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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112548 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Settembre 24, 2017, 12:12:33 pm »

Usa, McCain resiste su Obamacare: "Non voto il nuovo testo"
Il senatore dell'Arizona conferma il proprio no al provvedimento proposto dai repubblicani e potrebbe essere nuovamente decisivo nell'allontanare l'abolizione della riforma della sanità dell'ex presidente Obama, che era uno dei punti salienti del programma di Donald Trump

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
22 settembre 2017

NEW YORK - Per Donald Trump sta diventando un incubo la libertà di giudizio di John McCain, il senatore repubblicano dell'Arizona. Ha appena dato un annuncio gravido di conseguenze: non voterà il disegno di legge del suo stesso partito, che dovrebbe cancellare la riforma sanitaria di Barack Obama ("Obamacare"). Con ogni probabilità questo annuncio affonda i piani per voltare pagina sulla sanità, e portare a casa un obiettivo che la destra va promettendo da ben sette anni, cioè l'abrogazione di una riforma bollata come "statalista".

Breve stacco: se vi sembra di avere già letto quest'articolo, è perché siamo al bis. Lo stesso film andò in scena prima dell'estate. Per ben due volte i repubblicani - pungolati da Donald Trump - hanno tentato di cancellare Obamacare e per due volte hanno fallito. La loro maggioranza, comoda sulla carta, si è disintegrata al momento di entrare nei dettagli su come sostituire Obamacare. E in uno di quei fallimenti, fu già lo stesso McCain ad avere un ruolo decisivo. Non lo convince una controriforma che lascerebbe milioni di americani senza un'assistenza medica. Non si sente di votare un provvedimento che fa tabula rasa del sistema precedente e al suo posto lascia un'enorme libertà al mercato, oltre che una frammentazione fra Stati in nome del federalismo.

Il senatore dell'Arizona - che fra l'altro sta sperimentando sulla sua pelle il sistema sanitario, essendo in cura per un tumore al cervello - ha pure una lunga serie di conti da regolare con Trump e col suo stesso partito. Fu bocciato dai suoi compagni repubblicani nel 2000 quando la corsa alla nomination lo oppose a George W. Bush, in una campagna piena di calunnie (già allora). Poi riuscì a strappare la candidatura nel 2008 contro Obama e lì fu sconfitto, ma battendosi da galantuomo e rifiutando sempre la tentazione del razzismo quando affiorava tra alcune frange dei suoi elettori.

Nel 2016 Trump lo sbeffeggiò, dileggiando il suo passato di eroe militare (McCain, pilota nella guerra del Vietnam, fu abbattuto e preso prigioniero). Ora McCain si sta centellinando il piacere della rivincita. Senza il suo voto, e visto che altri repubblicani hanno la tentazione di defilarsi, il terzo tentativo di abrogare Obamacare sembra già destinato a schiantarsi. Un disastro d'immagine perché la destra ne aveva fatto un trofeo ambitissimo, e ora che controlla tutti i rami del potere (Casa Bianca, Congresso, Corte suprema) è vittima delle proprie divisioni interne.

Intanto Obamacare continua a funzionare, ma con tutte le sue pecche. Anche quest'anno le compagnie assicurative hanno annunciato poderosi rialzi. Per far passare la sua riforma nel 2010 Obama fece un patto diabolico con i grandi gruppi privati - dalle assicurazioni a Big Pharma - e i difetti di quella legge sono enormi. In particolare non esiste un potere di controllo sull'iperinflazione delle tariffe sanitarie, che si tratti dei medicinali o delle polizze assicurative. E il sistema, con l'eccezione di Medicare (ultra65enni) e Medicaid (assistenza ai poveri) continua ad essere privatistico. Non a caso Bernie Sanders ha rilanciato in questi giorni la sua proposta di un sistema sanitario pubblico sul modello europeo.

© Riproduzione riservata 22 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/09/22/news/mccain_boccia_la_controriforma_sanitaria-176238398/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P9-S1.4-T1
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« Risposta #151 inserito:: Ottobre 21, 2017, 11:52:14 am »

Usa, Obama torna in tournée elettorale: "America sveglia: respingiamo la politica della paura"
L'ex presidente in New Jersey e Virginia per sostenere i candidati governatori democratici.
Comizi sferzanti: "Siamo nel XXI secolo, non nell'Ottocento"

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
20 ottobre 2017

NEW YORK - "Sveglia, siamo nel XXI secolo, non nell'Ottocento. La politica di oggi è incredibile, dovevamo essercene sbarazzati da tanto tempo!". La sferzata viene da un grande protagonista che non ha perso il suo carisma. Sorpresa, Barack Obama torna a fare comizi. Appare brevemente, ma quanto basta per mandare in delirio la base democratica: nel New Jersey e in Virginia. La sua mini-tournée elettorale serve ad altri, in quei due Stati si vota martedì 7 novembre, quasi a un anno esatto dall'elezione presidenziale.

Non c'è una consultazione nazionale stavolta (quella sarà l'anno prossimo, le legislative di mid-term), però i due seggi di governatori sono una posta cruciale. Per tante ragioni. Da troppo tempo i democratici non vincono a livello locale, la mappa dei governatori e delle assemblee locali pende fortemente in favore della destra. Perfino le elezioni suppletive che si sono tenute quest'anno, dopo l'elezione di Trump, hanno premiato i repubblicani quando bisognava riempire seggi di senatori o deputati rimasti vacanti. Infine il New Jersey è anche uno Stato importante per la vicinanza a New York, per i business che Trump vi possiede, e perché il governatore uscente è un suo sostenitore, Chris Christie.

Per questo Obama esce dal riserbo che caratterizza gli ex presidenti. Non menziona mai il nome del suo successore ma sottolinea che "si può mandare un messaggio al Paese e al mondo, quello che respingiamo la politica delle divisioni, respingiamo la politica della paura". Per la base democratica ha un effetto galvanizzante ritrovare Obama, l'uomo che conquistò la Casa Bianca per ben due volte, un campione quando scende nell'agone elettorale. E c'è perfino chi rilancia scenari di fanta-politica: su un ritorno di Obama con una terza candidatura nel 2020, una possibilità remota che solo alcuni costituzionalisti avallano, con un'interpretazione audace delle regole (l'emendamento alla Costituzione che fissò il limite dei due mandati, approvato dopo le quattro elezioni di Franklin Roosevelt, si potrebbe intendere come un divieto di due mandati "consecutivi"). Di certo il ritorno in scena di Obama - che finora aveva preso posizione solo una volta contro Trump, per denunciare la minaccia di deportazione dei giovani "dreamers", immigrati da bambini - rappresenta una variante rispetto a un altro revival: quello di Hillary. La candidata dell'anno scorso gira l'America per promuovere il suo libro, anche su di lei si ipotizzano velleità di rivincita: ma la sua onnipresenza conferma il deficit di volti nuovi e idee nuove che affligge il partito democratico.
 
Un altro ex che riappare a sorpresa, pure lui per attaccare Trump, è George W. Bush. Discreto fino all'eccesso, l'ultimo presidente repubblicano si è fatto notare per un discorso di denuncia contro il "nazionalismo che degenera in nativismo" e di difesa dell'immigrazione. Ha pure diretto uno strale contro l'ingerenza russa nella campagna elettorale. Non ha mai nominato l'attuale inquilino della Casa Bianca ma nessuno ha avuto dubbi su chi fosse il bersaglio delle sue parole.

© Riproduzione riservata 20 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/10/20/news/usa_obama_torna_in_tourne_e_elettorale_america_sveglia_respingiamo_la_politica_della_paura_-178778651/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P5-S1.4-T1
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« Risposta #152 inserito:: Novembre 04, 2017, 11:15:54 am »

Ora e sempre The Donald
Viaggio negli Stati che hanno scelto il loro presidente, per rispondere a una domanda: che cosa pensano oggi? La risposta: lo rivoterebbero. E le promesse mancate? Colpa dei politici L’inquilino della Casa Bianca è malconcio nell’immagine all’estero, ma la sua base tiene

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI, FOTOGRAFIE DI LUCA MARFÉ
27 ottobre 2017

Ho fatto novemila chilometri, a tappe, per trovare risposte a questa domanda: che cosa pensano di Donald Trump quelli che lo hanno votato, un anno dopo? Degli altri sappiamo tutto. La maggioranza degli americani lo boccia, i sondaggi lo danno sotto il 40% dei consensi. La sinistra lo accusa di avere sdoganato il Ku Klux Klan, di aizzare xenofobia e islamofobia, di sguazzare nei conflitti d’interessi, di sabotare le indagini sulle manovre di Vladimir Putin in campagna elettorale. Come dimostrano due ex presidenti (Barack Obama e George W. Bush) uscendo dal riserbo tradizionale, cresce il timore che l’ex tycoon e showman televisivo stia infliggendo ferite gravi al costume democratico, alla civiltà del dibattito pubblico, al rispetto delle istituzioni. Tutto questo però non scalfisce lo zoccolo duro della sua base elettorale. Non ancora. È il verdetto che riporto da questo lungo viaggio nell’America che lo ha voluto presidente un anno fa. Ho traversato Stati industriali dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Ohio alla West Virginia. Ho ascoltato le loro paure, le sofferenze, l’angoscia e la rabbia. Se sono delusi per le promesse finora disattese – il Muro con il Messico, il protezionismo contro la Cina, l’abolizione del sistema sanitario di Obama – danno la colpa ai politici di mestiere, al Congresso. La rinuncia agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico piace alla sua base. Applaude il linguaggio bellicoso contro la Corea del Nord e l’Iran. La mia puntata al confine con il Messico, mette a dura prova un teorema della sinistra: che l’ispanizzazione etnica conduca inevitabilmente verso un declino dei repubblicani anche nella roccaforte del Texas. Se l’immagine di Trump è sempre più malconcia all’estero e fra quelli che gli erano già contrari un anno fa, non bisogna sottovalutare il suo fiuto: tutto ciò che lui fa, punta a rendere possibile una rielezione “di minoranza”, seguendo la stessa geografia elettorale dell’8 novembre 2016. Trump non fa nulla per conquistare gli altri, lavora a consolidare quella minoranza fedele che – con queste regole elettorali – gli è bastata già una volta.

DETROIT, MICHIGAN: GLI OPERAI
TOLEDO, OHIO: LA CRISI
WEIRTON, WEST VIRGINIA: LE DISEGUAGLIANZE
LAREDO, TEXAS: I MIGRANTI

Detroit, Michigan: gli operai
A che punto è la notte? Un anno dopo l’elezione-shock di Donald Trump, l’America liberal non ha dubbi sul bilancio di una presidenza mostruosa: fallimento totale, tante offese ai valori della democrazia e della Costituzione, pochissimi risultati concreti (e brutti pure quelli). Ma gli elettori di destra, che cosa ne pensano? Sono delusi? Pentiti? Se le promesse non vengono mantenute, con chi se la prendono? Questo viaggio in Trumplandia percorre gli Stati-chiave dove si è giocata la sua “rapina” di collegi elettorali e la beffa ai danni di Hillary Clinton. La mia traversata inizia dal Midwest nella regione dei Grandi Laghi al confine col Canada e si conclude al Sud sulla linea di frontiera Texas-Messico lungo il Rio Grande. In tutto 9.000 km a tappe, fra autostrade e tratte in aereo. Parto da Detroit, Michigan. Dove mi ricongiungo anche ad alcuni personaggi che avevo già incontrato dopo i primi cento giorni dall’Inauguration Day.
 
Super 8, Rampini tra gli elettori di Trump un anno dopo
Classe operaia di destra. Talvolta ex-democratici convertiti. Metalmeccanici, per lo più. Uomini e donne, bianchi di mezza età. L’elettorato decisivo che un anno fa ha spostato per pochi millimetri l’ago della bilancia è in quest’area del Paese. Lo ritrovo in un’occasione molto speciale. Brian Pannebecker, 57 anni, operaio della Fiat Chrysler, mi dà appuntamento a metà ottobre una domenica mattina davanti allo stadio cittadino di football: il Ford Field dove gioca la squadra locale dei Detroit Lions. Brian è un agnostico del football, infatti mi promette uno spettacolo di tutt’altra natura. Prima della partita, fuori dal campo di gioco. Vuole che io sia testimone di una protesta contro la protesta. “Boycott Nfl!” è la parola d’ordine. Coi suoi compagni di lavoro e altri amici repubblicani, lui contesta i campioni afroamericani di football che in tutta l’America inginocchiandosi all’inizio delle partite hanno inscenato una clamorosa protesta. Quando tutti gli altri stanno in piedi sull’attenti e cantano l’inno nazionale, alcuni giocatori si dissociano. È una ribellione nata all’origine per solidarietà con BlackLivesMatter, il movimento che denuncia le violenze della polizia sui neri. Le immagini di quei gesti di sfida hanno fatto il giro del mondo, è intervenuto Trump a dire che i padroni delle squadre della National Football League (Nfl) dovrebbero punire o licenziare i sediziosi. È una bella mattinata di sole a Detroit, quando all’incrocio tra la Brush Street e la Madison si rovesciano fiumane di spettatori diretti allo stadio. I Detroit Lions ricevono in casa i Carolina Panthers. Le due tifoserie si mescolano bonariamente, fra canti e risate. Le partite di football qui sono uno happening gioioso e pacifico, grandi mangiate e tifo sportivo radunano un pubblico familiare per l’intera domenica.
 
Tra gli amici di Brian, il baffuto Trucker Randy accoglie i tifosi al passaggio con una bandiera americana e uno striscione: “Stand By The Anthem, Kneel To The Cross”. In piedi per l’inno, in ginocchio davanti alla croce. Così deve comportarsi un vero americano. «Che c’è di male — mi dice — se una volta alla settimana per due minuti ci raccogliamo davanti alla bandiera nazionale? Non possiamo unirci almeno per cantare l’inno, e smetterla per un attimo di essere faziosi?». Pannebecker aggiunge: «Sono un reduce dell’esercito, ho servito la patria sotto le armi e adesso è mio figlio che fa il militare. Quelli che rifiutano l’omaggio alla bandiera ci offendono, è una mancanza di rispetto». Interviene un terzo contro-manifestante, il più pittoresco: Rob Cortis, che nel tempo libero gira l’America con un camion-rimorchio intitolato “TrumpUnity- Bridge”. Sembra un carro di carnevale, ma carico di foto e slogan pro-Trump, tipo “Una Bandiera Una Nazione Un Dio”, “Legge e Ordine”, e il classico “MAGA” che sta per Make America Great Again. Madre tedesca, padre siciliano, Rob ha osato sfidare col suo camion di propaganda repubblicana la manifestazione oceanica delle donne anti- Trump a Washington il giorno dopo l’Inaugurazione presidenziale. A Detroit è venuto pure lui per l’anti-protesta contro i campioni neri del football: «Quegli atleti sono dei multimilionari, delle star che guadagnano cento volte più di noi comuni cittadini. E osano mancare di rispetto ai simboli dell’unità nazionale, dissacrano una bandiera che avvolge le bare dei nostri caduti in guerra». Sono solo un manipolo, forse una dozzina, questi protagonisti della contro-manifestazione. In un momento in cui tanti media nazionali santificano le gesta degli atleti neri contestatori, l’impressione che hai leggendo il New York Times o guardando la Cnn è che la gente stia con i campioni sportivi. Pannebecker, a scanso di rischi, è arrivato allo stadio con un giubbotto antiproiettile. «Mia moglie è preoccupata — dice — e allora ho preso questa precauzione.

