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« Risposta #2 inserito:: Settembre 23, 2008, 09:46:03 pm » |
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Il fantasma dell’italianità
Marco Simoni *
Quante cose non sappiamo della vicenda Alitalia? Decisamente troppe tenuto conto che al momento la compagnia sta volando grazie a un prestito di fondi pubblici già praticamente esauriti: dalla giornata di ieri si deduce che a meno di conigli dal cappello, tra una settimana circa non vi saranno più i soldi per far volare gli aerei. Sarebbe confortante sapere che il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha una idea di cosa succederà.
Quanti giorni dovranno passare prima che un gestore straniero rilevi le rotte che al momento vengono coperte da Alitalia? Quante settimane dovranno passare perchè i collegamenti aerei in Italia tornino a corrispondere alla domanda di voli? Le autorità competenti hanno un’idea di cosa accadrà il primo ottobre se, come sembra probabile, non vi sarà alcun compratore di tutta la azienda, ma solo offerte sui pochi asset rimasti (aerei, tratte, personale qualificato)? Per la maggior parte degli italiani queste domande ormai sono pressanti, e sarebbe, ripeto, confortante, sapere che il governo ha almeno una idea di ciò che ci si può attendere. Dal 1999, anno in cui l’Alitalia ha smesso di generare utili e dunque ha iniziato la parabola che ha portato al disastro attuale, ogni attore coinvolto nella vicenda ha collezionato una serie di torti sufficiente da consentire ad ognuno, a turno, di poter recriminare.
La punta di irresponsabilità verbale si è tuttavia registrata ieri, quando il signor Berti, rappresentante dei piloti, ha paventato incidenti aerei a seguito dello “stress psicologico” a cui sono sottoposti. Seriamente, bisognerebbe vergognarsi se si avesse un barlume di idea di come ci si comporta, da adulti responsabili, in consessi civili. Tuttavia, appunto, quando nessuno è immune da colpe e nessuno decide di fare un passo indietro, la vicenda si avvita a spirale fino al fallimento. Fare un passo indietro è rischioso perchè può darsi che la controparte ne approfitti. Per farlo, dunque, bisogna fidarsi, mentre in questa vicenda, verrebbe da dire in questo paese, la fiducia è ai minimi storici.
Per questa ragione appare fantascientifica l’idea che nello spazio di una settimana si metta insieme una cordata nuova, con al centro i piloti ed altri partner, basata sul modello di compartecipazione della Lufthansa. La fiducia tra le organizzazioni sindacali e manageriali, che è anche fiducia tra le persone, operai, quadri, dirigenti, è al centro del modello tedesco di relazioni industriali, e fonte del vantaggio competitivo della Germania. Fiducia di cui, qui, non appare traccia. Anche le frasi irresponsabili non sono una esclusiva di nessuno. L’intera vicenda degli ultimi mesi è cominciata da un’idea falsa e traditrice, una trappola logica mai contestata: che sia un bene che Alitalia rimanga in mani italiane. E perché? Non esiste alcun ragionevole argomento, nè di buon senso, nè di senso incerto, che giustifichi un sacrificio collettivo, come quello che il governo ha imposto a tutti gli italiani, al fine mantenere la proprietà della compagnia aerea nelle mani di signori col passaporto italiano. Si aggiunga inoltre che tale condizione, secondo voci mai confermate da documenti ufficiali, non sarebbe comunque durata per più di altri cinque anni. Dunque a che pro i sacrifici? Per quale ragione metter su una cordata di cui fanno parte molti imprenditori legati a concessioni pubbliche, a cui si garantiscono condizioni fuori mercato che probabilmente, dopo un tempo burocratico non breve, le istituzioni europee avrebbero sanzionato? Per nessuna ragione trasperente. A cominciare dalla campagna elettorale, la retorica di centro-destra sull’importanza della proprietà italiana non è stata mai seriamente contestata, nessuno ha avuto la forza politica o la autorevolezza professionale per dire che si trattava di una falsa priorità, di un obiettivo inutile, di un fine senza alcuna consistenza.
Basata su queste premesse, con sacrifici asimmetrici tutti a svantaggio dei lavoratori, e nel disinteresse totale dei viaggiatori, la trattativa con i sindacati era destinata a fallire, come è puntualmente avvenuto. Dal punto di vista dell’interesse generale, inteso come una miglior gestione delle risorse pubbliche presenti in Alitalia, non c’è dubbio che fosse meglio chiudere la trattativa piuttosto che farla saltare. La ragione è semplice: in una situazione finanziaria deteriorata come quella di Alitalia, ogni offerta è migliore dell’offerta che viene dopo perchè nel frattempo si sono bruciati altri milioni di euro. Era anche interesse dei lavoratori più deboli e meno qualificati, per una ragione molto simile. Ogni offerta successiva sarebbe stata certamente peggiore e, in caso di fallimento, i lavoratori meno qualificati o precari hanno certamente meno probabilità di trovare un'altra occupazione in tempo di crisi.
Nelle condizioni che si sono determinate è ormai improbabile che un compratore si faccia avanti: piuttosto che acquisire un’azienda caratterizzata da un personale diviso in fazioni, in crisi di liquidità, e con il governo che appare stupito e confuso della situazione in cui ha spinto la compagnia, conviene aspettare che Alitalia fallisca per poi rilevarne gli asset a prezzi vantaggiosi. Un prezioso articolo di Giuseppe Provenzano sull’Unità di sabato ci spiegava la necessità che la politica torni ad usare un lessico comprensibile e quotidiano. Il signor Berti, ci informa ieri il Riformista, guadagna oltre 120mila euro l'anno. Chiamare “sindacalista” una persona con un reddito di questo livello significa confondere drammaticamente i piani della regolamentazione delle professioni, della rappresentanza del lavoro e della difesa dei diritti. Le organizzazioni confederali, se sono consapevoli del conflitto che hanno davanti e della crisi di legittimità in cui il centro-destra vuole farle affondare, dovrebbero avere molta più cura e tutela delle proprie parole.
London School of Economics
Pubblicato il: 23.09.08 Modificato il: 23.09.08 alle ore 9.06 © l'Unità.
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