daniele Mastrogiacomo, conclusasi con il pagamento di un riscatto, il rilascio di alcuni capi terroristi e l’uccisione dell’interprete afghano del giornalista di Repubblica.

Il caso di Emergency offre però l’opportunità di interrogarci su quanto sia ancora possibile, per gli operatori umanitari, far risaltare la propria terzietà, la propria neutralità rispetto alle posizioni dei combattenti, quando la forma che la guerra oggi prevalentemente assume è quelle della «guerra tra le gente», per ricorrere alla brillante espressione coniata dal generale inglese Rupert Smith. Per sperare di vincerle, sempre ammesso che sia possibile, queste guerre devono prevedere che qualunque intervento militare sia completato da una componente civile, che contribuisca alla «conquista del cuore e delle menti» della popolazione (lo diceva già Mao), gettando le premesse per la sconfitta anche politica del nemico. Così facendo, di necessità, i confini tra azione esclusivamente umanitaria e intervento politico-militare che contempli anche l’azione umanitaria sfumano nell’indeterminatezza. Diventa cioè quasi impossibile distinguere l’azione degli operatori umanitari da quella dei soldati e dai funzionari delle forze internazionali il cui fine ultimo, al di là delle modalità operative magari parzialmente coincidenti e persino delle intime motivazioni personali, non è quello di mitigare le sofferenze dei popoli coinvolti in un conflitto, ma di vincere, di sconfiggere il nemico, dove portare la popolazione neutrale dalla propria parte diventa l’arma decisiva del successo. Questi ultimi sono tutti scopi legittimi, in particolar modo quando coloro contro i quali si combatte si rendono responsabili di crimini odiosi, di atti terroristici o di violente e vigliacche discriminazioni, fondate sulle convinzioni, sulla razza, sulla religione o sul genere. Ma si tratta di scopi politici, che sono per loro essenza diversi da quelli umanitari, ai quali però gli attori politici non possano rinunciare, se non vogliono condannarsi al fallimento.

Rifiutare di esporsi al rischio di «questa contaminazione», non necessariamente implica l’assunzione, e il suo riconoscimento da parte di tutti gli attori coinvolti, di una propria neutralità. Perché implica il rischio speculare che il confine di un’azione puramente volta al sostegno della popolazione civile venga sorpassato, e si finisca col divenire oggetto di altre, e ben peggiori, contaminazioni: al di là di ogni buona intenzione.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 26, 2010, 11:41:36 am »

26/4/2010

La politica e lo strapotere centralista

VITTORIO EMANUELE PARSI

L’Italia, in termini politici, è un Paese fatto di periferie. Nord, Sud, Centro (Roma compresa) politicamente non contano nulla. Sono, per dirla con il politologo norvegese Stein Rokkan, «luoghi privi di risorse di potere» e, in questo senso periferici e marginali rispetto a un circuito politico che, se è fisicamente insediato a Roma, tratta gli interessi e le aspettative dei cittadini della capitale con lo stesso disprezzo che riserva al Piemonte o alla Calabria, alla Lombardia o alla Toscana. L’arrogante autoreferenzialità del ceto politico, in realtà il suo totale autismo nei confronti della società che pretende di rappresentare, si rispecchia nella vita dei partiti. Conta di più l’ultimo dei galoppini di via dell’Umiltà o di via Sant’Andrea delle Fratte che il governatore del Veneto, o quello della Puglia. Essere lontano dal circuito politico romano, con i suoi riti, i suoi abbagli, i suoi salotti e le sue illusioni, è anzi criterio sicuro di esclusione dal «giro che conta». E infatti, nessun leader nazionale, o aspirante tale, ha alle spalle un cursus honorum locale effettivo, è stato cioè espresso dal territorio. Nulla di paragonabile a un Clinton governatore dell’Arkansas, a un Reagan governatore della California, o a un Obama, senatore nel Campidoglio dell’Illinois.