Comunque la maglia anti-pallottole non mi proteggerà dai cazzotti, se qualcuno mi aggredisce. Non sono un picchiatore, malgrado l’addestramento militare non ho mai fatto a botte in vita mia». Timori infondati. Non solo l’atmosfera nella folla che affluisce allo stadio è scanzonata e gentile, ma molti simpatizzano proprio con questi contro- manifestanti di destra. La scena si ripete più volte: quando un gruppetto di spettatori bianchi intravede questi operai ed ex-militari coi loro striscioni in difesa dell’inno e della bandiera, gli si avvicinano e li applaudono, li salutano con le cinque dita alzate, o pugno contro pugno: “God bless our veterans”, che Dio benedica i nostri reduci. No, da questo spicchio di tifoseria da stadio che vedo nella capitale dell’automobile, nella città più operaia d’America, la Cnn e il New York Times e il partito democratico non hanno capito cosa sta succedendo. Ancora una volta, l’istinto viscerale di Trump è più in sintonia con gli umori profondi della classe operaia. «Milionari viziati che insultano la bandiera e l’inno», è la frase che sento ripetere da tanti. Quelli che tv e stampa liberal hanno osannato come eroi, nella middle class bianca suscitano solo repulsione. Trump ha capito subito da che parte stare, twittando furiosamente contro i campioni contestatori ha cavalcato e ingigantito una polemica che sembra fatta su misura per lui. (In Europa, con tutte le differenze del caso, immaginatevi se Cristiano Ronaldo entrando in campo indossasse una maglietta con slogan in favore degli immigrati: forse toglierebbe voti alle destre xenofobe? O confermerebbe che il buonismo è un lusso delle élite?).
 
La sinistra americana a volte sembra credere che le elezioni le vince chi ha l’appoggio dello star-system, chi ha più celebrity dalla sua parte. Ma su quel conteggio Hillary vinceva mille a uno. Diversioni, distrazioni. Quando le cose gli vanno male, Trump è un maestro nel cambiare discorso, inventare polemiche, distogliere l’attenzione. E gli avversari ci cascano sempre. La sua polemica sulla National Football League è da manuale, lui ci si è infilato quando la sua agenda di governo stava girando a vuoto, dopo molteplici tentativi falliti di varare una contro-riforma sanitaria, che cancelli Obamacare e lo sostituisca con qualcos’altro. Dunque, parliamo di cose serie. A fine partita — persa dai padroni di casa, i Lions sono stati sgominati dai Carolina Panthers — raduno alcuni di quei contro-manifestanti trumpiani attorno a un hamburger, nella piazza dello Eastern Market di Detroit. Gli cito un sondaggio nazionale di Usa Today secondo cui per il 57% degli americani Trump “non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale”. Un anno dopo il voto, non vi sembra che il bilancio sia poverissimo, che tra le intenzioni e le cose fatte il divario sia spaventoso? Sheri Townsend, 55 anni, è un’ex operaia che si è messa in proprio come artigiana. «Il nostro problema è il Congresso — dice — non il presidente. Per sette anni i repubblicani ci hanno promesso che avrebbero cancellato la pessima riforma sanitaria di Obama, che ci avrebbero dato una sanità meno statalista, meno costosa.

Ora hanno tutto il potere in mano: Casa Bianca, Congresso, Corte suprema. E non riescono a mettersi d’accordo fra loro sulla nuova sanità. Questi parlamentari tradiscono Trump. Alle prossime primarie, per le legislative del 2018, dovremo mobilitarci per eleggere tra i repubblicani solo quelli leali, fedeli al presidente». Attorno al tavolo approvano tutti. Interviene Gary Frank, 49 anni, ex-metalmeccanico che ora si occupa di formazione: «Senatori e deputati, politici di professione, vogliono che Trump fallisca perché non è uno di loro. Lui è una minaccia per l’establishment, non segue le loro regole». Delle promesse finora mancate, la non-distruzione di Obamacare è cocente. La sanità in questo paese è un problema enorme nella vita di tutti i giorni; è anche un simbolo potente, un discrimine ideologico fra le tribù della politica. Il revival del populismo di destra che preparò il fenomeno Trump, viene da lontano e ha inizio dal Tea Party: quel movimento nasce nel 2009 per protestare contro i salvataggi delle banche di Wall Street, s’ingigantisce nel 2010 quando la battaglia numero uno diventa demolire l’odiata riforma sanitaria. In ambedue i casi il populismo di destra semplifica delle cose molto complicate. Il salvataggio delle banche fu gestito abbastanza bene dall’Amministrazione Obama, alla fine il Tesoro recuperò le spese, per i contribuenti l’operazione finì in pareggio. Il Tea Party campa di rendita denunciando un gigantesco regalo a Wall Street da una parte, e ai debitori poveri dall’altra: cioè neri o altre minoranze etniche. Tra gli atti fondatori del Tea Party nel 2009 c’è una memorabile sfuriata dell’anchorman Rick Santelli sulla tv Cnbc, contro «i vicini di casa irresponsabili, quelli che vivono al di sopra dei loro mezzi, a cui dobbiamo ripagare i mutui noi». L’idea di una sanatoria generalizzata dei mutui insolventi per le famiglie troppo indebitate, che fu accarezzata a sinistra, in realtà non si è mai materializzata. Milioni di famiglie dopo il crack del 2008 subirono pignoramenti giudiziari e perdettero le case. Ma nel popolo di destra la convinzione è tenace: quando la sinistra è al governo, il ceto medio paga, i poveri (soprattutto se di colore) vivono a sbafo, rovesciano sulla collettività il costo dei loro errori. Lo schema si ripete su Obamacare.

Quella riforma è piena di difetti gravi; non cura il vizio originario di un sistema troppo privatistico, dove dettano legge le compagnie assicurative e Big Pharma. Però Obamacare ha esteso l’assistenza medica a venti milioni di americani che ne erano sprovvisti, dandogli delle sovvenzioni perché si possano comprare le polizze private. Questo ha coinciso — come Trump denuncia — con tremendi rincari delle tariffe assicurative: un po’ pagati dal contribuente, un po’ dai pazienti del ceto medio. Ecco, di nuovo, la semplificazione: Obamacare è statalismo che aiuta neri, minoranze etniche, immigrati, “gli altri”. Il conto lo paghiamo “noi”. «Mille dollari al mese di assicurazione sanitaria sono troppi — dice Sheri — sono soldi che una famiglia del ceto medio deve togliere da altre spese, rinunciare all’università del figlio, non comprare la macchina nuova». La parola d’ordine “abrogare Obamacare” è irresistibile, unificante, una di quelle bandiere identitarie su cui la tribù della destra si compatta. Salvo scoprire, quando il Congresso si mette a votare un progetto alternativo, che la maggioranza repubblicana si sfascia. È accaduto tre, quattro, cinque volte in un anno di presidenza Trump. Non è colpa sua, mi ripetono i suoi elettori del Michigan. Quando usciamo dal bar-ristorante delle interviste con hamburger, si avvicina un’altra fan del presidente. Attirata dal taccuino del cronista e dalla videocamera del fotografo, la bionda platinata Cheryl Hadzik ha un diploma d’ingegneria e insegna matematica all’università. Non si chiede l’età a una signora, ma lei dichiara tre figlie ventenni e ha l’aria di essere una mia coetanea.

Ha votato Trump e non è pentita neanche un po’. Semmai ce l’ha con la sinistra che vuole «cambiare la demografia, inondare l’America di stranieri che voteranno per sempre democratico, per vivere di Welfare». I fan del presidente ripetono gli argomenti che sento nei talkshow dell’unica tv che «non calunnia Trump, non semina zizzania, non diffonde fake news»: la Fox. Sulla Corea del Nord «lui cerca di risolvere un problema che gli hanno scaricato addosso i tre presidenti venuti prima». Sull’Iran e su Cuba? «Finalmente un leader che si fa rispettare, non cede alle dittature». Si discute in piazza, l’Eastern Market è pieno di bancarelle, affluiscono famiglie di tifosi nel dopo-partita. Se dentro la cinta dello stadio non si vende birra, qui il tasso alcolico è salito. Cadono freni inibitori, al camion “TrumpUnityBridge” di Rob Cortis si avvicina un gruppetto di afroamericani. Scherzando, s’inginocchiano proprio lì di fronte, esigono di essere fotografati mentre imitano il gesto dei “loro” campioni di football. Uno mi si avvicina, si chiama Vince Butler, chiede una sorta di par condicio: visto che sto intervistando dei repubblicani, devo sentire anche lui. «Sono un operaio metalmeccanico come alcuni di loro — dice Butler — e credo che sotto sotto siano delusi. Si aspettavano che il loro presidente gli rivoltasse l’America. Capisco anche alcuni dei loro risentimenti. Noi afroamericani negli ultimi decenni abbiamo lottato, abbiamo avuto le nostre conquiste, loro si sono sentiti sotto pressione. Ma gli stereotipi sono sbagliati. Io vivo in un quartiere di Detroit prevalentemente nero. Il luogo comune su noi afroamericani che viviamo di welfare non è quello che vedo tutti i giorni. Io e i miei vicini di casa ci alziamo ogni mattina per andare al lavoro, come loro. Se la facciata di casa ha bisogno di riparazioni, ci rimbocchiamo le maniche e passiamo il weekend ad aggiustarla, proprio come loro». Un intellettuale nero radicale, Ta-Nehisi Coates, ha sintetizzato lo stato della questione razziale in America con una definizione provocatoria. Lui chiama Trump “il primo presidente bianco”. Cioè la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle.
 
Toledo, Ohio: la crisi
Un grupp di tifosi afroamericani allo stadio di Detroit: loro sono contro Trump e scelgono provocatoriamente un furgone di supporter del presidente per inscenare una protesta come quella dei giocatori della Nfl: in ginocchio all’inno nazionale
«Sì, certo, sarebbe bello se Amazon venisse a costruire la sua nuova sede qui, porterebbe lavoro e soldi, ce n’è un gran bisogno». Sue Depew ha cinquant’anni e ne mostra dieci di più. Ha occhi celesti chiarissimi che le vengono dai genitori di origine polacca. Sono occhi affettuosi, tristi e rassegnati, circondati di rughe, comunicano pazienza e sottomissione. Questa storia di Toledo che sogna di attirare il nuovo quartier generale di Amazon l’avevo letta prima di arrivare. Qui nella Rust Belt — “cintura della ruggine” — gli anni d’oro sono lontani, quando l’economia prosperava grazie al trio carbone-acciaio-auto. Tante fabbriche, tanti operai, sindacati forti. Un ricordo lontano. Adesso nel centro di Toledo lungo il fiume Maumee il grattacielo più appariscente ospita Blue Shield-Blue Cross, compagnia di assicurazione sanitaria. La speranza è che un gigante dell’economia digitale voglia rianimare questa città decaduta. Speranza o miraggio, perché tra i cinquantamila posti promessi da Amazon nel futuro quartier generale-bis ci saranno anche fattorini che guadagnano metà di un metalmeccanico. E poi sono molte le città in gara, in tutti gli Stati Uniti, che stendono tappeti rossi di esenzioni fiscali per attirare Jeff Bezos. Qui vicino anche Cleveland si è candidata come sede Amazon.
 
Con maggiori chance, presumo, perché Cleveland è più grande (390.000 abitanti contro i 280.000 di Toledo), ha buone università e un aeroporto internazionale. Ho buttato lì una domanda sul tema del giorno in città, per spezzare il ghiaccio e fare un po’ di conversazione. Sue ha tutto il tempo per parlare. Anche se su Amazon ha idee vaghe, non vuole deludermi. Risponderà a tutto, volentieri. D’altronde Luca ed io oggi siamo gli unici clienti che deve servire a mezzogiorno, al bancone del Mad Dog Saloon. Periferia di Toledo, squallore e solitudine. Mi vengono in mente altri saloon immaginari situati in qualche deserto americano, quelli dei film “Paris, Texas” di Wim Wenders e “Bagdad Cafe” di Percy Adlon, ma questo è reale ed è in un deserto urbano. L’ingresso del saloon è poco invitante. Dalla strada l’insegna al neon si nota a stento. La finestra del locale è protetta da assi di legno inchiodato. Dentro, in pieno giorno è quasi buio, non fosse un grande schermo tv sempre acceso. A mezzogiorno l’unica altra presenza al bancone è quella di John Gyuras, fratellastro di Sue che le dà una mano nella gestione del bar e a quest’ora ha già l’aria di aver bevuto parecchio. Proprietaria è l’anziana madre, che non si vede. Ordiniamo scegliendo tra le specialità del posto, che sono esattamente due. Per me ali di pollo fritte, per Luca un hot dog “impanato” in una farina di mais e molto fritto pure quello. Sue si occupa di tutto, è cameriera al bar e anche cuoca. L’olio della friggitrice deve avere anni di carriera alle spalle. Rischiamo l’avvelenamento, ma bisogna pur dare un po’ di lavoro a questo Mad Dog Saloon così vuoto e deprimente malgrado il juke-box, il biliardo, perfino un mini-bowling. Sue faceva la baby-sitter — lo sguardo dolce tradisce una gran nostalgia quando ricorda il contatto coi bambini — prima di venire a lavorare nel bar comprato dalla mamma tre anni fa. «Quelli che glielo hanno venduto non ce la facevano più a tirare avanti. Usciva più denaro di quanto ne entrasse.

Qua attorno la gente ha poco da spendere. Altri tre locali come questo hanno chiuso, sono in vendita da mesi e non trovano compratori». Mentre consumiamo e le teniamo compagnia, passa velocemente un ragazzo alto e bruno, un bel mulatto dai capelli ricci e neri. Lo sguardo di Sue è tutto tenerezza: «Mio figlio Ronald». Appena lui esce e scompare dalla vista, lei racconta la sua storia. «Il padre è sparito, è in prigione da quando Ronald aveva due anni. Il ragazzo aveva un buon lavoro come taglialegna, ben pagato. Poi c’è stato l’incidente: la caduta di un tronco d’albero lo ha ferito. Ha cominciato a prendere pillole contro il dolore. Da lì è passato all’eroina. Si è spaventato quando ha avuto un’overdose ed è arrivata l’ambulanza, credeva di morire. Sono riuscita a convincerlo di entrare in terapia, in un gruppo di disintossicazione. Adesso è pulito, da tre mesi. È un bravo ragazzo davvero, mi creda, altrimenti io da sola non sarei riuscita a tirarlo fuori con le mie forze. Ci ha messo del suo, per ritrovare la retta via». Qui attorno al bar, Sue mi descrive un quartiere-fantasma di giorno, dove al tramonto cominciano ad affluire «prostitute drogate ad ogni angolo, quelle si fanno soprattutto di oppioidi». Racconta una rapina a mano armata, e la sua paura che facessero del male a Ronald, che era dentro il Saloon quella sera. Parlare di politica con uno sconosciuto non la disturba affatto, è solo stupita che possa interessarmi il suo parere. Trumpiana? «No di certo. Quando lo vedo penso che la politica non è il suo mestiere. È come se mia madre si candidasse alla presidenza». Da un anno in qua lei non ha visto miglioramenti nell’economia locale, ma non ha idea se il presidente possa fare qualcosa. Non ha idea, per la verità, se stia facendo qualcosa.

E comunque si sente lontanissima da tutto questo. Anti-trumpiana? Boh. «Né io né mio fratello abbiamo votato. Mai. Non ci siamo neppure iscritti (in America non è automatico essere sui registri degli elettori, ndr). Nessuno mi ha mai convinto». Le chiedo: ricorda se Trump un anno fa ha vinto qui nell’Ohio? La vedo incerta. Guarda il fratello, smarrito quanto lei. «Non sono sicura. Forse sì». (Trump vinse in questo Stato col 52% e otto punti di vantaggio su Hillary). Non vede perché la politica dovrebbe riguardarla. È una cosa che ogni tanto appare sullo schermo tv del bar, quelle rare volte in cui non è sintonizzato sul canale tutto- sport della Espn. I suoi clienti, quando ne ha, non parlano di politica. Probabilmente non votano neanche loro. Perfino all’elezione presidenziale — un appuntamento che attira molta più attenzione e affluenza rispetto alle legislative o alle amministrative — qui nell’Ohio si è astenuto quasi un terzo degli elettori già iscritti al registro dei votanti (e molti altri come la Depew non s’iscrivono neppure). Sue non si è mai occupata di politica perché dà per scontato che la politica non si occupa di quelli come lei. Sue ha problemi più pressanti. «Mia madre si è presa un bel rischio comprando questo bar. Non può permettersi di pagarmi più del salario minimo legale, che qui a Toledo è otto dollari e dieci centesimi l’ora. E io ho bisogno di traslocare, sto cercando un appartamento in un quartiere diverso, lontano da qui. Non posso lasciare che mio figlio abiti in una zona dove tutti gli spacciatori lo conoscono. Ma il minimo che riesco a trovare è un affitto da 675 dollari al mese. Sono troppi per quel che guadagno».

