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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 194884 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Ottobre 28, 2012, 11:04:21 pm »

Scenari

Schiaffo ai moderati per rovesciare il tavolo

Ora Berlusconi potrebbe optare per un partito «di guardie scelte» per fronteggiare la «repubblica giustizialista»


Le convulsioni berlusconiane raccontano la parabola di un leader corroso da una miscela di voglia di rivincita, e di impotenza; e la tentazione di scaricare frustrazioni e paure sul governo di Mario Monti. La minaccia di togliere la fiducia al premier è una mano tesa al leghismo e alle sue parole d'ordine più viete contro l'Europa e la Germania. Ma è anche la rinuncia ad una linea moderata; e dunque l'allontanamento da ogni ipotesi di dialogo con quel centro allo stato nascente che ieri, forse, ha fatto un altro passo avanti.

C'è da chiedersi se Berlusconi abbia irrigidito la sua posizione a causa della sentenza di condanna in primo grado a quattro anni per frode fiscale, emessa l'altro ieri dal tribunale di Milano. Oppure se quel verdetto sia stato solo il pretesto per imboccare una campagna elettorale giocata contro Monti e a sostegno della teoria di un «complotto internazionale» dal quale sarebbe nato l'Esecutivo dei tecnici. È evidente che l'ex premier ha scelto di assecondare la «pancia» del Pdl; e di cavalcare tutti i malumori, giustificati e no, che lievitano di fronte ad una politica economica tesa a imporre misure dolorose per ridare all'Italia credibilità internazionale e una base solida per non disperderla.

Più che una scelta lucida studiata per ricompattare il proprio partito, quella del Cavaliere suona come una mossa estrema per evitarne l'esplosione. Ma i silenzi e gli imbarazzi di alcuni degli uomini a lui più vicini lasciano capire che si tratta di un azzardo. Quando ieri si è saputo che avrebbe tenuto una conferenza stampa per ribadire di volere restare «in campo», ci sarebbero state discrete pressioni dal Pdl affinché desistesse. L'idea che Berlusconi avesse il terzo ripensamento in pochi mesi, ricandidandosi, più che entusiasmi ha provocato un'epidemia di brividi di imbarazzo fra i suoi. E in altri, gelo, risate e ad alta voce: è successo nella platea dei giovani imprenditori a Capri, e in quella di Stresa dove si erano dati appuntamento centristi di lungo corso o in pectore.

L'area che tende a consolidarsi attorno all'Udc di Pier Ferdinando Casini e di Gianfranco Fini, e che comprende movimenti come l'Italia Futura di Luca di Montezemolo (ieri rappresentato dal coordinatore Federico Vecchioni) o le Acli di Enrico Olivero, per ora ha un solo vero punto in comune: il giudizio positivo nei confronti di Monti; la proiezione europea; l'esigenza di non azzerare il patrimonio di affidabilità ricostruito in questi mesi dal presidente del Consiglio dopo gli anni berlusconiani; e la sua conferma a Palazzo Chigi per non buttare via dopo le prossime elezioni i risultati, per quanto controversi, raggiunti in dodici mesi. È un'analisi condivisa dal presidente dell'Antimafia Giuseppe Pisanu e, con cautela, anche dall'ex leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, entrambi presenti ieri a Stresa.

Casini ha ribadito che la credibilità all'estero dell'attuale premier è «incomparabile» anche rispetto alla candidatura del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Mentre però Bersani si propone come premier sottolineando il ruolo positivo svolto da Monti in questi mesi, Berlusconi lo liquida due volte: sia come possibile presidente del Consiglio non candidato ma «chiamato» dopo il voto del 2013, sia con la bocciatura della sua politica. La cosa singolare è che ultimamente il Pdl appariva deciso ad appoggiarlo e a rivendicare questa scelta. Evidentemente, però, è dominato da una confusione che produce contraddizioni, scarti, faide. E l'attacco di ieri, nello stesso giorno in cui a Roma si celebrava un «no Monti day», una sorta di giornata della rabbia organizzata dall'estrema sinistra e dai «black bloc», salda uno strano fronte: un «partito trasversale» antigovernativo, accomunato dalla protesta; e che mette nell'angolo la filiera «montiana» che pure esiste nel Pdl.

Si tratta con ogni probabilità dell'ennesimo passaggio tattico: una mossa da decifrare e verificare quando sarà più chiaro se prenderà corpo una riforma elettorale; ed eventualmente quale. Se, come parrebbe, si arrivasse a fine legislatura con un nulla di fatto, resterebbe il sistema attuale: sebbene con un decreto che dovrà correggere la parte sul premio di maggioranza, perché c'è una sentenza della Corte costituzionale che impone di ridefinire il «tetto» raggiunto da una coalizione per farlo scattare. Questo porterebbe ad una imitazione dei confusi cartelli elettorali che in questi anni hanno permesso di vincere le elezioni ma non di governare. Se invece alla fine spuntasse una riforma in senso proporzionale, crescerebbe la spinta a correre ognuno per sé.

E Berlusconi potrebbe optare per un «partito di guardie scelte» chiamato a combattere magari dall'opposizione contro quella che definisce «repubblica giustizialista», confidava ieri in privato un esponente del Pdl. Per paradosso, le elezioni sono dietro l'angolo, eppure lontanissime: almeno nel senso che i colpi di scena, anche i più inquietanti, stanno appena cominciando. In palio ci sono non tanto lo scalpo di Berlusconi o dei suoi avversari, ma i voti del centrodestra. Fra oggi e domani, dal ginepraio elettorale siciliano arriveranno i primi indizi. E prevedibilmente i primi contraccolpi.

Massimo Franco

28 ottobre 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_28/schiaffo-ai-moderati-per-rovesciare-il-tavolo-franco_ae13ac74-20cd-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Novembre 17, 2012, 09:09:55 pm »

LE ELEZIONI E IL GOVERNO

Una soluzione di buon senso


Non sarebbe facile spiegare all'Europa, ai mercati finanziari e all'opinione pubblica italiana una crisi del governo di Mario Monti scaturita da una lite sulla data del voto in tre Regioni travolte dagli scandali. I primi ad avere qualche imbarazzo nel conferire razionalità a quella che apparirebbe una follia politica sarebbero probabilmente gli stessi partiti della maggioranza. Il sussulto muscolare, seppure in tono minore, ingigantirebbe la loro immagine di debolezza; e il distacco da una realtà tuttora in bilico, ostaggio della crisi economica.
Si coglie uno scarto vistoso e preoccupante fra una forte pressione internazionale, europea ma anche statunitense, a garantire continuità alle scelte di politica economica dell'Italia; e la disinvoltura, finora solo verbale, con la quale c'è chi ritiene di liquidare un'esperienza di governo per calcoli elettorali e puntigli contrapposti. È come se l'avvicinamento alle urne portasse all'allontanamento dalla ragionevolezza: mentre ci si aspetterebbe il contrario. Eppure, è doveroso sperare che alla fine un compromesso si trovi; e che si eviti un esito traumatico della legislatura.

Altrimenti, andrebbe sciupato il tentativo compiuto negli ultimi dodici mesi di costruire pazientemente un altro percorso basato sulla prevedibilità, intesa come affidabilità, dell'Italia. Scaricare in extremis su Palazzo Chigi le convulsioni e le ambizioni dei partiti sarebbe il regalo finale a quella che, a torto o a ragione, viene definita antipolitica. Il Quirinale ritiene che ci siano alcuni mesi di legislatura da riempire in modo costruttivo e assennato: in primo luogo l'approvazione della legge di Stabilità e, se c'è un residuo di consapevolezza, la riforma del sistema elettorale.

Onorando questi due impegni, probabilmente il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe anche acconsentire a sciogliere con un minimo di anticipo le Camere. Quello che vuole evitare a tutti i costi, è un'accelerazione che non sia condivisa e che ponga le basi per un altro periodo di instabilità dopo le elezioni. In caso di accordo, il capo dello Stato forse accorcerebbe di qualche settimana anche il suo settennato. Si sa che, precedenti alla mano, vuole lasciare la scelta del prossimo presidente del Consiglio al suo successore che verrà eletto dal nuovo Parlamento.

Può darsi che da qui a quel momento avvengano fatti nuovi, oggi imprevedibili: compresa l'ipotesi che Monti renda più esplicita la propria disponibilità a restare a Palazzo Chigi dopo il voto, come sperano la Casa Bianca di Barack Obama, le istituzioni finanziarie internazionali e le principali cancellerie europee. Ma senza gesti di responsabilità e di duttilità da parte di tutti fin dai prossimi giorni, il pericolo di una regressione diventa concreto. Ed è bene non farsi illusioni: un azzardo incomprensibile sarebbe sanzionato duramente a livello internazionale e dall'elettorato. In una fase così drammatica, il gioco del cerino brucerà le dita a tutti: e non solo le dita.