Tutta colpa della legge elettorale? Troppo comodo, anche se questa ha sicuramente perfezionato il meccanismo predatorio dei partiti nei confronti della sovranità popolare. La verità è che chiunque si sia azzardato a porre all’ordine del giorno la necessità che i partiti si federalizzino, per assolvere affettivamente la loro funzione di raccordo tra società civile e sistema politico, è stato trattato con sufficienza, irrisione e malcelata irritazione. Questo è vero per tutti i partiti, nessuno escluso. Si veda quanta strada ha fatto il monito (fuori tempo massimo) di Prodi per una riarticolazione del potere interno al Pd tra centro e periferia, o l’affondamento delle proposte di Chiamparino e Cacciari (non precisamente due nullità politico-civili) per la creazione di un «partito del Nord».

All’interno del Pdl basta ricordare il trattamento ricevuto da Roberto Formigoni quando si prospettò un suo ingresso nella compagine governativa. Il governatore lombardo potrà piacere o meno, ma il consenso certo non gli manca: eppure il valore di questa risorsa sembra scomparire d’incanto appena si varca il confine regionale. In compenso, Milano è governata da un sindaco impalpabile, paracadutato su Palazzo Marino direttamente dalle stanze del ministero dell’Istruzione, con i risultati che conosciamo. Neppure la Lega, il partito federalista per antonomasia, sfugge a questa maledizione centralista, anche se il monopolio della capacità di iniziativa politica è esercitato, da Bossi in persona, dalla sede di via Bellerio in Milano: a dimostrazione che al «sacco del Nord» documentato nel bel libro di Luca Ricolfi, corrisponde un «sacco dell’Italia tutta», in termini di sua periferizzazione a opera di un centro politico sempre più lontano e vorace. Di fronte a questo danno strutturale, lo psicodramma in scena a Roma in questi giorni quasi scompare.

Eppure, la timida e un po’ sbilenca riforma federale delle istituzioni in corso di attuazione offre qualche chance per invertire questo trend, antico ben più della Repubblica. A condizione che la società civile sia disposta a dismettere i toni del lamento e a riprendere quelli dell’impegno, nella consapevolezza che quello che è in gioco è il futuro nostro (di noi italiani), non il loro (dei partiti). Per sperare di riuscirci, però Nord, Centro e Sud non devono lasciarsi trascinare in una «guerra tra banlieu della politica», fornendo «carne da cannone» per le risse del solito triste avanspettacolo romano.

Occorre invece che sappiano allearsi per la riconquista della centralità nel sistema politico e partitico dell’Italia e degli italiani. L’ultima cosa di cui il Nord ha bisogno è una secessione dell’anima rispetto al resto d’Italia. L’ultima cosa che serve al Sud è una (pretesa) difesa dei suoi interessi rivendicata da parte di spezzoni del ceto politico in funzione di un regolamento di conti interno al Pdl (sempre che esista ancora). È il solo modo per combattere insieme, e magari sconfiggere, tanto la politica predatoria dei partiti, quanto l’antipolitica pericolosa e rabbiosa e i suoi improvvisati impresari. E sulla scelta audace di fare dell’Italia, finalmente, un Paese fatto di tanti centri e non più di tante periferie, di cittadini e non di clienti, conviene riflettere a tutti: ai partiti esistenti, e a quei soggetti nuovi che potrebbero rappresentare uno strumento a disposizione della società civile per la sua doverosa assunzione di responsabilità.

da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 03, 2010, 08:57:04 am »

3/5/2010

Ora il nucleare farà meno paura
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

Verde, nero e giallo. Non è il vessillo di un ennesimo nuovo Stato riconosciuto dall’Onu. Verde, nero e giallo sono invece i colori che rappresentano il disastro ambientale che, a una manciata di anni da Katrina, si sta abbattendo sulla costa meridionale degli Stati Uniti: dalla Louisiana alla Florida. C’è il verde dell’ambientalismo più dogmatico e intransigente, che ha gridato al tradimento quando un presidente, nero e pragmaticamente ecologista, si è dichiarato favorevole al nucleare per ridurre l’inquinamento atmosferico e i rischi connessi alle trivellazioni sempre più «audaci».

