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Autore Discussione: Ivan SCALFAROTTO.  (Letto 5821 volte)
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« inserito:: Settembre 15, 2008, 09:44:11 pm »

Usa, ambasciatore gay denuncia: «Rice ci discrimina»

Ivan Scalfarotto


«Per tre anni ho chiesto in ogni modo al Segretario di Stato Condoleezza Rice di modificare le regole che discriminano i dipendenti gay e lesbiche del Dipartimento di Stato senza ottenere una risposta. Mi sono quindi trovato nella situazione di dover fare una scelta tra i miei doveri verso il mio compagno - che è la mia famiglia - e il mio servizio al Paese. Il fatto che una persona si sia trovata a dover compiere una scelta di questo tipo è una macchia per la leadership del Segretario di Stato ed è una vergogna per questa istituzione e per il nostro Paese». Michael Guest, diplomatico ed esperto di affari europei, è stato il primo americano apertamente gay a diventare ambasciatore. Si è dimesso a 50 anni, nel dicembre del 2007, e le parole nient´affatto diplomatiche che ha pronunciato alla cerimonia di chiusura della sua carriera hanno fatto molto rumore nelle stanze ovattate del Dipartimento di Stato fino a rimbalzare sulla stampa Usa ed internazionale. Ho incontrato Guest al Summit annuale di Out & Equal, l´organizzazione no profit americana che si batte per la parità dei diritti della comunità GLBT (gay, lesbiche, bisessuali transgender) nei luoghi di lavoro.

Dato che conosci bene l´Italia dove le professioni si trasmettono di solito di padre in figlio, non ti stupirai se ti chiedo se la vocazione per la diplomazia ti è stata trasmessa con il sangue. Ambasciatore e figlio di ambasciatore?

«Nient´affatto. Sono nato da una famiglia povera e religiosissima del Sud Carolina ma ho avuto una passione per la politica estera sin da ragazzino. Divoravo i giornali già durante l´adolescenza e a 18 anni ho preso un pullman e me ne sono andato a fare lo stagista a Washington. Dopo l´Università mi sono iscritto al concorso per il Corpo Diplomatico e l´ho vinto. Tutto qua. Certo, il primo giorno di lavoro si vedeva chiaramente che ero quello col vestito di taglio peggiore ma è stata la conferma del fatto che la diplomazia americana è un´istituzione meravigliosamente aperta e meritocratica. Del resto, nonostante l´abito, sono stato il primo della mia classe a diventare ambasciatore».

A che punto della carriera hai reso pubblica la tua omosessualità?

«È stata una cosa molto naturale, non ho fatto un vero e proprio coming out, mi sono solo limitato a rispondere sinceramente alle domande. Se qualcuno mi chiedeva se ero sposato dicevo di no, e se in quel momento ero in una relazione dicevo molto serenamente che avevo un compagno».

E il fatto che la tua omosessualità fosse nota a tutti al Dipartimento di Stato ha limitato o rallentato in qualche modo la tua carriera?

«Assolutamente no. Essere gay non è mai stato un problema al punto che quando ho giurato nelle mani di Colin Powell prima di partire per Bucarest ho voluto che il mio compagno, Alexander, fosse accanto a me. A dire la verità molti colleghi mi avevano sconsigliato di fare un passo del genere dato che in Campidoglio ci sono molti conservatori che non avrebbero certamente gradito. Ma Alexander è la mia famiglia: stiamo insieme da 12 anni. Eravamo già stati tre anni a Praga per il mio lavoro e mi sembrava naturale che fosse lì con me. In fondo per poter seguirmi nella carriera ha dovuto fare anche lui scelte difficili e cambiamenti».

Come l´hanno presa a Bucarest?

«Non benissimo. Il giorno del mio arrivo i giornali dicevano che era arrivato il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti. Virgola, un omosessuale. Per tre mesi non si è parlato d´altro, al punto che alla fine di una conferenza stampa ho dovuto io stesso sollecitare i giornalisti a rivolgermi tutte le domande sull´argomento. È stata l´occasione per dire a chiare lettere che il mio orientamento sessuale era del tutto irrilevante e che il mio ruolo era esclusivamente quello di rappresentare il governo degli Usa in Romania».