Massimo Franco

16 novembre 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_16/soluzione-buon-senso-franco_ef0750f2-2fb7-11e2-9676-750af71025bf.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Novembre 23, 2012, 05:06:26 pm »

ELEZIONI IN SICILIA - L'ANALISI

Il non voto che peserà in primavera

Il risultato estremizza quella che potrebbe rivelarsi una tendenza nazionale


La tentazione di vedere nel risultato siciliano un'anticipazione di quello delle prossime elezioni politiche è talmente gonfia di implicazioni che va tenuta un po' a freno. E non tanto perché il partito più votato dell'Isola è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. La perplessità nasce da quel 52,56 per cento di persone che sono rimaste a casa. Forse è possibile azzardare un'ipotesi: il risultato estremizza quella che potrebbe rivelarsi una tendenza nazionale. È la voragine lasciata dalla triste decadenza di Silvio Berlusconi e del suo sistema di potere, che si traduce per ora in astensionismo, frammentazione e derive populiste. E riconsegna un'Italia senza vere maggioranze. È una prospettiva da non augurarsi, ma neppure da rimuovere: se non altro per non rimanere spiazzati. Chiunque vinca, a meno che non sia legittimato da numeri plebiscitari, ormai deve cominciare a pensare non solo alla propria maggioranza, ma alle sue dimensioni e alla sua qualità. E dunque porsi il problema di rappresentare e dare voce ai «non elettori» almeno quanto agli elettori. La Sicilia non si limita a radere al suolo un sistema dei partiti passato in poco più di un decennio dai 61 consiglieri a zero ottenuti dal centrodestra nel 2001, ad una realtà in cui nessuno si avvicina al 20 per cento.

Offre anche un panorama dei problemi con i quali l'intero Paese potrebbe fare i conti entro qualche mese.

Una legge elettorale che non produce stabilità. Coalizioni vittoriose solo sulla carta. Corpose opposizioni dai connotati antieuropei. Classi dirigenti un po' gattopardesche, un po' nuove, comunque disomogenee, chiamate a governare situazioni di debito e una crisi economica inquietanti. Verrebbe da dire che il microcosmo della Sicilia fornisce la controprova più traumatica della prospettiva di un'Italia condannata all'ingovernabilità; e dunque costretta a riflettere sulla possibilità che Mario Monti rimanga a Palazzo Chigi, seppure a capo di un governo politico, per dare copertura e legittimità internazionale a un Parlamento sfrangiato. Che l'Italia rimanga in una situazione precaria, è indubbio.

A Madrid è stato chiesto al premier se la salita di ieri dello spread (lo scarto fra interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi) sia attribuibile alle minacce scomposte che sabato scorso Silvio Berlusconi ha lanciato contro il governo. Con un misto di ironia e understatement, Monti ha risposto: «Non ci avevo pensato». E quando gli hanno domandato che accadrebbe se il Pdl gli togliesse la fiducia, la replica è stata: «Chiedete alle forze politiche e ai mercati finanziari». Ma la sensazione è che quanto sta succedendo vada al di là del ruolo di Monti, e ridimensioni perfino il successo del Movimento 5 Stelle: nel senso che Grillo copre certamente un vuoto di offerta politica, ma solo in parte.

C'è piuttosto da chiedersi quale sia il percorso misterioso grazie al quale i partiti riusciranno a portare alle urne milioni di elettori sfiduciati, ormai oltre la soglia dell'indignazione e della protesta fine a se stessa. L'analisi-scorciatoia, adottata soprattutto dai settori più berlusconiani di un Pdl in brandelli e con la guerra in casa, è quella che scarica la responsabilità dell'astensionismo record su una crisi sociale aggravata dal governo Monti. Non stranamente, l'analisi tende a coincidere con quella della Lega; di un'Idv senza voti e con un Antonio Di Pietro vacillante; e dell'estrema sinistra che non ha intercettato né il non voto, né i consensi di Grillo. La realtà sembra più semplice.

Costringe tutti i partiti a una rassegna non di comodo dei limiti e dei ritardi mostrati negli ultimi anni; e magari a cercare un rimedio approvando qualche simulacro di riforma, a cominciare da quella del sistema elettorale. Altrimenti, al massimo possono diventare un argine all'ingovernabilità, come è accaduto in Sicilia con l'alleanza vincente fra Pd e Udc; ma con una legittimazione indebolita dalla maggioranza assoluta degli astenuti. Senza basi solide, e senza una visione lucida delle sfide del futuro, qualunque argine resiste poco. E rischia di essere spazzato via da un distacco dalla democrazia, del quale la Seconda Repubblica fu un antidoto nel 1994; e di cui oggi, invece, è diventata la causa principale.

Massimo Franco

30 ottobre 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_30/non-voto-pesera-in-primavera-franco_5153e594-2258-11e2-a409-d9bbe43caf7e.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Dicembre 06, 2012, 04:53:43 pm »

LA NOTA

Aumenta il pericolo di riproporre alleanze che non danno stabilità

Lo stallo sulla riforma elettorale accentuato dal caos nel Pdl


La marcia verso alleanze simili a quelle del 2008 comincia ad apparire incredibilmente possibile. Da una parte uno schieramento di sinistra ritoccato e corretto per vincere, ma non si capisce bene se anche per governare; dall'altra l'esercito sbandato del centrodestra trionfante quattro anni e mezzo fa, e probabilmente capitanato ancora da quel Silvio Berlusconi costretto a gettare la spugna a fine 2011 per evitare il baratro finanziario. Sarebbe un esito fallimentare della legislatura, eppure rischia di prendere corpo, rinviando la riforma elettorale. La fotografia di ieri è quella, sconsolante, di una palude nella quale stagnano impotenza e minacce al governo.

Il Parlamento ha rinviato a oggi o all'ennesima prossima settimana una legge invocata e mancata da tutti. E l'ipoteca di un Pdl che dopo ore di riunione non sa ancora come si presenterà alle elezioni e con quale leader, proietta sul finale di legislatura il pericolo di colpi di coda. L'insistenza con la quale Berlusconi chiede di votare a febbraio per le Regionali, già fissate, e per le Politiche, fa pensare al tentativo di riagganciare la Lega. Può darsi che le date cambino ancora. Ma la sola minaccia di una crisi del governo Monti fa apparire il centrodestra un'incognita.

Viene da chiedersi quale immagine la classe politica si prepari ad offrire. Il comico Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle, per quanto toccati da qualche contestazione interna, brinderanno. Ma al di là dei riflessi sull'elettorato italiano, l'immobilismo, anzi la regressione avrebbero effetti negativi a livello internazionale. Rispetto a un Monti che rivendica l'apprezzamento europeo e l'abbassamento netto dello spread , la differenza fra gli interessi sui titoli di Stato decennali italiani e tedeschi, i partiti si stanno prendendo un'apparente rivincita.

Il Pd riemerge dalle primarie con un Pier Luigi Bersani consolidato e attento a rassicurare Monti. Il tragitto verso la presidenza del Consiglio nel 2013 sembrerebbe spianato, con accanto il Sel di Nichi Vendola. Sull'altro versante, è nebbia fitta. Si intuisce soltanto lo scontro sordo fra Berlusconi e la nomenklatura che si muove intorno al segretario, Angelino Alfano. Ma il comunicato diramato ieri sera dal Cavaliere fa capire che la sua candidatura sarebbe più vicina. E questo rende meno scontato il «rilancio unitario del Pdl» accreditato ieri da Alfano.

La vittima di questo stallo è la riforma elettorale, con i due fronti che si rinfacciano la responsabilità del fallimento, come si temeva. Senza tuttavia cancellare la sensazione che qualcuno, a sinistra e a destra, alla fine ritenga più conveniente tenersi il sistema attuale, il cosiddetto «Porcellum», perché garantisce ai leader dei partiti potere di vita e di morte sulle liste e sui candidati. Sempre che la polemica sull' election day non scarichi le tensioni perfino su Palazzo Chigi. Sarebbe un disastro provocato per forza di inerzia, senza una strategia che non sia quella di una sopravvivenza precaria.

Massimo Franco

6 dicembre 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_06/nota_b5aa5b44-3f6e-11e2-823e-1add3ba819e8.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Dicembre 07, 2012, 03:49:20 pm »

Il mondo ci guarda

Giorgio Napolitano cerca di declassare quanto sta accadendo a tensioni pre elettorali. Il nervosismo dei partiti, e in particolare del Pdl, è evidente. Ma il capo dello Stato lo deve fare anche perché sa quanta sensibilità esista, soprattutto all’estero, rispetto alla tenuta del governo di Mario Monti. Vuole smentire l’immagine di un’Italia prossima al baratro, che la deriva populista di Silvio Berlusconi punta strumentalmente ad accreditare. Il tentativo del Quirinale è di impedire che un centrodestra sull’orlo del collasso scarichi le sue tensioni e la sua incertezza su Palazzo Chigi. Significherebbe esporre di nuovo il Paese agli attacchi della speculazione finanziaria, e annullare il poco o il tanto di positivo fatto in dodici mesi.

Per questo Napolitano è intenzionato ad arginare l’attacco del centrodestra contro il governo. L’astensione decisa ieri, e minacciata per il futuro prossimo fino al punto da provocare, pare di capire, una crisi, spingerebbe la situazione verso il precipizio di un voto molto anticipato. E dunque renderebbe ancora più convulso un finale di legislatura già complicato dall’incrocio fra elezioni regionali e politiche, e fine del settennato alla presidenza della Repubblica.