Dopo un’ora lasciamo il Mad Dog Saloon con l’odore di frittura che aleggia nell’aria. Sue e il fratello escono e si siedono sul marciapiedi a fumare, ci salutano mentre partiamo in macchina. La strada è sempre vuota, come il loro bar. L’intermezzo in questa no man’s land desolata alla periferia di Toledo mi porta un po’ fuori tema: il mio viaggio nel Midwest è dedicato a tastare il polso di quelli che un anno fa votarono Trump. Al Mad Dog Saloon ho incontrato un paio di americani che non lo amano né lo stimano neanche un po’, se costretti a pronunciarsi su di lui alternano scetticismo, sarcasmo, diffidenza, ostilità. Ma la sinistra non è riuscita neppure a catturare la loro attenzione; per non parlare di fiducia.

Weirton, West Virginia: le diseguaglianze
«Non ho mai sparato un solo colpo in vita mia, neanche al tiro a segno. Sei mesi fa, all’età di 48 anni, per la prima volta da quando sono nato ho deciso di entrare in un’armeria. Per 900 dollari ho comprato un AR-15, un fucile semi-automatico, simile a quello che i nostri soldati hanno al fronte. Più 500 pallottole. Non avrei mai creduto di arrivare a tanto». Chi parla non è un fanatico, non ha l’identikit del paranoico. Tutt’altro. Louie Retton, in realtà si chiamerebbe Luigi Redondo, «ma quando immigravano qui i nostri genitori italiani, dovevano cambiarsi i nomi per non farsi riconoscere, per sembrare come gli altri, farsi accettare, perché all’inizio gli italiani non li assumevano neppure in miniera». Di mestiere fa il preside di liceo, sente sulle spalle la responsabilità per il futuro di tanti giovani.

È sinceramente preoccupato, addolorato, perché attorno a sé vede «una società sempre più diseguale», nella sua cittadina di Weirton «pochi benestanti come me abitano qui in cima alla collina, tutti gli altri sono a fondo valle e stanno male, molto male». A differenza di certi militanti dell’ultra-destra che hanno il culto delle armi, che vaneggiano nostalgie assurde di milizie popolari contro i “federali”, lui si è rassegnato a comprare quell’AR-15 solo per paura. «Non ho certo incubi sull’arrivo di un invasore straniero, tantomeno che il governo venga a disarmarmi. Se un giorno scoppia la guerra sarà tra noi, americani contro americani. Quelli che non hanno niente contro quelli che hanno qualcosa. Guarda le immagini in tv dopo ogni uragano, da Katrina all’ultima inondazione di Houston o di Tampa: appena la forza dello Stato scompare dalle strade cominciano gli assalti ai supermercati, i saccheggi, le rapine di massa. Un giorno potrebbe succedere qui. E c’è una sola via di fuga. Se quelli che stanno giù a fondo valle salgono per prenderci la roba nelle nostre case, l’unica uscita è questa strada che porta verso di loro.

Per loro siamo i ricchi, perché le nostre case valgono mezzo milione. Quando verrà il giorno in cui vorranno prendersi la nostra roba, io devo essere pronto a difendermi». Prima di arrivare fino a questo angolo della West Virginia dove Trump ha stravinto col più ampio margine della storia (68,5% contro il 26,4% di Hillary), prima di raggiungere la casa del suo elettore Louie Retton, ho attraversato il paese del carbone e dell’acciaio. Ho fatto avanti e indietro tra Pittsburgh, capitale decaduta degli altiforni e delle dinastie industriali che dominarono la Pennsylvania e l’America un secolo fa (i Carnegie, Mellon, Frick), e Steubenville nella valle dell’Ohio, città siderurgica che diede i natali a un altro immigrato italiano, il cantante Dean Martin. Ho già raccontato in un altro reportage su Repubblica la mia visita a un porto del carbone, Bellaire sul fiume Ohio, che benedice Trump e la sua deregulation anti-ambientalista. Ed Spiker, un manager dell’azienda carbonifera Westmoreland Resources, mi ha dato una valutazione realistica sull’effetto-Trump. «Per la prima volta dopo otto anni di Obama, c’è un presidente che rivaluta il carbone, e per l’economia di questa zona è importante. Annunciando l’uscita dagli accordi di Parigi, lui ha mantenuto le promesse che fece ai minatori in campagna elettorale, mentre Hillary parlava di un futuro fatto solo di energie rinnovabili, e a noi in sostanza prometteva disoccupazione.

Però non ci facciamo illusioni. Il 2018 sarà un anno eccezionale, il carbone tornerà a sorpassare il gas naturale come energia per le centrali elettriche. Ma molte utility hanno già avviato una riconversione, le grandi aziende elettriche cominciarono anni fa i piani di lungo termine per abbandonare il carbone, è solo questione di tempo». Qualche anno in più, per tanti minatori significa arrivare alla pensione. Hanno votato Trump, in massa. A loro è andata bene, per adesso. Disfacendo le regole di Obama, questo presidente ha tolto tutti i limiti alle emissioni carboniche delle centrali. “Coal country”, il paese del carbone, vede allontanarsi il giorno del giudizio. Viaggiando lungo la valle del fiume Ohio, la vera sorpresa non è trovare ancora le chiatte cariche di carbone, le miniere, gli impianti siderurgici e le centrali fumanti. La sorpresa sono i boschi. Com’è verde questa vallata! A perdita d’occhio. Un manto di foreste quasi ininterrotto copre le colline intorno al fiume. Questa stagione regala lo spettacolo autunnale del “foliage”, l’esplosione di colori giallo arancione oro rosso verde delle foglie. È questo che frega l’America, in un certo senso.

È questa la maledizione paradossale che colpisce tanti americani, li rende ciechi di fronte al disastro ambientale che avanza, ai danni del cambiamento climatico, all’inquinamento che uccide. Hanno ancora “troppa natura” in casa, perfino in aree di antica industrializzazione come Pennsylvania, Ohio, West Virginia. Tanti spazi disabitati o quasi, le distese infinite di verde, danno la falsa impressione che le risorse siano illimitate, che guidare Suv energivori o tenere l’aria condizionata a temperature polari o surriscaldare le case d’inverno siano comodità innocue, lussi legittimi. È in mezzo al verde anche la villetta di Michael Arlia, amico e vicino di Louie Retton. Sua moglie sta potando gli alberi in giardino, mentre noi ci riuniamo attorno al tavolo della cucina e a un bicchiere di vino. Italo-americano pure lui, Michael incarna l’American Dream di una volta, quando le cose in questo paese andavano per il verso giusto. «I miei genitori immigrarono qui da Belmonte, Calabria. Mio padre si è fatto strada da solo, in un’epoca in cui non era facile essere italiani qui. Ha lavorato sodo, miniere e acciaierie. Ha pagato gli studi a due figli. In confronto ai suoi tempi, l’America di oggi è piena di bambini viziati, che pretendono tutto, si offendono per qualsiasi cosa. Mio padre ci insultava, proprio come Trump insulta tanti connazionali oggi. Mi piace la sua retorica dura, aggressiva. Questa nazione si è adagiata, ha bisogno di essere presa a calci nel sedere, per darsi una svegliata». Michael era stato democratico per tutta la vita, solo un anno fa ha deciso di cambiare e ha votato per Trump. La ragione? Per disperazione. «Non disperazione per me stesso, no, tutt’altro. Io ce l’ho fatta. Mi hanno licenziato, ho perso il lavoro, mi sono messo in proprio e oggi possiedo tre imprese. In confronto alla gente che abita qui vicino, appaio perfino straricco. Ma non mi godo questo benessere solitario. La cittadina intorno a me è irriconoscibile.

Negli anni Quaranta, quando questo posto a furia d’immigrazione si conquistò il nome di Little Calabria, c’era un acciaieria a fondo valle che dava lavoro a 27.000 operai, mio padre incluso. Lavoro sicuro e ben pagato. Oggi lo sai quanti ne sono rimasti? 800. Ot-to-cen-to! La middle class non esiste più. Il benessere lo abbiamo lasciato fuggire con le fabbriche, verso il Messico o la Cina». Il preside Louie racconta la stessa storia vista attraverso il mondo della scuola: «Quando eravamo ragazzi noi, figli d’immigrati dal Mezzogiorno, avevamo delle famiglie solide che puntavano sui nostri studi. Oggi nel liceo che dirigo gli insegnanti non possono dare compiti a casa. Le famiglie sono sfasciate, i ragazzi quando tornano a casa non hanno genitori che li aiutano o li sorvegliano. Il 75% ha diritto alla mensa gratuita per povertà, roba che ai nostri tempi non ricordo. Eroina e spaccio dilagano. Quella di oggi non ha più niente in comune con la cittadina in cui eravamo cresciuti noi». Trump per loro è l’elettroshock che potrebbe smuovere un pezzo d’America condannato al declino. Qui in questo triangolo fra West Virginia, Ohio e Pennsylvania, siamo nel cuore di un mistero. L’economia americana cresce da otto anni, la ripresa trumpiana prolunga quella obamiana. Dalla fine della crisi nel 2009, a livello nazionale sono stati creati 16 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto livelli europei superando il 10% nel 2009, è ricaduto vicino al 4%. Se continua così potrebbe riavvicinarsi a quel 3% che gli esperti definiscono “pieno impiego”. Però, però. Quest’America operaia che compra armi per proteggersi dalla rabbia del vicino troppo povero, non è in preda ad allucinazioni. Le statistiche ufficiali non descrivono quel che accade qui. Il tasso di disoccupazione è ai minimi, tuttavia sono spariti dagli schermi radar un milione e mezzo di ex-lavoratori. Dispersi, “missing in action”. Hanno smesso di cercarsi un lavoro, e quindi sono stati cancellati dalle rilevazioni: non fanno più parte della popolazione attiva. Il nuovo mondo del lavoro non li vuole, non sa che farsene, e loro ne prendono atto. Una ricerca di Alan Krueger, economista dell’università di Princeton, rivela che metà di quegli uomini spariti dalle statistiche, stanno prendendo quotidianamente medicinali anti- dolorifici. In mezzo a loro si è infilata un’epidemia di massa, la tossicodipendenza da oppioidi. I più “fortunati” ne escono per poi sopravvivere con pensioni d’invalidità. I più deboli vanno ad aumentare le statistiche dei suicidi. In quel buco nero che è la condanna all’inutilità sociale, gli ultimi minatori del carbone erano convinti che ci sarebbero finiti anche loro: se avesse vinto Hillary Clinton. Anche per chi il lavoro lo ha conservato, o ritrovato, l’American Dream non è più quello dei genitori di Louie e Michael.

Quando chiude un’acciaieria che i padroni spostano in Cina, qui scompaiono posti di lavoro che pagavano dai 18 ai 25 dollari l’ora. Quando al suo posto apre un ipermercato discount, assume per 13 dollari all’ora. Trump ha promesso di riportare le fabbriche qui, di rinegoziare trattati commerciali, di combattere la concorrenza sleale del Messico o della Cina. Risultati, per ora: quasi nulla. Qualche segnale di reindustrializzazione degli Stati Uniti c’è, ma bisogna sapere di cosa si parla. Anzitutto, un principio di rinascita manifatturiera c’era stato già sotto Obama, aiutato dai bassi costi dell’energia e da una strisciante svalutazione del dollaro. Piccole cose in termini di occupazione, perché le fabbriche che riaprono oggi hanno tanti robot (comprese le stampanti 3D) e pochissimi operai. In quanto alle buste paga, l’aumento medio del 2,9% in un anno è davvero mediocre in un paese vicino al pieno impiego. Con la quasi-scomparsa dei sindacati, gli aumenti salariali di una volta sono introvabili. Un calcolo fatto dall’Economic Policy Institute rivela questo: il salario medio per l’80% della forza lavoro americana nel 1972 era di 739 dollari a settimana; fatti i dovuti adattamenti per l’inflazione e il potere d’acquisto, oggi quel salario medio vale solo 724 dollari di allora. L’80% degli americani, in sostanza, guadagna meno di 45 anni fa. I figli guadagnano meno dei genitori. E in questi 45 anni si sono alternati a parità repubblicani e democratici, alla Casa Bianca abbiamo avuto tre presidenze di destra (Nixon e due Bush) e tre di sinistra (Carter, Clinton, Obama).

Nessuno ha invertito la tendenza. «Non so se Trump ce la farà — dice Michael — e non so se gli lasceranno il tempo. Ma è da tanto che non avevamo un leader così, uno che pensa fuori dagli schemi. È diverso da tutti gli altri». Le élite delle due coste non possono capire cosa sta succedendo qui, dice Louie. Le élite non capiscono tante cose, insiste, su Trump hanno detto sciocchezze enormi. «I media liberal, i cosiddetti esperti, hanno detto che se vinceva lui sarebbe crollata la Borsa e sarebbero fuggiti i capitali. Invece a un anno dal voto la Borsa è ai massimi storici, l’economia cresce, l’occupazione pure. Hanno previsto che avrebbe fatto cose orrende, per esempio deportazioni di massa, e neanche questo è successo. Non è presidenziale? Certo che no. È un populista. Lo sapevamo quando lo abbiamo eletto. A me piace quando va alla Nato e dice agli europei che non possono sempre dipendere da noi per difendersi dalla Russia. Mi piace quando dice che il nostro confine meridionale va rispettato. Non è possibile che entrino qui sei milioni di clandestini, che vengano a profittare del nostro welfare, e noi stiamo a guardare. Se io voglio andare in Canada a farmi curare, quelli mica me lo lasciano fare». Michael: «Lo sai perché io non so parlare l’italiano? Perché a casa mia era proibito. Dovevamo passare il test d’inglese per la cittadinanza. E quindi mio padre ci costringeva tutti a parlare inglese, la sera a cena. Quella era l’America dove l’immigrazione funzionava, era regolata». Louie mi congeda con questa osservazione, sull’8 novembre di un anno fa: «Sai che ti dico? Che se i democratici avessero candidato Bernie Sanders, io lo votavo».

Un cantiere a Laredo, Texas, al confine con il Messico
Volo da New York a San Antonio, poi tre ore di autostrada, ed ecco il confine col Messico. Laredo-Texas da una parte, Nuevo Laredo dall’altra. In mezzo: il Rio Grande. Dopo una lunghissima estate calda prolungata fino a fine ottobre, è un fiumiciattolo poco impressionante. Eccoci di fronte al Muro. Cioè: il non-Muro, la madre di tutte le promesse mancate. Perché di Muro qui non c’è l’ombra. Eppure poche cose scatenavano le urla di entusiasmo nei comizi elettorali, quanto questo annuncio ripetuto a oltranza: «Costruirò un Muro e lo farò pagare ai messicani, perché una nazione non è una nazione se non riesce a controllare i suoi confini». Seguendo le vie ufficiali, il mio primo contatto a Laredo è con la Border Patrol-South Laredo Station. La polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) è abituata ai giornalisti, e ci considera una seccatura: sa di essere al centro dell’attenzione, noi veniamo a sfrugugliare, il tema è rovente. Hanno procedure lunghe e tortuose per le interviste, bisognare passare dai loro uffici centrali di Washington, che insabbiano le nostre richieste. La South Laredo Station è circondata da un alto recinto di filo spinato. L’unico Muro visibile: sembra rinchiudere loro, i poliziotti a guardia del confine. Dopo un lungo negoziato via interfono, mi viene incontro l’agente W. Taylor. Resta di là dalla barriera, non mi apre, il colloquio è breve ma cordiale. Sorprendente, anzi. Perché l’agente W. Taylor tra sorrisi e ammiccamenti mi fa capire di non essere davvero trumpiano. «Muro? Ma quale muro? Giusto qualche cinta, qua e là, in alcuni tratti del confine.
 