Quando sono cominciati i problemi che ti hanno portato a decidere di dimetterti?

«Alla fine del mio incarico in Romania sono diventato il direttore della scuola di formazione del Dipartimento di Stato. Un giorno mi si è avvicinato uno studente e mi ha detto che si era appassionato alla diplomazia dopo aver letto della mia storia sui giornali. Era gay e pensava che non avrebbe avuto nessuna possibilità nel Corpo Diplomatico ma poi era venuto a conoscenza del mio caso. Il fatto che questo giovane collega si fosse ispirato a me mi ha da un lato inorgoglito ma dall´altro mi ha fatto pensare anche agli ostacoli ancora da rimuovere, primo di tutti quello di estendere alle nostre famiglie i diritti e le protezioni che sono riconosciute alle famiglie degli altri colleghi».

A quali diritti ti riferisci in particolare? In fondo tu ed Alexander eravate già stati a Praga e a Bucarest senza che gli fosse riconosciuto alcun benefit.

«È vero ma la situazione si sarebbe fatta sempre più difficile. Ti faccio solo il caso estremo: nel caso avessi accettato una destinazione in zona di guerra non avrei avuto nemmeno la garanzia che in caso di emergenza il mio compagno fosse evacuato dall´esercito insieme a me. A parte questo c´è il discorso che il partner di un ambasciatore ha una serie di incombenze e di incarichi che servono anche a garantire un miglior funzionamento della sede diplomatica. Per questo serve training, tempo e il riconoscimento ufficiale di quel ruolo».

Quindi hai chiesto che Alexander fosse coperto dagli stessi benefit che spettano ai coniugi. Una cosa normale per molte aziende Usa: quando mi sono trasferito a Mosca, il mio Federico è stato equiparato al 100% a un coniuge.

«Esatto, ma non è così per noi. Mi sono rivolto a due Direttori Generali del Dipartimento di Stato, al Sottosegretario, e alla fine ho scritto a Condoleezza Rice. Rice ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione come persona afro americana. Io lo so, vengo dal Sud, ho visto da bambino le cose che ha passato. Ho visto io stesso quelli del Ku Klux Klan, con i cappucci in testa, bruciare le croci e sfilare con le loro bandiere. È questo che ho scritto al Segretario di Stato: che proprio lei, con un´esperienza di vita come la sua, non avrebbe dovuto tollerare alcuna discriminazione. Non ne ho fatto solo una questione di diritti gay ma ho spiegato le implicazioni del problema dal punto di vista della correttezza, dell´equità, anche del buon funzionamento dell´ufficio. Dopo tre mesi di silenzio ho capito che non mi avrebbe risposto, e, con un senso di enorme lacerazione interna, ho deciso di lasciare il servizio».

E cosa fai ora? Non sembri uno che resta fermo per troppo tempo…

«Sto lavorando alla campagna di Obama, faccio parte di tre gruppi di lavoro del suo staff. E poi farò parte di una nuova organizzazione, il «Council for Global Equality» (www.globalequality.org), che nasce il 23 settembre e che riunisce tutta una serie di altre organizzazioni no-profit, tra le quali Out&Equal e Amnesty International, per spingere sul governo degli Usa affinché utilizzi il suo peso politico ed economico per fare pressione su quei paesi in cui i gay sono discriminati o perseguitati. Fa parte del Dna degli Usa e credo che il mio governo debba utilizzare la sua influenza per aumentare l´attenzione sui diritti civili e sulla povertà in tutto il mondo».

Pubblicato il: 15.09.08
Modificato il: 15.09.08 alle ore 10.44  
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« Ultima modifica: Giugno 21, 2014, 12:28:27 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 09, 2009, 05:00:56 pm »

Oggi stesso riparta il viaggio del Pd

di Ivan Scalfarotto


Ma noi Democratici, chi siamo? È la domanda, largamente inespressa e inevasa, che sembra cucire insieme tutte le inquietudini che il PD ha vissuto negli ultimi mesi. La questione dell’identità è ormai ineludibile perché intimamente legata alle ragioni del consenso: saper spiegare cosa voglia dire essere democratici significa anche poter trasmettere in modo chiaro le ragioni per sostenere il PD; la crisi che viviamo è anche la prova della nostra incapacità di fornire una risposta convincente alla cruciale domanda.