Berlusconi rischia di essere percepito come il cultore involontario del «tanto peggio tanto meglio». Evocando un fallimento delle istituzioni, che non c’è, può finire per produrlo davvero. Il dissenso di alcuni suoi parlamentari che ieri hanno votato comunque la fiducia a Monti, è solo una piccola eco delle profonde resistenze emerse negli ultimi mesi nel Pdl su una ricandidatura del Cavaliere. A oggi non si vedono nel partito di Angelino Alfano né la forza né il coraggio per ostacolare un progetto di rivincita almeno apparentemente velleitario; ma soprattutto perseguito senza tenere conto degli interessi dell’Italia.

L’ex premier sembra dimenticare che in questi mesi il Paese è faticosamente risalito da un baratro nel quale stava scivolando nella fase finale del suo governo. E non analizza le possibili conseguenze di una sua riapparizione come candidato alla presidenza del Consiglio. È difficile ignorare che ieri lo spread sia cresciuto non appena dal Senato sono arrivate le prime bordate del Pdl contro Monti: come se la fiducia degli investitori nei titoli italiani fosse di nuovo in bilico.

Non ci si può non domandare che cosa succederà se e quando la ricandidatura sarà ufficializzata. Va valutato il pericolo di rimettere in discussione la credibilità ritrovata dell’Italia. Anche perché, per il modo in cui critica Palazzo Chigi, Berlusconi lascia indovinare una campagna elettorale da picconatore dell’Europa «cattiva », della moneta unica «da ripensare», dei sacrifici «inutili». Sarebbe un trionfo di luoghi comuni «popolari» che alla fine, però, porterebbero a una rivincita non sua ma della realtà: pagata da tutti e amarissima anche per lui.

Massimo Franco

7 dicembre 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_07/mondo-ci-guarda_1d6d350e-4036-11e2-abcd-38132480d58e.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Dicembre 09, 2012, 09:56:07 pm »

LA NOTA

L'argine del Quirinale ridimensiona le pretese di un Pdl antigovernativo

Ma Berlusconi non riesce a ottenere l'election day a febbraio


Lo strappo è riuscito a metà. Silvio Berlusconi forse ha raggiunto il vantaggio di essere già in campagna elettorale, rispetto a partiti che per senso di responsabilità continuano ad appoggiare il governo di Mario Monti. Ma l'idea di aggiungere allo strappo la spallata contro la legislatura, per ottenere una giornata unica di elezioni anticipate a febbraio, si è dimostrata irrealizzabile. L'argine rappresentato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sembra in grado di reggere. Le consultazioni che ha fatto ieri al Quirinale riconsegnano un centrodestra disponibile a garantire un'«ordinata conclusione». Significa approvazione della legge di Stabilità e forse qualche altro provvedimento, con un occhio ai due vertici europei in programma a metà dicembre e a metà febbraio del 2013: anche se in occasione del secondo le Camere saranno già state sciolte.

L'ipotesi sempre più probabile è che si voti per le politiche il 10 e 11 marzo. Forse negli stessi giorni ci saranno le elezioni regionali in Lombardia e Molise. Ma nel Lazio travolto dagli scandali della giunta di Renata Polverini le urne saranno aperte il 3 e 4 febbraio, come il Pdl temeva e ha cercato di evitare. Ma nonostante l'atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti del presidente del Consiglio, ieri il segretario del Pdl, portavoce delle istanze berlusconiane, Angelino Alfano, ha confermato che per il Cavaliere l'esperienza del governo dei tecnici è chiusa. Non ci sarà ancora crisi, ma il maggior partito della maggioranza ha già un piede fuori. E dai toni ostili alla politica economica e al rapporto di Monti con l'Europa lascia indovinare una campagna elettorale non troppo dissimile da quella leghista.

D'altronde, l'ex ministro dell'Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, si è già alleato col Carroccio e ha cominciato ad attaccare Palazzo Chigi e, indirettamente, la Bce. Il ricongiungimento del defunto «asse del Nord» su posizioni di questo tenore non può essere escluso. Obiettivo: tentare una spericolata operazione di autoassoluzione per la sottovalutazione della crisi economico-finanziaria che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011; e tentare di convincere l'opinione pubblica che «si stava meglio quando si stava peggio», scaricando su Monti tutte le responsabilità di problemi ereditati e non provocati; anzi, parzialmente risolti.

Con un filo di ironia, ieri il presidente del Consiglio è entrato alla Scala di Milano commentando: «Il Re Sole si è un po' allontanato da me». E le parole sono state viste come un'allusione allo smarcamento di Berlusconi. Ma la sensazione è che, con la sua accelerazione, il Cavaliere-Re Sole si sia allontanato da diverse realtà; e forse che sia accaduto anche il contrario. Sembra che nel Partito popolare europeo la prospettiva di un Pdl avviato a una campagna elettorale anti-Monti, e dunque anti-Ue, sia guardata con preoccupazione; e con domande crescenti sull'omogeneità dei partiti che ne fanno parte. Fra Cei e Vaticano, rimbalzano voci di un'irritazione quasi unanime per lo strappo contro il governo dei tecnici: bastava scorrere le pagine del quotidiano Avvenire di ieri, o ascoltare Tv2000 , l'emittente dei vescovi.

Il dito, però, non è puntato solo su Berlusconi ma anche su Alfano, che fino a pochi giorni fa aveva escluso ai propri interlocutori ecclesiastici la ricandidatura del Cavaliere e garantito lo svolgimento delle primarie. Il timore palpabile è che l'operazione si dimostri un elemento di divisione e alla fine di sconfitta per i moderati, delusi da tempo dal centrodestra e a caccia di nuovi interlocutori. Probabilmente è vero che chiudere la stagione berlusconiana senza un passaggio elettorale era impensabile. Ma farlo in queste condizioni non prepara una transizione indolore e una maturazione del sistema politico. Piuttosto, ingessa alleanze che sopravvivono a se stesse in entrambi gli schieramenti; e una leadership del centrodestra che si ripropone stancamente all'elettorato, zavorrata non solo dai processi ma soprattutto dai magri risultati ai quali ha tentato di

Massimo Franco

8 dicembre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_08/nota-di-massimo-franco-argine-quirinale-ridimensiona-pretese-pdl-antigovernativo_f45c3fc2-410a-11e2-b1cb-f72c456506f7.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Dicembre 09, 2012, 09:56:46 pm »

EDITORIALE

Chi paga il conto

Il calcolo spregiudicato del Pdl di essere insieme partito di opposizione e di governo da ieri sera si sta rivelando per quello che è: un azzardo pericoloso. La decisione di Mario Monti di dimettersi dopo l’approvazione della legge di Stabilità mette Silvio Berlusconi e il suo partito di fronte alle loro responsabilità. Hanno destabilizzato la maggioranza in uno dei passaggi più delicati della legislatura. E il loro tentativo di rivendicare senso dello Stato fuori tempo massimo rivela la sorpresa di chi è stato colto in contropiede.

L’intervento di venerdì in Parlamento del segretario del Pdl, Angelino Alfano, che aveva attaccato frontalmente la politica economica dell’esecutivo, ha indotto il presidente del Consiglio a non accettare il ruolo di capro espiatorio delle tensioni e delle contraddizioni del centrodestra. La mossa di Monti è stata compiuta a mercati chiusi, per evitare riflessi immediati sulla situazione finanziaria dell’Italia. Ma è chiaro che il timore di conseguenze pesanti resta acuto: fin da domattina, alla riapertura delle Borse.

A questo punto non si può escludere neppure che Monti possa essere spinto a candidarsi lui a Palazzo Chigi. Se esisteva un accordo per riportare l’Italia fuori dall’emergenza, stipulato con Pdl, Pd e Udc, lo scarto berlusconiano ha rotto le regole tacite che questa intesa imponeva a tutti. E restituisce un Monti che di colpo sente di avere le mani libere: se non altro come riflesso di uno strappo che rischia di compromettere la credibilità italiana nella comunità internazionale dopo il discredito dell’ultimo governo Berlusconi.

Il comunicato durissimo diramato ieri sera dopo l’udienza dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è esplicito. Il premier, accompagnato dal suo consigliere a Palazzo Chigi, Federico Toniato, ha spiegato di non poter proseguire la sua azione. Ha respinto le pressioni del Pdl sulla giustizia e non è disposto ad accettare il ruolo di bersaglio di una campagna elettorale berlusconiana giocata contro la moneta unica, l’Europa e le tasse: una strategia «facile» quanto avventurista, destinata ad allontanare il centrodestra da qualunque politica moderata; e ad accomunarlo al leghismo e al movimento del comico Beppe Grillo.