L’ingresso degli uffici della Border Patrol-South Laredo la stazione della polizia di frontiera (specializzata nella caccia ai clandestini) della cittadina texana
Una recinzione l’abbiamo dovuta costruire vicino al Rio Grande perché qualche clandestino fu visto passare sotto le finestre di un college, disturbava le lezioni, distraeva gli studenti. No, mi creda, qui siamo tranquilli. Tutto bene, insomma. Non so come la pensiate voi…». In realtà lo sa benissimo, un giornalista che arriva da New York è automaticamente classificato liberal, simpatizzante dei democratici, sta dalla parte degli immigrati. Il mio breve colloquio con l’agente in divisa verde sembra confermare una teoria del complotto molto in voga alla Casa Bianca e in tutti gli ambienti della destra radicale: contro Trump è in azione il Deep State, lo “Stato profondo”, una sorta di cupola dell’Amministrazione federale infarcita di obamiani, una burocrazia che boicotta ostinatamente questo presidente. Qualcosa di vero c’è, le burocrazie sono sempre in favore dello status quo, il “rivoluzionario” Trump ha già scatenato contro di sé tanti giudici che lo considerano un nemico della Costituzione. Gli hanno bocciato, forse perfino con un eccesso di zelo, tutte le versioni dei suoi Muslim Ban, anche l’ultimo decreto in cui lui bloccava gli ingressi da Paesi non solo islamici, con l’inclusione di Corea del Nord e Venezuela. C’è un pezzo delle istituzioni che si mobilita a oltranza, crede nei “checks and balance”, poteri e contropoteri che impediscono una prevaricazione dell’esecutivo. Se tornano in campo due ex presidenti, non solo Obama ma anche George Bush, per mettere in guardia gli americani contro il “nazionalismo becero”, vuol dire che l’allarme è diffuso e il Deep State lo ha raccolto. L’altra sorpresa, di segno opposto, mi aspetta nel centro di Laredo. A poche centinaia di metri da quell’International Bridge dove scorre un flusso continuo di passaggio tra Stati Uniti e Messico, con tanti transfrontalieri che vanno avanti e indietro dalla sera alla mattina. A fianco alla stazione degli autobus Greyhound, entro nel ristorante Juano’s. Il proprietario è Juan Alonso, 54 anni, nato a Monterrey in Messico. «Sono entrato negli Stati Uniti nel 1989 — racconta — e ho vissuto un po’ dappertutto, ho fatto ogni mestiere. Laureato in ingegneria, ho lavorato nelle fonderie dell’Indiana, nell’industria tessile del Michigan.

Qualche anno fa mi sono trasferito qui, e ho cominciato questa nuova carriera da ristoratore». Nel suo ristorante non c’è una sola scritta in inglese, anche il menù è solo in spagnolo. Si avvicina Halloween, ma qui le maschere sono quelle tradizionali della Festa dei Morti, antichissimo rito messicano. Le statistiche federali dell’Immigration and Customs Enforcement dicono che dall’insediamento di Trump è scattato il pugno duro verso l’immigrazione illegale, le retate e le espulsioni sono in forte aumento rispetto agli anni di Obama, da pochi giorni la Homeland Security ha annunciato la costruzione di nuove carceri speciali. Gli arresti di clandestini da gennaio a settembre sono stati 97.482, in aumento del 43% rispetto all’Amministrazione Obama. Ma Juan Alonso racconta un’altra storia, più simile alla realtà sonnacchiosa che ho osservato a poca distanza dal suo ristorante, lungo il Rio Grande: placido fiumiciattolo, facile da attraversare, dove le pattuglie su motoscafo passano raramente. «Qui da noi niente retate, niente espulsioni di massa. C’è un po’ di Muro tecnologico, fatto di droni e raggi infrarossi. Ma c’era anche prima». Questa storia del Muro è una commedia degli equivoci che dura da anni. I democratici denunciano la promessa di Trump come un’infamia, eppure fu uno di loro (Bill Clinton) a costruire l’unica fortificazione davvero imponente, al confine californiano tra San Diego e Tijuana. La destra dice di volerlo, ma qui nel Texas sono i proprietari terrieri di fede repubblicana l’ostacolo maggiore. Il Muro andrebbe costruito espropriando dei loro appezzamenti. Orrore: l’esproprio è statalismo, socialismo, i ricorsi in tribunale dei latifondisti bloccano continuamente i progetti di Trump. In quanto a Juan Alonso, lui di questo presidente si è innamorato. Il colpo di fulmine è accaduto per una ragione molto semplice. Il ristoratore ha ottenuto la cittadinanza americana.

È una procedura automatica, per chi la richiede dopo cinque anni di Green Card. Ma il caso ha voluto che per lui il diritto sia maturato proprio pochi mesi fa, sotto questa Amministrazione. «E tutti i miei amici mi dicevano: povero illuso, non hai capito che è cambiato tutto? Trump non vuole messicani. Quando ti presenterai per la cittadinanza ti tratteranno male, ti cacceranno. E invece no! Sono stati gentilissimi, mi hanno dato il passaporto». Forse Alonso non ha le idee chiare sullo Stato di diritto, sul fatto che questa cittadinanza ormai gli spettava, e neppure un presidente può commettere l’arbitrio di cancellare la legge. Ma Trump gli piace, e non solo per questo. Quando gli dico che voglio percorrere il fatidico ponte e passare a Nuevo Laredo, Messico, inorridisce: «Non ci andate. Vi riconoscono subito, vi prendono di mira. Rapiscono gli americani, per ottenere un riscatto immediato». (Il mio sospetto che lui stia esagerando viene contraddetto dal sito del Dipartimento di Stato: mette in guardia i turisti americani, sconsiglia di mettere piede a Nuevo Laredo, i rapimenti ci sono stati davvero). Strana frontiera. Da una parte e dall’altra sono tutti messicani. È come se la guerra del 1846-48 tra Stati Uniti e Messico, che sancì l’appartenenza del Texas alla potenza settentrionale, fosse stata lentamente ribaltata. Un’attrazione etnica più profonda, una forza d’inerzia demografica restituisce al Messico i suoi ex-territori a Nord del Rio Grande. È di origine messicana la capa della Border Patrol che incrocio per tentare un’ennesima intervista (negata), Sarah Melendez; sono di origini messicane i due agenti in divisa che la scortano. La città Usa, Laredo- Texas, ha il 95,61% di ispanici nel censimento ufficiale della sua popolazione. Nuevo Laredo è la sua gemella siamese, l’International Bridge tiene incollate le due metà. «Ma gli stessi messicani che a Nuevo Laredo sono dei delinquenti — dice Juan Alonso — appena passano di qua rigano dritto, stanno attenti a non violare le leggi americane.

Di qua c’è l’ordine, di là dalla frontiera in Messico c’è corruzione e violenza. Questa è la differenza. Ha ragione Trump a volere imporre il rispetto delle regole. A me mi hanno dato la cittadinanza perché pago le tasse. Quelli che non lo amano, sono di un’altra categoria. Quelli bisogna tenerli fuori».

© Riproduzione riservata 27 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/super8/2017/10/27/news/ora_e_sempre_the_donald-179461879/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S3.4-T1
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« Risposta #153 inserito:: Maggio 29, 2020, 02:12:41 pm »

Approfondimento

Riapre Wall Street ma tornano al lavoro solo pochi operatori

26 Maggio 2020
Dopo due mesi di fermo ripartono le negoziazioni sul “floor”. Su 500 agenti di Borsa opereranno in 80, sottoposti a rigidissime misure sanitarie

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - Festa grande a Wall Street: ma per pochi intimi. Dopo due mesi di chiusura che sembrano eterni, un’interruzione superata solo durante la prima Guerra mondiale, riapre la Borsa più celebre del mondo. Alle 8.30 del mattino c’è la coda per entrare al New York Stock Exchange (NYSE), al numero 11 di Wall Street. Proprio lì dove una statua di bronzo raffigura la bambina che sembra sfidare la potenza del capitalismo finanziario. Alle 9.30 il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, suona il rituale campanello d’apertura delle contrattazioni: cerimonia frettolosa, cinque minuti dopo è già in auto, via di corsa.

Per molto tempo il suo gesto non avrà emuli, le restrizioni d’accesso proibiscono i visitatori, addio alle feste che si svolgevano in occasione di nuovi collocamenti in Borsa. A fare la coda un’ora prima che arrivasse Cuomo c’erano pochi trader: 80 sui 500 che lavoravano nel palazzo fino al 23 marzo. A casa tutti gli altri colleghi. Perfino le televisioni finanziarie che seguono i mercati minuto per minuto sono espulse sine die, qualcuna si accampa sul marciapiedi di fronte. Le nuove misure di sicurezza sono drastiche, e molto controverse. I pochi trader selezionati hanno dovuto sottoporsi a controlli estenuanti: temperatura, divieto di portare cibo, solenne garanzia di non aver usato mezzi pubblici. Perfino marciapiedi e corridoi interni cambiano fisionomia: alle transenne di sicurezza già apparse dopo l’11 settembre 2001, ora si sono aggiunte le strisce sui sensi unici pedonali e le distanze di sicurezza sanitaria.

Soprattutto, gli operatori di Borsa hanno dovuto firmare quel documento inquietante che è stato definito “il permesso della morte”. E’ un lungo contratto legale con cui esonerano lo Stock Exchange da qualsiasi responsabilità civile e penale se si ammalano sul luogo di lavoro; anzi si caricano in proprio la responsabilità qualora contagino dei colleghi. Tempestata di critiche, la presidente del NYSE Stacey Cunningham si giustifica così: «Questi trader non sono nostri dipendenti. Non abbiamo il potere di vietargli l’ingresso. Quel documento è un modo perché riconoscano l’obbligo di seguire regole precise a tutela della loro salute». Una volta entrati al “floor” – letteralmente il pavimento, la sala contrattazioni – i trader devono osservare distanze di sicurezza di due metri da ogni collega. Lavorano il più possibile all’interno di gabbiotti trasparenti individuali, protezioni di plexiglass.

Uno dei pochi che si sono soffermati a parlare coi giornalisti prima di entrare nel luogo proibito è Jonathan Corpina della Meridian Equity. «È stato un adattamento difficile – ha detto – ora ci muoveremo poco. Ma non mi preoccupo. La priorità è la salute e la sicurezza della comunità che lavora qui». Muoversi poco? È un controsenso per la Borsa. Il mondo intero ricorda le immagini che da Wall Street hanno scandito i boom e i crac del mercato azionario: da Tokyo a Milano, da Shanghai a Zurigo, ogni investitore osservava sullo schermo le riprese dirette dalla capitale della finanza globale con l’agitazione dei trader, le urla, la frenesia. Il balletto euforico o tragico degli intermediari newyorchesi era uno spettacolo di risonanza planetaria. Ora il “floor” è semivuoto, si agitano solo grandi schermi luminosi. È l’atto finale di un’evoluzione cominciata negli anni Settanta, accelerata negli anni Novanta: l’ascesa delle contrattazioni gestite da programmi informatici, a distanza. Più la concorrenza fra Borse. Il NYSE ormai ha solo il 20% degli scambi americani, e solo l’1% sul “floor”, con esseri umani come protagonisti. La pandemia ha dato il colpo finale agli umani.

Arrivare fino alla Borsa, dalla parte settentrionale di Manhattan, significa traversare una città ancora convalescente e semideserta. Il traffico un po’ è ripreso, i cantieri edili funzionano. Ma negozi aperti ce n’è pochi e il pullulare di cartelli “affittasi” è un segnale sinistro: l’ecatombe di fallimenti ha già stravolto la fisionomia urbana. Eppure la finanza esulta, la giornata si chiude con forti rialzi. Donald Trump twitta: «Dow Jones oltre 25.000, la transizione verso la Grandezza è cominciata in anticipo». Trump è convinto, o vuole convincersi, che Wall Street ha potere profetico e già avvista all’orizzonte una ripresa economica. All’indice Dow Jones lui appende le sue speranze di rielezione a novembre. Ma i mercati finanziari sono davvero il riflesso dell’economia reale? La sensazione è un déjà vu, come ai tempi in cui qui vicino, a Zuccotti Park, erano accampati i contestatori di Occupy Wall Street. “Assieme siamo forti” dice il grande striscione bene in vista sull’ingresso della Borsa. Ma il rialzo del mercato azionario arricchisce a dismisura i grandi azionisti di Big Tech e Big Pharma, mentre il resto del Paese conta i caduti: centomila per il virus, 40 milioni di disoccupati.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/05/26/news/riapre_wall_street_ma_tornano_al_lavoro_solo_pochi_operatori-257698378/?ref=nl-rep-a-bgr
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 02, 2020, 05:42:21 pm »

ApprofondimentoStati Uniti - Usa

Il regno degli adolescenti Tik Tok come inedito teatro della nuova Guerra Fredda

01 AGOSTO 2020

Il presidente statunitense Donald Trump insiste nel volere giocare la carta anti-cinese in campagna elettorale: vuole vietare il social e si oppone alla cessione a Microsoft


DI FEDERICO RAMPINI

L'ultimo capitolo della Guerra Fredda Usa-Cina investe un social media a cui probabilmente sono affezionati vostra figlia o vostro nipote. TikTok ha centinaia di milioni di utenti nel mondo, decine di milioni soltanto negli Stati Uniti. Per lo più adolescenti, troppo giovani per votare a novembre, altrimenti forse Donald Trump sarebbe meno drastico.

L'offensiva del presidente americano contro questo social apparentemente innocuo - vi circolano soprattutto video musicali e balletti improvvisati, ma ha visto nascere vere e proprie star - ha la stessa logica di quella scatenata nei riguardi di Huawei per la telefonia di quinta generazione.

TikTok fa capo a una proprietà cinese, il gruppo ByteDance. Come per il 5G, il sospetto è che una tecnologia made in China invada il nostro universo digitale e serva da cavallo di Troia per saccheggiare i nostri dati, depredare la nostra privacy, oppure censurare e manipolare la comunicazione.

Può sembrare cattiva fanta-politica, dietrologia paranoica agitata da un presidente in caduta di consensi. Però quel che accade a Hong Kong consiglia di non sottovalutare la prepotenza di Xi Jinping, né l'implacabile determinazione del Grande Fratello cinese nel soffocare il dissenso. Un'azienda di proprietà cinese non è in grado di disobbedire alle direttive del governo di Pechino, di qualunque natura esse siano.

A risolvere l'ennesimo scontro di natura geopolitica ci prova un gigante capitalista, la Microsoft fondata da Bill Gates. Se Microsoft comprasse TikTok, il passaggio sotto una proprietà americana risolverebbe il casus belli. Ma altre mine sono destinate a esplodere, poiché il mondo ne è disseminato. Dopo trent'anni di integrazione Usa-Cina, il "decoupling" o divorzio è traumatico.

La nuova guerra fredda ha continuato la sua escalation nelle ultime settimane. Washington ha varato nuove sanzioni contro dirigenti cinesi responsabili degli abusi nei confronti della minoranza islamica degli uiguri nello Xinjiang; ha dichiarato illegali le pretese territoriali di Pechino nel Mare della Cina meridionale; ha tolto a Hong Kong tutti i privilegi commerciali fiscali e diplomatici; ha chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston, Texas, sospettato di essere un covo di spie (tra le altre cose i diplomatici cinesi di stanza a Houston avrebbero tentato di carpire segreti sulle ricerche di vaccini anti-coronavirus).

Il capitalismo globalista si adatta al nuovo scenario geopolitico. Ormai si è convertito alla Guerra Fredda perfino Mark Zuckerberg, fondatore e chief executive di Facebook. Ancora pochi anni fa Zuckerberg si era distinto per un corteggiamento sfrenato verso Xi Jinping. Sperando di farsi aprire il mercato cinese da cui Facebook è bandito, Zuckerberg aveva moltiplicato i gesti di piaggeria: in una cena di Stato offerta da Obama in onore di Xi Jinping, il giovane padrone di Facebook era arrivato a chiedere al presidente cinese un nome in mandarino per sua figlia allora neonata. Adesso, sotto inchiesta al Congresso di Washington per ragioni di antitrust, Zuckerberg chiede comprensione al governo degli Stati Uniti presentandosi come un'azienda patriottica, un condensato di valori americani.