Il PD è stato fondato sulla base della constatazione, forse non particolarmente tempestiva ma pur sempre coraggiosa, dell’inadeguatezza delle grandi famiglie politiche del XX secolo di fornire risposte alle questioni del nostro presente. I movimenti delle persone in un mondo fattosi improvvisamente piccolo, nel quale culture, razze e religioni sono entrate in contatto ravvicinato; la crisi delle nazioni davanti a questioni che attengono all’intera umanità, quali la sopravvivenza del pianeta; l’aspirazione delle donne ad una parità vissuta nella vita reale e il progressivo liberarsi di nuovi modi di fare famiglia; le tecnologie, che consentendo il verificarsi di tanti nostri gesti quotidiani in tempo reale, hanno modificato il nostro senso del tempo: tutti fenomeni davanti ai quali la politica con i suoi occhiali novecenteschi ha fatto una fatica improba a stare al passo, quando ci é riuscita. Il PD é stata la risposta: le forze riformatrici che hanno accettato di rimettersi in gioco per imparare ad interpretare il presente. O almeno questo avrebbe dovuto essere, questa era la promessa, la scommessa interrotta dalla sconfitta elettorale dopo la quale il partito si è rinchiuso nel suo guscio come una tartaruga spaventata.

I gruppi dirigenti si sono rifugiati ciascuno nella propria vecchia identità; lo sforzo di sintesi si è visto più “a valle”, nel cesello utilizzato per stilare documenti che accontentano tutti finendo col dire ben poco (come nella Direzione del 19 dicembre), che “a monte”, nel costruire un partito dove si dicono cose condivise perché si è discusso nella sostanza e non perché si è negoziato sulla forma. La fatica di essere democratici sta tutta qui: nel nostro evitare tutte le questioni difficili (dal PSE a Eluana, passando per la responsabilità politica dei nostri amministratori) che è la conseguenza della sintesi che non abbiamo ancora compiuto, delle passate appartenenze mai archiviate, del partito che non ha ancora, appunto, una sua identità. Ma se non siamo in grado di dare risposte ai grandi temi di oggi, qual è il nostro oggetto sociale e perché mai gli elettori dovrebbero alla fine votare per noi?
Il viaggio del PD, così presto interrotto, deve ripartire oggi stesso. Perché mai come nell’Italia di oggi c’è stato più bisogno di un partito come quello che insieme ci eravamo immaginato.


08 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:29:06 pm »

«Il Pd è ridotto a una somma di comitati elettorali»

di Osvaldo Sabato


«Devo dire che sono rimasto colpito da alcuni interventi che ho ascoltato nella direzione nazionale del 18 dicembre scorso e da alcune dichiarazioni sulla stampa». Esordisce così il sindaco di Firenze Leonardo Domenici puntando la sua attenzione sul rapporto tra il Pd nazionale e le città. Le inchieste delle procure di Napoli, Pescara e Firenze, che hanno colpito da dentro le amministrazioni di queste città, hanno riportato a galla la questione morale. Qualcuno però fa notare la poca incisività del Pd nazionale sulle realtà locali con i “cacicchi” che hanno preso il sopravvento.

Ma per il sindaco di Firenze, il problema è più politico. «Beh - dice - quando leggo che in questo momento bisognerebbe, facendo di ogni erba un fascio e senza fare nessuna distinzione di merito, introdurre una più netta distinzione tra il partito e gli amministratori locali penso che si stia dicendo una cosa sbagliata, gravemente sbagliata. Mi riferisco, per esempio, ad alcune dichiarazioni di Giorgio Tonini e mi chiedo se su questo punto non sia opportuno andare ad un chiarimento serio, vero, dentro il Pd».