È un altolà al tentativo di giocare la carta del populismo più vieto in una fase di crisi acuta. Allo smarcamento furbesco di Berlusconi, Monti reagisce con un annuncio che parla all’opinione pubblica; e le offre una scelta trasparente, radicale, contro un’operazione che a suo avviso tenta di prendere in giro gli italiani e rende troppo rischiosi i prossimi mesi. La destabilizzazione è responsabilità di Berlusconi: questo lascia capire il capo del governo, raccogliendo la «comprensione» di Napolitano. Meglio bruciare i tempi e dare la parola agli elettori che veder bruciare sui mercati l’Italia.

Massimo Franco

9 dicembre 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_09/franco-chi-paga-il-conto_5ac9e5d2-41d0-11e2-ae8d-6555752db767.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Dicembre 15, 2012, 04:41:07 pm »

IPOTESI DI UNA DISCESA IN CAMPO

Mosse e dubbi del Professore

Le incognite su un impegno più diretto di Mario Monti in campagna elettorale sono ancora intatte. Eppure qualche punto fermo comincia a intravedersi: in negativo e in positivo. Intanto, è inverosimile che il presidente del Consiglio possa accettare la proposta di Silvio Berlusconi di trasformarsi nel leader di un centrodestra in macerie: non è immaginabile Monti al timone della scialuppa di salvataggio dei naufraghi della Seconda Repubblica. Non è pensabile neppure che possa accettare un'alleanza, formale o di fatto, col segretario del Pdl, Angelino Alfano: è l'uomo che col suo discorso alla Camera ha indotto il premier ad annunciare le dimissioni.

Ma soprattutto, l'ottica di Monti è sempre stata quella di smontare gli schieramenti che per diciotto anni hanno ingessato l'Italia senza darle stabilità; e di ricomporli su basi nuove, cambiando e mescolando le identità e le barriere politiche. Per questo i movimenti centristi, per quanto gracili, in attesa di una leadership convincente e schiacciati dalla mancata riforma elettorale, diventano i suoi interlocutori principali. Sono il terreno naturale e insidioso del tentativo di cambiare la logica di un bipolarismo logoro, che viene riproposto al Paese come conseguenza del fallimento di un sistema dei partiti incapace di qualunque rinnovamento istituzionale.

Il problema è come offrire loro un programma riconoscibile, ben definito, chiaro, senza compromettere il ruolo super partes svolto finora dal presidente del Consiglio. E come continuare a parlare il linguaggio crudo e impopolare della verità, senza essere condizionato dalle urne.
Il tifo dei «grandi elettori» europei non basta da solo a legittimare Monti. Ne sottolinea il prestigio, e conferma la credibilità ritrovata dall'Italia a livello internazionale. Ma una candidatura colonizzata dalle istituzioni di Bruxelles potrebbe provocare, se non un rigetto, certamente perplessità e polemiche diffuse nell'opinione pubblica italiana; e a ragione.

Questo non significa ignorare il riferimento ai valori del Partito popolare europeo: tanto più nel momento in cui il Ppe mette in mora il populismo berlusconiano e conferma l'appoggio al governo dei tecnici. Tuttavia, l'impressione è che Monti rifiuti l'identificazione con schieramenti così contrapposti, nella traduzione italiana, da avere reso impossibile il controllo della crisi economica; e minato i presupposti della crescita. Rimane da capire se opterà per una presenza relegata sullo sfondo della competizione; o se permetterà ai sostenitori di chiedere esplicitamente il voto in suo nome. In entrambi i casi, però, bisogna sapere che il risultato sarà intestato a lui: magro o grasso che sia.

E da quel momento i consensi si conteranno, non si peseranno. Anche per questo, qualunque decisione Monti prenda sarà piena di spine.
Gli inviti ruvidi a stare alla larga dalle elezioni probabilmente lo spingono a partecipare. Ma deve prescinderne; e sperare che dopo il voto di febbraio, se come sembra si chiederà ancora a Giorgio Napolitano di dare l'incarico per formare il governo, l'Italia trovi un equilibrio: al di là dei numeri di maggioranze che in passato si sono rivelate schiaccianti solo sulla carta.

Massimo Franco

15 dicembre 2012 | 7:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_15/mosse-e-dubbi-del-professore-massimo-franco_374bb1b6-467c-11e2-90a4-19087f7b891e.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Dicembre 18, 2012, 06:01:06 pm »

LA CRITICA E I RITARDI DEI PARTITI

L'atto finale di una stagione


Quello di Giorgio Napolitano è un bilancio lucido, senza finzioni. E dunque anche amaro. Il presidente della Repubblica consegna alle alte cariche dello Stato un'Italia che si è salvata dal peggio grazie al governo dei tecnici guidato da Mario Monti e al senso di responsabilità dei tre partiti che lo hanno appoggiato; e che avrà un percorso obbligato anche dopo il voto di febbraio, perché i suoi impegni sono in larga parte concordati con l'Unione Europea. Ma la fragilità di una politica che non è riuscita a riformarsi in questi tredici mesi, né a cambiare una legge elettorale ritenuta a parole indigesta, pesa in maniera preoccupante anche sul futuro.

È un cruccio che il capo dello Stato non nasconde né vela. Lo offre all'analisi dei suoi interlocutori politici e istituzionali come materia di riflessione e di esplicito rammarico. Quando dice che sta per essere archiviata un'altra «legislatura perduta», non fotografa soltanto ma denuncia la realtà. E avverte «tutti» che dovranno guardarla in faccia nei prossimi mesi: per quanto gli compete, il Quirinale lo farà fino al termine del settennato. Significa che ci saranno elezioni anticipate, ma non dimissioni anticipate del presidente della Repubblica. È l'ufficializzazione di una novità: lo strappo del Pdl contro Monti e la crisi implicano che toccherà a Napolitano conferire l'incarico per il nuovo governo.

L'ultimo atto del settennato sarà dunque quello di «leggere» il responso degli elettori, e prefigurare gli equilibri della Terza Repubblica. Dal modo in cui il capo dello Stato ha parlato ieri, i margini per una confusione su alleanze e candidature, oggi vistosa in modo sconcertante, si ridurranno di molto. Per Napolitano, le urne restituiranno forza e voce alla politica. L'ipotesi di riproporre un governo dei tecnici, seppure sotto altre vesti, sembra esclusa preventivamente. L'incapacità o la non volontà di riformare il sistema elettorale rischia di ricreare maggioranze che avranno difficoltà a governare; eppure, non potranno che essere i voti raccolti la base per decidere chi guiderà l'Italia.

Napolitano assicura di non avere nessuna preoccupazione per il risultato delle urne: chiunque vinca, spiega all'Europa e alla comunità internazionale, le coordinate non cambieranno. Ma si coglie una punta di apprensione per le possibili dinamiche della campagna elettorale. Un sistema impermeabile a qualunque novità potrebbe rovinare i risultati raggiunti quasi per forza di inerzia, guidato da un istinto demagogico più forte del senso di responsabilità; e sgualcire l'immagine di stabilità e continuità istituzionale ricostruita faticosamente in questi mesi. Più che un processo alle intenzioni, somiglia a un preallarme. Le parole d'ordine di alcuni partiti non sono incoraggianti.

Ma soprattutto, non tranquillizza lo sfondo nel quale si inseriscono. Il richiamo a non nascondere all'opinione pubblica i contorni e le dimensioni della crisi, a non regalare promesse e sogni irrealizzabili, è il lascito doveroso di un capo dello Stato consapevole delle debolezze del sistema e dei rischi di ulteriore delegittimazione. Con un velo di delusione, ma anche con garbata durezza, Napolitano evoca l'insufficienza di un'offerta politica tuttora indeterminata: sospesa fra vecchi schieramenti e movimenti allo stato embrionale, chiamati a rispondere a un elettorato divenuto più esigente e diffidente. E a ragione.

Massimo Franco

18 dicembre 2012 | 8:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_18/atto-finale-di-una-stagione-franco_536e031a-48db-11e2-a20a-b74f0535ca9d.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Dicembre 22, 2012, 06:30:39 pm »