Nell'ostilità totale tra America e Cina si aggiunge un elemento nuovo. È l'idea contenuta nel recente discorso di Mike Pompeo secondo cui "il dialogo va condotto con il popolo cinese, con chi ama la libertà, perché il partito comunista non rappresenta quel popolo di un miliardo e 400 milioni". Come ai tempi dell'Unione Sovietica, il conflitto tra le due superpotenze diventa ideologico, a tutto campo. Dopo le tante offensive già aperte nel campo economico e tecnologico, diplomatico e militare, l'appello ai cinesi perché rovescino la "tirannide" era l'ultimo tassello che mancava.

Trump userà la Cina nella sua campagna contro Biden, cercando di descrivere il suo rivale democratico come un esponente del vecchio establishment che firmò accordi di libero scambio ai danni della classe operaia americana, e fece concessioni fatali al regime di Pechino. Ma Biden ha indossato a sua volta i panni del falco. Lungi dal promettere un disgelo, il democratico preannuncia che sarebbe più duro di Trump sui diritti umani, più credibile di Trump nel chiamare a raccolta gli alleati per fare fronte unito contro Pechino, più efficace di Trump nell'attuare una politica industriale che recuperi il ritardo americano nella tecnologia 5G. A proposito di 5G, incassa vittorie la pressione americana per dissuadere gli alleati dal comprare la nuova generazione di infrastrutture telecom dai cinesi. Il Regno Unito ha ceduto di recente, l'India sta per fare lo stesso. Il mondo si divide in sfere, la logica del bipolarismo impone di scegliere da che parte stare. Gli adolescenti catturati da TikTok fanno fatica a capire, ma anche il loro divertimento è un terreno conteso fra superpotenze.

da repubblica.it
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« Risposta #155 inserito:: Settembre 20, 2020, 07:08:45 pm »


Outlook | "Peace deal", a Washington la firma degli Accordi Abramo

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Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it>

mar 15 set, 19:24 (5 giorni fa)
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Rep: Outlook di Federico Rampini
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15 settembre 2020

IN SINTESI

Scrivo questa newsletter da Washington dove sto seguendo la firma degli Accordi Abramo detti “accordi di pace” fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Donald Trump li paragona a quelli che vennero firmati tra Israele e l’Egitto. In realtà in questo caso non si tratta di una pace visto che i paesi coinvolti non erano in guerra. Più giusto parlare di “peace deal” ovvero “contratto di pace”, nel senso che spiana la strada a una collaborazione economica intensa. La svolta geopolitica è comunque notevole. Si tratta forse del più grosso successo di Trump in politica estera.

Si consolida un asse tra Israele da una parte, le monarchie arabe sunnite e conservatrici del Golfo dall’altra. Con la benedizione dei sauditi ovviamente. C’è chi prevede una specie di “febbre dell’oro”, una corsa di altri paesi dell’area a firmare accordi simili per non rimanere tagliati fuori dalla creazione di una nuova area di business. I grandi sconfitti sono i palestinesi e soprattutto il regime iraniano che vede accentuarsi il suo accerchiamento. Di contorno l’America potrebbe pure incassare un contratto per l’acquisto di F-35 da parte degli Emirati, anche se Benjamin Netanyahu non è così tranquillo sul riarmo dei suoi nuovi amici.

 

Notazione atmosferica: qui a Washington il cielo è coperto da uno strato grigio, i metereologi assicurano che non è foschia né nebbia né nuvole né inquinamento locale, è il fumo degli incendi della West Coast che arriva fin qui, dopo aver attraversato l’intero continente. Da San Francisco a Washington la distanza in linea d’aria è di quattromila chilometri. Da quando sono venuto a vivere negli Stati Uniti, vent’anni fa e proprio a San Francisco, non ricordo sia mai accaduto qualcosa di simile, cioè che i fumi di incendi californiani raggiungessero l’altra costa.

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STATI UNITI

Mancano 50 giorni al voto americano (fatto salvo che forse una maggioranza voterà prima, per posta), e il numero di indecisi sembra sia sceso ai minimi storici: diversi sondaggi li stimano al 3%. Perciò le due campagne sono più impegnate a mobilitare i “già decisi”, perché vadano davvero a votare o spediscano le schede con largo anticipo. Ma quel 3% alla fine potrebbe rivelarsi decisivo. Joe Biden si scopre un punto debole in Florida: ha meno consenso tra gli ispanici, rispetto a Hillary Clinton 4 anni fa.

Alcune spiegazioni chiamano in causa la radicalizzazione del partito democratico, che consente a Trump di agitare i fantasmi di Castro e Chavez nella comunità ispanica. Cubani e venezuelani hanno una presenza rilevante in Florida.

“Incendiario, piromane del cambiamento climatico”, così ieri Biden ha definito Trump, mentre il presidente era in visita nella California devastata dalle fiamme. Per la prima volta in tre settimane, da quando è iniziata questa nuova ondata di roghi che assedia tutta la West Coast (bruciano anche foreste nell’Oregon e nello Stato di Washington), Trump si è avventurato nella “tana del leone”. La California è territorio ostile, essendo il più grosso serbatoio di voti democratici. E’ anche il collegio elettorale della senatrice Kamala Harris, candidata vicepresidente. A fare gli onori di casa, è stato il governatore Gavin Newsom, anche lui democratico. Non è stato tenero con il presidente, lo ha subito affrontato sul terreno del negazionismo climatico: “Le estati calde diventano sempre più torride, le siccità diventano sempre più aride.

 

Qualcosa colpisce l’impianto idraulico del nostro pianeta. Noi affermiamo la scienza: il cambiamento climatico è reale”. Roccaforte dell’ambientalismo, la California ha proclamato la sua fedeltà agli accordi di Parigi e ha trascinato dietro di sé metà degli Stati Usa, continuando ad applicare normative che impongono le riduzioni di CO2 proprio mentre l’Amministrazione Trump abbracciava la deregulation dell’energia fossile. Una guerra infinita ha opposto “le due Americhe” in questi quattro anni, con tanto di strascichi giudiziari per impugnare le normative di Washington o quelle di Sacramento (capitale californiana).

 

Trump ieri è tornato a sostenere la sua versione preferita sulle cause degli incendi: “Sono dovuti alla cattiva gestione locale delle foreste. Ho visitato paesi stranieri che hanno tante foreste e mi hanno spiegato quali errori non bisogna commettere, come si fa la prevenzione dei roghi”. Il governatore Newsom gli ha ricordato che il 56% del territorio forestale della California è di proprietà federale o sotto la diretta competenza delle autorità centrali. Tuttavia è noto che dietro gli incendi ci sono anche errori locali, per esempio una politica urbanistica dissennata: sotto governi locali di ogni colore, spesso di sinistra, i californiani hanno costruito abitazioni in zone che sono ineluttabilmente esposte al fuoco, e che semmai andrebbero lasciate libere, per effettuarvi quelle “deforestazioni mirate” che servono a costruire barriere anti-fiamme.

 

Altro tasto dolente è il ruolo nefasto di Pacific Gas & Electricity (PG&E), la utility elettrica locale che da decenni accumula ritardi criminali nell’interrare le linee dell’energia elettrica: i suoi tralicci sono stati spesso all’origine di roghi, l’azienda è stata condannata in sede penale e civile, ma lo scandalo continua.

 
Continuo il mio esame dei programmi di governo di Biden e oggi mi occupo di ambiente, energia.

Gli Stati Uniti sotto Donald Trump sono stati il teatro di una “restaurazione fossile” più apparente che reale, più proclamata nella sfera politica che applicata dagli operatori economici. Da un lato è innegabile che l’America abbia ottenuto una flessibilità e una forza strategica senza precedenti grazie alla sua nuova autosufficienza energetica, che ne ha fatto addirittura un’esportatrice netta di greggio e la più grande produttrice mondiale di gas naturale.

Tuttavia alla deregulation di Trump non ha corrisposto un’adesione altrettanto entusiastica da parte dei produttori di energia: il carbone, per esempio, continua il suo declino malgrado gli aiuti della Casa Bianca.

Ora Biden nel suo piano “Equitable Clean Energy Future” promette 2.000 miliardi di dollari di investimenti per raggiungere il traguardo di “zero emissioni carboniche nette” entro il 2050 (ma già entro il 2035 per le centrali elettriche). E’ un piano ambizioso visto che oggi vento e sole forniscono il 4% dell’energia consumata dagli Stati Uniti, mentre le fossili sono l’80%.

 
ASIA

La ripresa cinese comincia ad avere una base più larga e autosufficiente. All’inizio fu trainata da investimenti in infrastrutture, immobiliare, ed export. Ma agosto ha visto un rimbalzo dei consumi anno su anno: +0,5% rispetto all’agosto 2019.

 

Sullo sfondo della guerra tecnologica Usa-Cina e delle barriere innalzate da Washington, Xi Jinping presiede una riunione di scienziati e lancia un appello perché vengano superati ritardi e debolezze che “ci strangolano” (sue parole testuali), cioè rendono l’economia della Repubblica Popolare troppo dipendente dalle forniture di hi-tech occidentale.

 
Scatta l’ora della verità per Huawei. Da oggi il colosso cinese delle telecom non può più acquistare microchip made in Usa, le sanzioni decise da Washington entrano in vigore e rischiano di creare serie difficoltà ad un campione nazionale che sta già perdendo molte commesse estere sul 5G. Intanto si fa sempre più ingarbugliata un’altra partita tecnologica, quella di TikTok, app popolarissima tra gli adolescenti di tutto il mondo, americani inclusi. Il proprietario di TikTok è il gruppo cinese Byte Dance. L’Amministrazione Trump gli ha intimato di cedere il controllo di quella app entro il 20 settembre, altrimenti TikTok verrà chiusa, almeno per gli utenti americani. Un’opzione sul tavolo da settimane è la vendita a un’azienda americana ma il governo di Pechino ha messo il veto a Microsoft.

Di fatto Xi sta vietando la vendita di TikTok agli americani, punto e basta. Si è candidata Oracle per una soluzione intermedia. Oracle di Larry Ellison, che non ha alcuna esperienza nel campo delle app, può offrire un compromesso che preveda il trasferimento negli Stati Uniti del quartier generale di TikTok, la creazione di ventimila posti di lavoro in America,e probabilmente lo spostamento dei dati sugli utenti in una “nuvola” sotto controllo americano. Ellison è uno dei pochi imprenditori californiani in buoni rapporti con Trump, per il quale ha fatto raccolte di fondi elettorali.

 

Nuove sanzioni americane contro la Cina, stavolta sono presi mira tessili e abbigliamento prodotti nello Xinjiang, la regione abitata dalla minoranza etnica degli uiguri di religione musulmana. La misura vuole punire la Cina per gli abusi contro i diritti umani degli uiguri. La maggioranza dell’export cinese di cotone viene dallo Xinjiang.

 
Nel contenzioso tra India e Cina si aggiunge un nuovo elemento: le forze armate di Delhi accusano quelle cinesi di installare linee a fibre ottiche lungo la frontiera contesa, teatro di scontri recenti. Secondo gli indiani quelle linee devono servire alle truppe cinesi al confine per comunicare più velocemente con il quartier generale in caso di conflitto; è un nuovo ostacolo per i negoziati bilaterali che tentavano di ridurre le tensione.

 


EUROPA

In Europa i vincitori della crisi potrebbero essere i piccoli paesi della periferia che offrono alternative interessanti alla Cina: costo del lavoro basso, buona qualità della manodopera. Dal Portogallo alla Romania, insomma, c’è chi potrebbe lucrare dai nuovi trend che sono la de-globalizzazione e l’arroccamento difensivo dentro aree regionali più omogenee e compatte. Al riparo dai dazi e da tutte le incognite della nuova guerra fredda, le nuove delocalizzazioni di attività produttive si faranno “nel cortile di casa”. Potrebbero beneficiarne anche paesi come il Marocco che fanno parte di accordi commerciali e doganali con l’Unione europea. Riprendo un’analisi della Natixis.

 

Che cosa può spiegare le performance diverse delle Borse americane ed europee? Il peso specifico dei titoli Big Tech in America è una parte consistente della spiegazione, ma non basta. Le prospettive della ripresa non sono sostanzialmente diverse tra le due sponde dell’Atlantico. Le politiche monetarie sono accomodanti, anche se quella americana lo è sempre un po’ di più e questo spinge al ribasso il dollaro, offrendo uno sconto a chi acquista titoli Usa.

 

Ma c’è anche un fatto strutturale, culturale: investitori e risparmiatori in America sono più propensi al rischio e più inclini ad avere una percentuale medio-alta del proprio portafoglio in azioni. Questo crea un divario pressoché permanente tra Stati Uniti ed Europa, che a sua volta tende ad attirare i capitali stranieri. Salvo quando l’incantesimo si spezza, e subentra il panico: in quei casi però non è detto che l’Europa sia un rifugio sicuro.

 

OUTLOOK

Tutti stiamo cercando di immaginare il mondo post-covid, e nell’ambito delle aziende non manifatturiere un dato si sta affermando: lo smartworking è destinato a prolungarsi così a lungo, che sarà impossibile tornare indietro alla situazione di partenza quand’anche avessimo una vaccinazione di massa ed efficace.

Ma uno scenario macroeconomico ormai deve includere uno “shock negativo dal lato dell’offerta”, su periodi lunghi. Le misure di distanziamento e sicurezza sanitaria riducono la produttività e aumentano i costi. Non solo la crescita reale ma anche la crescita potenziale del Pil verrà ridotta in modo permanente o comunque per periodi prolungati. Si porrà la questione di “distribuire la nuova scarsità”, in particolare tra profitti e redditi da lavoro. Se a pagare il grosso della crisi saranno i salari questo ridurrà ulteriormente i consumi, i profitti si salveranno o avranno riduzioni meno dolorose, ma solo nel breve termine.


E si tornerà a parlare di “stagnazione secolare”. Un tema che fu assai popolare tra gli economisti negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, poi fu rilanciato nel 2008.



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« Risposta #156 inserito:: Settembre 20, 2020, 07:57:03 pm »

Outlook | Elezione dell’Apocalisse in vista del 3 novembre

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Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it>

14 settembre 2020

IN SINTESI

Armageddon election, elezione dell’Apocalisse, la definisce John Zogby che è uno dei più autorevoli sondaggisti americani. Si spiega così: "E’ la prima elezione in cui metà degli elettori potrebbe rifiutarsi di riconoscere come legittimo il risultato di un voto democratico". Questo è l’effetto di una polarizzazione del paese che peggiora da almeno vent’anni e cominciò ad essere ben visibile nell’elezione Bush-Gore.

Però i fattori aggravanti sono legati, oltre che a Trump, anche alla pandemia: per la prima volta nella storia ci saranno più voti per corrispondenza che voti ai seggi e questo è un ulteriore fattore di caos, contestazioni. Milioni di schede arriveranno dopo il 3 novembre, visto che in molti Stati è considerata regolare una scheda che abbia il timbro postale del giorno stesso. Aggiungiamo che c’è una chiara divaricazione tra i due elettorati anche sulle modalità di voto. Il 60% degli americani vorrebbe votare per posta. Ma la percentuale è più alta fra i democratici, forse perché più concentrati nelle metropoli e più preoccupati dai rischi di contagio; la percentuale è più bassa tra i repubblicani.

Trump denuncia preventivamente brogli sui voti per corrispondenza.

 
Ecco come potrebbe svolgersi lo scenario apocalittico, dunque. La sera del 3 novembre i risultati degli spogli nei seggi danno un leggero margine a Trump, il quale la sera stessa si dichiara vincitore e proclama che avrà inizio un secondo mandato. Per aspettare i dati finali, che darebbero la vittoria ai democratici, passa una settimana, forse anche di più. Nel frattempo il paese vive sotto il bombardamento di messaggi trionfali di Trump; pronto peraltro a denunciare come false le schede spedite per corrispondenza se danno un risultato diverso.

 
Nel frattempo le piazze si riempiono di opposte fazioni, alcune anche armate. Le forze dell’ordine possono rispondere – o non rispondere – in vari modi a seconda di chi dà gli ordini (sindaci, sceriffi, governatori di obbedienze politiche diverse). In questo caso il termine Apocalisse non è del tutto fuori luogo. Alla fine, in uno scenario di protratta incertezza, fra ricorsi giudiziari a non finire, il vero ago della bilancia potrebbe essere il chief justice John Roberts, cioè il presidente della Corte suprema. E’ repubblicano. Però ultimamente sembra aver preso le distanze da Trump, più di una volta ha aggiunto il suo voto a quello della minoranza democratica.