Domenici insiste: «Veltroni più volte ha detto che certo ci sono dei problemi a livello locale, ma bisogna pensare a quella migliaia di amministratori del Pd che lavorano in maniera seria e portano avanti l’esperienza concreta di quel partito riformista e di massa, come lo ha definito il segretario, da cui dubito che possiamo prescindere se vogliamo costruire seriamente il Pd. Il problema è anche uno scollamento tra la politica nazionale con quella locale. Ma il punto non è che la ragione sta da una parte, o dall’altra».

Le indagini della magistratura però nelle città giudate dal centrosinistra sono sotto gli occhi di tutti.
«Il problema fondamentale è che ci sono delle situazioni che presentano elementi degenerativi nelle realtà locali, ma questo è proprio il risultato dello scollamento, della frattura e della mancanza di rappresentanza nel rapporto tra il gruppo nazionale e realtà politica e amministrativa dei territori. La questione ci rimanda di nuovo al tipo di partito che vogliamo costruire».

L’inchiesta su Castello ripropone il tema delle intercettazioni telefoniche. In questo periodo l’argomento è al centro del dibattito politico.
«Credo che questo strumento di indagine debba servire a completare e non a dare inizio all’inchiesta. Qualcuno mette in discussione la legittimità degli atti amministrativi? Che lo dica. Ci sono comportamenti di persone che da dentro l’amministrazione hanno condizionato le scelte del Comune? Sono convinto di no. Ci sono prove contrarie? Credo che se si rimane a livello di uso vergognoso di intercettazioni telefoniche è difficile fare un discorso».

Sullo sfondo ci sono le primarie per la scelta del suo successore e le polemiche per la sua decisione di disertare il consiglio comuale.
«È evidente che prima di tornare ci vuole un chiarimento politico (per domani è previsto un vertice a Palazzo Vecchio, ndr), che non può riguardare solo il presente, ma anche i problemi di coalizione e le scelte programmatiche future».

Sindaco, è sempre dell’idea di non prendere parte al consiglio comunale?
«Si solleva un problema che a mio motivo non ha motivo di essere. Perché prima di tornare in consiglio comunale è evidente che ci vuole un chiarimento politico».

Lei si riferisce ai suoi alleati?
«Esatto. Il chiarimento politico non può riguardare solo il presente, ma deve toccare anche i problemi di coalizione, di scelte politiche programmatiche del futuro. Io ho sempre pensato che si doveva costruire la prospettiva futura, partendo da quanto abbiamo fatto in questi nove anni e mezzo di governo della città, che considero positivo, come dimostrano i dati statistici su Firenze in rapporto alle altra città italiane».

Invece?
«Vedo che si è deciso di rovesciare la questione: siccome tutti pensano alla prospettiva futura promuovendo la demolizione della esperienza presente, senza una ragione reale, in rottura con quello che si è fatto in questi anni. Non è una questione personale, ma politica. Penso che sia un approccio sbagliato che rischia di avere conseguenze pesanti».

Lei chiama in causa il suo partito?
«Il Partito democratico dovrebbe riflettere su questo e agire di conseguenza. Il problema non è tanto il sostegno alla mia amministrazione, bensì di capacità di iniziativa politica, di risposta, di elaborazione propria, di reazione, anche di battaglia verso le opposizioni e dei gruppi di poteri, più o meno occulti, che si sono riattivati in vista della prossima campagna elettorale. Ecco io noto che da questo punto di vista il Pd fiorentino mi sembra piuttosto passivo, per non dire amorfo. Purtroppo devo constatare che anche a Firenze, come in altre parti d’Italia, si pone il problema su che tipo di partito abbiamo costruito, o stiamo costruendo».

La sua risposta qual è?
«Vogliamo fare un partito capace di esprimere una proposta programmatica forte, oppure, vogliamo fare un partito che sia soltanto una sommatoria di comitati elettorali. Credo che questa sia la prospettiva più rischiosa, ma credo anche che sia la situazione in cui ci troviamo in questo momento».