LA NOTA

I dubbi sul Professore rendono più chiaro il ritardo dei partiti

Il congedo è accompagnato da un senso di incertezza palpabile, al quale suo malgrado ha contribuito lo stesso Mario Monti. Dopo le dimissioni consegnate ieri sera nelle mani di Giorgio Napolitano, domani il presidente del Consiglio spiegherà come sarà presente nella prossima campagna elettorale. Le indiscrezioni dicono che sarebbe orientato a non permettere la formazione di una lista in suo nome: per non creare attriti con il Quirinale, secondo alcuni suoi sostenitori. Anche se forse le ragioni possono essere fatte risalire sia alla genesi del suo arrivo a palazzo Chigi, sia al modo un po’ caotico col quale sta prendendo corpo l’area centrista. Rimane un residuo di incertezza non piccola, sovrastata tuttavia da polemiche che lasciano capire i conflitti in incubazione se diventasse il candidato di fatto di una federazione «montiana».
D’altronde, la vera cifra di questo finale del governo dei tecnici non è tanto la probabilità o meno di un nuovo schieramento che si offre agli elettori. La novità è un rimescolamento generale dai contorni tuttora nebbiosi. La frantumazione del centrodestra e il declino della leadership berlusconiana sono così evidenti che non si sa ancora con chi Silvio Berlusconi si alleerà; e se alla fine sarà candidato per la sesta volta. Una Lega divisa quanto il Pdl cerca l’accordo ma pone come condizione che non sia il Cavaliere l’uomo su cui puntare. E stavolta a dare l’aut aut non è il segretario Roberto Maroni ma l’ex leader Umberto Bossi, da sempre sodale berlusconiano: al punto che non si capisce se lo faccia per mettere i bastoni fra le ruote del successore. È probabile che anche questa confusione finisca dopo la conferenza stampa di Monti in programma domani mattina. Ma non si può prevedere se la prospettiva diventerà immediatamente chiara. È come se le elezioni di fine febbraio arrivassero troppo presto. Peggio: il sospetto è che se anche si facessero ad aprile, coglierebbero impreparate forze politiche incapaci di rispondere alla transizione con proposte e schieramenti innovativi. Perfino il Pd di Pier Luigi Bersani, dato in netto vantaggio, per il fallimento della riforma elettorale ha scelto quasi per inerzia l’alleanza con il Sel di Nichi Vendola: un fronte di sinistra che sa di antico e può creare problemi anche in caso di vittoria sul piano internazionale. Le rassicurazioni fornite da Bersani nei suoi viaggi europei degli ultimi giorni servono a garantire che non ci saranno deragliamenti della politica economica. Un minimo di diffidenza è destinato a rimanere.
Un Monti orgoglioso di avere governato in tredici mesi «difficili ma affascinanti», ieri l’ha ribadito. «Non c’è Paese che possa decidere il suo destino da solo». E ancora: la scelta di «dedicare una gran parte del mio tempo al profilo internazionale corrisponde alla convinzione che la componente estera svolga un ruolo cruciale nell’economia italiana». Da tecnico a politico in pectore, andata e ritorno, verrebbe da dire. Eppure, se sceglierà di mantenere il profilo istituzionale che alcuni temevano e altri speravano di vedergli cambiare, l’immagine datata del sistema politico e dei partiti sarà ancora più nitida.

Massimo Franco

22 dicembre 2012 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/12_dicembre_22/nota_7dd4d4d2-4c03-11e2-a778-2824390bcabe.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:30:51 pm »

La chiarezza non c'è

La «salita in politica», come l'ha definita Mario Monti con una felice inversione lessicale rispetto alla Seconda Repubblica, si preannuncia suggestiva, innovativa, ma ancora ambigua. Si è capito bene quello che il presidente del Consiglio dimissionario vuole fare: scomporre gli schieramenti etichettati con le sigle logore della destra, della sinistra e del centro; ricomporli attraverso l'asse del cambiamento e della lealtà all'Europa; ed essere il referente di chiunque si riconosca in un programma che rivendichi quanto è stato fatto in questi tredici mesi e lo proietti nel futuro.

Su come Monti riuscirà a tradurre le intenzioni in realtà, però, non si può dire che la sua conferenza stampa di ieri, né le interviste delle ultime ore abbiano dato coordinate precise. Si è capito che vede nel populismo di Berlusconi, della Lega, dei «grillini» e della sinistra sindacale e radicale gli avversari da battere. Ma la competizione col Cavaliere sui voti moderati lo lascia più scoperto sul fianco destro che nei confronti del Pd. Evidentemente, Monti prevede come inevitabile un qualche accordo postelettorale con Bersani. Resta da chiedersi come sarà possibile conciliare le ambizioni di due aspiranti a Palazzo Chigi.

Ma le incognite principali sono, se si può dire così, di tipo tecnico. Intanto, esiste tuttora un margine residuo che alla fine il premier non dia il placet ai sostenitori decisi a correre nel suo nome; soprattutto centristi, ma presenti anche in altri partiti. Inoltre, Monti ha anticipato che non si candiderà in un collegio in quanto è senatore a vita: precisazione rispettosa della nomina ricevuta dal Quirinale. Insomma, sarà un candidato-non candidato. Questo, però, non sembra destinato a favorire la sua «salita». Anzi, può renderla impervia e ridurre il magnetismo elettorale del suo nome. Insomma, la scalata di Monti comincia avvolta in una nebbia nella quale i potenziali elettori rischiano di perdersi.

Le elezioni politiche sono fra due mesi esatti. E i margini di ambiguità e i temporeggiamenti non sono consentiti a nessuno: nemmeno a chi ha il merito di proporre un'offerta diversa e originale rispetto al bipolarismo stantio di quasi un ventennio. Si avverte uno scarto fra la linearità della strategia e l'idea di Italia che Monti ha in testa, e gli strumenti per tradurla politicamente in termini di presentazione delle liste, divisione dei compiti, alleati.

È un vuoto che magari sarà riempito quasi per magia. Ma per ora sottolinea un ritardo organizzativo vistoso. Forse è inevitabile per l'anomalia di quanto sta succedendo. Dalla maggioranza anomala stiamo passando ad una candidatura anomala. Eppure, lascia un po' perplessi la sfilata dei «montiani» che nei giorni scorsi sono andati a Palazzo Chigi, sede istituzionale, per discutere di liste di partito; e poi le ipotesi di un impegno negato, oppure pieno, oppure dimezzato. È vero che l'Europa guarda a Monti e alla sua Italia con ammirazione e rispetto.

Ma sarebbe bene che l'elettorato potesse farlo avendo un quadro chiaro degli schieramenti e dei leader. I rischi di regressione e l'immobilismo si combattono e si battono anche eliminando la confusione.

Massimo Franco

24 dicembre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_24/la-chiarezza-non-c-e-massimo-franco_34e77542-4d91-11e2-bb70-cf455d3f8a01.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:45:50 am »

LA NOTA

Le tensioni tra alleati segnalano coalizioni destinate a logorarsi


La frenata non deve sorprendere. Mario Monti e Pier Luigi Bersani non hanno né voglia né interesse a esagerare la portata della tregua stipulata l’altro ieri. Trasformarla in accordo politico significherebbe scardinare le rispettive strategie elettorali. Dunque, il tentativo è quello di rimarcare le differenze, più che le assonanze: seppure al riparo dagli eccessi verbali degli ultimi giorni. Ma le tensioni riemerse in queste ore fra Bersani e il Sel di Nichi Vendola lasciano trasparire l’alone di incertezza che circonderebbe un governo di sinistra dopo il voto del 24 e 25 febbraio. La protesta vendoliana contro una «coalizione mutilata» per fare spazio aMonti è indicativa. Eppure lo è quasi altrettanto, sul versante opposto, il «fuoco amico» fra Silvio Berlusconi e la Lega e partiti minori come Fratelli d’Italia. La sua idea del «voto utile», al punto da chiedere agli elettori di esprimersi per il Pdl e magari per il Pd ma non per i «piccoli», irrita gli alleati. E le promesse sull’Imu e sul condono fiscale stanno ricevendo una messe di obiezioni. E la Lega conferma di non volerlo come prossimo premier. Di più: Berlusconi si candida a ministro dell’Economia, ma anche su questo Giulio Tremonti, che occupava quel posto nel centrodestra, replica perfidamente che deciderà il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Non sarà così, ma la schermaglia rispecchia il nervosismo che attraversa anche questo fronte; e che prepara una resa dei conti in caso di sconfitta. Insomma, più ci si avvicina al voto, più è evidente la camicia di forza di una legge elettorale che per anni ha costretto le coalizioni della Seconda Repubblica a formarsi in modo artificioso. Sopravvissuto a qualunque ipotesi di riforma, il sistema di voto accentua le storture e l’inadeguatezza di alleanze spiazzate da quanto è successo dal 2008 a oggi. «Non mi ricordate le mie delusioni », ha detto in proposito il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Le liste che si rifanno a Monti tendono a segnalare, al di là dei numeri, questo rischio di precarietà, registrato con ansia dalle cancellerie europee. È impossibile prevedere quale sarà l’esito di un confronto scandito da un crescendo di promesse irrealistiche: una deriva che illude l’elettorato e ne aumenta in modo irresponsabile le attese. Qualunque accordo dovrà fare i conti con le percentuali e i seggi ottenuti. Quando Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc alleato di Monti, spiega che l’accordo col Pd «non esiste», dice una parte di verità. L’obiettivo del premier rimane infatti quello di «dialogare sulle regole del gioco a 360 gradi con tutte le forze in Parlamento». Il calcolo, o forse solo una tenue speranza, è che i due schieramenti, e in particolare il centrodestra, si disuniscano prima o comunque dopo le elezioni. Può accadere. La Scelta civica del premier fatica, tuttavia, ad apparire un polo d’attrazione di massa. Il sistema elettorale e gli appelli di Berlusconi e Bersani tendono a blindare, quasi a ibernare i rispettivi elettorati; e a ridurre al minimo la diaspora e il passaggio nell’arcipelago moderato di Monti. «Il nostro polo è questo e non si tocca», è costretto a dire il candidato a palazzo Chigi del Pd per placare Vendola, dopo che il presidente del Consiglio uscente gli intima di «scegliere». Quanto al centrodestra, cerca di alimentare la narrativa quotidiana della rimonta, che dovrebbe concludersi con la proclamazione del sorpasso. E accusa Monti di giocare sulla paura di un collasso economico-finanziario. «Usa come ricatto lo spread», la differenza fra gli interessi sui titoli pubblici italiani e tedeschi, protesta Tremonti. «Fa capire che se non si vota per lui, lo spread risalirà. Tipiche tecniche di ricatto». Eppure, le preoccupazioni per un’Italia che si riconsegna all’instabilità sono reali, a livello internazionale. Magari in modo strumentale, «elettorale», Monti evoca uno scenario che, per quanto sgradito, non sarà facile cancellare.