 
Donald Trump presidente degli Stati Uniti d'America e Joe Biden candidato democratico alle presidenziali (Photos by MANDEL NGAN and JIM WATSON / AFP)

Gli scandali non danneggiano Trump, per questo presidente è stata riesumata una battuta che era stata coniata per Ronald Reagan: è come le pentole al Teflon, lo sporco non attacca. Lui, Trump, se ne vantò quattro anni fa dicendo: “Potrei sparare a qualcuno sulla Quinta Avenue, e i miei fan non mi mollerebbero”. Dunque, è poco probabile che la base repubblicana sia stata impressionata dalle rivelazioni delle ultime due settimane. Prima quelle del magazine The Atlantic sugli insulti del presidente ai militari caduti per la patria.

Poi quelle del libro “Rage” di Bob Woodward, dove Trump stesso in diverse interviste ammette di aver minimizzato il pericolo del coronavirus perché non voleva creare panico. Il fatto che i repubblicani siano impermeabili, però, non significa che questi scandali siano del tutto irrilevanti.

A 50 giorni dal voto, per un candidato che è in svantaggio nei sondaggi, ogni giorno impiegato a rincorrere le notizie anziché a imporre la propria agenda, è un giorno perduto. I due scandali di cui sopra hanno costretto Trump a smentite che non gli hanno consentito di dettare i temi del giorno.

 
Trump potrebbe risolvere la partita con un KO ai duelli televisivi? Il timore in campo democratico è diffuso. Biden non è mai stato brillante, è capace di fare gaffes, di impappinarsi, dimostra più dei suoi 77 anni, e già in campo repubblicano si fanno circolare voci velenose su una presunta demenza senile. Però l’idea che i tre duelli tv possano decidere tutto, è azzardata.

In passato, rarissimi furono gli scambi televisivi che crearono delle svolte, che impressero una dinamica nuova alla campagna. I verdetti della tv a volte vengono dimenticati in pochi giorni. Obama perse in modo clamoroso il primo duello contro Mitt Romney nel 2012. Hillary Clinton veniva data vincitrice da quasi tutti i sondaggi, dopo i duelli con Trump. Infine gli strateghi democratici lavorano da tempo ad abbassare le aspettative, e a questo punto molti si accontenterebbero che Biden abbia ancora un battito cardiaco al termine dei dibattiti.


La “sorpresa di ottobre”, il colpo di scena che secondo alcuni Trump ha in serbo per modificare la dinamica, potrebbe essere uno scandalo cinese contro Biden?  Esce proprio ora un documentario tv intitolato “Cavalcando il dragone: i segreti cinesi dei Biden”. Dove si accusa il figlio del candidato, Hunter Biden, di aver intascato milioni in affari cinesi quando il padre era il vice di Barack Obama. Il contrattacco di Biden è arrivato con la presentazione di un nuovo piano economico. Per scrollarsi di dosso l’accusa di essere stato corresponsabile dei trattati di libero scambio e quindi delle delocalizzazioni, il democratico promette una sovrattassa del 10% sui profitti realizzati da multinazionali Usa nelle loro fabbriche estere, e un credito fiscale del 10% sugli investimenti fatti sul territorio nazionale. “Fabbricate nel Michigan, fabbricate in America”, dice Biden. Il suo nuovo slogan è Buy American, comprate americano, non molto diverso dal Make America Great Again del suo avversario. Sull’economia finora Trump conserva un leggero vantaggio – è l’unico terreno nel quale una sottile maggioranza di elettori lo giudica più competente – però è andato riducendosi. Sul rettifilo finale degli ultimi 50 giorni i due messaggi convergono: nella Rust Belt il nazionalismo economico è vincente.

 
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« Risposta #157 inserito:: Ottobre 06, 2020, 07:57:51 pm »

Rep: Outlook di Federico Rampini

5 ottobre 2020

“La recessione della pandemia è appena cominciata”, è il titolo del lungo scenario firmato da Neil Irwin sul New York Times. Fra i dati che segnala, l’inizio dei licenziamenti ai piani alti delle aziende americane, un calo del 4% nei ranghi del top management e nei quartieri generali delle aziende. Secondo Irwin dobbiamo prepararci a una crisi di lunga durata e a una ripresa lenta, fiacca, con settori che forse resteranno segnati per sempre.

Dall’inizio della pandemia, gli Stati Uniti avranno speso più fondi pubblici per aiutare le imprese, di quanto abbiano speso per l’intera guerra in Afghanistan che dura da 18 anni.

STATI UNITI
La ripresa americana segue quella cinese ma precede quella europea, a giudicare dalla severità della recessione. Nessuno s’illuda di farsi trainare dall’export verso i mercati altrui. S&P Global Ratings stima che l’anno si chiuderà con una decrescita del 4% negli Stati Uniti e del 7% in Europa mentre la Cina sarà l’unica fra le maggiori economie a chiudere con un segno più davanti al Pil. Pechino non ha l’intenzione di fare da locomotiva per trainare gli altri, anzi spinge sulle proprie esportazioni. L’America ha ritrovato lo stesso livello di un anno fa nelle sue importazioni dall’estero, ma gli esportatori sono in difficoltà. Boeing ha consegnato all’estero quattro aerei nel mese di agosto contro gli 11 dell’agosto 2019. Caterpillar, fabbricante di macchine agricole e movimento terra, sta vendendo il 20% in meno. L’export dell’industria chimica americana è sceso del 16%.

Se il futuro appartiene all’auto elettrica, le case produttrici non vogliono dipendere da fornitori esterni per l’anima del prodotto, la batteria. In passato la tendenza era a fidarsi di specialisti delle batterie, come la Panasonic. Ora la Tesla vuole padroneggiare la tecnologia delle batterie e controllarne la produzione, sul territorio degli Stati Uniti. General Motors fa la stessa cosa e costruisce una fabbrica di batterie nell’Ohio.

Anche New York è costretta a ingranare la retromarcia di fronte alla nuova ondata di contagi: il sindaco De Blasio ordina la chiusura di scuole e attività non essenziali in diverse zone di Brooklyn.

ASIA
Le Borse cinesi superano quelle americane dall’inizio dell’anno, e la performance riflette la divaricazione sulle aspettative di crescita delle due economie: il Pil cinese ha già ripreso a crescere nel secondo trimestre e a fine anno, secondo il Fondo monetario, chiuderà a +1%, mentre quello globale finirà l’anno a meno 5%. L’indice azionario delle 300 maggiori società quotate in Cina è a +12% dall’inizio dell’anno contro +4% dell’indice americano S&P500.

Ma il mercato dell’automobile in Cina non vede segnali di ripresa. Il Salone dell’auto di Pechino è stato l’occasione per fare il punto. Le vendite nei primi otto mesi dell’anno sono inferiori del 15% rispetto allo stesso periodo del 2019. Il lockdown c’entra poco, perché le vendite di auto calano da due anni. Troppi ingorghi nelle grandi città, troppo alto il costo del parcheggio, e la competizione dell’Uber cinese che si chiama Didi, stanno allontanando i giovani cinesi dall’acquisto dell’auto privata.

L’India potrebbe essere la beneficiaria dell’ultima restrizione di Donald Trump sui visti. Il giro di vite più recente ha colpito i visti H1-B, di cui fanno ampio uso le aziende tecnologiche americane. Una delle categorie più richieste sono gli informatici indiani. Ora diventa più conveniente impiegarli a distanza, dall’India. L’outsourcing a favore delle aziende indiane di software fu l’inizio di un boom del settore un quarto di secolo fa, quando si temeva il Baco del Millennio col passaggio all’anno 2000.

EUROPA
Anche la Germania si piega alle pressioni di Mike Pompeo e prende le distanze dal 5G made in China. Il governo Merkel non farà ricorso a un vero e proprio embargo, ma metterà in piedi un sistema di selezione e controlli dei fornitori Telecom tale da escludere nei fatti la Huawei. Tra i beneficiari, oltre alle due aziende europee Ericsson e Nokia, si affaccia anche la Samsung sudcoreana.

A sorpresa le università inglesi mettono a segno un aumento del 9% nelle iscrizioni. Gli studenti stranieri non sono stati spaventati dal rischio di restrizioni ai visti per effetto di Brexit. E comunque il business universitario è una fonte di entrate così importante che Boris Johnson oggi ha annunciato regole apposite per i visti.

CONCLUSIONE
Per Paul Hannon sul Wall Street Journal le economie aspettano un’iniezione di fiducia dall’iniezione del vaccino. Ma non subito. Il Center for Global Development stima al 50% la probabilità che un vaccino sicuro ed efficace diventi disponibile entro l’aprile prossimo, 85% le probabilità che questo accada entro la fine del 2021. La Cina però sta già effettuando vaccinazioni di massa su centinaia di migliaia di persone, usando due vaccini sperimentali che non hanno ancora superato la fase tre dei test clinici.

Da - https://mail.google.com/mail/u/0/?hl=it&shva=1#inbox/FMfcgxwJZJZkXLQgCDhgVmTxtJRrhMpq
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« Risposta #158 inserito:: Ottobre 12, 2020, 12:37:42 pm »

Outlook | Usa, chi fa campagna sulla pelle dei disoccupati?

mer 7 ott, 21:40 (13 ore fa)


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Outlook di Federico Rampini
Chi fa campagna sulla pelle dei disoccupati? Trump martedì sera annunciava la fine di ogni trattativa con il Congresso sulla nuova manovra di spesa pubblica che doveva aiutare famiglie e imprese in difficoltà. Se ne riparlerà solo quando lui sarà rieletto... Lo stesso presidente della Federal Reserve dice che la cosa è grave, perché la situazione richiede interventi immediati. I democratici gridano al ricatto: il presidente specula sulla sorte dei disoccupati. La situazione è un po' più ingarbugliata perché anche la presidente della Camera Nancy Pelosi ha giocato allo sfascio, comunque è una pessima notizia per l'economia americana. Ora Trump sembra avere qualche ripensamento, propone una serie di interventi settoriali: un aiuto alle compagnie aeree, un nuovo assegno ai disoccupati. La Pelosi mette in dubbio la sua sanità mentale e dice che "gli interessa solo spedire un assegno col suo nome sopra". I tempi sono così stretti - qualsiasi manovra di bilancio deve passare al vaglio di Camera e Senato - che trovare l'accordo nelle quattro settimane prima del voto è sempre più improbabile. Alla fine le compagnie aeree potrebbero farcela in extremis, i disoccupati no?

STATI UNITI
Il Wall Street Journal descrive come il settore del commercio negli Stati Uniti si sta riorganizzando per sopravvivere con un numero ridotto di punti vendita. Il traffico umano nei negozi, supermercati, grandi magazzini, continua a essere basso (meno 14% a settembre rispetto allo stesso mese nell’anno prima); il commercio online si è ritagliato una quota del 16% di tutte le vendite; e le carte di credito hanno soppiantato definitivamente il contante o gli assegni con un boom di pagamenti del +88%. Cinquemila negozi piccoli o grandissimi sono spariti da aprile.

Boeing prevede un ammanco di 200 miliardi di dollari di fatturato nell’arco dei prossimi dieci anni, per i tagli di acquisti da parte delle compagnie aeree.

La prossima settimana Apple presenta il suo iPhone progettato per il 5G. L’evento è annunciato martedì 13 ottobre alle dieci del mattino di Cupertino, California, l’una del pomeriggio sulla East Coast e le 19 in Italia.

Sono dure le conclusioni dell’indagine parlamentare su Big Tech. La Commissione antitrust della Camera di Washington ha rilasciato il suo rapporto finale sul potere di mercato di Amazon, Alphabet-Google, Apple e Facebook. Il rapporto di maggioranza firmato dai democratici denuncia i danni di un oligopolio e sostiene che bisogna smembrare i colossi separando le loro piattaforme da altre linee di business. La minoranza repubblicana nelle sue conclusioni separate insiste su un approccio duro dell’antitrust senza condividere la ricetta democratica; di suo aggiunge un attacco alla faziosità politica dei giganti digitali che accusa di essere ostili ai conservatori. Nessuno si aspetta conseguenze immediate sul piano legislativo, tutto dipenderà dai prossimi equilibri politici nel Congresso che uscirà dalle elezioni: il 3 novembre infatti non votiamo solo per il presidente, rinnoviamo l’intera Camera e un terzo del Senato.

Escono nuovi dettagli sul giro di vite dell’Amministrazione Trump contro i visti H1-B, permessi di lavoro a durata determinata (generalmente 4 anni rinnovabili), molto usati dalle aziende che assumono personale qualificato: per esempio gli informatici della Silicon Valley. Ci sono attualmente 583 mila titolari di questi visti, il 70% viene dall’India, il 15% dalla Cina. Il governo federale motiva le restrizioni con l’obiettivo di cessare l’importazione di manodopera qualificata a danno degli americani. “Milioni di americani sono senza lavoro, bisogna proteggerli dal rischio che le aziende preferiscano importare manodopera straniera pagandola meno”, spiega il sottosegretario al Lavoro Patrick Pizzella.   

Testo alternativo
La speaker della Camera americana Nancy Pelosi, intervistata al Campidoglio di Washington. 7 ottobre 2020

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ASIA
Che Trump abbia torto o ragione a chiamarlo “China virus”, la Cina sta pagando un prezzo a livello mondiale per il suo comportamento all’origine della pandemia. Continua a degradarsi l’immagine della Repubblica Popolare cinese nel resto del mondo. Lo rivela un’indagine demoscopica del Pew Research Center condotta in 14 Paesi industrializzati. Il 73% degli intervistati ha una visione negativa della Cina. Solo un’altra nazione ha un’immagine altrettanto negativa: gli Stati Uniti.

Si rafforza la campagna del governo cinese per educare la popolazione a sprecare meno cibo. Dietro c’è un problema acuto, la scarsità di diversi generi alimentari provocata dalla febbre suina e dalle inondazioni che hanno danneggiato i raccolti, a cui segue una forte inflazione nei prezzi alimentari.

CONCLUSIONE
Il mondo de-globalizzato del futuro sarà così fatto: le grandi aziende, o comunque tutte quelle che hanno una proiezione globale, dovranno ripensare le proprie catene produttive e logistiche sdoppiandole. Una per la Cina, una per il resto del mondo. Più semplice a dirsi che a farsi, ma probabilmente non c’è alternativa. Siamo alla vigilia di un cambiamento di paradigma di grande portata, equivalente a quello che accadde negli anni Novanta quando tutte le aziende dell’Estremo Oriente (giapponesi, taiwanesi, coreane) cominciarono a spostare produzioni in Cina. Distillo questo scenario dall’ultima puntata dell’inchiesta del Financial Times sulla nuova guerra fredda… che era anche il titolo del mio libro uscito esattamente un anno fa.

Da -  Outlook di Federico Rampini
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« Risposta #159 inserito:: Ottobre 24, 2020, 06:51:42 pm »

Outlook | Il vantaggio cinese

Federico Rampini - La Repubblica <rep@repubblica.it> Annulla iscrizione
16 ott 2020, 21:40 (2 ore fa)


Chi vende sui mercati asiatici, e soprattutto in Cina, oggi ha una marcia in più. Lo dimostra il gigante giapponese dell’abbigliamento Fast Retailing, che possiede il marchio Uniqlo. La veloce ripresa delle sue vendite in Cina consente a questo gruppo di prevedere un aumento del fatturato del 10% e un balzo dei profitti dell’83%.

Uniqlo ha aperto in Cina 59 nuovi negozi, oltre agli 800 che aveva già, e prevede di aprirne altri 100 entro la fine di quest’anno. L’obiettivo della marca giapponese è di arrivare a 3.000 punti vendita in Cina. Ma non è l’unica azienda nipponica a farsi trainare dalla locomotiva cinese: Toyota, Nissan, Shiseido e Kose sono tra i gruppi che hanno annunciato forti performance grazie alle vendite sul mercato cinese.