A Firenze il Pd è alle prese con le primarie. I problemi non mancano.
«Penso che sia assurdo andare con quattro candidati. A mio parere il Pd dovrebbe indicare un candidato, al massimo due, con una sorta di doppio turno. Il partito deve avere un sussulto di ragionevolezza: se si riunisce e discute il tempo per cambiare le cose non manca. Poi si parla di primarie di coalizione, ma non ho ancora capito esattamente quale è la coalizione, da chi è composta ma soprattutto in che rapporto sta questa prospettiva con quella attuale. Forse si vorrebbe che qualcuno tirasse la carretta fino in fondo».

osabato@unita.it


08 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 12, 2009, 03:42:52 pm »

Con questi dirigenti perdiamo


di Jolanda Bufalini


"Con voi Berlusconi non perderà mai"

Il grido "morettiano" è di Ivan Scalfarotto al seminario organizzato al Nazareno dai "piombini". Il gruppo dei cosiddetti "giovani" ma anagraficamente quarantenni che, la prima volta, si è dato appuntamento a Piombino. Ora rilanciano con un "Lingotto 2". Veltroni era partito bene poi mediazioni e vecchi metodi

Vogliono essere chiamati «i piombini, e non solo perchè si sono riuniti la prima volta nella città toscana. "siamo davvero delle armi, anche se non letali", dice scherzando Ivan Scalfarotto: se mai dovessero sparare, il loro bersaglio sarebbe la classe dirigente attuale del pd.

I quarantenni del pd si riuniscono a largo del Nazareno e sfidano apertamente i big: "Con voi berlusconi non perderà mai", è il messaggio morettiano che invia loro Scalfarotto, candidato alle europee nel nord ovest e moderatore del seminario molto affollato. Ci sono tra gli altri Sandro Gozi, Giuseppe Civati, Ivan Scalfarotto, Marta Meo, Anna Paola Concia. mancano, ma perchè in campagna elettorale, Deborah Serracchiani e Matteo Renzi.

L'assemblea si è aperta con l'illustrazione del programma di Piombino, sintesi di un documento di 30 pagine, che punta a rinnovare il partito cominciando dai metodi. "basta trame sotterranee, bisogna avere il coraggio di discutere a viso aperto", dice ad esempio Civati. e Gozi gli fa eco chiedendo "gente leale, non fedele a questa o a quella corrente.

Le nostre provenienze non interessano agli elettori". anche David Sassoli passa per un saluto e idealmente aderisce: "Se ds e Margherita mi avessero chiesto di candidarmi- dice- non avrei accettato. dobbiamo imparare ad incontrarci senza chiederci da dove veniamo".

Dalla discussione emerge evidente il richiamo alle idee del pd di Veltroni. «Lui è partito ma poi il pullman è uscito fuori strada- dice in metafora Giuseppe Civati- tocca a noi, che non siamo l'under 21 del Pd, riaprire il dibattito». non è un caso allora che le tesi dei piombini saranno presentate a torino, il 27 giugno prossimo al lingotto di Veltroni. e neppure è un caso, forse, che ad accogliere l'invito di oggi siano, in sala, molti parlamentari di rito veltroniano: da Walter Verini a Ermete Realacci, a Pierpaolo Baretta, Marianna Madia, Giovanna Melandri. ascoltano attenti anche Roberto Giachetti, Giovanni Bachelet,Pier Fausto Recchia,Andrea Sarubbi. «a Torino inviteremo tutti, dal segretario Franceschini all'ultimo degli iscritti», dice però Civati.

Veltroni? «ci farebbe davvero piacere se venisse». d'altro canto lo stesso Verini apprezza i contenuti: «emerge una chiara coerenza nel modo di vedere il partito con le nostre idee», dice. all'ex segretario del pd semmai rimproverano di aver ceduto «ai traccheggiamenti, ai compromessi» con le correnti. dice Oleg Curci, segretario dei circoli operatori della sanità di Genova, relatore sulla organizzazione del partito. «i nostri iscritti sentono il partito nazionale troppo distante. sulle grandi scelte bisogna consultarli e agli eletti bisogna fare le pulci: prevediamo una verifica di fine mandato per le ricandidature», spiega. quanto al congresso, i piombini danno per scontato che il congresso si terra ad ottobre. ma chiedono di cambiare lo statuto: «accedono alle primarie congressuali solo i candidati che hanno raccolto almeno il 15% di adesioni
in 5 regioni. è una norma fatta apposta per penalizzare i candidati dal basso».