Massimo Franco

7 febbraio 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/nota/13_febbraio_07/nota_55ae08fe-70f0-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml?fr=box_primopiano
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« Risposta #207 inserito:: Febbraio 12, 2013, 06:40:15 pm »

L'addio legato a una crisi di sistema fatta di conflitti, manovre e tradimenti

Dietro il sacrificio estremo di un intellettuale le ombre di un «rapporto segreto» choc

Benedetto XVI avrebbe maturato la decisione definitiva dell'annuncio domenica: stava preparando un'enciclica


Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: va via, è lui che cambia. Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice intellettuale sconfitto da un apparato ritenuto troppo incrostato di potere e autoreferenziale per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall'ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l'esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Accreditarlo come un gesto istintivo significherebbe fare torto a questa figura destinata e entrare nella storia più per le sue dimissioni che per come ha tentato di riformare il cattolicesimo, senza riuscirci come avrebbe voluto: anche se la decisione vera e propria è maturata domenica.

Quello a cui si assiste è il sintomo estremo, finale, irrevocabile della crisi di un sistema di governo e di una forma di papato; e della ribellione di un «Santo Padre» di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita» a «peccatrice»; da punto di riferimento morale dell'opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale», aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, riesce meno comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all'ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l'aggettivo «rivoluzionario» suona inadeguato: troppo piccolo, troppo secolare. Quanto è successo ieri lascia un senso di vuoto che stordisce.

E nonostante la sua volontà di fare smettere il clamore e lo sconcerto intorno alla Città del Vaticano, le parole accorate pronunciate dal Papa li moltiplicano. Aggiungono mistero a mistero. Ne marcano la silhouette in modo drammatico, proiettando ombre sul recente passato. Consegnano al successore che verrà eletto dal prossimo Conclave un'istituzione millenaria, di colpo appesantita e logorata dal tempo. E adesso è cominciata la caccia ai segni: i segni premonitori. Come se si sentisse il bisogno di trovare una ragione recondita ma visibile da tempo, per dare una spiegazione alla decisione del Papa di dimettersi: a partire dall'accenno fatto l'anno scorso da monsignor Luigi Bettazzi; e poco prima dall'arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si era lasciato scappare questa possibilità durante un viaggio in Cina, ipotizzando perfino un complotto contro Benedetto XVI.

Ma la ricerca rischia di essere una «via crucis» nella crisi d'identità del Vaticano. Riaffiora l'immagine di Joseph Ratzinger che lascia il suo pallio, il mantello pontificio sulla tomba di Celestino V, il Papa che «abdicò» nel 1294, durante la sua visita all'Aquila dopo il terremoto, il 28 aprile del 2009. Oppure rimbalza l'anomalia dei due Concistori indetti nel 2012 «per sistemare le cose e perché sia tutto in ordine», nelle parole anodine di un cardinale. O ancora tornano in mente le ripetute discussioni col fratello sacerdote Georg, sulla possibilità di lasciare. Qualcuno ritiene di vedere un indizio della volontà di dimettersi perfino nei lavori di ristrutturazione dell'ex convento delle suore di clausura in corso nei giardini vaticani: perché è lì che Benedetto XVI andrà a vivere da «ex Papa», dividendosi col palazzo sul lago di Castel Gandolfo, sui colli a sud di Roma.

L' Osservatore romano scrive che aveva deciso da mesi, dall'ultimo viaggio in Messico. Ma è difficile capire quando l'intenzione, quasi la tentazione di farsi da parte sia diventata volontà e determinazione di compiere un gesto che «per il bene della Chiesa», nel breve periodo non può non sollevare soprattutto domande; e mostrare un Vaticano acefalo e delegittimato nella sua catena di comando ma soprattutto nel suo primato morale: proprio perché di tutto questo Benedetto XVI è stato l'emblema e il garante. «Il Papa continua a scrivere, a studiare. È in salute, sta bene», ripetono quanti hanno contatti con lui e la sua cerchia. «Non è vero che sia malato: stava preparando una nuova enciclica». Dunque, la traccia della malattia sarebbe fuorviante.

Smonta anche il precedente delle lettere riservate preparate segretamente da Giovanni Paolo II nel 1989 e nel 1994, nelle quali offriva le proprie dimissioni in caso di malattia gravissima o di condizioni che gli rendessero impossibile «fare il Papa» in modo adeguato. Ma l'assenza di motivi di salute rende le domande più incalzanti. E ripropone l'unicità del passo indietro. Il gesuita statunitense Thomas Reese calcola che nella storia siano state ipotizzate le dimissioni di una decina di pontefici. Ma fa notare che in generale i papi moderni hanno sempre scartato questa possibilità. Eppure, gli scritti di Ratzinger non hanno mai eluso il problema, anzi: lentamente affiora la realtà di un progetto accarezzato da tempo. «I due Georg sapevano», si dice adesso, alludendo al fratello Georg Ratzinger e a Georg Gänswein, segretario particolare del pontefice.

Forse, però, colpisce di più che fosse all'oscuro di tutto il cardinale Angelo Sodano, ex segretario di Stato e numero uno del Collegio Cardinalizio; e con lui altre «eminenze», che parlano di «fulmine a ciel sereno». È come se perfino in queste ore si intravedesse una singolare struttura tribale, che ha dominato la vita di Curia con amicizie e ostilità talmente radicate da essere immuni a qualunque richiamo all'unità del pontefice. Sotto voce, si parla del contenuto «sconvolgente» del rapporto segreto che tre cardinali anziani hanno consegnato nei mesi scorsi a proposito di Vatileaks, la fuga di notizie riservate per la quale è stato incriminato e condannato solo il maggiordomo papale, Paolo Gabriele. Si fa notare che da oltre otto mesi lo Ior, l'Istituto per le opere di religione considerato «la banca del Papa», è senza presidente dopo la sfiducia a Ettore Gotti Tedeschi. Rimane l'eco intermittente dello scandalo dei preti pedofili, che pure il pontefice ha affrontato a costo di scontrarsi con una cultura del segreto ancora diffusa negli ambienti vaticani.

E continuano a spuntare «buchi» di bilancio a carico di istituti cattolici, dopo la presunta truffa milionaria a danno dei Salesiani: un episodio imbarazzante per il quale il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inutilmente cercato la solidarietà e la comprensione della magistratura italiana. È questa eredità di inimicizie, protagonismi, lotta fra correnti, faide economiche con risvolti giudiziari che sembra aver pesato più di quanto si immaginasse sulle spalle infragilite di Benedetto XVI. È come se avesse interiorizzato la «malattia» della crisi vaticana di credibilità, irrisolta e apparentemente irrisolvibile. Conferma il ministro Andrea Riccardi, che lo conosce bene: «Ha trovato difficoltà e resistenze più grandi di quelle che crediamo. E non ha trovato più la forza per contrastarle e portare il peso del suo ministero. Bisogna chiedersi perché».

Ma nel momento in cui decide di dimettersi da Papa, Benedetto XVI infrange un tabù plurisecolare, quasi teologico. Fa capire alla nomenklatura vaticana che nessuno è insostituibile: nemmeno l'uomo che siede sulla «Cattedra di Pietro». E apre la porta a una potenziale ondata di dimissioni. Soprattutto, addita al Conclave la drammaticità della situazione della Chiesa. Dà indirettamente ragione a quegli episcopati mondiali, in particolare occidentali, che da mesi osservano la Roma papale come un nido di conflitti e manovre fra cordate che da tempo pensano solo alla successione. L'annuncio delle dimissioni avviene in coincidenza con l'anniversario dei Patti lateranensi; e nel bel mezzo di una campagna elettorale: al punto che ieri alcuni leader si chiedevano se interrompere per un giorno i comizi. Ma già si guarda avanti. Bertone ha chiesto di incontrare per una decina di minuti il capo dello Stato Giorgio Napolitano prima della festa in ambasciata di oggi pomeriggio. E il «toto-Papa» impazza, con le scommesse fuorvianti sull'«italiano» o il «non italiano». Stavolta, in realtà, sarà un Conclave diverso. Il sacrificio di Benedetto XVI, per quanto controverso, mette tutti davanti a responsabilità ineludibili.