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STATI UNITI
La ripresa americana rallenta: è quel che dice l’ultimo dato sul mercato del lavoro, le nuove richieste settimanali d’indennità di disoccupazione sono risalite a 898.000. Tuttavia ci sono anche settori in preda a una frenesia di nuove assunzioni, e non solo quelli che tutti hanno in mente. Accanto ad Amazon che ha assunto 175.000 nuovi dipendenti e prevede di reclutarne altri 100.000 fra Stati Uniti e Canada, un settore dove l’occupazione sta aumentando è quello dei mutui per la casa, dove l’attività è ai massimi grazie ai bassi tassi d’interesse. Nella finanza assume anche il gigante dei fondi comuni d’investimento, Fidelity: 4.000 venditori.

Ripresa vivace per le vendite al dettaglio: +1,9%. Automobili, abbigliamento, articoli sportivi trainando l'aumento dei consumi.

Record storico per il deficit pubblico federale: 3.100 miliardi di dollari. Pari al 16% del Pil, è il deficit più elevato dalla seconda guerra mondiale.

Il nuovo iPhone 12 di Apple abilitato al 5G riceve un’accoglienza tiepida sui media americani. Lo scetticismo deriva da questo: la rete 5G al momento è una promessa, non una realtà. Checché ne dicano il chief executive di Apple Tim Cook, e il gruppo Telecom Verizon che ha partecipato al lancio, avere un iPhone 12 forse sarà utile fra un paio d’anni.

ASIA
Per la prima volta nella storia il Tesoro cinese vende bond direttamente agli investitori americani. A fronte di un’offerta di bond denominati in dollari pari a 6 miliardi, la domanda ha raggiunto 27 miliardi. I bond avevano scadenze di 3, 5, 10 e 30 anni con cedole nominali dallo 0,40% al 2,25%. Il rendimento del bond decennale era quindi superiore di 50 punti base rispetto a un Treasury Bond americano. Il collocamento è l’ultima conferma del fatto che la guerra fredda tra le due superpotenze per il momento non ha intaccato la forte integrazione finanziaria.

EUROPA
Gli ultimi risultati del gruppo francese Lvmh, suddivisi per marchi, danno un’idea di come i lockdown stanno colpendo – oppure no – le vendite del lusso. Louis Vuitton e Dior se la cavano magnificamente con vendite in aumento del 12%. I cognac Hennessy sono stabili grazie alla tenuta del mercato americano. I marchi più penalizzati sono lo champagne Moet Chandon, la divisione vendite nei duty free degli aeroporti, Bulgari e Tag Heuer, tutti segnati dalla scomparsa del turismo asiatico.

L’Europa è un po’ meno virtuosa di quel che dice, nella lotta al cambiamento climatico. I prezzi del carbone salgono ai massimi degli ultimi 12 mesi, in aumento del 50% rispetto ai minimi di maggio. A trainare la domanda di carbone è la Germania. Un rialzo nei prezzi del gas naturale lo rende competitivo per le centrali elettriche.

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« Risposta #160 inserito:: Ottobre 24, 2020, 06:53:04 pm »

Rep: Outlook di Federico Rampini
15 ottobre 2020

“Si possono resuscitare le città-fantasma?” La risposta è forse sì, se lo decidono i giganti di Big Tech. L’interrogativo è il tema di un’inchiesta del Financial Times che parte dall’attuale spopolamento – fisico, economico, culturale – di molti centri urbani. New York e Londra sono le metropoli che hanno subito il peggiore crollo di “traffico pedonale”, un indicatore che riassume tante altre cose: shopping, frequentazione di ristoranti e spettacoli, e così via. Lo smart working è la ragione principale per cui molti prevedono uno spopolamento durevole, e il problema riguarda anche San Francisco, Toronto, Parigi, Bruxelles e tante altre città.

Però un segnale in controtendenza è visibile proprio qui a Manhattan. Apple, Amazon, Google e Facebook stanno investendo in uffici nel cuore di New York. Per esempio Facebook ha rilevato la storica sede delle Poste vicino a Penn Station; Amazon per un miliardo ha comprato il palazzo sulla Quinta Avenue che fu dei grandi magazzini Lord & Taylor, per sistemarci 4.000 nuovi assunti. Visto che Big Tech ha quasi “previsto” questa crisi – in senso figurato, perché ha predisposto tutti gli strumenti per sopravvivere in un lockdown – il fatto che punti su New York dovrebbe rincuorarci.

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STATI UNITI
Amazon sta “sondando” la nostra preferenza tra privacy e comodità. Amazon One è una nuova tecnologia di riconoscimento biometrico, che identifica il palmo della nostra mano. A distanza, senza bisogno di appoggiare il polpastrello delle dita come si usava per le impronte digitali. Con Amazon One in futuro potremmo fare la spesa – e tante altre cose – senza aver in tasca il portafoglio, né una carta di credito, e neppure lo smartphone. Già ora viene sperimentato in alcuni negozi Amazon Go. Come sempre, la scelta sta a noi, se vorremo semplificarci la vita a costo di un’ulteriore cessione dei nostri dati personali.

Il nuovo iPhone 12 di Apple abilitato al 5G riceve un’accoglienza tiepida sui media americani. Lo scetticismo deriva da questo: la rete 5G al momento è una promessa, non una realtà. Checché ne dicano il chief executive di Apple Tim Cook, e il gruppo Telecom Verizon che ha partecipato al lancio, avere un iPhone 12 forse sarà utile fra un paio d’anni.

ASIA
La Cina si prepara al dopo elezioni americane con molto pessimismo. Chiunque vinca noi ci perdiamo, è l’analisi ricorrente a Pechino. In sostanza, gli esperti cinesi di geopolitica vedono con Trump una continuazione delle tensioni attuali. Biden porterebbe almeno all’inizio ad un clima un po’ meno burrascoso; ma nel medio termine sarebbe in grado di costruire una coalizione di alleati per cercare di ottenere dalla Cina altrettanto se non di più.

Xi Jinping sulle orme di Deng Xiaoping. Il presidente cinese ha ripetuto 28 anni dopo il celebre “viaggio al Sud” in cui Deng rilanciò la transizione al capitalismo dopo il trauma di Piazza Tienanmen. Xi ha segnalato la sua intenzione di privilegiare la città di Shenzhen come piattaforma del commercio globale. Il che non è una buona notizia per Hong Kong.

La capitalizzazione complessiva delle Borse cinesi ha superato per la prima volta i dieci trilioni, diecimila miliardi di dollari. La corsa delle azioni cinesi è stata sorretta dalle previsioni sulla crescita, che fanno della Cina il campione mondiale. Al tempo stesso però la Cina è affollata di giganti malati, come il gruppo immobiliare Evergrande con 120 miliardi di dollari di debiti. Evergrande ha avuto l’abilità di collocare il suo debito soprattutto all’estero, per cui un eventuale crac farebbe più male agli investitori occidentali che ai cinesi.

EUROPA
L’Europa ha ri-sorpassato gli Stati Uniti nel numero di contagi di coronavirus, tornando nella posizione del marzo scorso, cioè in testa a questa tragica gara.

Il debito pubblico globale è ormai vicino al 100% del Pil aggregato di tutte le nazioni. Questo balzo del debito è stato provocato da manovre di spesa statale anti-crisi del valore complessivo di 11.700 miliardi di dollari, pari al 12% del Pil mondiale. Nonostante queste cifre da capogiro il Fondo monetario internazionale manda un messaggio forte ai governi: non sarà necessario tornare a politiche di austerity, basterà la crescita a risanare i conti pubblici. E’ una svolta rispetto alla dottrina ortodossa che il Fmi difendeva ancora pochi anni fa. Tra le ragioni, c’è il bassissimo costo dell’indebitamento, coi tassi vicini allo zero. Bisogna “uscire dalla recessione a furia di investimenti”, è un’espressione usata dal Fondo.

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« Risposta #161 inserito:: Novembre 05, 2020, 11:20:10 am »

Outlook | Immaginando l'agenda di un'Amministrazione Biden

Posta in arrivo

Federico Rampini - La Repubblica
lun 2 nov, 23:05 (3 giorni fa)
a me

2 novembre 2020

Oggi questa newsletter è dedicata a un esercizio futurologico ad alto rischio. Questa campagna elettorale, pur nella sua totale anomalia (dall’impeachment al Covid alle proteste razziali alla maxi-recessione ha accumulato più shock di quanti ne accadono in vent’anni) ha avuto una sorprendente stabilità: dall’inizio alla fine Joe Biden è sempre rimasto in testa ai sondaggi. Dunque, ammesso che i sondaggisti non stiano per coprirsi un’altra volta di disonore, lavoro su questa ipotesi. Provo a immaginare l’agenda di un’Amministrazione Biden.

Biden ha generato aspettative enormi: dentro il suo partito “conteso” fra più anime; nel resto del mondo, dove alleati e avversari si attendono una politica estera molto diversa. Green New Deal o sanità pubblica, aiuti ai disoccupati o riforma dell’immigrazione, che cos’avrà la precedenza? La gerarchia d’importanza conta molto, perché un nuovo presidente ha un “capitale politico” limitato da spendere, la Storia insegna che spesso deve concentrarsi su una o due grandi riforme. E non sempre gli è data la libertà di scegliere. In questo caso il primo dossier che attende il presidente è già sulla sua scrivania: è la seconda (o terza?) ondata del Covid. Biden ha già indicato che intende varare una legge federale con l’obbligo d’indossare la maschera; darà aiuti agli Stati che sono in prima linea nell’affrontare le spese sanitarie di emergenza; aumenterà il coordinamento federale per i test e il tracciamento di massa; riporterà gli Stati Uniti dentro l’Organizzazione mondiale della Sanità per rafforzare la cooperazione con gli altri Paesi.

La seconda emergenza è l’economia. Biden ha promesso una nuova manovra di spesa pubblica (la quinta) dell’ordine di duemila miliardi di dollari, tutta da fare in “deficit-spending”, con aumento dell’indebitamento federale, perché solo così ha il massimo effetto anti-recessivo. Questa sarebbe composta di nuovi sussidi di disoccupazione (gli ultimi sono scaduti a fine luglio) che intervengono con un aiuto immediato per gli 11 milioni di senza lavoro; nuove erogazioni a fondo perduto per le piccole imprese a rischio di fallimento; e un corposo trasferimento dal Tesoro di Washington verso la finanza locale (Stati, città), visto che il grosso dei servizi sociali è gestito a livello decentrato. Questa maxi-manovra però non sarebbe molto dissimile da quelle che Trump concordò con la maggioranza democratica alla Camera. La vera impronta riformista di un'Amministrazione Biden sarebbe affidata alla seconda manovra di spesa pubblica, quella da varare nel medio termine. Anche questa viene stimata sui duemila miliardi di dollari. È qui che si collocano i progetti per le energie rinnovabili, gli investimenti in infrastrutture. Il segno ambientalista lo si vedrebbe nella selezione delle opere pubbliche: priorità ai trasporti collettivi, alle ferrovie, all’auto elettrica (quest’ultima da sostenere anche con un potenziamento capillare della rete di ricarica). Nel totale di duemila miliardi dovrebbero trovare posto anche un piano da 775 miliardi per migliorare le cure mediche all’infanzia e agli anziani; possibilmente “l’opzione statale” del servizio sanitario, da affiancare in concorrenza con le assicurazioni private. Un’altra voce da 700 miliardi dovrebbe essere il piano “Made in America”, che garantisca una priorità ai produttori nazionali per ogni commessa pubblica (è l’equivalente democratico del protezionismo di Trump).

La seconda maxi-manovra di spesa non verrebbe finanziata in deficit. Qui subentra la manovra fiscale. Biden ha promesso di non aumentare le tasse su chi guadagna meno di 400.000 dollari annui per nucleo familiare, e farà fatica a reperire i 1.400 miliardi di nuovo gettito a cui punta, prelevandoli unicamente dai più ricchi. L’obiettivo comunque è questo: una contro-riforma rispetto a quella varata da Trump, per tornare a spostare il peso dell’imposizione sulle grandi imprese e sui ceti più ricchi. La tassa sugli utili societari dovrebbe salire dal 21 al 28%. In aumento anche le aliquote sui redditi personali sopra i 400.000 dollari, le tasse sul capital gain (39,6% sui redditi sopra il milione), i contributi sociali sui salari molto alti. Tra le altre riforme sociali di segno perequativo dovrebbe esserci il diritto a 12 settimane di congedo parentale e un allargamento del diritto all’assenza per malattia remunerata. In omaggio a Bernie Sanders: aumento del salario minimo legale, da 7,25 a 15 dollari l’ora. In omaggio a Elizabeth Warren: un ritorno a regole più stringenti su Wall Street, e il potenziamento dell’authority per la protezione dei piccoli risparmiatori.

Non c’è solo l’economia, nell’albo dei cambiamenti da infilare nei primi cento giorni. Biden fin dal giorno zero potrebbe disfare con un tratto di penna molti dei “decreti esecutivi” del suo predecessore: in particolare tutti gli atti amministrativi con cui la Casa Bianca negli ultimi quattro anni ha smantellato le regole a tutela dell’ambiente, ha liberalizzato le trivellazioni petrolifere, ha restituito massima libertà di azione all’industria del petrolio, del gas, del carbone. Una particolare categoria d’immigrati tornerebbe a ricevere una protezione federale: sono i Dreamers, come vengono chiamati gli stranieri che arrivarono negli Stati Uniti quando erano bambini, e vivono sotto la minaccia dell’espulsione verso Paesi d’origine nei quali non hanno radici. Un’altra promessa urgente è quella di ricongiungere le famiglie separate durante gli arresti alla frontiera col Messico. Cesserebbero anche i ricorsi del Dipartimento di Giustizia contro le città-santuario che proteggono gli immigrati clandestini; verrebbero interrotte le azioni giudiziarie in atto per svuotare la riforma sanitaria Obamacare.

In politica estera, uno dei primi annunci sarà il ritorno degli Stati Uniti dentro gli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. E con ogni probabilità un neo-presidente democratico metterebbe in agenda un primo viaggio all’estero con destinazione l’Europa: gli alleati atlantici tornerebbero a godere di un’attenzione speciale, anche ai fini di costruire una coalizione d’interessi comuni per contrastare l’espansionismo della Cina.

I cento giorni di Biden sono un libro dei sogni, avranno una dura verifica con la realtà. Anzitutto, la fattibilità di quelle riforme dipende dai rapporti di forze alla Camera e al Senato; nonché dal possibile “sabotaggio” di alcuni provvedimenti da parte della Corte suprema. Poi bisogna fare i conti con le differenze interne al partito democratico, tra l’ala ultra-radicale, che vuole un New Green Deal molto ambizioso e una politica dell’immigrazione “no-border”; e la pancia moderata del partito che vuole riportare l’attenzione verso il mondo del lavoro. Infine c’è la lezione del primo New Deal: cambiò l’America ma non curò la Depressione, che fu sconfitta solo con la spesa bellica della seconda guerra mondiale.

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« Risposta #162 inserito:: Novembre 05, 2020, 11:18:46 pm »

Outlook | Chi ha votato per il capitalismo

Posta in arrivo

Federico Rampini - La Repubblica
19:48 (3 ore fa)
a me

5 novembre 2020

Il risultato finale dell’elezione è appeso al conteggio finale di alcuni Stati, nonché ai ricorsi che Donald Trump ha presentato per trascinarci ai tempi supplementari con le battaglie legali. Però ci sono già delle lezioni importanti da questo voto, utili anche per capire l’America e gli scenari del nostro futuro. Ieri ho dedicato questa rubrica ad alcune divergenze strutturali, sistemiche, fra Stati Uniti e Cina. Oggi vi ripropongo questo esercizio con uno sguardo all’Europa. Questa elezione conferma alcune differenze valoriali e culturali tra le due sponde dell’Atlantico. Ne anticipo una, che non dovrebbe sorprenderci ma viene spesso sottovalutata: l’America ha una diffusa cultura capitalista, molti cittadini qui (non necessariamente ricchi) riconoscono la centralità dell’impresa come motore del benessere collettivo. Se si vuol capire quella metà di America – o quasi – che vota repubblicano, questo è un dato importante.