C’è il nero della marea di greggio che ormai ha iniziato ad abbattersi sulle coste, mettendo in ginocchio una parte del Paese già stremata, e che ci ricorda come i disastri provocati dall’uomo possiedono quasi invariabilmente due caratteristiche: sono peggiori dei disastri naturali e, contemporaneamente, potevano essere quasi sempre evitati, con un po’ più di cautela e con un po’ meno cupidigia. C’è il giallo, infine, che è il colore tradizionalmente associato al pericolo: quello che si sta materializzando nel Golfo del Messico, ma anche quello evocato da ogni discorso sul nucleare; il giallo, ancora, che ci ricorda della crescente domanda energetica cinese, associata alla totale sconsideratezza messa finora in mostra dalle autorità di Pechino sulle questioni ecologiche e ambientali.

Fuori di metafora, mentre si cercano i responsabili di un simile scempio e si tenta di correre ai ripari, si prova anche a quantificare il danno e a capire quanti decenni ci vorranno per rimettere più o meno in sesto l’ecosistema della zona. Una cosa però dovremmo averla chiara nella testa. A fronte di una domanda di energia che sarà crescente e di prezzi che non potranno che salire, incidenti come questi saranno più frequenti, non meno. Dovremo trivellare di più e in situazioni più estreme, per soddisfare la domanda, e il crescere dei prezzi renderà «economiche» trivellazioni in condizioni e in luoghi finora risparmiati dalle piattaforme e dalle torri. Se a questo uniamo gli appetiti delle compagnie e la mancanza di scrupoli dei governi non democratici, la nostra previsione diventa quasi una profezia che si auto-avvera.

Proprio la magnitudine della tragedia ci offre però anche l’opportunità di chiedere con forza che si ricominci, finalmente, a riflettere con serietà e senza pregiudizi sul fatto se il mondo può permettersi di continuare a puntare in maniera quasi esclusiva sugli idrocarburi e i combustibili fossili, con quel tanto di fonti rinnovabili che assolvono la nostra cattiva coscienza o se invece, all’inizio del XXI secolo il nucleare non sia alla fine l’investimento meno pericoloso. Anche su questo aleggia il colore del giallo, con dati che si inseguono e che si contraddicono, con «alibi» esibiti in luogo di prove, e sicurezza assolute sbandierate a destra e a manca. L’opinione pubblica ha invece il diritto di essere messa al corrente dei progressi compiuti verso un nucleare più sicuro come delle questioni ancora irrisolte (a partire da quella delle scorie).

È una responsabilità a cui sono chiamate la comunità scientifica e la classe politica, ognuna per la parte che le compete: agli scienziati di presentare il quadro più esaustivo possibile dello «stato dell’arte» e delle ragionevoli aspettative future; ai politici di assumere in maniera trasparente le decisioni che ritengono appropriate, di spiegarle e di convincere l’opinione pubblica della bontà della scelta adottata. E a tutti noi, il dovere di far valere il peso di un giudizio informato e non pregiudiziale: pensando un po’ di più, anche in questo campo, alle generazioni future è un po’ meno al nostro «giardino di casa». Assumendoci anche noi, qualunque sia l’opzione, le nostre responsabilità.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7293&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 10, 2010, 11:07:39 am »

10/5/2010

Duro colpo al sogno dell'Europa

VITTORIO EMANUELE PARSI

La sensazione è che sia stata persa una occasione «drammatica», nell’accezione inglese del termine, per rendere chiaro a investitori e speculatori (ammesso che siano soggetti ancora distinguibili) che l’Europa fa sul serio, quando dice di voler «mettere in riga i mercati» e regolarne gli eccessi. Alcuni mesi fa, al debutto europeo di Barack Obama e nel pieno della crisi finanziaria, i leader europei fecero la morale al giovane presidente Usa, illustrando come l’Europa fosse disponibile a guidare uno sforzo globale verso una maggiore assunzione di responsabilità da parte della politica nei confronti delle intemperanze dei mercati finanziari. A distanza di circa un anno, ci ritroviamo con Washington che chiede a Bruxelles misure più incisive per evitare che la speculazione destabilizzi l’economia europea: con tanti saluti ai bei discorsi sulla governance europea e alle nostalgie per il cosiddetto «capitalismo renano».