Massimo Franco

12 febbraio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_12/dimissioni-papa-sacrificio-estremo_acc4e5bc-74de-11e2-b332-8f62ddea2ca4.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Febbraio 13, 2013, 05:25:08 pm »

Un porporato: il suo successore dovrà riprendere in mano la situazione

La Chiesa teme la «ferita» al ruolo del Pontefice

Il problema della coabitazione di «due Papi»

 di Massimo Franco


«E adesso bisogna fermare il contagio...». Il monsignore, uno degli uomini più in vista della Curia, ripercorre le ultime ore vissute dal Vaticano come se avesse subito un lutto non ancora elaborato. E ripete, quasi fra sé: «Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus : una ferita istituzionale, giuridica, di immagine. Sono un disastro». Così, dietro le dichiarazioni di solidarietà e di comprensione nei confronti di Josef Ratzinger, di circostanza o sincere, affiora la paura. È l'orrore del vuoto. Di più: della scomparsa dalla scena di un Pontefice che per anni è stato usato come scudo e schermo da molti di quelli che dovevano proteggerlo e ora temono i contraccolpi della fine di una idea sacrale del papato.

Sono gli stessi che adesso avvertono l'incognita di un successore chiamato a «fare pulizia» in modo radicale; e a ridisegnare i confini e l'identità del Vaticano proprio cominciando a smantellare le incrostazioni più vistose. Le dimissioni vissute come «contagio», dunque. E commentate nelle stanze del potere ecclesiastico come un possibile «virus» che potrebbe mandare in tilt il sistema. «Se passa l'idea dell'efficienza fisica come metro di giudizio per restare o andare via, rischiamo effetti devastanti. C'è solo da sperare che arrivi un nuovo Pontefice in grado di riprendere in mano la situazione, fissare dei confini netti, romani , impedendo una deriva». Lo sconcerto che si legge sulla faccia e nelle parole centellinate dei cardinali più influenti raccontano un potere che vacilla; e un altro che, dopo avere atteso per otto anni la rivincita, comincia a pregustarla.

Eppure, negli schieramenti che si fronteggiano ancora in ordine sparso, non ci sono strategie precise. Si avverte solo il sentore, anzi la convinzione che presto le cose cambieranno radicalmente, e che una intera nomenklatura ecclesiastica sarà messa da parte e rimpiazzata in nome di nuove logiche tutte da scrivere. Ma sono gli effetti di sistema che fanno più paura: e non solo ai tradizionalisti. Un Papa «dimissionabile» è più debole, esposto a pressioni che possono diventare schiaccianti. Il sospetto che la scelta di rottura compiuta da Ratzinger arrivi dopo un lungo rosario di pressioni larvate, continue, pesanti, delle quali i «corvi» vaticani, le convulsioni dello Ior, la «banca del Papa», e il processo al maggiordomo Paolo Gabriele sono stati soltanto una componente, non può essere rimosso. L'interrogativo è che cosa può accadere in futuro, avendo alle spalle il precedente di un Pontefice che si è dimesso. Da questo punto di vista, l'epilogo degli anni ratzingeriani dà un po' i brividi, al di là del coro sulle sue doti di «uomo di fede». La voglia di proiettare immediatamente l'attenzione sul Conclave tradisce la fretta di archiviare una cesura condannata a pesare invece su ognuna delle scelte dei successori.

Il massimo teorico dell'«inattualità virtuosa» della Chiesa che si fa da parte perché ritiene di non avere più forza a sufficienza evoca un peso intollerabile, e replicabile a comando da chi in futuro volesse destabilizzare un papato. Sembra quasi una bestemmia, ma la carica pontificale, con la sua aura di divinità, appare «relativizzata» di colpo, ricondotta ad una dimensione drammaticamente mondana. È come se la secolarizzazione nella versione carrierista avesse sconfitto il «Papa timido» e distaccato dalle cose del mondo; e le nomine controverse decise in questi anni da Josef Ratzinger si ritorcessero contro il capo della Chiesa cattolica. Rispetto a questa realtà, c'è da chiedersi che cosa potrà fare il «successore di Pietro» e di Benedetto XVI per ricostruire la figura papale.

Il vecchio paradigma è franato; il prossimo andrà ricostruito non da zero, ma certamente da un trauma difficile da elaborare e da superare. E questo in una fase in cui la Chiesa cattolica si ripropone di «rievangelizzare» l'Europa, diventata ormai da anni terra di missione; di ricristianizzare l'Occidente contro la doppia influenza del «relativismo morale» e dell'«invasione islamica». Così, nel Papa che si ritrae con un gesto fuori dal comune, schiacciato dall'impossibilità di riformare le sue istituzioni, qualcuno intravede una metafora ulteriore: una tentazione a ritrarsi che travalica i confini vaticani e coinvolge simbolicamente l'Europa e l'Occidente.

Le dimissioni di Benedetto XVI, il «Papa tedesco», finiscono così per apparire quelle di un continente e di una civiltà entrati in crisi profonda; e incapaci di leggere i segni di una realtà che li anticipa, li spiazza, e ne mostra tutti i limiti di analisi e di visione: a livello religioso e civile. I detrattori vedono in tutto questo una fuga dalle responsabilità; gli ammiratori, un gesto eroico, oltre che un bagno di umiltà e di fiducia nel futuro. La sensazione è che per ricostruire, il successore dovrà in primo luogo destrutturare, se non distruggere. In quell'espressione, «fare pulizia», si avverte un'eco minacciosa per quanti nella Roma pontificia hanno sfruttato la debolezza di Ratzinger come «Papa di governo». La minaccia è già stata memorizzata, per preparare la resistenza.

I distinguo appena accennati e le divergenze di interpretazione fra L'Osservatore romano e la sala stampa vaticana sul momento in cui Benedetto XVI avrebbe deciso di lasciare, sono piccoli scricchiolii che preannunciano movimenti ben più traumatici. Scrivere, come ha fatto il quotidiano della Santa Sede, che Benedetto XVI aveva deciso l'abbandono da mesi, significherebbe allontanare i sospetti di dimissioni provocate da qualcosa accaduto di recente, molto di recente, nella cerchia dei collaboratori più stretti. E l'approccio e il ruolo in vista del Conclave dell'attuale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e del predecessore Angelo Sodano, già viene osservato per decifrare le mosse di schieramenti ritenuti avversari. E sullo sfondo rimangono le inchieste giudiziarie che lambiscono istituzioni finanziarie vaticane come lo Ior.

Di fronte a tanta incertezza, l'uscita di scena del Pontefice, annunciata per il 28 febbraio, è un elemento di complicazione, non di chiarimento. «Non possono esserci due Papi in Vaticano: anche se uno di loro è formalmente un ex», si avverte. La considerazione arriva a bassa voce, come un riflesso istintivo e incontenibile. Mostra indirettamente l'enormità di quanto è accaduto due giorni fa. E addita il problema che la Santa Sede si troverà ad affrontare nelle prossime settimane: la convivenza dentro le Sacre Mura fra il successore di Benedetto XVI e lui, il primo Pontefice dimissionario dopo molti secoli. Il simbolismo è troppo potente e ingombrante per pensare che Ratzinger possa diventare invisibile, rinchiudendosi nell'ex convento delle suore di clausura, incastonato in un angolo dei Giardini Vaticani.

Eppure dovrà diventare invisibile: il suo futuro è l'oblìo. La presenza del vecchio e del nuovo Pontefice suscita un tale imbarazzo che qualcuno, come monsignor Rino Fisichella, non esclude novità; e cioè che l'abitazione definitiva di colui che fino al 28 febbraio sarà Benedetto XVI, alla fine sia individuata non dentro ma fuori dai cosiddetti Sacri Palazzi. Il Vaticano, però, è l'unico luogo dove forse si può evitare che venga fotografato un altro uomo «vestito di bianco», gli incontri non graditi, o controllare che anche una sola parola sfugga di bocca a un «ex» Pontefice: sebbene il Papa resterà tale anche dopo le dimissioni. «Ma il popolo cattolico», si spiega, «non può accettare di vederne due». Il paradosso di Josef Ratzinger sarà dunque quello di studiare e meditare, isolandosi in un eremo nel cuore di Roma proprio accanto a quel potere vaticano che ha cercato di scrollarsi di dosso nel modo più clamoroso.

D'ora in poi, seguire i suoi passi significherà cogliere gli ultimi gesti pubblici di una persona speciale che sa di entrare in una zona buia dalla quale non gli sarà permesso di riemergere. Al di là di tutto, la sensazione è che molti, ai vertici della Chiesa cattolica, abbiano una gran voglia di voltare pagina; e che lo sconcerto causato dal gesto di Ratzinger e l'affetto e la stima profonda nei suoi confronti siano bilanciati dal sollievo per essere arrivati all'epilogo di una situazione ritenuta ormai insostenibile. Probabilmente, qualcuno non valuta con sufficiente lucidità che Benedetto XVI non era il problema, ma la spia dei problemi del Vaticano; e che usarlo come capro espiatorio non cancellerà tutte le altre questioni rimaste aperte non soltanto per sue responsabilità. I sedici giorni di interregno che separano dal 28 febbraio, in realtà, segneranno uno spartiacque di secoli. E dimostreranno presto quanto abbia perso vigore non il Papa, ma alcune vecchie logiche. Almeno, Josef Ratzinger ha avuto il coraggio di vederle e rifiutarle.