Le tre ore e passa di discussione servono a formalizzare, o quasi, la presentazione di una piattaforma (una volta si chiamavano mozioni) all'assise di ottobre. e non solo: perchè dai toni e dalle richieste appare chiaro che ad ottobre ci sarà anche un candidato «di area». non a caso, spiega Curci, «si lavora a far conoscere le nostre proposte nei circoli». tocca vedere chi sarà il candidato dei giovani: piace a molti GiuseppeCivati, consigliere regionale in Lombardia, proposto da Matteo Renzi e da Scalfarotto. ma non si esclude neppure che sia Sandro Gozi e perchè no, lo stesso Franceschini «a patto- dice scalfarotto- che recida i ponti con i metodi del passato. Deve capire che Marini, Fioroni, Fassino, D'alema e gli altri sono dirigenti di un'altra epoca. li ha sconfitti Berlusconi che rappresenta meglio l'italia del drive in. qui- dice- c'è invece una classe dirigente che vive l'italia contemporanea».

11 maggio 2009
da unita.it
« Ultima modifica: Maggio 20, 2013, 11:09:20 am da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:41:20 am »


Quei 400 emendamenti tra noi e la legge contro l'omofobia

Pubblicato: 20/07/2013 12:30

Ivan SCALFAROTTO

La proposta di legge contro l'omofobia e la transfobia prova ad arrivare alla discussione in aula, spostata nel calendario dal 22 al 26 luglio per la concomitanza delle votazioni sul decreto detto "del fare".

Peccato che siano arrivati la bellezza di quattrocento emendamenti che lunedì dovremo votare presso la commissione giustizia della Camera. Qui sotto vedete la foto del tomo degli emendamenti: una quantità di carta degna di una legge finanziaria, non di una piccola legge di civiltà che si propone di affermare l'ovvio principio che le persone non vanno odiate, discriminate o fatte oggetto di violenza solo perché sono omo o bisessuali, o trans.

Un principio del tutto pacifico, si direbbe, e invece ci troveremo a dover discutere per ore, forse anche tutta la notte di lunedì, per trattare e votare tutti questi emendamenti e aggirare un ostruzionismo che si annuncia inflessibile e fiero. Tutto questo sforzo - ci si chiede - non meriterebbe una miglior destinazione? No, mi viene risposto: qui c'è in corso una battaglia di civiltà. È in pericolo, mi si dice, la libertà di espressione: con questa legge volete conculcare la possibilità di dire, se uno lo ritiene, che l'omosessualità e sbagliata.

Voglio rassicurare tutti: non è così. Come ha detto ieri in commissione la mia amica e collega Michela Marzano, io, come lei, sono assolutamente con Voltaire: darei la vita per preservare la libertà degli altri di dire cose che non condivido (esattamente come non condivido radicalmente questa). E infatti la legge colpisce, rendendole reato, condotte molto specifiche:

1. La propaganda (e non la mera diffusione) di idee fondate sull'odio
2. La discriminazione
3. L'istigazione (e non il mero incitamento) alla discriminazione
e 4. stabilisce un'aggravante sulla pena per i crimini (percosse, lesioni personali, ecc.) che siano stati commessi per ragioni di odio o discriminazione.

È la legge chiamata Reale-Mancino, una legge che vige felicemente in Italia dal 1993 per i casi in cui i fatti siano causati dall'etnia, la nazionalità o la religione della vittima.

Una legge più volte vagliata dalle massime magistrature del Paese, che ne hanno escluso tassativamente ogni caratteristica liberticida. Una legge che dal 1993 si cerca di allargare alla comunità Lgbt, una comunità che come molte altre minoranze è fatta oggetto di odio in quanto tale.

Perché questo è l'obiettivo della Legge Mancino: non solo e non tanto proteggere le singole persone da reati o vessazioni, quanto indicare al Paese che le differenze non possono mai essere una ragione per vittimizzare una persona, indipendentemente dalle caratteristiche personali di ciascuno.
 
http://www.huffingtonpost.it/ivan-scalfarotto/quei-400-emendamenti-tra-noi-e-la-legge-contro-lomofobia_b_3624593.html?utm_hp_ref=italy

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