Le misure adottate da Ecofin sono già in queste ore sottoposte al feroce, ma non per questo equo, scrutinio dei mercati (alle 2 di questa mattina apriva la Borsa di Tokyo); è però difficile non constatare come l’Europa ne esca non troppo bene.

Londra ha già dichiarato che non intende partecipare al consorzio per il salvataggio della Grecia dal fallimento. Quello che sarà ricordato forse come l’ultimo atto di politica economica internazionale del governo di Gordon Brown, potrebbe consistere in un siluro lanciato alle già esigue possibilità della Grecia di non coinvolgere nel suo naufragio altre consistenti porzioni d’Europa. È vero che, quando era il Cancelliere dello Scacchiere di Tony Blair, Gordon Brown lottò aspramente contro qualunque ipotesi di futura confluenza della sterlina nell’euro. D’altra parte il punto di vista inglese che, essendo la Grecia dentro l’euro, debbano essere i Paesi di Eurolandia a mettere mano al portafoglio, è una solenne sciocchezza. Se la Grecia affosserà l’euro o trascinerà con sé Spagna o Portogallo, non sarà certo la sterlina il bastione che difenderà le disastrate finanze britanniche. Piaccia o non piaccia al moribondo esecutivo laburista, oggi l’euro rappresenta la seconda valuta di riferimento del mondo, e una sua crisi sarebbe un evento traumatico per l’intero sistema finanziario, da Shanghai a New York, fino a Londra. Ovvio che queste cose siano note a Brown, eppure, come ai tempi della signora Thatcher, il riflesso inglese è sempre quello di cercare di ottenere dall’Europa più di quanto si sia disposti a concederle: a qualunque costo.

Un’altra signora, Angela Merkel, ha provato ad assumere una posizione meno miope. Ma forse lo ha fatto con poca convinzione ed eccessivo ritardo, col risultato di disorientare i cittadini tedeschi, che l’hanno punita duramente nelle elezioni regionali in Nordreno-Vestfalia. Andava spiegato prima e meglio agli elettori che sostenere la Grecia non è una «scelta», ma la sola via per impedire un contagio altrimenti disastroso. Al di là delle evidenti ripercussioni sul sistema finanziario tedesco della eventuale bancarotta greca, andava detto chiaro e tondo che se l’Europa non riesce a dimostrare di saper tenere a galla nemmeno la minuscola Grecia, rischia di essere affondata tutta insieme, se la speculazione dovesse attaccare un Paese di medie dimensioni come la Spagna. È beffardo che proprio per la sua posizione di feroce opposizione al salvataggio della Grecia, l’Spd sia stata premiata dagli elettori renani. Dopo aver seppellito la «terza via», si direbbe che il de profundis debba essere intonato anche per la vecchia idea di solidarietà internazionalista tanto cara alla tradizione più nobile del socialismo europeo. Per una volta Berlino farebbe meglio a guardare a Parigi e a Roma, per ricordare che cos’è (o dovrebbe essere) l’Europa.

È quasi scontato affermare che le istituzioni europee sopravviveranno anche a questa ennesima «vittoria perduta», ma certo è che l’ambizione di avere un’Europa più politica e meno mercatistica e finanziaria riceve un altro duro colpo. E di colpo in colpo, prima o poi, ci ritroveremo a chiederci se sotto l’euro c’è ancora qualcosa. Triste che questo avvenga nel 60° anniversario del discorso con cui Robert Schuman lanciava il progetto di un’Europa unita. Sarà anche il segno dei tempi, ma lasciateci dire che sono proprio tempi brutti.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7329&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:54:44 pm »

19/5/2010
Clinton: sanzioni Teheran si smarca
   
VITTORIO EMANUELE PARSI

E così, proprio mentre sembrava messo all'angolo dagli sforzi occidentali per l'inasprimento delle sanzioni, l'Iran ha mosso. E che mossa.