13 febbraio 2013 | 8:57

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_13/chiesa-insidie-interregno-papa-dimissioni-franco_a92bdc16-75a2-11e2-a850-942bec559402.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:35:38 pm »

I tempi

Subito il nuovo presidente Ior , firmato il decreto

Via libera alla nomina: sarebbe un banchiere belga.

L'azienda di consulenza Spencer e Stuart incaricata di selezionare un profilo


Potrebbe essere il primo atto dell'interregno inedito fra Benedetto XVI e il successore. «È possibile che nei prossimi giorni ci sarà la nomina del presidente dello Ior», ha annunciato ieri il portavoce della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. L'indicazione è generica, ma in realtà il Papa avrebbe sottoscritto formalmente la scelta ieri sera. Si tratterebbe di un banchiere belga, il cui nome girava da una decina di giorni; e che arriverà dunque prima del 28 febbraio, giorno per il quale il Papa ha annunciato le proprie dimissioni; e a partire dal quale anche il vertice del «governo» vaticano sarà dimissionato.

Significa che il pontefice eletto dal prossimo Conclave non avrà il problema di cercare un nuovo capo della «banca del Papa», come viene chiamato da tutti l'Istituto per le Opere di Religione. Lo aveva fatto capire il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, parlando di una scelta condivisa e attesa da tempo. Sul secondo aspetto, è difficile dargli torto. Lo Ior non ha un presidente dal 26 maggio del 2012, quando Ettore Gotti Tedeschi, fra l'altro rappresentante in Italia del gruppo bancario spagnolo Santander, fu sfiduciato all'unanimità e con parole ruvide.

E in questi mesi, non è stato sostituito perché, secondo la versione ufficiosa, la struttura si era dimostrata abbastanza capace da reggere anche senza una figura di vertice. Ma a questo punto affiora qualche contraddizione tra la tesi dell'autosufficienza del consiglio d'amministrazione, e la volontà di togliere un'enorme castagna dal fuoco al successore di Benedetto XVI. Si sa che per trovare il profilo giusto, il Vaticano si è rivolto ai «cacciatori di teste» della Spencer & Stuart di Francoforte, una delle aziende di consulenza più prestigiose.

Ma il tocco internazionale non cancella la sensazione sgradevole di una nomenklatura ecclesiastica che mentre il Papa annuncia le dimissioni, si preoccupa di riempire le ultime caselle del potere: quasi avesse il presentimento che «dopo» non sarà più possibile.

L'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi (Imagoeconomica)L'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi (Imagoeconomica)
E comunque, se per quasi nove mesi non si è avvertita la necessità di nominare nessuno, perché farlo senza aspettare l'arrivo del nuovo pontefice? Può sembrare un'obiezione capziosa, sollevata da chi non perdona al «primo ministro» di Josef Ratzinger di avere accentrato il potere finanziario della Santa Sede nelle sue mani; e di avere infilato il Vaticano in operazioni grandiose ma un po' arrischiate, come il tentativo di salvataggio dell'ospedale San Raffaele, con l'ambizione alla fine frustrata di creare un grande «polo sanitario» cattolico. Al di là dei sospetti di strumentalità, più che plausibili, da parte di Bertone e dei suoi alleati, rimane tuttavia il mistero di una fretta improvvisa destinata a mettere il prossimo Papa davanti ad un fatto compiuto; e su uno dei temi più delicati che hanno segnato gli otto anni di pontificato tedesco. Il problema non riguarda naturalmente la persona designata, che sarebbe di nuovo un non italiano dopo molti anni dalla sua fondazione, voluta da Pio XII nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.

A lasciare interdetto qualche cardinale, e non solo, è la scelta dei tempi. L'impressione, infatti, è che sotto traccia ci si stia ponendo da tempo il problema del destino dell'Istituto. Si è parlato di un possibile cambio di nome, per cancellare ombre lunghe decenni e disseminate di scandali e misteri; e che lo fanno apparire, anche con qualche esagerazione, un «marchio negativo» per l'immagine della Santa Sede. Qualcuno è arrivato a ipotizzare che nel dopo-Ratzinger la Santa Sede potrebbe rivedere completamente un modo di operare nel mondo finanziario che le ha dato vantaggi ma anche creato un alone di opacità e di spregiudicatezza.

Un banchiere ricordava di recente un incontro di tanti anni fa con l'allora segretario di Stato vaticano, il cardinale Agostino Casaroli. Fu una discussione franca, come si dice in questi casi, su quello che lo Ior doveva essere o diventare; e perfino sul nome, ritenuto inappropriato dal banchiere perché, a suo avviso, non sembrava avere come obiettivo le «opere di religione». Casaroli ascoltò, forse annuì anche. Ma le cose, almeno all'apparenza, non sono cambiate in modo sostanziale. È vero che i dubbi più pesanti sono stati parzialmente chiariti quando nel luglio scorso il Vaticano ha ottenuto una promozione con riserva da parte di Moneyval: il comitato di esperti di antiriciclaggio e antiterrorismo, emanazione del Consiglio d'Europa, che valuta gli standard di affidabilità internazionale degli Stati attraverso il modo di operare delle sue banche.

Quel «placet» ha ridimensionato un po' le polemiche sul grado di trasparenza dello Ior, alimentate dallo scontro conclusosi nel maggio scorso. E ha ridato corpo all'idea di una metamorfosi dell'Istituto, tale da incontrare l'approvazione della comunità finanziaria globale. Si è parlato di «patti lateranensi del XXI secolo», intendendo accordi stipulati non più solo con singoli Stati, ma appunto con le istituzioni sovranazionali di garanzia. L'operazione sta avendo risultati controversi, però. Le indagini della magistratura italiana che da un paio d'anni si sono concentrate su alcuni movimenti finanziari sospetti, e le frizioni con una Banca d'Italia che richiama al rispetto delle norme valutarie europee, simboleggiano una metamorfosi ancora da perfezionare.

L'ultimo incidente, piccolo ma fastidioso, e soprattutto costoso per le casse vaticane, è stato il blocco, durante le vacanze di Natale, dei pagamenti elettronici tramite carte di credito e Pos (points of sale), i «punti di vendita»: un ostacolo superato solo nelle ultime ore, quando lo Ior ha aggirato l'ostacolo ricorrendo ad una società svizzera specializzata in pagamenti elettronici e non soggetta alle restrizioni imposte dall'Unione europea contro il riciclaggio. D'altronde, se la Santa Sede non lo avesse fatto avrebbe perso, secondo calcoli per difetto, circa trentamila euro al giorno. La scappatoia, però, non garantisce rapporti migliori con Bankitalia e magistratura.

E, abbinata alle tensioni che covano sulle nomine al vertice dello Ior e agli scandali che lambiscono altre organizzazioni cattoliche, rischia di avere riflessi immediati dentro le cosiddette «Sacre Mura». Basti pensare ai dipendenti dell'Istituto dermatologico Italiano (IDI) di Roma che ieri protestavano davanti alla sede della Cei, perché non vengono pagati da mesi per la gestione disastrosa dell'ospedale, affidata a un religioso. Oppure i milioni di euro persi dai Salesiani in una contesa seguita ad un lascito ereditario. I soldi galleggiano come una minaccia di ulteriori divisioni e scambi di accuse in un mondo traumatizzato dall'«abdicazione» papale.

Il timore che l'uscita di scena di Benedetto XVI possa riaccendere e fare esplodere contrasti mai sopiti del tutto è concreto. Le immagini che accompagnano l'uscita di scena al rallentatore, lunga sedici giorni, del pontefice, sono perfino commoventi. Tv2000 , la televisione dei vescovi italiani, accompagna ogni gesto del pontefice dimissionario, come si fa con un personaggio che sta per dissolversi. E si mostrano folle commosse di fedeli che lo salutano mentre attraversa sull'automobilina elettrica, stanco e emaciato, la navata della basilica di San Pietro. Ma è lo stesso Ratzinger che sempre ieri ha evocato una situazione segnata da conflitti latenti.
«Le divisioni ecclesiali deturpano la Chiesa. Bisogna superare le rivalità», ha detto alle 3500 persone presenti nell'aula Paolo VI.

Ma si capiva che in realtà stava parlando a quella «classe dirigente» di religiosi, incapace di offrire, ormai da tempo, un'immagine di unità e di concordia; e che, nonostante l'insistenza accorata con la quale il pontefice dimissionario ripete di avere compiuto la scelta di fare un passo indietro «in piena libertà», continua a essere indicata come una delle cause della sua decisione senza precedenti. Così, grazie ai «cacciatori di teste» il Vaticano è riuscito a risolvere il rebus del vertice dello Ior, al netto delle polemiche in incubazione. Ma per la scelta di un pontefice che risollevi le sorti della Chiesa, occorrerà molto di più.

Massimo Franco

14 febbraio 2013 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/13_febbraio_14/presidente-ior-benedettoXVI_563d72f8-766f-11e2-bad5-bab3677cbfcd.shtml
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