A prescindere da chi vincerà, questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media di riferimento (come Cnn, New York Times, Washington Post). Ci hanno raccontato una vasta reazione di rigetto verso il “mostruoso” Trump, che non c’è stata. Ci hanno annunciato svolte epocali, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente. Prima lo scandalo del Russiagate, poi l’impeachment, poi ancora il coronavirus e la recessione conseguente, poi le proteste contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd, infine gli scandali fiscali e lo scontro sulla Corte suprema. La geografia elettorale che esce dalle urne invece è di una eccezionale stabilità. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto da allora. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, con i suoi consensi che oscillano attorno al 45% a livello nazionale o poco sopra, ma quel patrimonio di consensi è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo, perché potrebbe assegnare la Casa Bianca a Joe Biden, è la parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. E’ la “missione compiuta” del vecchio Joe, forse la ragione principale per cui molti hanno visto in lui il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Non va dimenticato però che la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump, e questo spiega per esempio perché nel Midwest il presidente ha conservato l’Ohio, dove il 56% degli operai iscritti al sindacato ha votato per lui. Quella quasi mezza America che lo vota condivide la sua narrazione sul coronavirus: la pandemia non è colpa sua, se ha fatto degli errori non sono più gravi di quelli fatti da certi governatori democratici (o governanti stranieri), in compenso ha ragione a non voler paralizzare l’economia nazionale a oltranza perché i danni dei lockdown rischiano di essere ancora più micidiali del bilancio della pandemia.


Un dato importante riguarda il voto etnico, che etnico non è affatto. La narrazione di un’America anti-razzista che vota a sinistra contro un’America razzista che vota a destra, è una caricatura. Trump ha avuto un successo decisivo tra gli ispanici in Florida, è questa la ragione per cui quello Stato-chiave non è andato ai democratici. L’idea che gli ex-immigrati siano “naturalmente” di sinistra è una delle illusioni del partito democratico. Gli ex-immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico, diffidano di una sinistra che istintivamente “cura” ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere a tutti.

Trump è andato meglio del previsto anche tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla “rivoluzione anti-razzista” di Black Lives Matter. Certi afroamericani, come tanti ispanici e tanti bianchi, hanno considerato molto positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia americana da questa crisi (come sembra dimostrare il rimbalzo del Pil nel terzo trimestre). In quanto alle proteste anti-razzismo, si sono rivelate un autogol per la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi-gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, il giorno dell’elezione voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan "togliamo fondi alla polizia", pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è diventato realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles.


Perfino nella ultra-democratica California, che continua a votare a sinistra, tre referendum hanno dato dei segnali in controtendenza rispetto all’immagine progressista di quello Stato. Ha vinto la flessibilità del lavoro nella Proposition 22: Uber e altre aziende simili (come Instacart, che fa consegne a domicilio della spesa alimentare) non saranno tenute a trattare i propri lavoratori come dei dipendenti stabili. Ha perso un altro referendum che voleva reintrodurre la affirmative action nelle università, cioè le ammissioni preferenziali in base a quote etniche, per favorire minoranze come gli afroamericani (ha vinto qui la resistenza degli asiatici-americani, di gran lunga la percentuale maggiore di studenti). È quindi sconfitta la politica "identitaria" di una sinistra che pensa di governare l’America sfruttando il risentimento razziale, la pretesa di un risarcimento per tutti i torti subiti da due secoli. È in bilico, ma rischia di perdere, anche un referendum che puntava ad aumentare la pressione fiscale sugli immobili. Perfino la California dunque mostra qualche dubbio sui dogmi della sinistra di governo. California e New York sotto i governanti democratici hanno raggiunto livelli di pressione fiscale europei (o anche superiori, se s’includono le tasse sulle case); eppure hanno il record dei senzatetto, e hanno servizi sociali scadenti. Hanno continuato ad aumentare le tasse ma non sono paradisi scandinavi. Prima ancora che dilagasse lo smartworking da pandemia, molti californiani e newyorchesi avevano cominciato a emigrare verso Stati con minore pressione fiscale.

I media, i sondaggisti, i dirigenti democratici come la presidente della Camera Nancy Pelosi avevano alimentato il sogno di un’Onda Blu che doveva consegnare ai democratici la Casa Bianca, la maggioranza al Senato, un ulteriore aumento di seggi alla Camera, e magari espugnare il Texas. Questo dimostra quanto fossero incapaci di capire la realtà del Paese. Ora i mercati festeggiano lo scenario di una presidenza Biden con un Senato repubblicano: è un equilibrio che impone compromessi permanenti, obbliga a governare al centro. Per tradurlo nel linguaggio della politica europea, è quasi l’equivalente di un governo di coalizione. L’America che crede nella centralità delle imprese, chi pensa che sarà l’iniziativa privata a trainarci fuori da questa depressione, chi non vuole più tasse e più burocrazia, terrà sotto controllo una presidenza democratica. La sinistra del partito, la sinistra delle università e dei media, continuerà a descrivere questa mezza America come una tribù di fascisti, ignoranti, razzisti. Dopo la sconfitta dei suoi sogni di Onde Blu e di grandi New Deal, si consolerà cullandosi nella certezza di una superiorità morale. Trump, se si conferma la sua sconfitta, griderà al golpe e si trasformerà nel capo di un’opposizione bellicosa, incivile, preparandosi a una campagna per il 2024. Non sono ottimista sulla qualità della democrazia americana e del dibattito civile in questo Paese. La forza dell’economia americana però è fatta di altri ingredienti, ed è saggio non sottovalutarli. Non considero particolarmente significativo l’aumento delle Borse, certo non riflette l’economia reale. Però qualcosa gli investitori hanno intuito, sul fatto che in questa elezione chi ha votato Trump e ha difeso la sua maggioranza al Senato, ha votato per il capitalismo.

 
New York, 5 novembre 2020
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« Risposta #163 inserito:: Novembre 14, 2020, 03:17:36 pm »

Outlook | Se il vaccino serve alle aziende a rifarsi l'immagine

Federico Rampini - La Repubblica
13 nov 2020, 21:44 (17 ore fa)
A me


Dopo l’annuncio della Pfizer sul suo vaccino “efficace al 90%”, l’attesa di una svolta e le ripercussioni positive che avrebbe sull’economia, aumenta l’attenzione su tutto ciò che deve funzionare adeguatamente per la vaccinazione di massa. Pfizer, che produrrà il vaccino messo a punto dal laboratorio tedesco BioNTech, prevede di consegnarne già 50 milioni di dosi entro la fine di quest’anno. La metà andrà agli Stati Uniti. Poiché è un vaccino bi-dose (bisogna fare il richiamo dopo tre settimane), questo significa che saranno immunizzati 12,5 milioni di americani entro la fine dell’anno, su una popolazione di 325 milioni. Priorità, naturalmente, al personale sanitario e ai soggetti più a rischio. Pfizer però – come le altre multinazionali farmaceutiche che potrebbero mettere a punto vaccini alternativi – ha un ruolo solo nella produzione. Trasporto, distribuzione, inoculazione, dipendono da altri soggetti: qui negli Stati Uniti una rete di attori pubblici, federali e statali, più i protagonisti della sanità privata. In parallelo bisogna rifornire ospedali, cliniche, ambulatori e farmacie con una quantità adeguata di siringhe, aghi, tutto l’occorrente per le vaccinazioni. Bisogna anche persuadere una maggioranza di americani che la vaccinazione è indispensabile e sicura. Il trasporto e la conservazione pongono problemi particolari perché il vaccino Pfizer va conservato a temperature polari e non tutti gli ambulatori dispongono di congelatori adeguati. La logistica delle vaccinazioni di massa però in passato ha funzionato abbastanza bene negli Stati Uniti. La vaccinazione contro l’influenza stagionale è praticata da anni e raggiunge una percentuale elevata di americani; quest’anno era pronta in largo anticipo (all’inizio di settembre), gratuita come sempre, e disponibile anche nelle farmacie.

L’impatto del coronavirus sull’industria farmaceutica mondiale, ben al di là del caso Pfizer, sarà positivo anche se non così redditizio come si crede. I vaccini non sono mai stati tra i business più importanti per Big Pharma, che guadagna molto di più su altri prodotti. Anche perché l’obbligatorietà di molte vaccinazioni, e le campagne di massa sotto impulso dei governi, ne fanno un settore molto regolato anche nei prezzi, il che riduce i margini di profitto. Gli Stati Uniti hanno contribuito con generosità alle spese per la ricerca del vaccino anti-Covid, erogando due miliardi di dollari a testa alle aziende Pfizer, Moderna, Sanofi (quest’ultima è francese), 1,6 miliardi a Novavax, 1,5 a Johnson&Johnson, 1,2 ad AstraZeneca. Questo ha fatto dire ad alcune associazioni di difesa dei consumatori che vengono socializzati i rischi (nel senso che le spese di ricerca sono in gran parte a carico del contribuente) mentre i profitti restano privati. Comunque, per avere un’idea del business dei vaccini, quello anti-influenzale rappresenta un mercato da 5 miliardi di dollari annui, una frazione modesta del business farmaceutico. Per molte aziende di questo settore l’opportunità più interessante è un’altra: rifarsi l’immagine. Il coronavirus – esaltando il ruolo salvifico dell’industria farmaceutica – potrebbe rappresentare la più importante operazione di relazioni pubbliche da molti decenni. Infine va ricordato che Big Pharma non è solo un business occidentale. Un altro effetto collaterale di questa pandemia sarà che avremo scoperto l’importanza globale dell’industria farmaceutica cinese. Ai grandi nomi come Sinovac si sono affiancate oltre 60 società che hanno approfittato del boom di attività per quotarsi in Borsa raccogliendo 16,3 miliardi di dollari dall’inizio di quest’anno. L’indice azionario delle aziende farmaceutiche cinesi è in rialzo del 32% dall’inizio dell’anno. 

 Da - Repubblica
New York, 13 novembre 2020
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« Risposta #164 inserito:: Novembre 14, 2020, 05:35:02 pm »

Rep: Outlook di Federico Rampini

12 novembre 2020

Il migliore dei mondi si trova in Estremo Oriente, almeno dal punto di vista economico. Un’altra prova del dinamismo cinese è il record di vendite segnato dal gigante del commercio online Alibaba: nel “giorno dei single”, una festa inventata a scopi puramente commerciali, l’Amazon cinese ha venduto online per l’equivalente di 75 miliardi di dollari. Il Singles’ Day fu inventato da Jack Ma, fondatore di Alibaba, come risposta al Cyber Monday americano, il giorno dei supersaldi online che segue il Thanksgiving. Ma l’allievo ha superato il maestro e ormai le vendite del Singles’ Day cinese sono superiori a quelle dei saldi digitali americani.

L’Estremo Oriente è assai meno felice se dall’economia si allarga lo sguardo alla politica e ai diritti umani. Hong Kong sotto il tallone di Xi Jinping continua a perdere libertà, come si è visto nell’attacco ai pochi esponenti democratici regolarmente eletti nella legislatura locale. Un’altra prepotenza cinese si consuma ai danni di Taiwan. L’isola è un modello davvero esemplare per il successo con cui ha bloccato la pandemia. Eppure il governo di Pechino riesce a impedire – per motivi politici – la sua inclusione nell’Organizzazione mondiale della sanità. Un abuso assurdo, perché il mondo intero avrebbe bisogno di studiare i metodi applicati da Taipei.

STATI UNITI
Il vaccino anti-Covid della Pfizer ha già fatto un miracolato. È il chief executive della Pfizer. In un solo giorno ha guadagnato 5,6 milioni di dollari. Albert Bourla, amministratore delegato della casa farmaceutica americana dal 2019, come molti top manager statunitensi usa un programma automatico di vendite quando le azioni che ottiene come bonus e stock option superano un certo livello di prezzo. All’annuncio di lunedì secondo cui il vaccino sarebbe efficace al 90%, l’azione Pfizer ha guadagnato il 15% e Bourla ne ha vendute 132.508 al prezzo di 41,94 dollari.

I risparmi degli americani continuano ad aumentare, ma possono fidarsi di chi li gestisce? Ancora una volta le cosiddette “gestioni attive” perdono la gara con i fondi d’investimento che seguono automaticamente e passivamente degli indici. È ormai da molti anni che questa gara continua a dare lo stesso risultato: i gestori dei fondi e le gestioni patrimoniali prelevano commissioni esose, e spesso questo basta a fare la differenza. Di conseguenza continuano a salire i fondi amministrati da gruppi come Vanguard la cui specialità sono fondi-indice, agganciati a una media-paniere, che seguono automaticamente il mercato e hanno commissioni irrisorie visto che non devono comprare e vendere continuamente. Oggi torna sul tema il Financial Times con un lungo confronto tra le performance.

ASIA
Altro segnale della ripresa cinese: il rialzo nelle quotazioni del caucciù o gomma naturale: +50% dai minimi dell’anno sulla Borsa delle materie prime di Singapore. Questo materiale beneficia della ripresa del mercato dell’automobile in Cina (la gomma naturale è ancora usata nella produzione di pneumatici), oltre che per i guanti usati dal personale sanitario.

Ma c’è almeno un segnale che la Cina subisce tensioni sociali: si moltiplicano gli scioperi spontanei tra i fattorini delle consegne. Il boom del commercio online, in Cina come altrove, si basa non solo sulla tecnologia ma anche sulla manodopera umana. Nel Paese le condizioni di lavoro, i salari, i diritti di queste categorie sono ancora peggiori del precariato americano ed europeo. Uno degli epicentri della rivolta è la provincia dello Hunan dove i fattorini delle consegne hanno smesso di recapitare i pacchi per protesta, denunciando di non aver ricevuto salari arretrati.

EUROPA
Il Regno Unito si doterà di una nuova normativa per bloccare le acquisizioni straniere in 17 settori strategici tra cui energia, trasporti, difesa, intelligenza artificiale. Le barriere inglesi sono rivolte soprattutto agli investimenti cinesi. Londra si adegua alle nuove restrizioni già adottate da Germania, Francia e Italia, con un regime che si avvicina a quello già in vigore negli Stati Uniti dove le acquisizioni da parte di aziende estere vanno sottoposte al vaglio del Committee on Foreign Investment in the US, un organo in cui sono rappresentati Casa Bianca e Congresso.

Nella pancia delle banche europee si sta accumulando una quantità enorme di “bad loans”, crediti incagliati o inesigibili. Per il momento gli aiuti pubblici e la liquidità fornita dalla BCE stanno nascondendo il problema, che rischia di esplodere a scoppio ritardato. Ma intanto la normalizzazione delle politiche economiche europee è rinviata sempre più in là: le regole del Patto di stabilità non torneranno in vigore prima del 2022.

CONCLUSIONE
Nonostante sia anch’essa colpita dalla seconda ondata della pandemia, la Germania resta la prima della classe in Europa. Il dato che conta è la mortalità da coronavirus, la tabella più aggiornata con i confronti internazionali è della Johns Hopkins University di Baltimora. Regno Unito, Stati Uniti e Italia hanno livelli di mortalità simili, sopra i 70 decessi per centomila abitanti. La Francia è poco sotto con 63. La Germania è molto al di sotto con 14 morti di Covid ogni centomila residenti. I decessi tedeschi in proporzione alla popolazione sono un quinto di quelli italiani, inglesi o americani. Uno degli indicatori che distinguono nettamente la Germania dalle altre grandi nazioni europee è la disponibilità di posti ospedalieri attrezzati per emergenze e casi gravi, camere di rianimazione dotate di apparecchi respiratori. La Germania ne ha il doppio rispetto alla Francia e il dislivello è ancora superiore rispetto all’Italia. Poco prima che scoppiasse la pandemia, uno dei più autorevoli think tank tedeschi, la Bertelsmann Foundation, aveva denunciato l’eccesso di capacità inutilizzata della sanità tedesca come uno spreco enorme, proponendo tagli. Per fortuna i politici tedeschi decisero di non ascoltarla. Da notare infine che lo stesso indicatore sulle camere ospedaliere attrezzate per le emergenze vede due Paesi al mondo in condizioni ancora migliori della Germania: il Giappone e la Corea del Sud. Guarda caso i loro tassi di mortalità sono un decimo di quelli tedeschi: un decesso su centomila abitanti.

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