Grazie all’accordo con Brasile e Turchia per lo scambio di uranio scarsamente arricchito con combustibile nucleare, in un colpo solo è riuscito a far tornare in alto mare qualunque prospettiva di intesa raggiunta ai danni delle proprie ambizioni nucleari e a incrinare ulteriormente la stessa nozione di comunità internazionale, la cui volontà, soprattutto dalla fine della Guerra Fredda, è stata fatta coincidere troppo spesso con quella occidentale o americana.

Per riuscirci si è appoggiato a due Paesi fino a poco tempo fa confinati a un ruolo regionale più sognato che effettivo (come il Brasile) o per nulla inclini a intralciare la politica globale degli Stati Uniti, anche quando questa destabilizzava pesantemente l'equilibrio della propria regione (come la Turchia). In particolar modo con la presidenza Lula, il Brasile ha smesso di baloccarsi con l'idea che l'essere il gigante del Sudamerica potesse alimentare le sue aspirazioni alla leadership regionale, invece che renderla virtualmente impossibile. Anche a causa di una serie di insuccessi patiti, il Brasile da alcuni anni ha capito che proprio quel gigantismo che gli impediva di proporsi come primus inter pares in Sudamerica legittimava invece le ambizioni a giocare una politica globale, perseguita innanzitutto con la ricerca di accordi con il Sudafrica, l'India, la Cina, la Russia stessa. Allo stesso tempo, e in maniera per nulla paradossale, il Brasile di Lula si è progressivamente sfilato dalle posizioni sterilmente «antiyanqui» classiche della retorica politica latinoamericana. Un po’ come avvenne per l'Inghilterra, che con la definitiva sconfitta nella Guerra dei Cento Anni non poté più giocare la partita continentale e fu «costretta» a giocare una partita mondiale. Analogamente, il fallimento su scala regionale ha costretto il Brasile a pensare molto più in grande, favorendone l'incredibile crescita di ruolo di questi anni.

La Turchia di Erdogan, dal canto suo, ha progressivamente dovuto trovare un proprio posizionamento strategico indipendente, che le consentisse di uscire dalla stretta in cui l'avevano cacciata il sostanziale rifiuto europeo della sospirata membership e la presenza sempre più diretta e aggressiva degli Usa in Medio Oriente. Dismesse le velleità del panturchismo (l'unificazione o la leadership dei popoli di lingua turca dall’Anatolia al Caucaso all'Asia centrale), Ankara ha ricominciato a pensarsi nel Medio Oriente e, anche aiutata dalle inclinazioni ideologiche dell'AKP, ne ha tirato alcune implicazioni: ha raffreddato le relazioni con Israele (che rischiavano di zavorrarne l'azione), si è riavvicinata alla Siria e, soprattutto, ha deciso di intavolare un «dialogo strategico regionale» con l'Iran, la vera potenza emergente nell'area.

Gli iraniani, una volta individuata la breccia nello schieramento internazionale, ci si sono infilati di gran carriera, consapevoli che, una volta palesata, si sarebbe immediatamente allargata. E infatti così è successo: con il ritorno di Russia e Cina a una posizione molto tiepida sulla prospettiva di altre sanzioni, nonostante l’annuncio da parte di Hillary Clinton di un accordo su un nuovo testo. Ora anche la Francia appare titubare, preoccupata che, a questo punto e almeno per un po’, ogni tentativo di mostrare determinazione verso Teheran possa rendere ancora più evidente che sulla questione della non proliferazione la posizione occidentale è sempre più solitaria. Sulla proliferazione, in realtà, gli interessi degli attori sono disposti per cerchi concentrici. Al nucleo, i più interessati restano gli americani, che (come i russi) sono una delle due principali potenze nucleari, ma che (diversamente dai russi) sono anche i principali azionisti, fruitori e garanti di un sistema internazionale che resta ancora disegnato da Washington. Un po’ più esterni sono gli europei, che in quell’ordine si riconoscono, ma che sono disponibili o rassegnati a un suo parziale superamento e comunque appaiono assai meno decisi a difenderlo «a qualunque costo». Molto più esterni sono gli altri grandi attori, emergenti o riemergenti: dalla Cina alla Russia (appunto) all’India, al Brasile alla Turchia, le cui politiche concretamente annunciano che la centralità occidentale dell’ordine internazionale è in via di rapido superamento.

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